SENTENZA N. 127
ANNO 1963
REPUBBLICA ITALIANA
In nome del Popolo Italiano
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
Prof. GASPARE AMBROSINI, Presidente
Prof. GIUSEPPE CASTELLI AVOLIO
Prof. ANTONINO PAPALDO
Prof. NICOLA JAEGER
Prof. GIOVANNI CASSANDRO
Prof. BIAGIO PETROCELLI
Dott. ANTONIO MANCA
Prof. ALDO SANDULLI
Prof. GIUSEPPE BRANCA
Prof. MICHELE FRAGALI
Prof. COSTANTINO MORTATI
Prof. GIUSEPPE CHIARELLI
Dott. GIUSEPPE VERZÌ, Giudici,
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 209 del D.P.R. 29 gennaio 1958, n. 645, contenente il T.U. sulle imposte dirette, dei commi terzo e quarto dell'articolo unico del R.D. L. 28 novembre 1938, n. 2138, e degli artt. 4, 5, 9 e 15 del R.D. 24 settembre 1940, n. 1949, promosso con ordinanza emessa il 13 febbraio 1962 dal Pretore di Catania nel procedimento civile vertente tra Nicolosi Francesco e l'Esattoria delle imposte dirette di Catania, iscritta al n. 52 del Registro ordinanze 1962 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 99 del 14 aprile 1962.
Visto l'atto di costituzione in giudizio di Nicolosi Francesco;
udita nell'udienza pubblica del 22 maggio 1963 la relazione del Giudice Antonino Papaldo.
Ritenuto in fatto
Nel corso di un procedimento civile vertente tra Nicolosi Francesco e l'Esattoria delle imposte dirette di Catania in materia di contributi agricoli unificati, il Pretore di Catania, con ordinanza del 13 febbraio 1962, notificata e comunicata, rispettivamente, il 28 e il 19 febbraio 1962, e pubblicata come in epigrafe, ha sollevato la questione di legittimità costituzionale:
a) dell'art. 209 del decreto del Presidente della Repubblica 29 gennaio 1958, n. 645, contenente il T.U. sulle imposte dirette, in riferimento agli artt. 24 e 113 della Costituzione;
b) dei commi terzo e quarto dell'articolo unico del R.D. L. 28 novembre 1938, n. 2138, e degli artt. 4, 5, 9 e 15 del R.D. 24 settembre 1940, n. 1949, in riferimento agli artt. 23, 76 e 77 della Costituzione.
Sul primo punto, nell'ordinanza di rinvio, si osserva: premesso che gli artt. 24 e 113 della Costituzione affermano il principio che tutti i cittadini possono chiedere la tutela giurisdizionale dei loro diritti sia nei confronti di altri privati che nei confronti dello Stato e degli altri enti pubblici minori, l'art. 209 del T.U. sulle imposte dirette, non ammettendo le opposizioni previste dal Codice di procedura civile, limiterebbe il diritto sancito negli artt. 24 e 113 della Costituzione.
Sul secondo punto si afferma che i commi terzo e quarto dell'articolo unico del decreto-legge 28 novembre 1938, n. 2138, relativo agli accertamenti ed alle riscossioni dei contributi agricoli unificati e gli artt. 4, 5, 9 e 15 del R.D. 24 settembre 1940, n. 1949, concernenti le modalità di accertamento di tali contributi, sarebbero costituzionalmente illegittimi:
a) perché in contrasto con l'art. 23 della Costituzione, secondo il quale tutti gli elementi costitutivi della imposizione tributaria devono essere determinati per legge e non possono essere lasciati alla discrezionalità o all'arbitrio del potere esecutivo;
b) perché i commi terzo e quarto dell'articolo unico del R.D. L. n. 2138 del 1938 non determinano i "principi ed i criteri" da osservarsi dal potere esecutivo nella emanazione di norme ad esso delegate, come prescrive l'art. 76 della Costituzione;
c) perché le Commissioni provinciali di cui all'art. 5 del R.D. n. 1949 del 1940 ed il Ministro, di cui é cenno nell'articolo 15 dello stesso decreto, eserciterebbero una potestà normativa non prevista dalla legge di delega del 1938, e che oggi sarebbe illegittima perché sopravviverebbe ed opererebbe in violazione dell'art. 77 della Costituzione.
La parte privata - la sola che si é costituita nel presente giudizio - aderisce, nelle sue deduzioni depositate il 2 maggio 1962, ai motivi dell'ordinanza di rinvio e li sviluppa.
Quanto all'art. 209 del T.U. sulle imposte dirette, sostiene la sua illegittimità perché in contrasto con gli artt. 24 e 113 della Costituzione. Vero é che il precedente art. 208 consente al debitore di ricorrere all'Intendente di finanza, ma questo ricorso non può considerarsi giurisdizionale, sia perché in questo caso non si instaura un vero e proprio contraddittorio, sia perché l'Intendente di finanza non é un organo giurisdizionale.
Dalla eventuale declaratoria di illegittimità dei commi secondo e terzo dell'art. 209, discenderebbe, come conseguenza, l'illegittimità anche del primo comma, nella parte in cui consente di sospendere l'esecuzione nella sola ipotesi della opposizione di terzo.
Circa la violazione degli artt. 76 e 77 della Costituzione, la parte dichiara di non ignorare che con la sentenza n. 53 del 1961, in tema di norme sull'assegno bancario, la Corte ha, tra l'altro, affermato il principio secondo il quale non può essere motivo di illegittimità di una legge di delegazione anteriore alla Costituzione l'inosservanza di questa o quella norma dell'art. 76 della Costituzione. Dal quale principio può dedursi che prima dell'entrata in vigore della Costituzione, una legge di delegazione poteva anche non avere quei requisiti che oggi la Costituzione richiede. E quindi, qualora la delega conferita al Governo fosse stata "consumata" con decreto definitivo prima dell'attuale Costituzione, quel provvedimento legislativo delegato va considerato costituzionalmente ineccepibile anche oggi, se ineccepibile era, quanto alla sua formazione, nel momento in cui fu emanato.
Ma dopo l'entrata in vigore della Costituzione, il Governo non può più emettere decreti aventi valore di legge, valendosi "ancora" di una legge di delegazione che, anche se ineccepibile allorché venne emanata, sarebbe da considerare costituzionalmente illegittima, oggi, perché carente dei requisiti di cui all'art. 76 della Costituzione. Diversamente opinando, si verrebbe ad ammettere una sopravvivenza di validità del vecchio ordinamento.
Ora, la misura dei contributi per cui é sorto il presente giudizio é stata fissata con decreto del Presidente della Repubblica 13 maggio 1957, n. 853, sulla base della delega contenuta nel decreto-legge n. 2138 del 1938, la quale delega, essendo carente dei requisiti di cui all'art. 76 della Costituzione, é da considerarsi, oggi, costituzionalmente illegittima.
Considerato in diritto
1. - Con
sentenza 3 luglio 1962, n. 87, la Corte ha dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 209, secondo e terzo comma, del T.U. delle leggi sulle imposte dirette, in riferimento agli artt. 3 e 113 della Costituzione; con successive ordinanze del 15 novembre 1962, nn. 101 e 102, ha dichiarato la manifesta infondatezza della questione in riferimento anche allo art. 24, primo comma, ed all'art. 76 della Costituzione; dichiarazioni confermate con successive ordinanze.Poiché nell'ordinanza in oggetto, che denunzia l'intero testo dell'art. 209, non sono stati esposti argomenti nuovi che meritino un riesame, le precedenti decisioni della Corte devono essere confermate, con la conseguente dichiarazione di manifesta infondatezza della questione.
2. - Secondo l'ordinanza, il terzo ed il quarto comma dell'articolo unico del R.D. L. 28 novembre 1938, n. 2138, sarebbero in contrasto con l'art. 76 della Costituzione, per non essere stati determinati i principi ed i criteri da adottarsi nell'emanazione delle norme delegate.
Per dimostrare l'infondatezza della questione, basterà richiamare quanto da ultimo ha deciso la Corte con la
sentenza n. 47 del 29 maggio 1962, con la quale é stato riaffermato che non può essere motivo di illegittimità di una legge di delegazione anteriore alla Costituzione la inosservanza delle norme di cui all'art. 76 della Costituzione e segnatamente di quelle che impongono la determinazione di principi e di criteri direttivi e la fissazione di termini di tempo.La parte privata vorrebbe che fosse incluso nell'esame della questione sollevata dal Pretore anche quello della legittimità del D.P.R. 13 maggio 1957, n. 853, che sarebbe stato emesso, dopo l'entrata in vigore della Costituzione, sulla base di una delega (quella contenuta nel decreto-legge del 1938) ormai decaduta, perché carente dei requisiti prescritti dall'art. 76. Ma é da osservare che tale questione non trova alcun riscontro nell'ordinanza di rimessione, né vi si può ritenere più o meno implicitamente compresa, giacché il predetto decreto non fu emanato in base alla delega contenuta nel decreto-legge del 1938, al quale hanno fatto seguito altre due leggi di delegazione in questa materia: leggi 22 novembre 1949, n. 861, e 14 aprile 1956, n. 307.
3. - Per quel che attiene agli artt. 4, 5, 9 e 15 del R.D. 24 settembre 1940, n. 1949, é da ricordare che gli artt. 4 e 5 sono stati dichiarati illegittimi con la sentenza n. 65 del 7 giugno 1962.
Rispetto a queste due disposizioni la questione deve essere dichiarata manifestamente infondata, essendo già cessata l'efficacia delle due norme.
Quanto all'art. 9 dello stesso decreto, é da notare che non sussiste un contrasto tra tale disposizione e le norme costituzionali indicate nell'ordinanza.
Ciò appare manifesto nei riguardi di tutti i commi dell'articolo, eccezion fatta per il penultimo comma, rispetto al quale occorrerà esporre qualche particolare considerazione. I primi cinque ed il settimo ed ultimo comma dell'articolo disciplinano la compilazione dei ruoli e le loro variazioni. Non c'é nulla di diverso dai normali sistemi di formazione e di variazione dei ruoli tributari; e pertanto non c'é alcuna attribuzione agli organi amministrativi né di poteri normativi né di poteri che eccedano quelli che spettano di consueto agli uffici preposti alla formazione dei ruoli.
Maggiore attenzione merita la questione relativa al penultimo comma dell'articolo - il sesto - il quale attribuisce al Ministro il potere di determinare annualmente, con decreto, le spese dovute per l'accertamento: spese che, insieme con quelle per la riscossione, vengono iscritte in aumento all'importo dei contributi.
La questione é delicata anche se la soluzione potrebbe apparire oggi meno impegnativa dopo l'abrogazione di questa norma per effetto dell'art. 4 della legge 5 marzo 1963, n. 322, giacché, in tal modo, i dubbi che si potrebbero nutrire circa l'eccessiva larghezza dei poteri attribuiti al Ministro sono stati, per l'avvenire, opportunamente eliminati.
Tuttavia, la disposizione esaminata sotto lo stretto profilo della legittimità costituzionale, non può essere censurata, pur essendo auspicabile che, nel futuro assetto della materia, resti fermo il sistema derivante dalla già disposta abrogazione.
Il Ministro, fissando l'ammontare delle spese di accertamento, non compie opera legislativa, ma pone in essere un atto amministrativo che consiste essenzialmente in un accertamento,
Questo atto non comporta esercizio di poteri arbitrari. Il Ministro é tenuto ad accertare le spese nel loro effettivo contenuto e non potrebbe apportare aumenti o diminuzioni al risultato di tale accertamento. Gli interessati possono sicuramente impugnare davanti all'organo giurisdizionale competente il decreto del Ministro.
Vero é che si presenterebbe al ricorrente la grave difficoltà di procurarsi e di addurre prove idonee a dimostrare che il Ministro abbia errato o abbia esorbitato; ma questa difficoltà non significa impossibilità e soprattutto non significa insindacabilità. Data la natura di quest'atto del Ministro, esso dovrebbe essere preceduto da adeguata istruttoria e accompagnato da congrua motivazione.
In conclusione, l'accertamento del Ministro ha dei precisi limiti, rappresentati dall'effettività delle spese: limiti che, anche nello stretto ambito del sindacato di legittimità dell'atto amministrativo, sono identificabili.
4. - É palese l'illegittimità del primo comma dell'art. 15 del R.D. n. 1949, secondo cui il Ministro può, quando particolari circostanze lo rendano necessario ed opportuno, rivedere sia le deliberazioni delle commissioni di cui all'art. 5, sia gli elenchi ed i ruoli dei contributi come gli elenchi dei lavoratori.
Questa norma che conferisce al Ministro un potere, che é eccezionale rispetto a quello legittimamente attribuito allo stesso Ministro in sede di ricorso, contrasta con l'art. 23 della Costituzione, in quanto l'esercizio di quel potere - a parte la nessuna sua giustificazione - é esente da ogni limite, giacché l'accertamento delle "particolari circostanze", che rendono "necessario ed opportuno" il provvedimento, affidato, senza alcun vincolo, al soggettivo apprezzamento dell'organo ministeriale, resta in un campo che può sconfinare in quello dell'arbitrio e che si sottrae, di fatto, anche al sindacato del giudice della legittimità degli atti amministrativi.
Qualche dubbio potrebbe suscitare il secondo comma dello stesso art. 15, il quale dispone che il Ministro può, quando eccezionali circostanze lo rendano necessario ed opportuno, sospendere la riscossione dei ruoli.
La norma, tuttavia, non può dirsi illegittima, giacché il potere di sospendere la riscossione dei ruoli, quando casi gravi lo impongano, non rappresenta una figura abnorme nel nostro sistema legislativo.
Trattasi di un potere di ordinanza, che, come la Corte ha avuto occasione di chiarire rispetto ad altri tipi di ordinanza, riveste i caratteri dell'atto amministrativo: non sussiste, pertanto, il denunziato contrasto con l'art. 77 della Costituzione. Il dubbio sulla legittimità della norma che prevede questa ordinanza é dato unicamente dal fatto che la norma stessa non pone adeguati limiti all'esercizio del potere. Il dubbio, però, può essere superato considerando che l'atto non può essere arbitrario e non può non trovare limiti analoghi a quelli posti dalle disposizioni che regolano, i casi di sospensione della riscossione delle entrate fiscali.
La norma (a parte la sua manifesta opportunità in vista dei casi purtroppo frequenti di disastri naturali e di altri eventi perturbatori nel campo agricolo) meriterebbe di essere conservata, pur essendo augurabile che in occasione di una revisione legislativa della materia, l'esercizio di questo potere di ordinanza sia circondato da idonee garanzie, atte a stabilire adeguate remore alla possibilità di arbitri.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara:
a) la manifesta infondatezza delle questioni di legittimità dell'art. 209 del T.U. delle leggi sulle imposte dirette, approvato con decreto del Presidente della Repubblica 29 gennaio 1958, n. 645, e degli artt. 4 e 5 del R.D. 24 settembre 1940, n. 1949;
b) non fondata la questione dell'articolo unico del R.D. L. 28 novembre 1938, n. 2138, in riferimento all'art. 76 della Costituzione, e la questione dell'art. 9, primo, secondo, terzo, quarto, quinto e settimo comma, del detto R.D. 24 settembre 1940, n. 1949, in riferimento all'art. 23 della Costituzione;
c) non fondate, nei sensi della motivazione, le questioni degli artt. 9, sesto comma, e 15, secondo comma, dello stesso R.D. 24 settembre 1940, n. 1949;
d) l'illegittimità costituzionale del primo comma dell'art. 15 del R.D. 24 settembre 1940, n. 1949, in riferimento all'art. 23 della Costituzione.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 4 luglio 1963.
GASPARE AMBROSINI, PRESIDENTE
ANTONINO PAPALDO, REDATTORE
Depositata in cancelleria il 13 luglio 1963.