Claudio Zanghì*
Sommario: 1. Le sentenze. – 2. Il valore delle norme della Convenzione
europea: le norme costituzionali di riferimento. –
1. Le sentenze.
I reiterati contrasti
evidenziati dalla Corte europea dei diritti dell'uomo in relazione alle norme
italiane che disciplinano l'indennità di esproprio nelle sue diverse forme, da
ultimo richiamati dalla Grande Camera nella sentenza
“Scordino” (29 marzo 2006) che ha
invitato l'Italia a sopprimere qualsiasi ostacolo per l'ottenimento di un
indennizzo avente un rapporto ragionevole con il valore del bene espropriato [1], hanno determinato perplessità nella
suprema Corte di Cassazione che in altra occasione aveva anche proceduto a
disapplicare direttamente la norma interna in contrasto con la norma della
Convenzione [2], ed hanno dato origine ad un rinvio
alla Corte costituzionale.
Quest'ultima si è pronunciata
con due diverse sentenze del 24 ottobre 2007. La sent. n. 348
trae origine dalle ordinanze della Corte di Cassazione del 29 maggio e del 19
ottobre 2006 che hanno sollevato questione di legittimità costituzionale
dell’art. 5bis del d.l. 11 luglio
1992, n. 333, convertito, con modificazioni, nella l. 8 agosto 1992 n. 359,
ritenendo che “ la norma è oggetto di
censura nella parte in cui, ai fini della determinazione dell'indennità di espropriazione
dei suoli edificabili, prevede il criterio di calcolo fondato sulla media tra
il valore dei beni e il reddito dominicale rivalutato, disponendone altresì
l'applicazione ai giudizi in corso alla data dell'entrata in vigore della l. n.
359 del
La sent. n. 349
trae origine dalle ordinanze della Corte di Cassazione del 20 maggio 2006 e
della Corte d’Appello di Palermo del 29 giugno 2006 che hanno sollevato la “questione di legittimità costituzionale
dell'art. 5-bis, comma 7-bis, del decreto-l. 11 luglio 1992,
n. 333, convertito, con modificazioni, dalla l. 8 agosto 1992, n. 359 – comma
aggiunto dall'art. 3, comma 65, della l. 23 dicembre 1996, n.
La prima reazione che
nasce spontanea al lettore deriva dalla circostanza che
Una qualche differenza
tra le due procedure è comunque riscontrabile dal momento che la sent. n. 349 si
riferisce soltanto alla indennità relativa casi di cosiddetta “occupazione
acquisitiva”, o “accessione invertita””, mentre la sent. n. 348 si
occupa di tutti gli altri casi di esproprio. È pur vero che la riunione di
procedimenti analoghi è soltanto una facoltà processuale e non certo un
obbligo, ma la perplessità sul perché delle due sentenze rimane e potrà forse
trovare risposte con motivazioni meta giuridiche.
Le sentenze menzionate meritano
un attento esame perché per la prima volta inducono
2. Il valore delle
norme CEDU: le norme costituzionali di riferimento.
Volendo anzitutto
analizzare il valore delle norme della Convenzione nell’ordinamento italiano,
le sentenze in oggetto muovono dalla premessa di individuare quali norme della
Carta costituzionale possono rilevare al riguardo. Si esclude anzitutto l'art.
10 della Costituzione sottolineandosi come questo si riferisce espressamente
alle norme di diritto internazionale generalmente riconosciute, cioè al diritto
internazionale consuetudinario, ed ai principi generali dell’ordinamento internazionale,
e pertanto non è applicabile alla Convenzione che, ovviamente, è diritto
pattizio e non consuetudinario. L’art. 10 che sancisce “l'adeguamento automatico dell'ordinamento interno alle norme di diritto
internazionale generalmente riconosciute, concerne esclusivamente i principi
generali e le norme di carattere consuetudinario …. mentre non comprende le
norme contenute in accordi internazionali che non riproducano principi o norme
consuetudinarie del diritto internazionale.” (sent. n. 349
par. 6.1) “Le norme pattizie, ancorché
generali, contenute in trattati internazionali bilaterali o multilaterali,
esulano pertanto dalla portata normativa del suddetto art.
Con tale affermazione,
peraltro ormai quasi unanimemente condivisa in dottrina, si respinge la tesi a
suo tempo affermata nella quale, il cosiddetto trasformatore automatico che
agisce per il diritto internazionale generale, dovrebbe altresì agire anche per
il diritto pattizio in quanto, tra le norme di diritto internazionale generale,
vi è certamente il principio pacta sunt
servanda, il cui rispetto ricondurrebbe anche il predetto diritto pattizio
nell’alveo dell’art. 10 e quindi, se l’ordinamento interno non si adattasse
tempestivamente alle norme pattizie, lo Stato violerebbe la predetta norma [4].
Escluso correttamente che
l'art. 10 possa trovare applicazione nel caso di specie,
La soluzione proposta
meriterebbe una approfondita analisi, che non può essere affrontata nei limiti
della presente nota. Un primo aspetto attiene alla nozione di “limitazioni” di
sovranità. Non è certo condivisibile, a mio avviso, l'affermazione “….non essendo individuabile, con riferimento
alle specifiche norme convenzionali in esame, alcuna limitazione della
sovranità nazionale», di cui alla sent. n. 349.
Non può ignorarsi, infatti, che qualsiasi trattato internazionale, ed in specie
Le limitazioni di
sovranità evocate nell'art. 11 sono ulteriormente condizionante dal carattere
di necessità (necessarie a...) per
l'istituzione ed il funzionamento di “un
ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le nazioni”. A
prescindere dalle ben note ragioni storiche che hanno indotto tale redazione
della norma, considerando che essa rimane immutata al giorno d'oggi, oltre al
carattere di necessità di cui sopra si è detto, le limitazioni di sovranità di
cui all'art. 11 debbono esser anzitutto operate nei confronti di “un
ordinamento” ed al riguardo la Corte conferma, a ragione, il carattere di
ordinamento riscontrabile nell'Unione Europea [6].
In tal caso, però, come
ho accennato, si tratterebbe piuttosto di “cessioni” di sovranità, le sole che abbisognano
di un ordinamento al quale trasferirle. Non altrettanto occorrerebbe, invece,
quando si tratta di una “limitazione” autonomamente accettata dallo Stato e che
non ha bisogno di alcun “ordinamento”, essendo pienamente sufficiente un mero
trattato internazionale che di per sé solo determina la limitazione. Ed è
questo certamente il caso della Convenzione europea in esame.
L'art. 11 poi impone
un'ulteriore condizione relativa alle finalità cui deve tendere l'indicato
ordinamento : “ assicurare la pace e la
giustizia fra le nazioni”.
Così come nel
Non può disconoscersi,
infatti, che pur non integrando, forse, la nozione di “ordinamento”, di cui
sopra, il sistema europeo di affermazione e protezione dei diritti umani, già
in essere da oltre cinquant'anni, si avvale di alcuni organi direttamente [7] o indirettamente [8] evocati nella Convenzione stessa la cui attività, come più
volte affermato dalla Corte, tende a costituire un “ordre public communautaire de libres démocraties d’Europe” - ordine
pubblico - che persegue l'obiettivo di “sauvegarder
leur patrimoine commun de traditions politiques, d’ideaux, de liberté et de
prééminence du droit” [9].
Ci si chiede poi se
Fermandosi
all'espressione letterale dell'art. 6 sembrerebbe che le norme della CEDU,
equiparate in quanto parte integrante, alle norme comunitarie, dovrebbero
ricevere nell'ordinamento italiano lo stesso trattamento di queste ultime.
In questa affermazione il
ragionamento della Corte appare largamente ispirato dalla Carta dei diritti
fondamentali adottata a Nizza, e peraltro esplicitamente richiamata, nella
quale è chiaramente indicato che le norme della stessa si applicano all'azione
delle Istituzioni comunitarie ed a quella degli Stati nei limiti
dell'applicazione del diritto comunitario (art.51).
Com'è noto tale adesione,
molte volte ostacolata in passato, era stata poi esplicitamente inserita nel
progetto di trattato per una Costituzione per l'Europa e figura oggi nel
progetto di trattato che dovrebbe essere adottato nel vertice di Lisbona nel
dicembre prossimo. Considerato che allo stato si tratta soltanto di un pactum de contrahendo non è agevole
approfondire il tema non sapendo quando e come le necessarie intese per
consentire l'adesione di cui sopra saranno realizzate. Se queste dovessero
limitarsi a ribadire i limiti all'applicabilità della normativa sui diritti
umani, già contenuti nella Carta dei diritti fondamentali, risolvendo soltanto
i problemi di competenza giurisdizionale fra le due Corti e dei rispettivi
meccanismi di ricorso, allora, probabilmente, le conclusioni che
Diversamente, invece,
qualora l'obbligo di rispettare i diritti umani, quali contenuti nella
Convenzione europea, si dovesse estendere alle attività degli Stati membri,
anche a prescindere dal limitato aspetto della attuazione del diritto
comunitario, con un obbligo del tutto equiparato a qualsiasi altra norma di
diritto comunitario, allora il problema della accennata “comunitarizzazione”
delle norme della Convenzione dovrebbe essere interamente rivisto.
Escluso pertanto che
l'art. 11 della Costituzione possa trovar applicazione nei confronti della
Convenzione europea, sia direttamente ma sia anche indirettamente, attraverso
l'accennato tramite comunitario, il problema del valore delle norme CEDU
nell'ordinamento italiano viene riproposto sulla base delle tradizionali
considerazioni applicabili a qualunque trattato di internazionale. Ricorda,
infatti,
La Corte evoca i vari
tentativi precedentemente esperiti per considerare le norme CEDU quali norme di
particolari resistenza [10], evoca, analogamente, altri
tentativi proposti per salvaguardare l'autorità della Convenzione stessa, ma
senza alcun particolare approfondimento, sostenendo che l'art. 117 introduce
ormai un esplicito limite alla attività normativa dello Stato, e quindi
contiene sufficienti elementi per esaminare, sotto un nuovo profilo, il valore
delle norme CEDU nell'ordinamento italiano.
3. L’art. 117 ed i
parametri di riferimento per i limiti alla potestà legislativa.
Richiamando il testo
dell'art. 117
Ad una testuale lettura,
tuttavia, non sembra che relativamente al solo art. 117 si possa ravvisare una
diversa posizione dell'ordinamento comunitario rispetto agli altri obblighi
internazionali. E ciò in quanto i due limiti vengono menzionati con una
congiunzione - “e”- , e senza alcuna ulteriore specificazione. Ne consegue che,
letteralmente, l'azione normativa interna può dar luogo ad atti in contrasto
con l'ordinamento comunitario, così come può dar luogo ad atti in contrasto con
gli altri obblighi internazionali derivanti da un qualunque trattato.
La differenza dei due
limiti menzionati -diritto comunitario e obblighi internazionali-, non è
ricavabile direttamente dall'art. 117 ma solo dall'art. 11 richiamato. In altri
termini se, per effetto dell'art. 117 il legislatore italiano non può adottare
norme in contrasto con il diritto comunitario, essendosi realizzata una
limitazione di sovranità (meglio “cessione”) a favore della Comunità, come già
chiarito in applicazione dell'art. 11, vi sono altresì, per effetto di tale
cessione, dei limiti che impediscono allo Stato non soltanto di legiferare in
maniera difforme ma di legiferare su determinate materie per le quali si è
attribuita una competenza esclusiva alla Comunità.
In questo senso è ben diverso l'effetto del
limite del diritto comunitario rispetto a quello derivante dagli altri obblighi
internazionali; ma tale effetto non è riconducibile all'art. 117 che, a mio
avviso, non pone alcuna differenza fra i due limiti, bensì dell'art. 11 già
citato. Non solo, ma quando si interpreta l'art. 117 per valutare come si può
risolvere il caso nel quale la normativa interna confligge con la predetta
norma per essere in contrasto con il diritto comunitario o con gli obblighi
internazionali, anche sotto tale profilo, la differenza tra i due limiti rileva
in quanto, in relazione al diritto comunitario è stata ormai acclarata dalla
stessa Corte, con numerose pronunce, la supremazia del diritto comunitario
rispetto al diritto interno e quindi la conseguenza, in ipotesi, è la
disapplicazione della norma interna confliggente.
Ma se ciò si applica,
almeno a partire dal 1984, soltanto nei confronti del diritto comunitario, lo
stesso principio non è certo applicabile nei confronti del contrasto con
qualunque altra norma di diritto internazionale. La soluzione di questo
contrasto deve essere trovata altrove. Ed è a questo punto che
Considerando il
richiamato limite derivante dagli obblighi di diritto internazionale e quindi
il potenziale contrasto di una norma interna con gli stessi, la Corte esclude,
anzitutto, che tale contrasto possa essere risolto mediante la disapplicazione
della norma confliggente, evocando al riguardo quanto già richiamato in ordine
alla supremazia del diritto comunitario [13]. Con tale affermazione la Corte
indirettamente respinge la tesi, già formulata in alcune pronunce della Corte
di Cassazione e da ultimo nella sent. n. 2800 del 1/12/2006-25/1/2007, nella
quale la Corte di Cassazione, ritenendo prevalente la norma della Convenzione,
annulla il provvedimento emanato in base alla norma interna in contrasto [14].
In assenza di una
gerarchia di norme chiaramente accertata, come nel caso del diritto
comunitario, la Corte ritiene che gli obblighi derivanti da norme
internazionali costituendo, così come evocato dall'articolo 117, un limite
all'attività normativa dello Stato, si pongono in una posizione intermedia tra
le norme costituzionali e le norme ordinarie [15].
L'affermazione, riferita naturalmente
alla Convenzione CEDU, si applica, a mio avviso, a qualunque obbligo
internazionale e quindi a qualunque norma di diritto internazionale pattizio
che pone obblighi nei confronti degli Stati contraenti. Viene così modificata
la precedente affermazione della giurisprudenza della Corte, e poi anche dalla
conforme dottrina, nella quale si sosteneva che le norme di diritto
internazionale pattizio, introdotte in Italia con provvedimento normativo,
hanno lo stesso valore e rango delle norme interne che vi hanno dato
esecuzione. Oggi questa affermazione non è più corretta perché, attraverso
l’art. 117, le norme internazionali rappresentano un limite alle norme interne
che non possono per ciò stesso, non solo abrogarle o modificabile, ma tanto
meno derogarle, e quindi hanno un rango superiore alle norme interne per
effetto del richiamato art. 117 [16].
Affermato così il
carattere delle norme della Convenzione europea, come limite all’attività
normativa interna,
4. Gli effetti della
interpretazione della Corte europea per la determinazione del parametro di
riferimento.
Al riguardo la Corte
ricorda che nel sistema della Convenzione europea gli Stati hanno istituito uno
specifico organo giurisdizionale -la Corte europea dei diritti dell’uomo-
attribuendo alla stessa l'esclusiva competenza per interpretare le norme della
Convenzione [17]. La Corte ricorda altresì come le norme della Convenzione ed
in genere qualsiasi norma di diritto, vivono in relazione alla interpretazione
che alla norma stessa viene data; e ciò assume particolare rilievo nella
Convenzione europea in funzione della interpretazione che delle stesse viene
progressivamente formulata dalla Corte di Strasburgo [18].
5. La conseguente analisi
di conformità delle norme CEDU alla Costituzione.
L'idea di un
bilanciamento tra vincolo derivante dalla CEDU e vincolo derivante da altre
norme costituzionali, che non viene ulteriormente specificato nel prosieguo
della sentenza, appare in contrasto con il successivo schema proposto ed
utilizzato nella stessa sentenza, secondo il quale
Il secondo passaggio
dello schema proposto tende a verificare se “ le norme CEDU invocate come integrazione del parametro
nell’interpretazione ad esse data dalla stessa Corte, siano compatibili con
l’ordinamento costituzionale italiano”.
In tale successione di
analisi non sembra ipotizzabile alcun bilanciamento dal momento che il
parametro di riferimento della prima analisi è soltanto la norma della
Convenzione e quindi l'analisi può condurre soltanto ad un risultato di
conformità o, al contrario, di difformità; mentre la seconda analisi tende a
sua volta a verificare la compatibilità della norma della Convenzione con
l'intera Costituzione, ed ancora una volta il risultato di tale esame può
essere soltanto di conformità ovvero, in senso opposto, di non conformità. In
quest'ultimo caso, come si dirà, la Corte anticipa che “nell'ipotesi di una norma interposta che risulti in contrasto con una
norma costituzionale, questa Corte ha il dovere di dichiarare l'inidoneità della
stessa ad integrare il parametro, provvedendo, nei modi rituali, ad espungerla
dall'ordinamento giuridico italiano” [20] , il che equivale a dire che occorre
denunciare la Convenzione, nei termini e nei modi dalla stessa previsti, per
sottrarsi agli obblighi dichiarati contrari alla Costituzione.
In questo schema logico
non sembra possa trovare alcuno spazio un bilanciamento dei limiti posti dalla
norma della Convenzione rispetto a quelli posti dalla Costituzione. La norma
interna deve rispettare i primi per effetto dell’art. 117, ma deve rispettare
altresì l'intera Costituzione. Perché la soluzione possa essere univoca occorre
che ambedue i limiti conducano al medesimo risultato, e che, di conseguenza, la
norma CEDU sia compatibile con
Di bilanciamento tra i
due parametri si può parlare solo nei limiti in cui la norma CEDU lascia un
margine di apprezzamento discrezionale agli Stati; ed è questo il caso del
problema concreto evocato in sentenza, in materia di esproprio, almeno per
alcune modalità dell'esproprio stesso, nel qual caso la specifica norma
convenzionale può essere applicata in Italia tenendo conto anche di altri
eventuali esigenze nazionali; ma tale possibilità non è effetto di un
bilanciamento interpretativo, ma solo della interpretazione della norma
convenzionale che lascia un margine di apprezzamento allo Stato e quindi
riduce, se così si può dire, il vincolo dell'obbligo internazionale che costituisce
il parametro dell'art. 117 della Costituzione. Qualora la norma CEDU,
nell'interpretazione fornita dalla Corte, non consenta alcun margine di
apprezzamento, allora il bilanciamento è impossibile e si tratterà soltanto di
valutare se la norma convenzionale presenti effettivamente un contrasto con
l'ordinamento costituzionale italiano, nel qual caso è inevitabile che lo Stato
italiano si sottragga all’obbligo internazionale assunto.
La Corte non affronta il
problema della interpretazione di obblighi internazionali derivanti da accordi
internazionali per i quali non è stato istituito uno specifico organo
giurisdizionale o di altra natura per interpretare le norme stesse, ma fa
riferimento soltanto ai casi nei quali l'interpretazione nasca da un metodo di
risoluzione delle controversie [21]. Atteso il riconoscimento
dell'autorità della giurisprudenza della Corte europea, ancorché questa sia
esplicitamente prevista nella Convenzione stessa, si può ritenere che analogo
ragionamento valga per le pronunce di organi eventualmente istituiti per la
soluzione controversie, dalle quale generalmente scaturisce l’obbligo
internazionale di rispettarle.
Rimanendo in tema di
diritti umani sarebbe, poi, da chiedersi quale soluzione potrà applicarsi nel
caso di accordi internazionali che hanno istituito organi di controllo che non
hanno carattere giurisdizionale, ma che, applicando le norme della Convenzione
di riferimento, sono inevitabilmente indotti ad interpretare le norme stesse,
ancorché non ne abbiano una esplicita competenza esclusiva. Mi riferisco, ad
esempio, al Comitato delle Nazioni Unite per il Patto sui diritti civili e
politici, nonché ai diversi comitati istituiti nell'ambito di singole
convenzioni sia a livello Nazioni Unite ( discriminazione, donne, fanciulli
ecc), sia in ambito Consiglio d'Europa ( discriminazione, tortura, etc). In
tali casi è da auspicare che il ragionamento formulato dalla Corte in base al
quale la norma CEDU deve essere valutata così come interpretata dalla Corte di
Strasburgo, sia logicamente esteso anche alle norme di altre convenzioni, così
come interpretate dagli organi istituiti nell'ambito delle convenzioni stesse.
Applicando quanto precede
al caso di specie, e quindi all'art. 1 del primo Protocollo, così come
interpretato dalla Corte europea, la Corte costituzionale conferma che questo
rappresenta un limite per l'ordinamento italiano in quanto lo Stato italiano,
pur potendolo fare, non ha formulato alcuna riserva al riguardo né tanto meno
ha denunciato il Protocollo che rimane ovviamente vigente [22].
6. Il contrasto fra le
norme interne e l’art. 117 della Costituzione.
Affrontando l'aspetto
concreto del seguito da dare, qualora una norma interna sia ritenuta
confliggente con una norma della Convenzione europea,
Qualora ciò sia
impossibile e rimanga pertanto il contrasto fra le due norme, il giudice, come
ricordato, non può disapplicare la norma nazionale a favore di quella europea
per le ragioni sopra esposte, ma deve rilevare il contrasto con l'art. 117
della Costituzione e quindi promuovere l'intervento della Corte costituzionale [23]. Spetterà soltanto a quest'ultima,
con il procedimento di cui sopra, procedere eventualmente, alla dichiarazione
di incostituzionalità della norma interna in contrasto; si ripropone cioè la
tesi già affermata dalla stessa Corte costituzionale con la sent. 30 ottobre
1975 n. 232, confermata in altre sentenze successive, in ordine al diritto
comunitario, ed in base alla quale l'incompatibilità della norma interna con il
diritto comunitario doveva essere sollevata di fronte la Corte costituzionale
spettando soltanto a quest'ultima far prevalere la norma comunitaria mediante
la dichiarazione di incostituzionalità della norma interna in contrasto [24]. E’ ben noto come questa tesi non
piacque poi alla Corte europea, (sentenza
“Simmenthal” del 9 marzo 1978)
perché contrastante con l'effetto immediato del diritto comunitario, ed aprì la
strada alla pronuncia del 1984 ( sent. 8 giugno 1984
n. 170) che affermò la diretta applicabilità, l'efficacia immediata e la
supremazia del diritto comunitario sul diritto interno.
Le sentenze in esame contengono
altresì un interessante rilievo in ordine all'obbligo di esecuzione delle
sentenze della Corte europea derivante dall'art. 46 della Convenzione. Con
riferimento al caso di specie, infatti, viene citata la sentenza della Grande
Camera della Corte europea, con la quale
7. L’esecuzione delle
sentenze della Corte europea.
Il richiamo alle sentenze
della Corte europea meriterebbe un ulteriore approfondimento perché, oltre alle
funzioni di queste ultime intese ad interpretare le norme della Convenzione e
sulle quali
Tale aspetto della
sentenza europea ha acquisito una particolare rilevanza negli ultimi anni da
quando cioè
L'art. 46 della
Convenzione prevede l'obbligo generale di dare esecuzione alle sentenze, che si
concreta poi nell’obbligo specifico che deriva dalla singola sentenza alla
quale lo Stato deve dare esecuzione. In concreto, pertanto, l'eventuale
contrasto con l'ordinamento interno non si porrà nei confronti dell'obbligo
astratto di dare esecuzione alle sentenze, quanto al predetto obbligo riferito
ad una specifica sentenza e quindi, in concreto, alle indicazioni contenute
nella sentenza stessa. Ora, quando
Qualora poi
Qualora, invece, la
contrarietà sia specifica dell'atto amministrativo e non della norma sulla cui
base lo stesso è stato adottato, si pone un apparente problema perché l'art.
117 richiama esplicitamente la funzione legislativa e non altro. È noto però
che le sentenze della Corte europea, come richiamato, si rivolgono allo Stato
nella sua unità di soggetto internazionale e quindi il soggetto obbligato a
dare esecuzione alla sentenza è lo Stato in tutte le sue componenti e, nel caso
di specie, l'autorità amministrativa che ha adottato l'atto in questione. È da
ritenersi, pertanto, che la subordinazione dell'atto amministrativo
autonomamente inteso, non implicante cioè il rinvio ad altra norma
dell'ordinamento, derivi comunque dalla corretta interpretazione dell'art. 117
e ciò in quanto se gli obblighi internazionali evocati dalla norma
costituzionale, e nella specie quindi le norme CEDU, costituiscono un limite
dell'attività legislativa dello Stato e delle Regioni e quindi un parametro di
riferimento per dichiarare l'eventuale incostituzionalità delle norme in
contrasto, a maggior ragione ciò deve applicarsi nei confronti di un atto
amministrativo o regolamentare subordinato alla l., quale è appunto l'atto
amministrativo in ipotesi incriminato.
Al contrario, qualora l’atto
amministrativo incriminato fosse conforme alla l. interna che lo prevede o lo
autorizza, ed il contrasto con le norme CEDU fosse rinvenibile nella predetta
l., ci troveremmo, allora, in altra ipotesi di applicazione dell'art. 117 e del
procedimento individuato dalla Corte costituzionale giacché il contrasto,
apparentemente rilevato nei confronti del provvedimento amministrativo, sarebbe
in realtà insito nella norma che tale provvedimento ha originato.
Le sentenze della Corte
europea possono anche rilevare che la violazione di un obbligo
internazionalmente assunto dallo Stato derivi non tanto da atti normativi o
amministrativi dello Stato stesso, quanto dal comportamento assunto da taluni
organi, in assenza di specifiche previsioni normative, o ancora dalla lacuna
normativa al riguardo. In tali casi la sentenza può invitare lo Stato ad
adottare quei provvedimenti normativi o amministrativi necessari ad evitare che
una situazione di carenza possa determinare il perdurare della violazione della
Convenzione.
Sul piano internazionale
l'obbligo di dare esecuzione alla sentenza si rivolge allo Stato e quindi sarà
il Comitato dei ministri a sorvegliare l'attività dello Stato in maniera da
verificare se e quando la sentenza sia stata eseguita mediante l’adozione delle
misure indicate.
Sul piano interno occorre
verificare se l'art. 117 sopra esaminato possa contribuire a risolvere il
problema. Se da una parte, infatti, l'articolo impone allo Stato ed alle
Regioni di legiferare in maniera conforme agli obblighi internazionali assunti,
è da chiedersi se analogo obbligo sussista quando il problema riguarda una
normativa dovuta, o meglio richiesta dalla sentenza della Corte europea e non
realizzata. Credo che l'obbligo imposto dalla norma costituzionale, di cui è stata
acclarata la valenza ed il significato di limite alla normativa interna, debba
essere utilizzato anche nei confronti di una carenza di azione e ciò perché
quest'ultima, una volta accertata nella sentenza della Corte europea,
costituisce il parametro di riferimento per valutare, nel caso concreto,
l'obbligo imposto allo Stato dall'art. 46 della Convenzione, cioè dare
esecuzione alla sentenza. E’ implicito, poi, che le indicazioni contenute in
sentenza circa l’obiettivo della normativa da adottare rappresentano un limite
costituzionale (ex art. 117)
all’attività dello Stato.
Naturalmente, trattandosi
di un obbligo di fare, il problema si sposta sul momento e sulle condizioni
nelle quali sorge la responsabilità dello Stato per il mancato adempimento. Se
questa, cioè, debba attendere un ragionevole lasso di tempo, ovvero ancora se
da questa carenza debba attendersi una conseguenza che incida su interessi e
diritti soggettivi che potrebbero essere fatti valere nelle sedi appropriate.
Qualora, poi, la norma della Convenzione lo consenta si potrebbe anche
ipotizzare una diretta applicazione della norma europea allo scopo di colmare
la lacuna evidenziata con la sentenza, e ciò quando il ritardo dello Stato nel
dare esecuzione alla sentenza adottando la normativa richiesta, possa
determinare il perdurare delle violazioni. L’accennato problema della
responsabilità dello Stato meriterebbe un approfondimento ulteriore che non
rientra nei limiti della presente nota. È certo però che, a mio avviso, oltre
all'obbligo internazionale esistente per lo Stato e monitorato, come sappiamo,
dal Comitato dei ministri del Consiglio d'Europa, la cui azione sarà resa più
incisiva dall'entrata in vigore del Protocollo 14[27],
anche sul piano interno, per effetto dell'art. 117 della Costituzione, sussiste
l'obbligo per lo Stato di dare esecuzione alla sentenza della Corte europea e
la conseguente responsabilità per inadempimento.
8. Il rilevato
contrasto con l’art. 117 nel caso sottoposto alla Corte costituzionale.
Con riferimento
all'oggetto specifico dell’accertamento, - il meccanismo del calcolo
dell'indennità di esproprio -, le sentenze differiscono parzialmente in quanto
la 349, come si è detto, esamina il calcolo applicabile alla occupazione
acquisitiva, mentre la 348 si occupa delle altre forme di esproprio. Ne
consegue che la sent.
n. 349 conclude nel senso che “…
essendosi consolidata l'affermazione della illegittimità nella fattispecie in
esame di un ristoro economico che non corrisponda al valore reale del bene, la
disciplina della liquidazione del danno stabilita dalla norma nazionale
censurata si pone in contrasto, insanabile in via interpretativa, con l'art. 1
del Protocollo addizionale, nell'interpretazione datane dalla Corte europea; e
per ciò stesso viola l'art. 117, primo comma, della Costituzione. D'altra parte, la norma
internazionale convenzionale così come interpretata dalla Corte europea, non è
in contrasto con le conferenti norme della nostra Costituzione.” [28]
La sent. n. 348,
invece, dopo aver affermato che la norma censurata “ la quale prevede un'indennità oscillante, nella pratica, tra il 50 ed
il 30 per cento del valore di mercato del bene – non supera il controllo di
costituzionalità in rapporto al «ragionevole legame» con il valore venale,
prescritto dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo e coerente, del
resto, con il «serio ristoro» richiesto dalla giurisprudenza consolidata di
questa Corte. (par. 5.7); aggiunge che non emergono profili di
incompatibilità tra la norma europea e l'ordinamento italiano, con particolare
riferimento all'articolo 42 della Costituzione. Ed
è proprio su questo aspetto che la sentenza stessa sviluppa aggiuntive
considerazioni de lege ferenda, (non nuove per la verità
nell'operato della Corte), affermando che il legislatore ” non ha il dovere di
commisurare integralmente l'indennità di espropriazione al valore di mercato
del bene ablato. L'art. 42 Cost. prescrive alla l. di riconoscere e garantire
il diritto di proprietà, ma ne mette in risalto la «funzione sociale».(par.
5.7), e, ad avviso della Corte, ciò sarebbe consentito, in applicazione di quel
margine di apprezzamento riconosciuto allo Stato. “Valuterà il legislatore se l'equilibrio tra l'interesse individuale dei
proprietari e la funzione sociale della proprietà debba essere fisso e
uniforme, oppure, in conformità all'orientamento della Corte europea, debba
essere realizzato in modo differenziato, in rapporto alla qualità dei fini di
utilità pubblica perseguiti. Esiste la possibilità di arrivare ad un giusto
mezzo, che possa rientrare in quel «margine di apprezzamento», all'interno del
quale è legittimo, secondo la costante giurisprudenza della Corte di
Strasburgo, che il singolo Stato si discosti dagli standard previsti in via
generale dalle norme CEDU, così come interpretate dalle decisioni della stessa
Corte.( par. 5.7)
9. Considerazioni
conclusive.
Le sentenze esaminate
hanno il rilevante merito di aver risolto, anzitutto, il problema sollevato
dalla Corte europea in relazione al caso esaminato, e cioè l’incompatibilità
della normativa italiana relativa al calcolo della indennità di esproprio, ma,
più in generale, di aver riconosciuto l'obbligo, per l'ordinamento italiano, di
conformarsi alle norme della Convenzione europea, nella interpretazione che
delle stesse viene fornita data dalla Corte Strasburgo.
Le affermazioni
risolutive delle sentenze, senza ripetere le argomentazioni e le specificazioni
sopra esaminate, possono essere sinteticamente riassunte in tre punti
essenziali:
1. Le norme della
Convenzione europea nell'ordinamento italiano hanno valore di norme interposte
(fra le leggi e
2.
3. Le norme interne vanno
interpretate, per quanto possibile, conformemente alle norme della Convenzione
europea. Se questo esercizio non permette di risolvere il contrasto con
Il carattere innovativo
delle affermazioni contenute nelle sentenze potrebbe costituire la base di
successive interpretazioni, alcune implicitamente ricavabili dalle affermazioni
già evocate, altre, invece, che necessitano di rielaborazioni intese, ci si
augura, ad un sempre più efficace adeguamento dell'ordinamento italiano
all’ordine pubblico europeo dei diritti dell'uomo, che deve rappresentare un
parametro costituzionale, comune per tutti gli Stati parti contraenti della
Convenzione. In tale prospettiva sembra naturale, anzitutto, estendere
l'obbligo di cui all’art. 117 allo Stato nel suo complesso, e quindi, da una
parte, a tutte le attività, quale che sia il carattere normativo amministrativo
o altro delle stesse, e dall'altra, in relazione ad ogni attività e
comportamento di organi e soggetti, comunque riconducibili allo Stato a livello
internazionale.
Analoga interpretazione
dell'obbligo di cui alla richiamata disposizione dovrebbe essere estesa,
altresì, ad ogni ipotesi di carenza normativa, o di altra natura, riscontrata
dalla Corte europea come causa di violazione di norme convenzionali,
ipotizzandosi, al riguardo, l'applicazione diretta della norma convenzionale,
qualora lo Stato non provveda ad adottare gli atti richiesti, e sempre che la
norma della Convenzione consenta di colmare la lacuna dell'ordinamento interno
ed evitare, di conseguenza, il perdurare della violazione.
In relazione, poi, alla
rinnovata e controversa interpretazione dell'art. 11 della Costituzione, in una
ulteriore riflessione, sarebbe auspicabile pervenire alla diretta applicabilità
delle norme della Convenzione europea ed alla loro conseguente superiorità
rispetto al diritto interno utilizzando, da un lato, gli elementi desumibili
dalle finalità poste dall'articolo stesso per le limitazioni della sovranità, e
dall'altro, il carattere di ordine pubblico europeo riscontrabile non solo
nella Convenzione e nei suoi Protocolli, ma anche in tutto il sistema europeo
di affermazione e protezione dei diritti dell'uomo. Al riguardo, infine, anche
l'art. 2 della Costituzione, che nel caso di specie non è stato in alcun modo
evocato, potrebbe essere un utile riferimento a complemento del carattere
primario delle norme sui diritti umani.
Il lento processo seguito
dalla Corte costituzionale per arrivare alle ben note affermazioni in tema di
diritto comunitario, lascia ben sperare e può costituire, al riguardo, un utile
precedente. Anche le reiterate affermazioni della Corte di cassazione,
mostrando la disponibilità, almeno di una parte della magistratura, a proporre
ed accettare soluzioni del tutto innovative, vanno nella direzione auspicata.
Infine, anche l'opinione pubblica accetterebbe, certo, più volentieri la
subordinazione dello Stato ad una tutela europea dei diritti umani, di quanto
non abbia fatto oggi in relazione all'ordinamento comunitario.
Roma, 9 novembre 2007.
* Ordinario di diritto internazionale nell’Università di Roma
«La Sapienza».
[1] «Pour aider l’Etat défendeur à remplir ses
obligations au titre de l’article 46, la Cour a cherché à indiquer le type de
mesures que l’Etat italien pourrait prendre pour mettre un terme à la situation
structurelle constatée en l’espèce. Elle estime que l’Etat défendeur devrait,
avant tout, supprimer tout obstacle à l’obtention d’une indemnité en rapport
raisonnable avec la valeur du bien exproprié, et garantir ainsi par des mesures
légales, administratives et budgétaires appropriées la réalisation effective et
rapide du droit en question relativement aux autres demandeurs concernés par
des biens expropriés, conformément aux principes de la protection des droits
patrimoniaux énoncés à l’article 1 du Protocole no 1, en particulier aux
principes applicables en matière d’indemnisation (paragraphes 93-98 ci-dessus)»
(sentenza
« Scordino » Grande Camera, 26 marzo 2006 par. 237) .
[2] “Sul primo punto deve considerarsi
ormai acquisito, il principio della immediata precettività delle norme della
Convenzione europea dei diritti dell’uomo. La giurisprudenza di legittimità “ha
espressamente riconosciuto la natura sovraordinata alle norme della Convenzione
sancendo l’obbligo per il giudice di disapplicare la norma interna in contrasto
con la norma pattizia dotata di immediata precettività nel caso concreto”
(Cassazione, Su civili, 28507/05). Ed ha concluso il caso di specie dichiarando
“ l’inefficacia dell’ordine di carcerazione emesso in esecuzione della sent. 3
ottobre 1994 della Corte di Assise di Udine, irrevocabile il 27 marzo 1996, nei
confronti di Dorigo Paolo”.(sent. Cass, Pen. I del 1.12.2006 -25. 1.2007 n.
2800).
[3] Le riflessioni che seguono sono
limitate agli aspetti internazionalistici delle sentenze e rinviano ad altri il
commento in ordine alla materia dell’indennità di esproprio.
[4] Si fa riferimento alla posizione
assunta anzitutto da QUADRI (Diritto
internazionale pubblico, Palermo 1956 p. 62 ss) che afferma l’esistenza
nell’art. 10 di un adattamento automatico “globale” comprendente anche il
diritto pattizio.
[5] “Con l'adesione ai Trattati
comunitari, l'Italia è entrata a far parte di un “ordinamento” più ampio, di
natura sopranazionale, cedendo parte della sua sovranità, anche in riferimento
al potere legislativo, nelle materie oggetto dei Trattati medesimi, con il solo
limite dell'intangibilità dei principi e dei diritti fondamentali garantiti
dalla Costituzione.
La Convenzione EDU,
invece, non crea un ordinamento giuridico sopranazionale e non produce quindi
norme direttamente applicabili negli Stati contraenti. Essa è configurabile
come un trattato internazionale multilaterale – pur con le caratteristiche
peculiari che saranno esaminate più avanti – da cui derivano “obblighi” per gli
Stati contraenti” (sent. n. 348
par. 3.3).
“In riferimento alla
CEDU, questa Corte ha, inoltre, ritenuto che l'art. 11 Cost. «neppure può
venire in considerazione non essendo individuabile, con riferimento alle
specifiche norme convenzionali in esame, alcuna limitazione della sovranità
nazionale»….. Va inoltre sottolineato che i diritti fondamentali non possono
considerarsi una “materia” in relazione alla quale sia allo stato ipotizzabile,
oltre che un'attribuzione di competenza limitata all'interpretazione della
Convenzione, anche una cessione di sovranità”. (sent. n. 349
par. 6.1).
[6] Si noti fra l’altro come
coraggiosamente la Corte citi l’UE come un ordinamento di “…natura sopranazionale..” (sent. n. 348,
vedi anche nota 5).
[7] Oltre alla Corte europea, il
Segretario Generale ed il Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa.
[8] l'Assemblea parlamentare, il
Commissario per i diritti umani ed i diversi Comitati di esperti in materia,
sempre nell'ambito del Consiglio d'Europa.
[9] Principi già sostenuti dalla
Commissione europea dei diritti dell'uomo nel caso Austria/ Italia in Ann.
vol. 4. 117.
[10] È rimasto senza seguito il
precedente secondo il quale le norme in esame deriverebbero da «una fonte
riconducibile a una competenza atipica» e, come tali, sarebbero «insuscettibili
di abrogazione o di modificazione da parte di disposizioni di l. ordinaria» (sent. n. 349
par. 6.1.1).
[11] “Escluso che l'art. 117, primo
comma, Cost., nel nuovo testo, possa essere ritenuto una mera riproduzione in
altra forma di norme costituzionali preesistenti (in particolare gli artt. 10 e
11), si deve pure escludere che lo stesso sia da considerarsi operante soltanto
nell'ambito dei rapporti tra lo Stato e le Regioni.” (sent. n. 348
par. 4.4).
[12] “Il dovere di rispettare gli
obblighi internazionali incide globalmente e univocamente sul contenuto della
l. statale; la validità di quest'ultima non può mutare a seconda che la si
consideri ai fini della delimitazione delle sfere di competenza legislativa di
Stato e Regioni o che invece la si prenda in esame nella sua potenzialità
normativa generale”. (sent. n. 348
par. 4.4).
[13] “Tale situazione di incertezza ha
spinto alcuni giudici comuni a disapplicare direttamente le norme legislative
in contrasto con quelle CEDU, quali interpretate dalla Corte di Strasburgo. S'è
fatta strada in talune pronunce dei giudici di merito, ma anche in parte della
giurisprudenza di legittimità (Cass., sez. I, sent. n. 6672 del 1998; Cass.,
sezioni unite, sent. n. 28507 del 2005), l'idea che la specifica antinomia
possa essere eliminata con i normali criteri di composizione in sistema delle
fonti del diritto. In altre parole, si è creduto di poter trarre da un asserito
carattere sovraordinato della fonte CEDU la conseguenza che la norma interna
successiva, modificativa o abrogativa di una norma prodotta da tale fonte,
fosse inefficace, per la maggior forza passiva della stessa fonte CEDU, e che
tale inefficacia potesse essere la base giustificativa della sua non applicazione
da parte del giudice comune.” (sent. n. 348
par. 4.3).
[14]
“In applicazione di tale principio di diritto, poiché la decisione non richiede
accertamenti di fatto e valutazioni di merito, deve pronunciarsi l’annullamento
senza rinvio dell’ordinanza impugnata ai sensi dell’articolo 620 lettera l)
c.p.p. e, per l’effetto, deve dichiararsi l’inefficacia dell’ordine di
carcerazione emesso in esecuzione della sent. 3 ottobre 1994 della Corte di
Assise di Udine, irrevocabile il 27 marzo 1996, nei confronti di Dorigo Paolo,
con i provvedimenti consequenziali”. (sent. n. 349
par. 6.2).
[15] “ Con l'art. 117, primo comma, si è
realizzato, in definitiva, un rinvio mobile alla norma convenzionale di volta
in volta conferente, la quale dà vita e contenuto a quegli obblighi
internazionali genericamente evocati e, con essi, al parametro, tanto da essere
comunemente qualificata “norma interposta” (sent. n. 349
par. 6.2).
[16] “Il parametro costituzionale in
esame comporta, infatti, l'obbligo del legislatore ordinario di rispettare
dette norme, con la conseguenza che la norma nazionale incompatibile con la
norma della CEDU e dunque con gli “obblighi internazionali” di cui all'art.
117, primo comma, viola per ciò stesso tale parametro costituzionale.” (sent. n. 349
par. 6.2) “il parametro costituito dall'art. 117, primo comma, Cost. diventa
concretamente operativo solo se vengono determinati quali siano gli “obblighi
internazionali” che vincolano la potestà legislativa dello Stato e delle
Regioni. Nel caso specifico sottoposto alla valutazione di questa Corte, il
parametro viene integrato e reso operativo dalle norme della CEDU, la cui
funzione è quindi di concretizzare nella fattispecie la consistenza degli
obblighi internazionali dello Stato”. (sent. n. 348
par. 4.6).
[17] “L'interpretazione della Convenzione
di Roma e dei Protocolli spetta alla Corte di Strasburgo, ciò che solo
garantisce l'applicazione del livello uniforme di tutela all'interno
dell'insieme dei Paesi membri.” (sent. n. 349
par. 6.2).
[18]
“Poiché le norme giuridiche vivono nell'interpretazione che ne danno gli
operatori del diritto, i giudici in primo luogo, la naturale conseguenza che
deriva dall'art. 32, paragrafo 1, della Convenzione è che tra gli obblighi
internazionali assunti dall'Italia con la sottoscrizione e la ratifica della
CEDU vi è quello di adeguare la propria legislazione alle norme di tale trattato,
nel significato attribuito dalla Corte specificamente istituita per dare ad
esse interpretazione ed applicazione.” (sent. n. 348
par. 4.6).
[19] Nell’intervento proposto
dall’Avvocatura dello Stato per la Presidenza del Consiglio dei ministri (atto
Ct.3055406 del 6 novembre 2006) non soltanto si ignora, ma altresì si contesta
la competenza esclusiva della Corte europea “… sembra necessario richiedersi,
prima di tutto, se davvero la giurisprudenza della CEDU possa, attraverso
l'interpretazione, imporre agli Stati stipulanti di considerare ridotte o
espanse le norme convenzionali, in una sorta di diritto di esclusiva che
farebbe premio sia si procedimento di formazione patti internazionali sia sulla
diretta interpretazione del giudice nazionale.”….. “la pretesa della CEDU di
disporre un simile preteso potere creativo di norme di natura convenzionale
vincolanti non ha spazio alcuno nel diritto internazionale generale”
[20] Sent. n. 348
par 4.7
[21] “la rilevanza di quest'ultima, (la
CEDU) così come interpretata dal “suo” giudice, rispetto al diritto interno è
certamente diversa rispetto a quella della generalità degli accordi internazionali,
la cui interpretazione rimane in capo alle Parti contraenti, salvo, in caso di
controversia, la composizione del contrasto mediante negoziato o arbitrato o
comunque un meccanismo di conciliazione di tipo negoziale.” (sent. n. 349
par. 6.2).
[22] “Gli stessi Stati membri, peraltro,
hanno significativamente mantenuto la possibilità di esercitare il diritto di riserva
relativamente a questa o quella disposizione in occasione della ratifica, così
come il diritto di denuncia successiva, sì che, in difetto dell'una e
dell'altra, risulta palese la totale e consapevole accettazione del sistema e
delle sue implicazioni.” (sent. n. 349
par. 6.2).
[23] “Al giudice comune spetta
interpretare la norma interna in modo conforme alla disposizione
internazionale, entro i limiti nei quali ciò sia permesso dai testi delle
norme. Qualora ciò non sia possibile, ovvero dubiti della compatibilità della
norma interna con la disposizione convenzionale 'interposta', egli deve
investire questa Corte della relativa questione di legittimità costituzionale
rispetto al parametro dell'art. 117, primo comma, come correttamente è stato
fatto dai rimettenti in questa occasione.” (sent. n. 349
par. 6.2).
[24] “Di fronte alla situazione
determinata dalla emanazione di norme legislative italiane…che comporta una
violazione indiretta dell’art. 11 Cost. e rende pertanto costituzionalmente
illegittime tali norme interne…….il giudice è tenuto a sollevare la questione
della loro legittimità costituzionale” sent. 30 ottobre
1975 n. 232.
[25] Sentenza
della Grande Camera del 29 marzo 2006, par. 239. La stessa posizione, come
è noto, è stata più volte manifestata dalla prima Sezione della Cassazione
penale “ il Collegio ritiene di dover ribadire il principio per cui il giudice
italiano è tenuto a conformarsi alle sentenze pronunciate dalla stessa Corte
(europea) e, per conseguenza deve riconoscere il diritto al nuovo processo
anche se ciò comporta la necessità di mettere in discussione, attraverso il
riesame o la riapertura del procedimento penale, l'intangibilità del giudicato”
(Cass. sez. pen. sent. “Somogy” n.
32678/06) ; e ancora: ” il giudice dell'esecuzione deve dichiarare a norma
dell'articolo 670 Cpp l’ineseguibilità del giudicato quando la Corte europea
per i diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali abbia accertato che la
condanna è stata pronunciata per effetto della violazione delle regole sul
processo equo sancite dall'art. 6 della Convenzione europea ed abbia
riconosciuto il diritto del condannato alla rinnovazione del giudizio, anche se
il legislatore abbia omesso di introdurre nell'ordinamento in mezzo idoneo a
restaurare il nuovo processo” (Cass. sez. pen. sent. del 1/12/06-25/1/07, “Dorigo” n. 2800).
[26] L'ipotesi è certamente più frequente
nei casi di misure che riguardano singoli individui, piuttosto che in
situazione strutturali.
[27] Le modifiche introdotte dal
Protocollo 14 all'art. 46 della Convenzione prevedono che qualora il Comitato
dei ministri ritenga che uno Stato si rifiuti di dare esecuzione alla sentenza,
debba prima mettere in mora lo Stato stesso con una decisione a maggioranza dei
due terzi e quindi investire la Corte del problema della mancata esecuzione. Se
la Corte constata la violazione rinvia la questione al Comitato dei ministri il
quale esamina le misure da adottare (“..il
examine les mesure à prendre”). Si tratta, com'è evidente, di una modifica
intesa rafforzare il potere di controllo del Comitato dei ministri e,
attraverso lo stesso, l'obbligo assunto dagli Stati dare esecuzione alle
sentenze, con una indiretta previsione di misure sanzionatorie, ancorché non
specificate, che potrebbero giungere sino alla espulsione dello Stato membro
del Consiglio d'Europa, in applicazione dell'art. 8 dello Statuto.
[28] Sent. n. 349
par. 8.