SENTENZA N. 21
ANNO 1957
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori Giudici:
Avv. Enrico DE NICOLA, Presidente
Dott. Gaetano AZZARITI
Avv. Giuseppe CAPPI
Prof. Tomaso PERASSI
Prof. Gaspare AMBROSINI
Prof. Ernesto BATTAGLINI
Dott. Mario COSATTI
Prof. Francesco PANTALEO GABRIELI
Prof. Giuseppe CASTELLI AVOLIO
Prof. Antonino PAPALDO
Prof. Nicola JAEGER
Prof. Giovanni CASSANDRO
Prof. Biagio PETROCELLI
Dott. Antonio MANCA,
ha pronunziato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 8 della legge regionale sarda approvata dal Consiglio regionale della Sardegna il 27 maggio 1955 e riapprovata il 16 marzo 1956, contenente norme intese a disciplinare il razionale sfruttamento delle piante di sughero, promosso dal Presidente del Consiglio dei Ministri con ricorso notificato il 4 aprile 1956, depositato nella cancelleria della Corte costituzionale il 14 aprile 1956 ed iscritto al n. 52 del Reg. ric. 1956.
Udita nell'udienza pubblica del 14 novembre 1956 la relazione del Giudice Gaspare Ambrosini;
uditi il sostituto avvocato generale dello Stato Achille Salerni per il ricorrente e gli avversti Egidio Tosato e Pietro Gasparri per la Regione autonoma della Sardegna.
Ritenuto in fatto
Il Consiglio regionale della Sardegna approvò il 27 maggio 1955 una legge contenente una serie di norme intese a disciplinare il razionale sfruttamento delle piante di sughero, anche se sparse, radicate in qualsiasi zona sia o non sottoposta a vincolo idrogeologico.
L'art. 8 della legge, che forma oggetto del presente giudizio, dispone: "Per le infrazioni delle disposizioni della presente legge, si applicano la procedura e le sanzioni previste dal R.D.L. 30 dicembre 1923, n. 3267, riguardante i reati commessi a danno dei soprassuoli vegetanti su terreno soggetto a vincolo idrogeologico".
Ai sensi dell'art. 33 dello Statuto speciale per la Sardegna il Governo rinviò tale legge a nuovo esame del Consiglio regionale col rilievo che la norma dell'art. 8 eccede la competenza della Regione.
Nella seduta del 16 marzo 1956 il Consiglio regionale approvò di nuovo, a maggioranza assoluta dei propri componenti, la legge del 27 maggio 1955.
Questa nuova deliberazione venne comunicata, con nota del 20 marzo 1956, dal Rappresentante del Governo nella Regione alla Presidenza del Consiglio dei Ministri e ai Ministri dell'interno e della giustizia.
Il Consiglio dei Ministri nella riunione del 28 marzo 1956 deliberò di proporre ricorso dinanzi alla Corte costituzionale per la dichiarazione dell'illegittimità costituzionale del suindicato art. 8.
Nel ricorso del Presidente del Consiglio dei Ministri, debitamente notificato al Presidente della Giunta regionale sarda e depositato nella cancelleria della Corte, si sostiene che la Regione non può legiferare in materia penale nemmeno a titolo accessorio o complementare, dacché l'art. 25, comma 2, della Costituzione riserva alla legge statale il regolamento di questa materia, la quale peraltro, non é in alcun modo compresa nelle materie di competenza legislativa regionale indicate negli artt. 3 e 4 dello Statuto speciale per la Sardegna. L'art.8 in questione importa l'invasione da parte della Regione di una sfera di rapporti che solo lo Stato può disciplinare, ed é perciò costituzionalmente illegittimo. Né avrebbe fondamento l'obiezione che l'attività legislativa di carattere pubblicistico della Regione resterebbe in pratica inefficace se il legislatore regionale non potesse comminare sanzioni punitive per la violazione dei doveri che é competente ad imporre, giacché allo scopo provvederebbero in questi casi le cosiddette "norme penali in bianco", ossia quelle norme del Codice penale che puniscono in generale la inosservanza dei provvedimenti legalmente dati da qualsiasi autorità.
In via del tutto subordinata si deduce nel ricorso che, essendo vietata in materia penale ogni applicazione estensiva, non si possono far rientrare sotto le disposizioni del R.D. 30 dicembre 1923, n. 3267, ipotesi diverse da quelle che vi sono espressamente previste, come ha fatto l'impugnato art. 8 della legge sarda del 27 maggio 1955 - 16 marzo 1956.
In seguito a deliberazione della Giunta regionale sarda del 9 aprile 1956, con la quale si stabilì di resistere al ricorso suddetto, il Presidente della Giunta, rappresentato dagli avvocati Egidio Tosato e Pietro Gasparri, si costituiva in giudizio presentando le proprie deduzioni in una memoria nella quale si nega la fondatezza del ricorso per i seguenti motivi:
- non é dimostrato che nell'art. 25 della Costituzione la parola "legge" sia adoperata nel significato ristretto di legge statale. Una simile interpretazione non sarebbe giustificata nemmeno se il legislatore costituente avesse inteso riferirsi non alla legge in senso sostanziale o materiale, ma alla cosiddetta legge formale, perché anche le leggi emanate dalle Regioni - quanto meno quelle emanate dalle Regioni ad autonomia speciale - rientrano nella categoria delle leggi formali;
- altro é parlare di "materia" nel senso di oggetto della disciplina normativa, altro é parlare di "materia" con riferimento al tipo di norma che può essere adottato per la disciplina di un determinato oggetto. Dal fatto, perciò, che negli articoli dello Statuto regionale, dove sono elencate le materie su cui la Regione ha competenza legislativa, non sia fatta menzione della materia penale, non si può trarre argomento per sostenere che la Regione sia priva della potestà di dettare sanzioni punitive;
- non si contesta che siano riservati allo Stato la configurazione e il trattamento delle "figure criminose generali", come l'omicidio e il furto. Ma ciò non esclude che la Regione, senza affatto innovare il diritto penale generale, possa integrarlo con un proprio diritto penale speciale, configurando con le sue leggi reati specificamente ed esclusivamente connessi con le materie da essa disciplinabili;
- non si vede, d'altra parte, quali "norme penali in bianco" della legislazione statale possano servire a garantire l'osservanza delle leggi regionali. Una corretta interpretazione porta ad escludere che queste leggi possano essere comprese fra i provvedimenti menzionati dall'art. 650 Cod. pen., cui si riferisce, evidentemente, nel suo ricorso la Presidenza del Consiglio dei Ministri;
- quanto al motivo subordinato del ricorso, esso é frutto di confusione fra i concetti giuridici dell'applicazione analogica e del rinvio. La Regione non ha applicato la legge statale a fattispecie concrete, diverse da quelle ipotizzate dal legislatore. Ha emesso una propria legge, cioè un comando astratto, e per determinare una parte del contenuto di questo comando ha preso a modello il decreto statale del 1923: solo per brevità, invece di riprodurre letteralmente le disposizioni, si é limitata a rinviare l'interprete al testo di quel decreto.
Alla pubblica udienza del 14 novembre 1956 il sostituto avvocato generale dello Stato Achille Salerni per il Presidente del Consiglio dei Ministri e gli avvocati Egidio Tosato e Pietro Gasparri per il Presidente della Giunta regionale sarda hanno svolto ampiamente i motivi delle rispettive conclusioni.
Considerato in diritto
Il potere legislativo penale appartiene soltanto allo Stato, principalmente in virtù di un principio generale che trova fondamento soprattutto nella particolare natura delle restrizioni della sfera giuridica che si infliggono mediante la pena. La quale incide sugli attributi e beni fondamentali della persona umana, in primo luogo sulla libertà personale; onde la necessità che tali restrizioni siano da stabilirsi in base a una generale e comune valutazione degli interessi della vita sociale, quale può essere compiuta soltanto dalla legge dello Stato.
Il principio discende inoltre da altri criteri informatori della Costituzione, quali sono consacrati nelle norme generali, e nell'art. 3, che garantisce l'uguaglianza dei cittadini davanti alla legge, e nell'art. 5, che consacra l'unità politica dello Stato proclamando che la Repubblica é "una ed indivisibile".
La competenza esclusiva dello Stato a legiferare in un campo, che attiene a quella salvaguardia dei diritti fondamentali dell'uomo che la Costituzione afferma e pone anzi a base di tutto l'ordinamento giuridico dello Stato, trova conferma nella disposizione specifica dell'art. 25, comma 2 : "Nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso".
Si é osservato che questa disposizione é diretta ad affermare il principio della irretroattività della legge penale; ma il fatto che il 2 comma dell'art. 25 affermi questo principio non porta alla conseguenza e non esclude che contemporaneamente ne ha affermato un altro, quello della riserva della legge statale.
In proposito si obietta: che tale disposizione parla genericamente di "legge"; che sono leggi formali non soltanto quelle statali ma anche quelle regionali; e che perciò la norma contenuta nell'art. 8 della legge sarda impugnata non é in contrasto con la disposizione dell'art. 25 della Costituzione, giacché é stata emanata con "legge".
Su questo punto specifico, in un caso simile all'attuale rispetto alla portata della parola "legge" adoperata dall'art. 108, comma 1, della Costituzione, la Corte ebbe esplicitamente a pronunciarsi nella sentenza n. 4, affermando che quando questo articolo rinvia alla "legge" la emanazione delle "norme sull'ordinamento giudiziario e ogni magistratura" si riferisce sicuramente e non può che riferirsi alla legge dello Stato.
Che allo stesso modo debba intendersi la parola "legge" quando é adoperata nell'art. 25, comma 2, risulta dalla natura dei diritti che da esso vengono toccati, ed é comprovato dalla portata inequivocabile che ha la stessa parola "legge" quando é adoperata negli altri due commi dell'art. 25, che trattano di materie le quali attengono a diritti fondamentali di libertà, e che perciò sicuramente rientrano nella sfera di competenza dello Stato "uno e indivisibile".
Nel comma 1, dell'art. 25 si prescrive che "nessuno può essere distolto dal giudice naturale precostituito per legge", e nel terzo comma che "nessuno può essere sottoposto a misure di sicurezza se non nei casi previsti dalla legge". E se si esaminano tutti gli altri articoli della Costituzione, nei quali si rinvia puramente e semplicemente alla "legge" la disciplina dei diritti individuali e delle funzioni e potestà degli organi costituzionali dello Stato, si vede che essi si riferiscono sempre alla "legge statale".
In base dunque ai principi generali contenuti nelle disposizioni degli artt. 3 e 5 della Costituzione e al principio specifico dettato dall'art. 25, comma 2, si può affermare che la disciplina del potere punitivo resta riservata allo Stato, e che é del tutto preclusa alle Regioni, sia a quelle ad ordinamento comune, sia a quelle a statuto speciale.
Soltanto una deroga espressa avrebbe potuto o potrebbe limitare l'efficacia di questo principio; ma né nella Costituzione per le Regioni ad autonomia ordinaria, né nello Statuto speciale per la Sardegna (art. 35), né negli Statuti speciali delle altre Regioni ad ordinamento particolare, vi ha alcuna disposizione che vi apporti deroghe.
Per limitare la portata di tale principio é stato addotto che la Regione, pur non potendo innovare al Codice penale né introdurre pene da quest'ultimo non previste, potrebbe garantire la efficacia delle norme da essa emanate, configurando con le sue leggi reati specificamente ed esclusivamente connessi con materie (quale, nella fattispecie, l'agricoltura in virtù dell'art. 3 dello Statuto) di competenza regionale, ed in particolare connettendo sanzioni penali con la violazione di quei precetti tecnici, giuridicamente codificati, la cui osservanza sarebbe necessaria al migliore rendimento delle attività considerate. Col che la Regione non innoverebbe rispetto al diritto penale "generale" (che si ammette appartenere alla competenza esclusiva del legislatore statale), ma lo integrerebbe con un proprio diritto penale "speciale", con l'emanazione di norme sanzionatorie penali complementari, accessorie, integrative, "di rilievo soltanto contravvenzionale".
Si arriverebbe così a riconoscere indirettamente alle Regioni, sia pur limitatamente al campo contravvenzionale, una potestà legislativa attinente al magistero penale, quella potestà che é ad essa completamente preclusa dai principi affermati negli artt. 3, 5 e 25 della Costituzione, e che non é ad alcuna di esse attribuita né dallo Statuto sardo né dagli altri Statuti speciali.
Orbene una tale potestà non può venire attribuita e riconosciuta indirettamente alle Regioni, ricorrendo a distinzioni e a configurazioni di istituti non previsti nell'ordinamento costituzionale, ed anzi con esso addirittura contrastanti.
Va rilevato anzitutto che nel sistema della autonomia regionale é la Costituzione che attribuisce alle Regioni funzioni e potestà determinate, e che di conseguenza non é possibile che alle Regioni se ne riconoscano, quasi ad integrazione di quelle avute, altre ad esse collegate, in base al prospettarsi di esigenze la cui valutazione spetta in definitiva soltanto allo Stato.
Va altresì rilevato che non é esatto distinguere tra diritto penale "generale" e diritto penale "speciale", perché il diritto penale é unico, sia rispetto all'essenza, al contenuto ed alle finalità del magistero punitivo, sia riguardo alla fonte da cui unicamente promana (lo Stato sovrano) ed al sistema con cui soltanto può esserne regolata la disciplina (con legge statale).
E se il potere punitivo compete esclusivamente allo Stato, non é possibile riconoscerne alla Regione una parte, sia pur limitata al campo contravvenzionale, perché il diritto penale comprende anche questa parte.
Né é possibile ridurre la portata di questo principio sotto un altro profilo, cercando quasi di declassare le sanzioni penali dettate dalle Regioni, come quella dell'art. 8 della legge sarda impugnata, dalla categoria delle norme penali vere e proprie in un'altra categoria di norme che stabilirebbero sanzioni unicamente amministrative in quanto fondate su potestà amministrative; e ciò perché ogni norma che prevede la comminazione di una pena contiene una sanzione penale ed ha inconfondibilmente il carattere di norma penale.
La Corte ebbe ad occuparsi della questione nella sentenza n. 6, nella quale dichiarò la illegittimità costituzionale della norma dell'art. 19 della legge approvata dal Consiglio provinciale di Bolzano nella seduta del 29 luglio 1952 e riapprovata nella seduta del 30 ottobre 1952. La difesa della Provincia davanti alla Corte aveva sostenuto che l'art. 19 impugnato conteneva non una norma penale ma una sanzione amministrativa.
La Corte respinse nettamente questo assunto con le considerazioni che mette conto di riportare: "Ma l'assunto non può essere accolto. La distinzione fra norme penali e norme contenenti sanzioni amministrative va riportata non tanto al carattere della materia a cui la norma si riferisce nel comminare una determinata sanzione, ma va piuttosto riferita al carattere intrinseco della sanzione stessa, all'organo che é chiamato ad applicarla, al procedimento da seguirsi nell'applicazione, alle conseguenze giuridiche di essa. Ora nella specie non solo é comminata come sanzione l'ammenda, che é compresa fra le pene prevedute nel Codice penale, ma viene nettamente distinta la fase della contestazione e della eventuale definizione in via amministrativa dalla fase giudiziaria in cui la sanzione viene applicata e che é devoluta al giudice ordinario, con la conseguente convertibilità della pena pecuniaria in pena detentiva in caso di insolvibilità del condannato. Nessun dubbio pertanto che si tratta di una sanzione di carattere penale che rientra nel magistero punitivo la cui regolamentazione é riservata esclusivamente allo Stato".
La Commissione legislativa "autonomia, ordinamento regionale, affari interni" del Consiglio regionale sardo, nel riproporre al Consiglio la riapprovazione della legge votata il 27 maggio 1955 e rinviata dal Governo per un nuovo esame in riguardo all'art. 8 in questione, motivò la sua proposta adducendo che l'enunciazione nello Statuto delle materie di competenza regionale "sarebbe priva di ogni significato giuridico, e di questo risulterebbe tradito lo spirito politico informatore, se alla Regione non fosse riconosciuto il potere di dettare norme di carattere penale, quando esse siano necessarie ad assicurare la efficacia delle sue leggi".
E la difesa della Regione davanti alla Corte, nella memoria a stampa e nella discussione orale, ha insistito nel rilevare che la disciplina di una materia di competenza della Regione (come nella fattispecie la disciplina tecnica ed amministrativa dello sfruttamento delle piante da sughero che rientra nella materia "agricoltura e foreste" di competenza della Regione in base all'art. 3, lett. d, dello Statuto) "rimarrebbe priva di ogni efficacia, se al legislatore regionale fosse precluso di munirla di sanzioni, le quali non possono essere che punitive".
Ma tale assunto é inaccettabile, non solo perché contrasta con i principi costituzionali sopra esposti, ma anche perché non corrisponde alla realtà della situazione giuridica riguardante i modi di assicurare l'efficacia delle leggi regionali.
Non é esatto che solo con le sanzioni penali si potrebbe provvedere all'osservanza delle leggi regionali, e che queste rimarrebbero prive di efficacia se non potessero venire dotate di tali sanzioni.
All'infuori delle sanzioni penali ve ne sono infatti altre che la Regione può dettare, quali le sanzioni civili e amministrative, e anche le sanzioni di carattere specificamente pecuniario, purché non convertibili (come quelle previste dall'art. 8 della legge sarda impugnata) con pena restrittiva della libertà personale: se convertibili acquistano senz'altro carattere penale, e sono perciò completamente precluse all'esplicazione della potestà legislativa della Regione.
Né possono aver peso in questa sede i rilievi e le preoccupazioni largamente avanzate dalla difesa della Regione: circa la inapplicabilità in caso di violazione delle leggi regionali delle sanzioni penali, che l'art. 650 del Codice penale commina non riguardo alla inosservanza di una legge, sibbene per la inosservanza di "un provvedimento legalmente dato dalla autorità per ragioni di giustizia o di sicurezza pubblica, o d'ordine pubblico o d'igiene"; e circa la condizione di inferiorità in cui le Regioni si trovano rispetto alle Province ed ai Comuni, per il fatto che non possono ritenersi estensibili alle leggi regionali le garanzie penali contenute nella vigente legislazione dello Stato in ordine alle violazioni dei regolamenti delle Province e dei Comuni.
L'art. 8 della legge sarda impugnata viola il suesposto principio, giacché commina una sanzione penale, disponendo che per la infrazione delle disposizioni degli articoli precedenti "si applicano la procedura e le sanzioni previste dal R.D. 30 dicembre 1923, n. 3267, riguardanti i reati commessi a danno dei soprassuoli vegetanti su terreno soggetto a vincolo idrogeologico".
Il carattere penale delle sanzioni in questione é reso palese dal testo stesso dell'art. 8, e più esplicitamente ancora dal testo delle norme richiamate del R.D. 30 dicembre 1923, del quale basta qui citare gli artt. 24, 26, 27, 28 da una parte e l'art. 34 dall'altra, tutti collocati nel capo II, col titolo "Disposizioni penali e di polizia".
L'art. 24 dispone che "il proprietario o possessore di terreni vincolati, il quale non osservi le norme emanate... incorrerà nella ammenda da lire... a lire...". Gli artt. 26, 27 e 28 comminano per altri contravventori e per altre infrazioni "pene pecuniarie".
Riferendosi all'ammenda ed in genere alle pene pecuniarie previste nel decreto, l'art. 34 detta:
"Le pene pecuniarie stabilite dal presente decreto saranno nel caso di non effettuato pagamento, commutate nell'arresto, a seconda del suo ammontare, osservato il ragguaglio ed il limite stabiliti dal Codice penale".
Questi riferimenti sono più che sufficienti per comprovare che le sanzioni previste dall'art. 8 della legge regionale impugnata hanno carattere di sanzioni penali.
E siccome la disciplina del potere penale é riservata completamente alla legge dello Stato, é evidente che la Regione, dettando la norma dell'art. 8, ha legiferato in un campo che le é del tutto precluso.
Data la validità del motivo principale del ricorso, non occorre far luogo all'esame dell'altro motivo che la difesa del Presidente del Consiglio dei Ministri aveva addotto in via del tutto subordinata.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
accoglie il ricorso del Presidente del Consiglio dei Ministri e
dichiara la illegittimità costituzionale dell'art. 8 della legge approvata il 27 maggio 1955 e riapprovata il 26 marzo 1956 dal Consiglio regionale della Sardegna, relativa alla "disciplina dello sfruttamento delle piante da sughero".
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 19 gennaio 1957.
Enrico DE NICOLA - Gaetano AZZARITI - Giuseppe CAPPI - Tomaso PERASSI - Gaspare AMBROSINI - Ernesto BATTAGLINI - Mario COSATTI - Francesco PANTALEO GABRIELI - Giuseppe CASTELLI AVOLIO Antonino PAPALDO - Nicola JAEGER - Giovanni CASSANDRO - Biagio PETROCELLI - Antonio MANCA
Depositata in cancelleria il 26 gennaio 1957.