SENTENZA N. 63
ANNO 1961
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori giudici:
Avv. Giuseppe CAPPI, Presidente
Prof. Gaspare AMBROSINI
Dott. Mario COSATTI
Prof. Francesco Pantaleo GABRIELI
Prof. Giuseppe CASTELLI AVOLIO
Prof. Antonino PAPALDO
Prof. Nicola JAEGER
Prof. Giovanni CASSANDRO
Prof. Biagio PETROCELLI
Dott. Antonio MANCA
Prof. Aldo SANDULLI
Prof. Giuseppe BRANCA
Prof. Michele FRAGALI
Prof. Costantino MORTATI
Prof. Giuseppe CHIARELLI,
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale della norma contenuta nell'art. 6 della legge regionale siciliana 1 luglio 1947, n. 4, promosso con ordinanza emessa il 13 maggio 1960 dalla Corte di appello di Palermo nel procedimento civile vertente tra Barbera Michelangelo e Bono Rosario ed altri, iscritta al n. 83 del Registro ordinanze 1960 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 254 del 15 ottobre 1960 e nella Gazzetta Ufficiale della; Regione siciliana n. 49 del 22 ottobre 1960.
Vista la deliberazione di intervento del Presidente della Regione siciliana;
udita nell'udienza pubblica dell'8 novembre 1961 la relazione del Giudice Nicola Jaeger;
udito l'avv. Pietro Virga, per il Presidente della Regione siciliana.
Ritenuto in fatto
La questione di legittimità costituzionale oggetto del presente giudizio é stata proposta di ufficio dalla Corte di appello di Palermo con ordinanza in data 13 maggio 1960, notificata il 10 agosto detto e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 254 del 15 ottobre 1960 e nella Gazzetta Ufficiale della Regione siciliana n. 49 del 22 ottobre 1960.
Essa concerne la legittimità costituzionale dell'art. 6 della legge regionale siciliana 1 luglio 1947, n. 4, recante norme per la ripartizione dei prodotti cerealicoli e delle leguminose da granella e da foraggio. Tale art. 6 dispone: "Tutte le eventuali contestazioni saranno preliminarmente devolute per il tentativo di bonario componimento a commissioni comunali, che saranno composte da un rappresentante degli agricoltori, da un rappresentante della Federazione coltivatori diretti, nominati dal sindaco su terne proposte dalle organizzazioni interessate, e presiedute dallo stesso sindaco o da un suo delegato".
A quanto risulta dalla ordinanza, il giudizio principale era stato promosso davanti al Pretore di Sciacca da alcuni mezzadri i quali reclamavano dal concedente il pagamento di certe somme, affermando che, in occasione della ripartizione dei prodotti cerealicoli, era stata loro attribuita una quota inferiore a quella cui avevano diritto in base alla legge regionale 1 luglio 1947, n. 4, e a quelle successive di proroga.
Contro la sentenza del Pretore, pronunciata in veste di giudice del lavoro, che aveva accolto la maggior parte delle domande degli attori, il convenuto aveva proposto appello davanti alla Carte di appello di Palermo, in funzione di Magistratura del lavoro, deducendo due eccezioni pregiudiziali: di incompetenza per criteri del Pretore e di improcedibilità della domanda, per non essere stato esperito il tentativo di conciliazione previsto nell'art. 6 della citata legge del 1947. Una eccezione analoga era stata proposta anche in primo grado, ma con riferimento alle norme del Cod. proc. civile.
La Corte di appello respinse con sentenza non definitiva la eccezione di incompetenza; in quanto alla seconda invece, osservò che si doveva ritenere dubbia la legittimità costituzionale del citato art. 6, con il quale - si legge nel dispositivo dell'ordinanza - in materia di ripartizione dei prodotti, si subordina l'esperimento dell'azione giudiziaria al previo tentativo di conciliazione in sede sindacale.
Sul punto della rilevanza della questione la Corte ha motivato osservando che l'art. 3 della legge 26 giugno 1952, n. 16, applicabile ai rapporti controversi, richiama le norme della precedente legge 12 agosto 1951, n. 43, concernente "la ripartizione dei prodotti cerealicoli e delle leguminose da granella, nonché dei prodotti dei fondi a cultura arborea ed arbustiva" e che "non par dubbio che fra le disposizioni richiamate debba intendersi compresa quella relativa al tentativo di conciliazione: il rinvio, infatti, é generico e va riferito, pertanto, a tutte le norme della legge".
Si legge ancora nella ordinanza che "non sembra del pari potersi dubitare che il tentativo di conciliazione, nel sistema della legge, costituisca un adempimento necessario per l'esercizio dell'azione giudiziaria, ed assurga, quindi, alla funzione di un presupposto processuale, incidendo, in via pregiudiziale, sulla proponibilità dell'azione stessa e sul potere - dovere del giudice di emettere una decisione, sia favorevole che sfavorevole, sulle domande. Questa particolare natura del tentativo di conciliazione fa fondatamente dubitare della legittimità costituzionale della norma in esame, per la considerazione che la materia giurisdizionale e quella processuale sono sottratte alla competenza legislativa della Regione, e sono affidate, invece, unicamente allo Stato, cui spetta di stabilire l'ordinamento giurisdizionale uniformemente per tutto il territorio nazionale".
Nel presente giudizio davanti alla Corte costituzionale si é costituita soltanto la Regione siciliana, in persona del suo Presidente, depositando le proprie deduzioni il 24 agosto 1960 e chiedendo che la Corte voglia dichiarare la questione "irrilevante e inammissibile, e subordinatamente dichiarare costituzionalmente legittimo l'art. 6 della legge regionale 1 luglio 1947, n. 4".
La difesa della Regione osserva che con questa legge venne regolata la ripartizione dei prodotti agricoli per l'annata agraria 1946 - 47, con norme diverse a seconda che i rapporti fossero stati regolati da capitolati provinciali di colonia ovvero da patti speciali, usi e consuetudini. Per evitare contestazioni sull'appartenenza in concreto del patto al primo o al secondo tipo di tali patti, nonché sull'accertamento dei patti vigenti, tutte le eventuali contestazioni per la ripartizione dei prodotti - ferma la competenza delle Sezioni specializzate agrarie di cui alle leggi anteriori - furono devolute per un tentativo di amichevole componimento ad una commissione comunale presieduta dal sindaco, e composta da un rappresentante degli agricoltori, un rappresentante della Federterra e un rappresentante della Federazione dei coltivatori diretti.
Tale legge esauriva i suoi effetti con l'annata agraria 1946 - 47. Per le successive annate provvedevano altre leggi regionali riproducendo, con alcune modifiche, le disposizioni della precedente legge. Infine, con legge regionale 26 giugno 1952 (art. 3) si disponeva che fino all'entrata in vigore della legge sulla riforma dei contratti agrari, la ripartizione dei prodotti fosse regolata dalla legge regionale 12 agosto 1951, n. 43.
Dopo aver indicata la successione cronologica di tutte queste leggi regionali, la difesa della Regione deduce nell'ordine:
1) irrilevanza della questione costituzionale nella controversia giudiziaria (art. 23, cpv., legge 1953, n. 87), in quanto la norma applicabile in quella sede non era quella denunziata, ma l'art. 3 della legge regionale 26 giugno 1952, n. 16. In contrario non varrebbe obiettare che tale articolo avrebbe prorogato l'efficacia della norma denunziata; infatti, l'articolo suddetto non richiama la norma denunziata, ma la legge regionale del 1951, n. 43, che, fra l'altro, ha modificato le disposizioni della citata legge regionale 1947, n. 4, per quanto riguarda la composizione della commissione comunale;
2) manifesta infondatezza della questione. Al riguardo si deduce che, anche a voler ammettere il carattere giurisdizionale (e non amministrativo) della commissione di conciliazione istituita dalla legge 1947, n. 4, tale organo sarebbe da considerare una giurisdizione speciale, che, per essere stata istituita anteriormente all'entrata in vigore della nuova Costituzione, secondo la giurisprudenza della stessa Corte costituzionale, sarebbe da ritenere pienamente legittima. Sulla stessa eccezione di manifesta infondatezza della questione, ma sotto altro profilo, si sostiene che le commissioni di conciliazione, nonostante il loro carattere amministrativo, sono funzionalmente collegate con le "giurisdizioni" speciali agrarie, sulla cui legittimità costituzionale l'ordinanza di rinvio non solleva eccezioni. Sicché appare assurdo denunciare, per incostituzionalità, una fase accessoria, e per giunta amministrativa, di un sistema pienamente legittimo;
3) inammissibilità dell'ordinanza "per non essere stata indicata, ai sensi dell'art. 23, primo comma, della legge n. 87 del 1953, la norma costituzionale di cui si assume la violazione" nell'ordinanza mancherebbe qualsiasi precisazione in ordine a tale norma e non é chiaro se si denunci la violazione degli artt. 101, 102, 104 della Costituzione, ovvero degli artt. 14 e 17 dello Statuto siciliano;
4) insussistenza dell'incostituzionalità della norma denunziata, in quanto il tentativo di conciliazione non assurge alla funzione di presupposto processuale. Al riguardo la difesa della Regione deduce che la (avvenuta) "conciliazione", al pari della transazione, ha natura negoziale e precisamente va configurata come un negozio di accertamento; ed il "tentativo" di conciliazione ad opera del giudice (art. 185 Cod. proc. civ.) e del consulente tecnico (art. 199 Cod. proc. civ.) ha la duplice funzione di favorire la conciliazione e di darne atto, ma il relativo verbale di componimento é atto processuale solo in quanto si inserisce nel procedimento giudiziale; mentre l'accordo realizzato fra le parti mantiene "il suo carattere di convenzione privata (Cass. 11 dicembre 1957, n. 4669, Mass. giur. it. 1957, 1057)". Da entrambe tali premesse si trae conferma per negare al tentativo di conciliazione carattere processuale o di presupposto processuale del giudizio.
Per quanto, in particolare, riguarda la commissione di cui alla norma denunziata, si pone in rilievo che il suo carattere non giurisdizionale, ma amministrativo si ricava anche dalla sua composizione ("presieduta dal sindaco... e composta da rappresentanti delle categorie interessate, con assoluta esclusione dei giudici togati"), e si afferma che, come dimostrano i numerosi esempi offerti dal diritto amministrativo e tributario, nessuna norma costituzionale vieta di predisporre una procedura amministrativa per la risoluzione di questioni che determinino conflitti di interesse in materie particolarmente rilevanti per l'interesse pubblico.
Con memoria depositata il 25 ottobre 1961 la difesa della Regione ha insistito nelle proprie conclusioni ed ha ribadito le tesi già svolte, richiamando alcuni precedenti della giurisprudenza della Corte sulla ammissibilità della impugnazione autonoma delle leggi di proroga. Ha poi precisato che la norma denunciata non dispone che si faccia menzione del tentativo di conciliazione in verbale apposito, né prevede alcuna nullità nell'ipotesi che tale tentativo non sia stato esperito. Rileva, infine, che la norma regionale, della cui legittimità si discute, é analoga a quella contenuta nell'art. 6 del decreto legislativo luogotenenziale 10 agosto 1945, n. 639, in materia di controversie agrarie, rispetto alla quale é giurisprudenza costante della Corte di cassazione che l'omissione del tentativo di conciliazione non incida sulla potestas decidendi del giudice, né importi la nullità del procedimento.
Gli stessi argomenti sono stati svolti dalla difesa della Regione anche all'udienza di discussione della causa.
Considerato in diritto
1. - Le eccezioni pregiudiziali proposte dalla difesa della Regione siciliana non possono essere accolte. Essa sostiene che la questione di legittimità costituzionale proposta con l'ordinanza della Corte di appello di Palermo non é ammissibile, poiché in tale ordinanza non é contenuta la indicazione delle norme costituzionali che sarebbero state violate dalla disposizione di legge regionale denunciata come illegittima. Senonché dal testo dell'ordinanza si desume chiaramente che la Corte di appello ha proposto la questione di legittimità costituzionale, oggetto del presente giudizio, in relazione al principio che esclude ogni competenza legislativa della Regione in tutta la materia giurisdizionale, per essere tale competenza riservata esclusivamente allo Stato; mentre la Corte costituzionale ha già avuto occasione di affermare che, quando dall'ordinanza risulta chiaro il criterio in base al quale il giudice del processo principale ha proposto la questione di legittimità costituzionale, questa non può essere dichiarata inammissibile (sentenza n. 44 dell'8 luglio 1959).
2. - L'altra eccezione pregiudiziale proposta dalla difesa della Regione siciliana concerne la rilevanza della questione di legittimità costituzionale della norma contenuta nell'art. 6 della legge regionale 1 luglio 1947, n. 4, rispetto al giudizio principale. Secondo la difesa della Regione, quella norma non sarebbe stata applicabile in tale sede, essendo stata sostituita, almeno per quanto concerne la disciplina di procedimenti del genere, da altre norme, emanate successivamente.
La Corte costituzionale ha riconosciuto e riaffermato più volte il principio, che la valutazione della rilevanza di una questione di legittimità costituzionale, proposta in via incidentale, rispetto al tema del giudizio principale, rientra nella competenza esclusiva del giudice di questo; e che, quando risulti dal testo dell'ordinanza di rimessione che tale valutazione é stata compiuta ed é esaurientemente motivata, non compete alla Corte accertare se la soluzione della questione sottoposta al suo esame sia o no necessaria ai fini della decisione della controversia.
Poiché la Corte di appello di Palermo ha ampiamente motivato sul punto della applicabilità della disposizione dell'art. 6 della legge regionale 1 luglio 1947, n. 4, al processo pendente davanti ad essa, ed ha, con questo, osservato puntualmente il precetto risultante dall'art. 23 della legge 11 marzo 1953, n. 87, l'eccezione pregiudiziale della Regione non può trovare accoglimento.
3. - In conformità con la propria costante giurisprudenza, compete, invece, alla Corte costituzionale risolvere le questioni di merito proposte dal giudice del processo principale, e anzitutto quelle concernenti la interpretazione delle norme ordinarie, delle quali é stata posta in dubbio la legittimità costituzionale; in parti colare, accertare se nella norma denunciata si debba ravvisare la posizione di un presupposto processuale di carattere assoluto, e, quindi, tale da condizionare l'esercizio dell'azione.
Le espressioni contenute nel testo della disposizione, nel quale si legge che "Tutte le eventuali contestazioni saranno preliminarmente devolute per il tentativo di equo componimento a commissioni comunali... ", sono state interpretate dalla Corte di appello di Palermo nel senso che tale tentativo costituisca un adempimento preventivo indispensabile per l'esercizio dell'azione giudiziaria; ma, in verità, non sembra che in quelle parole si possano ravvisare elementi sufficienti per giustificare una conseguenza così grave.
L'istituto del tentativo di conciliazione della controversia, anteriore all'inizio del processo e nel corso di questo, mediante gli uffici di associazioni sindacali o del giudice stesso, ha sempre avuto notevole diffusione nella materia delle controversie del lavoro, individuali o anche collettive. La legislazione italiana ne ha conosciuto numerose figure, fin dalle prime norme dettate per i collegi dei probiviri e le commissioni arbitrali per l'impiego privato. Quando, poi, si é introdotta una disciplina generale del processo del lavoro si é disposto che non potesse essere proposta un'azione fondata sull'inadempimento di un contratto collettivo, se prima tale inadempimento non fosse stato denunciato all'associazione sindacale della categoria, cui apparteneva l'attore, perché questa potesse interporre i propri uffici per la composizione della controversia, per il tramite della associazione contrapposta (art. 4 del R.D. 26 febbraio 1928, n. 471).
In un testo successivo si é confermato l'onere della denuncia della controversia al sindacato, posto a carico dell'attore, e si é imposto alle associazioni sindacali l'obbligo di tentare la conciliazione, disponendo che, nel caso di inosservanza dell'onere suddetto, il giudice di primo grado dovesse dichiarare improponibile la domanda, su richiesta del convenuto o dell'associazione sindacale, o anche d'ufficio (artt. 5 e 6 R.D. 21 maggio 1934, n. 1073).
Infine, il Codice di procedura civile del 1942 regolava di nuovo la materia, estendendo maggiormente l'ambito di applicazione dell'onere della denuncia (art. 430) e precisando ancor meglio: "La domanda... può essere proposta soltanto dopo che é pervenuta al denunciante la copia del processo verbale (di mancata conciliazione) di cui all'articolo precedente o dopo che sono decorsi quindici giorni dalla denuncia. Il giudice, se non risulta che sia stata fatta la denuncia a norma dell'art. 430 o se questa é stata fatta ad una associazione che non rappresenta la categoria alla quale il denunciante appartiene, sospende anche d'ufficio il procedimento affinché sia fatta la denuncia, e fissa all'attore un termine perentorio per riassumere la causa" (art. 433).
Se il legislatore regionale, che certamente conosceva i precedenti ora ricordati, e in particolar modo le disposizioni del vigente Codice di procedura civile, ha evitato di riprodurre ogni menzione delle conseguenze previste dal legislatore statale per il caso di omissione della denuncia al sindacato e del tentativo di conciliazione, si può ritenere che esso non abbia voluto regolare l'istituto come un presupposto processuale, indispensabile per l'esercizio della azione. A giudizio della Corte l'art. 6 della legge regionale 1 luglio 1947 contiene soltanto la previsione della istituzione di commissioni comunali di conciliazione, a disposizione di tutte le parti in ogni Comune della Regione, onde facilitare i tentativi di componimento bonario delle controversie.
Il fatto che in tale disposizione si usi l'avverbio "preliminarmente" non sembra di per sé argomento decisivo per concludere nel senso della improponibilità della domanda giudiziale, ove nessuna delle parti abbia sollecitato l'intervento della commissione comunale; una conseguenza di tanto rilievo avrebbe dovuto essere disposta espressamente, e con formula molto più chiara dal legislatore.
L'accoglimento di questa interpretazione rende superfluo indugiare nell'esame degli altri argornenti esposti dalla difesa della Regione, poiché, fra l'altro, nessuno potrebbe seriamente pensare a riconoscere carattere giurisdizionale alle commissioni comunali previste dalla norma di cui si discute, così che non serve rilevare che esse sarebbero state istituite anteriormente all'entrata in vigore della Costituzione della Repubblica.
L'interpretazione stessa sembra sufficiente a giustificare la conclusione che non é fondata la questione di legittimità costituzionale sottoposta al giudizio della Corte.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
respinte le eccezioni pregiudiziali sollevate dalla difesa della Regione siciliana:
dichiara, nei sensi espressi nella motivazione, non fondata la questione di legittimità costituzionale della norma contenuta nell'art. 6 della legge regionale siciliana 1 luglio 1947, n. 4, concernente la ripartizione dei prodotti cerealicoli e delle leguminose da granella e da foraggio, proposta con ordinanza 13 maggio 1960 della Corte di appello di Palermo.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 23 novembre 1961.
Giuseppe CAPPI - Gaspare AMBROSINI - Mario COSATTI - Francesco Pantaleo GABRIELI - Giuseppe CASTELLI AVOLIO - Antonino PAPALDO - Nicola JAEGER - Giovanni CASSANDRO - Biagio PETROCELLI - Antonio MANCA - Aldo SANDULLI - Giuseppe BRANCA - Michele FRAGALI - Costantino MORTATI - Giuseppe CHIARELLI
Depositata in cancelleria il 28 novembre 1961.