SENTENZA N. 85
ANNO 1963
REPUBBLICA ITALIANA
In nome del Popolo Italiano
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
Prof. GASPARE AMBROSINI, Presidente
Prof. GIUSEPPE CASTELLI AVOLIO
Prof. ANTONINO PAPALDO
Prof. NICOLA JAEGER
Prof. GIOVANNI CASSANDRO
Prof. BIAGIO PETROCELLI
Dott. ANTONIO MANCA
Prof. ALDO SANDULLI
Prof. GIUSEPPE BRANCA
Prof. MICHELE FRAGALI
Prof. COSTANTINO MORTATI
Prof. GIUSEPPE CHIARELLI
Dott. GIUSEPPE VERZÌ, Giudici,
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 251 del Codice di procedura civile, promosso con ordinanza emessa il 26 ottobre 1962 dal Pretore di Trivento nel procedimento penale a carico di Donatone Nazario e Civico Agostino, iscritta al n. 188 del Registro ordinanze 1962 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 313 del 7 dicembre 1962.
Udita nella camera di consiglio del 7 maggio 1963 la relazione del Giudice Giovanni Cassandro;
Ritenuto in fatto
1. - In una causa civile davanti al Pretore di Trivento i signori Nazario Donatone e Agostino Civico rifiutarono di prestare il giuramento prescritto dall'art. 251 del Cod. proc. civile, assumendo che la religione "protestante evangelica", che essi professavano, vietava loro di prestarlo.
Nel procedimento penale promosso in conseguenza a loro carico, per rispondere del reato previsto dall'art. 366 del Cod. penale, i due imputati affermarono che la religione "pentecostale", che essi professavano, vietava loro, conformemente all'insegnamento di S. Matteo, capitolo V, 34-37, di prestare giuramento sotto qualsiasi forma e in qualsiasi modo. La difesa dei due imputati sollevò la questione di costituzionalità dell'art. 366, secondo comma, del Cod. penale, per contrasto con l'art. 8 in relazione all'articolo 21 della Costituzione, sostenendo che il rifiuto dei due imputati sarebbe stato motivato dall'osservanza, alla quale essi erano tenuti, per non incorrere in peccato, dei precetti della loro religione. Il Pubblico Ministero si associò alla richiesta della difesa.
Il Vicepretore di Trivento, viceversa, ha sottoposto alla Corte la questione di legittimità costituzionale dell'art. 251 del Cod. proc. civile, non soltanto perché in contrasto con gli artt. 8 e 21 della Costituzione, ma anche perché in contrasto con l'art. 19, il quale sancisce il diritto di tutti di professare liberamente la propria fede religiosa in qualsiasi forma, di farne propaganda, di esercitarne in privato o in pubblico il culto, purché non si tratti di riti contrari al buon costume. In conseguenza, con ordinanza 26 ottobre 1962, egli ha sospeso il giudizio e rimesso gli atti a questa Corte.
L'ordinanza, notificata al Presidente del Consiglio dei Ministri e comunicata ai Presidenti dei due rami del Parlamento, é stata pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 313 del 7 dicembre 1962.
Gli imputati non si sono costituiti e il Presidente del Consiglio non é intervenuto.
Considerato in diritto
1. - La questione di costituzionalità, che viene sottoposta all'esame della Corte, si risolve nello stabilire se il rifiuto di prestare giuramento con qualsiasi formula e in qualsiasi modo, in obbedienza a un precetto religioso, trovi giustificazione in una norma della Costituzione.
La questione non é fondata.
In primo luogo, la Corte non ritiene che possa profilarsi un contrasto dell'art. 251 del Cod. proc. civile, che é la norma impugnata, con gli artt. 8 e 21 della Costituzione, essendo evidente e non bisognevole di dimostrazione il fatto che l'obbligo imposto ai testimoni di giurare secondo una certa formula, previsto dal ricordato articolo e sanzionato penalmente dall'art. 366, secondo comma, del Cod. penale, non viola la eguale libertà delle confessioni religiose davanti alla legge, dato che esso ha come destinatari tutti i cittadini, quale che sia la religione che essi professino, né interferisce negli ordinamenti statutari delle confessioni non cattoliche o nel procedimento previsto per la disciplina dei rapporti tra queste confessioni e lo Stato (art. 8); ed essendo non meno evidente l'altro fatto che quell'obbligo dei testimoni non ferisce il diritto che tutti hanno di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione (art. 21, primo comma), diritto che resta in tutta la sua ampiezza garantito ai cittadini ai quali l'ordinamento imponga un comportamento della natura di quello previsto dalla norma impugnata.
2. - La questione, pertanto, si limita, come del resto si può dedurre dall'ordinanza pretorile, che ha aggiunto agli artt. 8 e 21, che la difesa delle parti e il Pubblico Ministero ritenevano violati, l'art. 19 della Costituzione, soltanto al contrasto della norma impugnata con quest'ultimo articolo, il quale riconosce ai cittadini il diritto di professare liberamente la propria fede religiosa in qualsiasi forma, individuale o associata, di farne propaganda e di esercitarne in privato o in pubblico il culto, col limite segnato dal carattere eventualmente contrario al buon costume dei riti professati e propagandati.
Tuttavia, nemmeno questo contrasto sussiste.
In primo luogo, potrebbe addirittura sembrare che anche la violazione dell'ora ricordato art. 19 sia manifestamente insussistente, se la libertà religiosa, garantita dal precetto costituzionale, dovesse essere interpretata come libertà di professione religiosa e di culto in ogni sua forma e senza altro limite che non sia quello del buon costume, giacché in questa ipotesi sarebbe evidente che l'obbligo imposto a tutti i cittadini di osservare il comportamento di cui all'articolo 251 del Cod. proc. civile non contrasterebbe con quella libertà. Ma la libertà religiosa deve essere intesa anche come libertà da ogni coercizione che imponga il compimento di atti di culto propri di questa o quella confessione da persone che non siano della confessione alla quale l'atto di culto, per così dire, appartiene. E lo stesso é da dire perfino quando l'atto di culto appartenga alla confessione professata da colui al quale esso sia imposto: perché non é dato allo Stato di interferire, come che sia, in un "ordine" che non é il suo, se non ai fini e nei casi espressamente previsti dalla Costituzione.
Ma, pur accogliendo della libertà religiosa questa definizione, la questione di costituzionalità, sollevata dal Pretore di Trivento, deve essere dichiarata non fondata.
La norma dell'art. 251 del Cod. proc. civile (come del resto l'altra dell'art. 449 del Cod. proc. penale) non impone un atto di culto, perché la formula che vi é contenuta, come già la Corte ha affermato (
sentenza n. 58 del 6 luglio 1960 e ordinanza n. 15 del 17 marzo 1961), ha il carattere di richiamo a generali valori religiosi che non possono essere ascritti a questa o a quella "denominazione" o "confessione", sicché essa non interviene nell'ordine proprio delle religioni professate, ma sta e resta nell'"ordine" statale, che é indipendente e sovrano e non può essere condizionato o menomato da precetti a sé estranei.La libertà religiosa, quale é stata definita dalla Costituzione, non può essere intesa in guisa da contrastare e soverchiare l'ordinamento giuridico dello Stato, tutte le volte in cui questo imponga ai cittadini obblighi che, senza violare la libertà religiosa, nel senso che é stato sopra definito, si assumano vietati dalla fede religiosa dei destinatari della norma: tanto più, poi, quando, come nel caso in esame, l'obbligo ha la sua ultima fonte in un precetto costituzionale, quale quello contenuto nel secondo comma dell'art. 54 della Costituzione, il quale stabilisce che "i cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle con disciplina ed onore, prestando giuramento nei casi previsti dalla legge".
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 251 del Cod. proc. civile, in riferimento agli artt. 8, 21 e 19 della Costituzione.
Così deciso in Roma, in camera di consiglio, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 25 maggio 1963.
GASPARE AMBROSINI, PRESIDENTE
GIOVANNI CASSANDRO, REDATTORE
Depositata in cancelleria il 8 giugno 1963.