SENTENZA N. 61
ANNO 1957
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori Giudici:
Dott. Gaetano AZZARITI, Presidente
Prof. Tomaso PERASSI
Prof. Gaspare AMBROSINI
Prof. Ernesto BATTAGLINI
Dott. Mario COSATTI
Prof. Francesco PANTALEO GABRIELI
Prof. Giuseppe CASTELLI AVOLIO
Prof. Antonino PAPALDO
Prof. Mario BRACCI
Prof. Nicola JAEGER
Prof. Giovanni CASSANDRO
Prof. Biagio PETROCELLI
Dott. Antonio MANCA,
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nei giudizi riuniti di legittimità costituzionale degli artt. 42 della legge regionale siciliana di riforma agraria 27 dicembre 1950, n. 104, 8 della legge 12 maggio 1950, n. 230 (legge Sila) e 18 della legge 21 ottobre 1950, n. 841 (legge stralcio), promossi con le seguenti ordinanze:
1) ordinanza 25 aprile 1956 della Corte d'appello di Palermo nel procedimento civile promosso da D'Alì Giacomo, pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 188 del 28 luglio 1956 ed iscritta al n. 230 del Registro ordinanze 1956;
2) ordinanza 25 aprile 1956 della Corte d'appello di Palermo nel procedimento civile promosso da D'Alì Giacomo, pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 195 del 4 agosto 1956 ed iscritta al n. 231 del Reg. ord. 1956;
3) ordinanza 25 aprile 1956 della Corte d'appello di Palermo nel procedimento civile promosso da D'Alì Giacomo, pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 213 del 25 agosto 1956 ed iscritta al n. 232 del Reg. ord. 1956;
4) ordinanza 25 aprile 1956 della Corte d'appello di Palermo nel procedimento civile promosso da Adragna Pia, pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 213 del 25 agosto 1956 ed iscritta al n. 233 del Reg. ord. 1956;
5) ordinanza 25 aprile 1956 della Corte d'appello di Palermo nel procedimento civile promosso da Sieri Pepoli Giuseppina, pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 213 del 25 agosto 1956 ed iscritta al n. 234 del Reg. ord. 1956.
Viste le dichiarazioni di intervento del Presidente del Consiglio dei Ministri e del Presidente della Regione siciliana;
udita nell'udienza pubblica del 27 marzo 1957 la relazione del Giudice Biagio Petrocelli;
uditi gli avvocati Giuseppe Chiarelli e Giuseppe Rubino per D'Alì Giacomo, Adragna Pia e Sieri Pepoli Giuseppina, l'avv. Massimo Severo Giannini per l'Ente di Riforma e il sostituto avvocato generale dello Stato Francesco Agrò per il Presidente del Consiglio dei Ministri, per il Presidente della Regione siciliana e per l'Assessore per l'agricoltura e foreste della stessa Regione.
Ritenuto in fatto
Davanti la Corte d'appello di Palermo pendevano cinque procedimenti civili promossi, contro l'Assessorato regionale siciliano agricoltura e foreste e contro l'Ente per la riforma agraria in Sicilia (ERAS), in numero di tre da D'Alì Giacomo e gli altri rispettivamente da Adragna Pia e Sieri Pepoli Giuseppina, per opposizione avverso il piano di ripartizione dei terreni di loro proprietà. In tale sede la difesa degli appellanti rinnovava la eccezione di illegittimità costituzionale, non accolta in primo grado, degli artt. 42 della legge regionale siciliana di riforma agraria 27 dicembre 1950, n. 104, 7 e 8 della legge 12 maggio 1950, n. 230 (legge Sila), e 18 della legge 21 ottobre 1950, n. 841 (legge stralcio), in quanto lesivi del diritto al giusto indennizzo garantito dall'art. 42 della Costituzione.
La Corte d'appello di Palermo, con distinte ordinanze del 25 aprile 1956 dall'identico contenuto per ciascun procedimento sopra indicato, ritenuto che i giudizi non potessero definirsi indipendentemente dalla risoluzione della prospettata questione di legittimità costituzionale, e ritenuta altresì la medesima non manifestamente infondata, rimetteva gli atti a questa Corte, sospendendo i procedimenti.
Le ordinanze furono notificate il 9 giugno 1956 al Presidente del Consiglio dei Ministri, comunicate l'11 successivo ai Presidenti della Camera, del Senato e del Consiglio regionale siciliano, e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica del 25, 28 luglio e 4 agosto 1956 e in quella della Regione siciliana del 27 luglio 1956. Il 27 giugno 1956 furono depositate gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei Ministri, del Presidente della Regione siciliana e dell'Assessore per l'agricoltura e foreste della stessa Regione, tutti rappresentati dall'Avvocatura generale dello Stato, nonché le deduzioni della difesa dei proprietari, costituita dagli avvocati prof. Giuseppe Chiarelli e Domenico Rubino e dagli avvocati Giuseppe Rubino e Guido Aula. Il 28 luglio 1956 interveniva nel giudizio l'Ente per la riforma agraria in Sicilia (ERAS), rappresentato dall'avv. prof. M. S. Giannini. Il 14 marzo 1957 furono depositate le memorie illustrative della difesa di D'Alì Giacomo e dell'Avvocatura dello Stato nell'interesse del Presidente del Consiglio dei Ministri.
Le deduzioni degli intervenuti sono identiche per tutti e cinque i giudizi e possono così riassumersi.
I proprietari espropriati eccepiscono che l'art. 42 della legge regionale siciliana 27 dicembre 1950, n. 104, per la riforma agraria in Sicilia, e le norme, in esso richiamate, delle leggi nazionali 12 maggio 1950, n. 230 (artt. 7 e 8), e 21 ottobre 1950, n. 841 (art. 18), sono viziati da illegittimità costituzionale per violazione dello art. 42 della Costituzione, che subordina ogni provvedimento ablativo della proprietà privata alla corresponsione di un indennizzo. Tale indennizzo deve essere giusto, cioè congruo, il che significa che per la sua misura deve applicarsi il criterio della corrispondenza al valore venale del bene al momento dell'espropriazione, criterio che si desume dalla legge generale in materia (legge sulle espropriazioni per pubblica utilità del 1865), alla quale del resto la stessa legge regionale siciliana fa rinvio (art. 52). Secondo la difesa, invece, l'indennizzo previsto dalle norme impugnate sarebbe uno pseudo indennizzo, di gran lunga inferiore al valore effettivo del bene. E ciò: a) sia in relazione al metodo di valutazione, basato sul valore del bene accertato ai fini della imposta straordinaria progressiva sul patrimonio (valore riconosciuto, anche legislativamente, inferiore a quello reale); b) sia in relazione all'epoca di valutazione, assai lontana dall'entrata in vigore della legge siciliana e dall'attuazione, ancora in corso, della riforma, oltre tutto in un periodo di successive gravissime differenze di valore; c) sia in relazione al momento del pagamento il quale, per l'osservanza del principio del giusto indennizzo dovrebbe essere coevo all'atto di esproprio e dovrebbe essere tale da costituire, nella disponibilità della somma, una effettiva reintegrazione economica, mentre per le norme impugnate é dilazionato nel tempo e sarà eseguito (ma non si sa ancora quando) in titoli speciali di dubbia commerciabilità e ancora più dubbia stabilità di valore. Pertanto la difesa dei proprietari espropriati così conclude: "Voglia la Corte costituzionale dichiarare la illegittimità costituzionale della norma dell'art. 42 della legge della Regione siciliana 27 dicembre 1950, n. 104, e di quelle, da essa richiamate, contenute negli artt. 7 e 8 della legge 12 maggio 1950, n. 230, e 18 della legge 21 ottobre 1950, n. 841".
Secondo l'Avvocatura dello Stato si tratta di stabilire se la Costituzione attribuisce al legislatore un potere discrezionale nella determinazione della contropartita al sacrificio del diritto del singolo; e a questo proposito gli artt. 42 e 44 della Costituzione non sembrano porre alcun argine alla piena libertà del legislatore ordinario. Anzi tutto nella norma costituzionale non si riscontra l'attributo "giusto", ovvero "equo", né al silenzio della norma fa riscontro un principio di pari natura costituzionale da doversi rispettare, di modo che non é possibile fondare sull'art. 42 la tesi di una stretta equivalenza economica tra bene espropriato ed indennità. É poi da tener presente la possibilità che il proprietario consegua dalla espropriazione, nella residua proprietà, un vantaggio anziché un depauperamento onde la necessità di riferirsi all' id quod interest, cioè all'effettiva perdita sofferta dall'espropriato.
Discende da tali considerazioni che la potestà discrezionale del legislatore é una esigenza inderogabile, con l'adozione di criteri convenzionali "tariffari".
Tale esigenza si avverte ancora di più nell'esame dell'art. 44 della Costituzione, in specie dove tale norma assegna al legislatore la realizzazione della riforma fondiaria attraverso la limitazione della grande proprietà terriera e la redistribuzione della terra. Si spiega così che la Costituzione parli di indennizzo all'art. 42 e 43 e ne taccia all'art. 44. Ciò non significa che si possa dare ingresso nell'ordinamento all'istituto della confisca. Si tratta di un problema di equilibrio tra varie esigenze, problema che é e resta politico. Quindi spetta al legislatore stabilire l'optimum tra sacrificio della proprietà del singolo e onere per la collettività.
In base a tali rilievi l'Avvocatura conclude: "Si chiede che piaccia alla Corte costituzionale proclamare la piena legittimità costituzionale dell'art. 42 della legge regionale di riforma agraria 27 dicembre 1950, n. 104, degli artt. 7 e 8 della legge 12 maggio 1950, n. 230, dell'art. 18 della legge 21 ottobre 1950, n. 841, e di ogni altra disposizione ex adverso contestata".
L'Ente per la riforma agraria in Sicilia (ERAS) eccepisce anzi tutto il difetto di giurisdizione del giudice di merito che ha emesso l'ordinanza di rimessione degli atti a questa Corte. Infatti, mentre il Consiglio di giustizia amministrativa della Regione siciliana dichiarò la sua competenza in ordine ai provvedimenti di approvazione dei piani di conferimento e di assegnazione per i procedimenti di riforma agraria, l'autorità giudiziaria ordinaria del pari affermò la propria competenza in ordine ai medesimi atti; tuttavia di recente la Corte di cassazione ha deciso per la competenza del giudice amministrativo.
Nel merito, l'ERAS sostiene che tutta la questione si riduce a stabilire se sia conforme al precetto costituzionale il criterio usato dal legislatore per la determinazione dell'indennità di trasferimento dei terreni conferiti dal proprietario. Il che conduce ad individuare come unica norma costituzionale da tener presente nelle presenti controversie quella contenuta nel terzo comma dell'art. 42 della Costituzione, con esclusione sia delle altre norme di detto articolo, sia delle norme dell'art. 44. Il ragionamento dei proprietari si fonderebbe sulla illazione che l'art. 42, terzo comma, abbia elevato a procedimento tipo il procedimento di espropriazione per pubblica utilità del diritto comune, onde la pretesa che tutti i procedimenti ablatori debbano prevedere il versamento dell'indennità contemporaneamente al provvedimento ablativo, il pagamento in danaro, l'adozione del valore venale come criterio di commisurazione dell'indennità, ecc. Sennonché é arbitrario voler vedere tutte queste nozioni nella norma costituzionale. Questa, infatti, stabilisce soltanto la necessità dell'indennizzo. Non può, pertanto, dirsi incostituzionale un istituto nel quale si prevede il pagamento dell'indennità in un periodo successivo a quello della emanazione del provvedimento ablatorio. Come pure non può dirsi incostituzionale un mezzo di pagamento dell'indennità diverso dal danaro; anche qui manca una norma costituzionale che esplicitamente lo preveda, e del resto nel nostro diritto si conoscono permute obbligatorie, pagamenti in natura di obbligazioni pubbliche, ecc.
Circa poi la "giustezza" della indennità, l'ERAS rileva che il principio della indennità giusta é nello stesso concetto giuridico di indennità. Tuttavia ciò non vuol dire che indennità giusta significhi necessariamente valore venale del bene espropriato. Ci sono casi in cui l'indennità commisurata al valore venale sarebbe ingiusta per eccesso, come nel caso di espropriazioni per l'attuazione dei piani regolatori. Non esiste un solo criterio per determinare quale sia l'indennità giusta: nello stesso codice civile esistono vari criteri al riguardo (rimborso spese, somma minore fra lo speso e il migliorato, valore delle migliorie, ecc.). Lo stesso avviene nei procedimenti ablatori, che si inseriscono nel seno di una più vasta attività che i pubblici poteri esplicano per un fine di elevamento sociale. Sarebbe quindi ingiusto in tali casi corrispondere al proprietario il valore venale in quanto oltre tutto é lo stesso proprietario che viene a ricevere un beneficio economico. L'ERAS conclude pertanto perché questa Corte voglia dichiarare la legittimità costituzionale delle norme impugnate.
In una memoria illustrativa depositata il 14 marzo 1957 la difesa del D'Alì replica anzi tutto alla eccezione dell'ERAS sul difetto di giurisdizione del giudice di merito di cui innanzi, osservando che l'orientamento della Cassazione non può riguardare le presenti controversie, in quanto si riferisce alla ipotesi di omessa determinazione dell'indennità e non a quella di violazione del diritto soggettivo dell'indennità, che costituisce invece l'oggetto delle cause in esame.
L'Avvocatura dello Stato, mentre dichiara "fuori tema" l'articolo 44 della Costituzione é ad esso che in definitiva si riporta per fondare la pretesa discrezionalità. Al contrario le leggi di riforma agraria solo genericamente si riallacciano a detto articolo, in quanto sono dirette al razionale sfruttamento del suolo e a stabilire equi rapporti sociali. Fuori di ciò gli istituti da tali leggi previsti, rivolti ad attuare parziali trasferimenti di proprietà, non possono essere considerati dall'art. 44. Con l'adottare il sistema dell'espropriazione invece il legislatore ha fatto ricorso all'art. 42 della Costituzione, il quale pertanto costituisce il limite del potere del legislatore ordinario. L'art. 42 non contiene soltanto la enunciazione di un principio giuridico costituzionalmente garantito, ma rientra fra i principi generali qualificatori dello Stato, in quanto determinano i suoi poteri e i limiti di questi, in particolare i modi e i limiti dell'intervento dello Stato stesso nella disponibilità dei beni privati. Se la dichiarazione di "interesse generale" della riforma agraria costituisce il presupposto per la espropriazione, la corrispondenza dell'indennizzo al valore effettivo del bene espropriato resta l'altro presupposto necessario della legittimità della espropriazione stessa. Qualunque sia la definizione tecnica che voglia assumersi della discrezionalità, é pacifico che essa non potrà mai significare arbitrio.
Contro la tesi dell'Avvocatura dello Stato secondo la quale esisterebbe l'obbligo di indennizzare, ma l'obbligo stesso si deve considerare soddisfatto qualunque sia la misura dell'indennizzo, anche se questo sia fissato in misura simbolica, e ciò per l'asserito potere discrezionale del legislatore nella determinazione della contropartita del sacrificio del singolo, si obietta che invece una cosa é certa: ed é che l'obbligo di indennizzare non può essere soddisfatto che con il pagamento di un indennizzo che sia veramente tale, e il legislatore ordinario non si uniforma al principio col chiamare indennizzo quello che tale non può essere considerato.
Si precisa infine che l'art. 42 non può mutare in relazione ai diversi tipi di procedimenti ablativi. Quali che siano le caratteristiche di un procedimento ablativo, se effetto di esso é la privazione coattiva della proprietà basta questo perché agisca la norma dell'art. 42. D'altro canto il riferimento dell'indennizzo all'entità del sacrificio invece che al valore del bene non può valere ad alterare il significato stesso di "indennizzo": questo per essere tale deve coprire l'intero valore obiettivo del bene. In conclusione, se l'indennizzo, pur considerato come corrispondente al sacrificio, implica in ogni caso la determinazione del valore del bene, tale valore non può intendersi che come valore economico, il che in una economia di mercato significa valore venale. Di ciò non si é tenuto conto nelle leggi impugnate in cui si riscontra la mancanza di una reale e consapevole proporzione col valore venale.
Nella discussione orale sono state ribadite e illustrate le esposte deduzioni.
Considerato in diritto
La Corte, stante la identità dell'oggetto, ha ravvisato la opportunità della riunione dei cinque giudizi per la loro decisione con unica sentenza.
In ordine alla questione della carenza di giurisdizione da parte della Corte d'appello di Palermo, che ha emesso le ordinanze di cui in epigrafe, questione sollevata nel foglio di deduzioni per l'ERAS in data 27 giugno 1956, é da rilevare innanzi tutto che essa viene presentata non tanto come una pregiudiziale di cui formalmente si richieda la risoluzione, quanto piuttosto sotto la forma di un problema generale proposto alla Corte affinché, come testualmente scrive il deducente "essa voglia dettare una regola per l'avvenire".
Della questione stessa non é cenno nelle conclusioni, le quali si limitano a richiedere, nel merito, la dichiarazione di legittimità costituzionale delle norme impugnate; né il rappresentante dello ERAS vi ha insistito nella discussione orale. La questione deve comunque essere risoluta nel senso in cui questa Corte, in un caso analogo, ebbe già a pronunciarsi nella sentenza n. 30 del 1957. Lo stabilire se il giudice ordinario, che ha emesso le ordinanze da cui hanno avuto origine gli attuali giudizi riuniti, fosse competente in ordine ai provvedimenti di approvazione dei piani di conferimento e di assegnazione, ovvero se fosse competente il giudice amministrativo, darebbe luogo a indagini strettamente aderenti al merito delle contestazioni pendenti davanti a quel giudice, ciò che non é consentito in questa sede, data la separazione, che necessariamente deve essere mantenuta, fra il giudizio principale e quello pregiudiziale di legittimità costituzionale.
Nel merito, la Corte ritiene di dover dichiarare infondata la tesi della difesa dei proprietari espropriati circa una pretesa illegittimità costituzionale dell'art. 42 della legge regionale siciliana 27 dicembre 1950, n. 104, e delle norme, da esso richiamate, degli artt. 7 e 8 della legge nazionale 12 maggio 1950, n. 230, e dell'art. 18 della legge 21 ottobre 1950, n. 841.
Secondo la difesa dei ricorrenti le norme predette sarebbero costituzionalmente illegittime perché lesive del diritto all'indennizzo, che l'art. 42, terzo comma, della Costituzione garantisce ai proprietari espropriati. A questo proposito si pone come punto fermo, sul quale ripetutamente si insiste, che l'indennizzo, per essere tale, deve corrispondere al valore effettivo del bene espropriato, sì che l'espropriato di tanto sia indennizzato di quanto é stato espropriato. Un indennizzo che non implichi questo rapporto di netta equivalenza non sarebbe un indennizzo. Di qui la conseguenza che al legislatore ordinario non spetterebbe quel potere discrezionale di determinazione della misura e dei modi dell'indennizzo, che é invece affermato dall'Avvocatura dello Stato e dalla difesa dello ERAS.
Questa interpretazione letterale, e in un certo senso meramente etimologica ("rendere indenne"), del concetto di indennizzo non può essere accolta. Essa prescinde del tutto dagli elementi storici e sistematici che invece essenzialmente devono contribuire a determinarla, e soprattutto difetta della necessaria considerazione dello sviluppo e della evoluzione che il concetto di indennizzo ha via via subito, attraverso le varie leggi relative alla espropriazione per pubblica utilità.
La espropriazione per pubblica utilità ha avuto, nel susseguirsi delle varie disposizioni di cui é stata oggetto, tutt'altro che una disciplina uniforme, in specie per ciò che riguarda l'indennizzo. Già il criterio della corrispondenza dell'indennizzo al giusto prezzo che l'immobile avrebbe avuto in una libera contrattazione di compravendita, fissato dall'art. 39 della legge generale del 1865, non ha avuto, né poteva avere, in pratica, un valore assoluto. Come infatti é stato esattamente rilevato dalla dottrina, il riferimento al prezzo della compravendita in una libera contrattazione non può attuarsi, in quanto la libera contrattazione in effetti non sussiste e, in luogo di essa, si verifica una cessione coatta, con la conseguenza che il prezzo, anziché essere determinato in base alla legge economica dell'offerta e della domanda, finisce col subire, sia pure con l'intervento dei periti, una determinazione astratta e approssimativa, in considerazione prevalente del pubblico interesse.
Ma le leggi speciali successive si allontanano ancor più dal criterio di corrispondenza al valore venale dell'immobile, quale é propugnato dalla difesa. Basti considerare, tra le molte altre che ad esso si ispirarono, la legge 15 gennaio 1885, n. 2892, per il risanamento della città di Napoli e il R.D.L. 6 luglio 1931, n. 981, per il piano regolatore della città di Roma.
Nella prima, abbandonandosi il criterio del prezzo in libera contrattazione, si stabiliva (art. 13) che l'indennità dovuta ai proprietari degli immobili espropriati avrebbe dovuto essere determinata sulla media del valore venale e sui fitti coacervati dell'ultimo decennio, e in difetto della data certa dei fitti, sull'imponibile netto agli effetti delle imposte sui terreni e sui fabbricati. Nel secondo l'indennità di espropriazione era calcolata sulla media del valore venale e dell'imponibile netto alla data del decreto, capitalizzato ad un tasso dal 3,50 per cento al 7 per cento secondo le condizioni dell'immobile; e per le aree destinato a piazze, strade e spazi di uso pubblico si stabiliva il ragguaglio dell'indennità al puro valore venale del terreno, considerato indipendentemente dalla sua edificabilità. Agli stessi criteri, o a criteri analoghi, si ispirano molti altri provvedimenti legislativi, come quelli relativi ai piani regolatori di Bologna, Novara, Milano, Como, ecc.
La difesa dei proprietari espropriati non si é nascosta del tutto la importanza di questi dati storici, ed anzi ha tentato di attenuarne la portata, sostenendo che, in fondo, la legge per Napoli "non conteneva che particolari modalità di determinazione del valore venale". In realtà le disposizioni innanzi citate hanno un valore ben più sostanziale.
Il fondamento di esse appare in tutta la sua evidenza sol che si ponga mente al rapporto, che necessariamente deve essere stabilito, fra la misura dell'indennizzo e gli scopi di pubblica utilità che sono il motivo essenziale di queste disposizioni. Gli scopi di pubblica utilità, proprio per questa loro natura e per i superiori interessi che ne sono il presupposto, devono essere raggiunti; il che significa che essi devono essere coordinati e contemperati il più possibile con l'interesse privato, ma che non possono a questo essere subordinati, al punto che una considerazione integrale di esso finisca praticamente per impedire la realizzazione degli scopi di pubblica utilità. A questi criteri, ai quali si sono ispirate le varie leggi di espropriazione nel determinare la misura e i modi dell'indennizzo, non poteva non ispirarsi anche l'art. 42 della Costituzione, nel far salvo l'indennizzo ai proprietari. Non é ammissibile che proprio la Costituzione, con tutte le finalità di progresso sociale che la ispirano, abbia inteso, relativamente all'indennizzo, arrestarsi e ritornare al criterio della effettiva corrispondenza al valore venale dell'immobile, che già le leggi precedenti, nella considerazione di finalità sociali, avevano superato.
Posta la necessità di coordinazione col pubblico interesse, indennizzo non può significare quel integrale risarcimento che la difesa sostiene, ma soltanto il massimo di contributo e di riparazione che, nell'ambito degli scopi di generale interesse, la Pubblica Amministrazione può garantire all'interesse privato. Ciò importa che la valutazione comparativa di tali interessi e il modo come pervenire al massimo della rispettiva soddisfazione deve essere il risultato di un complesso e vario esame di elementi tecnici, economici, finanziari, politici, che solo al legislatore può esser dato di compiere. La commisurazione dell'indennizzo compiuta in base ai valori accertati per l'imposta generale sul patrimonio, il pagamento in titoli anziché in danaro, la redimibilità di tali titoli solo a una certa epoca, ecc. sono appunto criteri che rientrano, e legittimamente, nell'ambito di quella valutazione.
Né varrebbe il dire che, fissato in tal modo il potere del legislatore, ciò potrebbe condurre a considerare soddisfatto l'obbligo dell'indennizzo qualunque sia la misura di esso, anche se meramente simbolica. Intanto ciò non può affermarsi relativamente alla commisurazione fatta nell'art. 42 della legge regionale 27 dicembre 1950, n. 104, e nelle norme da essa richiamate. Ma comunque é evidente che un indennizzo stabilito in misura simbolica sarebbe un indennizzo inesistente. In tal caso la norma relativa verrebbe indubbiamente a porsi in contrasto con l'art. 42 della Costituzione, e come tale rientrerebbe sotto il controllo di questa Corte ai fini della dichiarazione di illegittimità costituzionale.
Questa determinazione del concetto di indennizzo che risulta palese dalla interpretazione dell'art. 42 della Costituzione, appare ancora più manifesta se si addiviene al richiamo, che la stessa difesa dei proprietari espropriati - sia pure in via generale - ammette che possa farsi, dell'art. 44 della stessa Costituzione. Il razionale sfruttamento del suolo e la instaurazione di equi rapporti sociali, che questa norma pone come indirizzo generale al legislatore, costituiscono superiori finalità al cui raggiungimento tutti gli altri interessi debbono essere logicamente coordinati. E spetta appunto al legislatore tener conto nella maggior misura possibile di tali interessi, sempre nel quadro delle finalità generali alle quali la Costituzione si ispira.
Quanto alla subordinata che la difesa del D'Alì propone alla fine della sua memoria dell'11 marzo 1957, cioè che in ogni caso, anche ad ammettere la possibilità di scostarsi dal valore venale dell'immobile, questo avrebbe dovuto sempre tenersi presente, mentre in effetti - come si assume - non sarebbe stato tenuto presente, é agevole obbiettare, date le osservazioni di cui innanzi, che ciò che era necessario era un concreto punto di partenza, riferibile al valore dell'immobile e questo é stato fissato dagli artt. 7 della legge 12 maggio 1950, n. 230, e 18 della legge 21 ottobre 1950, n. 841, cui si riporta l'art. 42 della legge regionale siciliana 27 dicembre 1950, n. 104, col riferimento, appunto, "ai valori definitivamente stabiliti per l'applicazione dell'imposta straordinaria progressiva sul patrimonio".
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
pronunciando con unica sentenza nei giudizi riuniti indicati in epigrafe;
dichiara non fondata la questione proposta con le cinque ordinanze del 25 aprile 1956 della Corte di appello di Palermo sulla legittimità costituzionale degli artt. 42 della legge regionale siciliana di riforma fondiaria del 27 dicembre 1950, n. 104, 7 e 8 della legge 12 maggio 1950, n. 230, e 18 della legge 21 ottobre 1950, n. 841, in relazione all'art. 42 della Costituzione.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 13 maggio 1957.
Gaetano AZZARITI - Tomaso PERASSI - Gaspare AMBROSINI - Ernesto BATTAGLINI - Mario COSATTI - Francesco PANTALEO GABRIELI - Giuseppe CASTELLI AVOLIO - Antonino PAPALDO - Mario BRACCI - Nicola JAEGER - Giovanni CASSANDRO - Biagio PETROCELLI - Antonio MANCA
Depositata in cancelleria il 25 maggio 1957.