Claudio Zanghì*

 

La Corte costituzionale risolve un primo contrasto con la Corte europea dei diritti dell’uomo ed interpreta l’art. 117 della Costituzione: le sentenze n. 348 e 349 del 2007

 

Sommario: 1. Le sentenze. 2. Il valore delle norme della Convenzione europea: le norme costituzionali di riferimento. 3. L'art.117 ed i parametri di riferimento per i limiti alla potestà legislativa. 4. Gli effetti della interpretazione della Corte europea per la determinazione del parametro di riferimento. 5. La conseguente analisi di conformità delle norme CEDU alla Costituzione.6. Il contrasto fra le norme interne e l'art. 117 della Costituzione. 7. L'esecuzione delle sentenze della Corte europea. 8. Il rilevato contrasto con l’art. 117 nel caso sottoposto alla Corte costituzionale.9. Considerazioni conclusive,

 

1. Le sentenze.

I reiterati contrasti evidenziati dalla Corte europea dei diritti dell'uomo in relazione alle norme italiane che disciplinano l'indennità di esproprio nelle sue diverse forme, da ultimo richiamati dalla Grande Camera nella sentenza “Scordino” (29 marzo 2006) che ha invitato l'Italia a sopprimere qualsiasi ostacolo per l'ottenimento di un indennizzo avente un rapporto ragionevole con il valore del bene espropriato [1], hanno determinato perplessità nella suprema Corte di Cassazione che in altra occasione aveva anche proceduto a disapplicare direttamente la norma interna in contrasto con la norma della Convenzione [2], ed hanno dato origine ad un rinvio alla Corte costituzionale.

Quest'ultima si è pronunciata con due diverse sentenze del 24 ottobre 2007. La sent. n. 348 trae origine dalle ordinanze della Corte di Cassazione del 29 maggio e del 19 ottobre 2006 che hanno sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 5bis del d.l. 11 luglio 1992, n. 333, convertito, con modificazioni, nella l. 8 agosto 1992 n. 359, ritenendo che “ la norma è oggetto di censura nella parte in cui, ai fini della determinazione dell'indennità di espropriazione dei suoli edificabili, prevede il criterio di calcolo fondato sulla media tra il valore dei beni e il reddito dominicale rivalutato, disponendone altresì l'applicazione ai giudizi in corso alla data dell'entrata in vigore della l. n. 359 del 1992.

La sent. n. 349 trae origine dalle ordinanze della Corte di Cassazione del 20 maggio 2006 e della Corte d’Appello di Palermo del 29 giugno 2006 che hanno sollevato la “questione di legittimità costituzionale dell'art. 5-bis, comma 7-bis, del decreto-l. 11 luglio 1992, n. 333, convertito, con modificazioni, dalla l. 8 agosto 1992, n. 359 – comma aggiunto dall'art. 3, comma 65, della l. 23 dicembre 1996, n. 662. Tutti i richiamati rinvii sottopongono alla Corte l'eventuale incostituzionalità dell'articolo 5 bis del citato decreto legge.

La prima reazione che nasce spontanea al lettore deriva dalla circostanza che la Corte ha riunito alcuni rinvii posti a base della sent. n. 348 ed altri, invece, posti a base della sent. n. 349. E ciò, nonostante la materia fosse certamente analoga, trattandosi in tutti i casi della pretesa incostituzionalità dell'articolo 5 bis

Una qualche differenza tra le due procedure è comunque riscontrabile dal momento che la sent. n. 349 si riferisce soltanto alla indennità relativa casi di cosiddetta “occupazione acquisitiva”, o “accessione invertita””, mentre la sent. n. 348 si occupa di tutti gli altri casi di esproprio. È pur vero che la riunione di procedimenti analoghi è soltanto una facoltà processuale e non certo un obbligo, ma la perplessità sul perché delle due sentenze rimane e potrà forse trovare risposte con motivazioni meta giuridiche.

Le sentenze menzionate meritano un attento esame perché per la prima volta inducono la Corte ad interpretare il nuovo art. 117 della Costituzione, ma anche perché permettono alla Corte di fare ulteriore chiarezza sui rapporti fra la Convenzione europea dei diritti dell'uomo e l'ordinamento italiano. Considerato che ambedue le sentenze trattano dei problemi accennati, le conclusioni raggiunte sono ovviamente identiche, anche se con qualche sfumatura di interpretazione e di redazione [3].

 

2. Il valore delle norme CEDU: le norme costituzionali di riferimento.

Volendo anzitutto analizzare il valore delle norme della Convenzione nell’ordinamento italiano, le sentenze in oggetto muovono dalla premessa di individuare quali norme della Carta costituzionale possono rilevare al riguardo. Si esclude anzitutto l'art. 10 della Costituzione sottolineandosi come questo si riferisce espressamente alle norme di diritto internazionale generalmente riconosciute, cioè al diritto internazionale consuetudinario, ed ai principi generali dell’ordinamento internazionale, e pertanto non è applicabile alla Convenzione che, ovviamente, è diritto pattizio e non consuetudinario. L’art. 10 che sancisce “l'adeguamento automatico dell'ordinamento interno alle norme di diritto internazionale generalmente riconosciute, concerne esclusivamente i principi generali e le norme di carattere consuetudinario …. mentre non comprende le norme contenute in accordi internazionali che non riproducano principi o norme consuetudinarie del diritto internazionale.” (sent. n. 349 par. 6.1) “Le norme pattizie, ancorché generali, contenute in trattati internazionali bilaterali o multilaterali, esulano pertanto dalla portata normativa del suddetto art. 10.” (sent. n. 348 par. 3.4)

Con tale affermazione, peraltro ormai quasi unanimemente condivisa in dottrina, si respinge la tesi a suo tempo affermata nella quale, il cosiddetto trasformatore automatico che agisce per il diritto internazionale generale, dovrebbe altresì agire anche per il diritto pattizio in quanto, tra le norme di diritto internazionale generale, vi è certamente il principio pacta sunt servanda, il cui rispetto ricondurrebbe anche il predetto diritto pattizio nell’alveo dell’art. 10 e quindi, se l’ordinamento interno non si adattasse tempestivamente alle norme pattizie, lo Stato violerebbe la predetta norma [4].

Escluso correttamente che l'art. 10 possa trovare applicazione nel caso di specie, la Corte esamina poi il successivo art. 11 soffermandosi sulla disposizione che consente all'Italia di limitare la propria sovranità, quando ciò sia necessario per partecipare ad un ordinamento che assicuri la pace e la sicurezza fra le nazioni, già utilizzato in relazione al diritto comunitario. La Corte pone anzitutto una netta distinzione tra l'ordinamento comunitario e la Convenzione europea affermando che le Comunità europee hanno costituito e costituiscono un effettivo ordinamento giuridico, circostanza questa non riscontrabile nella Convenzione europea [5]; di conseguenza, se una limitazione (cessione) di sovranità più o meno ampia è possibile nei confronti di un ordinamento con proprie strutture, organi e norme idonee a svolgere le attività che costituiscono oggetto di rinuncia da parte dello Stato, ciò non è invece configurabile nella Convenzione europea, ed in particolare nel Consiglio d'Europa, nel cui sistema la Convenzione europea si inserisce, in quanto non vi è stata una attribuzione di specifici poteri né alla organizzazione considerata né alla Corte se non, per quest'ultima, dell'esclusivo potere di interpretazione delle norme.

La soluzione proposta meriterebbe una approfondita analisi, che non può essere affrontata nei limiti della presente nota. Un primo aspetto attiene alla nozione di “limitazioni” di sovranità. Non è certo condivisibile, a mio avviso, l'affermazione “….non essendo individuabile, con riferimento alle specifiche norme convenzionali in esame, alcuna limitazione della sovranità nazionale», di cui alla sent. n. 349. Non può ignorarsi, infatti, che qualsiasi trattato internazionale, ed in specie la Convenzione europea, determina una parziale limitazione di sovranità, quale quella conseguente all'assunzione di obblighi internazionali, il cui rispetto dovuto limita la libertà dello Stato, nel senso che lo stesso non può assumere iniziative legislative o di altra natura che siano in contrasto con l'obbligo internazionale. È certo che l'autonomia normativa, che è inerente a qualunque Stato sovrano, rappresenta solo una manifestazione della sovranità dello Stato e ci si può quindi chiedere se le limitazioni di sovranità indicate dall'art. 11 della Costituzione, non potendo riferirsi soltanto alla nozione di sovranità nella sua più ampia accezione (ad esempio la sovranità su una parte del territorio), ovvero a quella delle “cessioni”di sovranità, debbano anche comprendere qualunque limitazione dei poteri sovrani normativi, come nel caso di specie, o giurisdizionali quando, ad esempio, lo Stato rinuncia all'esercizio della giurisdizione. Diverso, infatti, il caso delle ben più incisive “cessioni di sovranità” che si realizzano quando lo Stato partecipa ad un ordinamento internazionale al quale viene attribuita una specifica competenza, anche normativa, esercitata in via esclusiva. Il riferimento alle competenze esclusive dell'Unione Europea, sulle quali correlativamente lo Stato rinuncia legiferare, è di piena evidenza.

Le limitazioni di sovranità evocate nell'art. 11 sono ulteriormente condizionante dal carattere di necessità (necessarie a...) per l'istituzione ed il funzionamento di “un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le nazioni”. A prescindere dalle ben note ragioni storiche che hanno indotto tale redazione della norma, considerando che essa rimane immutata al giorno d'oggi, oltre al carattere di necessità di cui sopra si è detto, le limitazioni di sovranità di cui all'art. 11 debbono esser anzitutto operate nei confronti di “un ordinamento” ed al riguardo la Corte conferma, a ragione, il carattere di ordinamento riscontrabile nell'Unione Europea [6].

In tal caso, però, come ho accennato, si tratterebbe piuttosto di “cessioni” di sovranità, le sole che abbisognano di un ordinamento al quale trasferirle. Non altrettanto occorrerebbe, invece, quando si tratta di una “limitazione” autonomamente accettata dallo Stato e che non ha bisogno di alcun “ordinamento”, essendo pienamente sufficiente un mero trattato internazionale che di per sé solo determina la limitazione. Ed è questo certamente il caso della Convenzione europea in esame.

L'art. 11 poi impone un'ulteriore condizione relativa alle finalità cui deve tendere l'indicato ordinamento : “ assicurare la pace e la giustizia fra le nazioni”. La Corte non solleva tale problema, come peraltro non lo ha fatto nella nota sent. n. 170 del 1984, perché sarebbe stato certamente problematico, se non anche impossibile, sostenere che l'obiettivo della Comunità europea sia quello di assicurare la pace e la giustizia fra le nazioni. Al contrario, un adeguato livello di affermazione e protezione dei diritti umani contribuisce certamente ad assicurare la pace e la giustizia fra le nazioni.

Così come nel 1984, a fronte dell'esigenza posta dall'integrazione europea, la Corte costituzionale ha interpretato l'art. 11 sorvolando sulle specifiche finalità della pace e della giustizia fra le nazioni, in una prossima sentenza la Corte costituzionale, argomentando piuttosto dalla accennata finalità, che è certamente riscontrabile nella protezione dei diritti umani, potrebbe opportunamente distinguere fra limitazioni e cessioni di sovranità ed affermare, di conseguenza, che se per queste ultime l'esistenza di un ordinamento (nel senso compiuto del termine) è necessaria, non altrettanto debba esigersi quando si tratta di “limitazioni” quali la Convenzione europea è certamente idonea a determinare.

Non può disconoscersi, infatti, che pur non integrando, forse, la nozione di “ordinamento”, di cui sopra, il sistema europeo di affermazione e protezione dei diritti umani, già in essere da oltre cinquant'anni, si avvale di alcuni organi direttamente [7] o indirettamente [8] evocati nella Convenzione stessa la cui attività, come più volte affermato dalla Corte, tende a costituire un “ordre public communautaire de libres démocraties d’Europe” - ordine pubblico - che persegue l'obiettivo di “sauvegarder leur patrimoine commun de traditions politiques, d’ideaux, de liberté et de prééminence du droit[9].

Ci si chiede poi se la Convenzione europea possa essere stata “comunitarizzata” e quindi rientrare nell'art. 11 della Costituzione, sotto il cappello del diritto comunitario. È ben nota l'evoluzione che la Comunità europea ha subito in ordine alla materia dei diritti umani, ed è altrettanto noto che, ad iniziare dalle affermazioni della stessa Corte di giustizia delle Comunità europee, da ultimo il trattato di Maastricht, poi confermato nelle successive modifiche apportate ad Amsterdam ed a Nizza, ha chiaramente precisato che le norme della Convenzione europea formano parte integrante del diritto comunitario.

Fermandosi all'espressione letterale dell'art. 6 sembrerebbe che le norme della CEDU, equiparate in quanto parte integrante, alle norme comunitarie, dovrebbero ricevere nell'ordinamento italiano lo stesso trattamento di queste ultime. La Corte sostiene, invece, che l'integrazione delle norme CEDU nell'ordinamento comunitario riguarda unicamente l'attività degli organi comunitari, è quindi il diritto comunitario che deve rispettare le norme CEDU e l'attività degli Stati nell'applicazione del diritto al comunitario che deve altresì rispettare le norme CEDU: “ la giurisprudenza è sì nel senso che i diritti fondamentali fanno parte integrante dei principi generali del diritto comunitario di cui il giudice comunitario assicura il rispetto,…. Tuttavia, tali principi rilevano esclusivamente rispetto a fattispecie alle quali tale diritto sia applicabile: in primis gli atti comunitari, poi gli atti nazionali di attuazione di normative comunitarie.” (sent. n. 349 par. 6.1)

In questa affermazione il ragionamento della Corte appare largamente ispirato dalla Carta dei diritti fondamentali adottata a Nizza, e peraltro esplicitamente richiamata, nella quale è chiaramente indicato che le norme della stessa si applicano all'azione delle Istituzioni comunitarie ed a quella degli Stati nei limiti dell'applicazione del diritto comunitario (art.51).

La Corte sottolinea altresì che “ allo stato” l'Unione Europea, come già precisato dalla stessa Corte comunitaria, non ha competenza esplicita in materia diritti umani. Poiché, nel caso di specie, non si tratta di dare esecuzione ad un atto comunitario bensì della normale attività normativa che rientra nella autonomia dello Stato italiano, la pretesa “comunitarizzazione” delle norme CEDU è certamente da escludere. Sottolineando che tale interpretazione è formulata “ allo stato” cioè a dire nella situazione odierna, la Corte, saggiamente, non si pronuncia sulle conseguenze che potranno derivare dalla prospettata adesione della Unione alla Convenzione europea.

Com'è noto tale adesione, molte volte ostacolata in passato, era stata poi esplicitamente inserita nel progetto di trattato per una Costituzione per l'Europa e figura oggi nel progetto di trattato che dovrebbe essere adottato nel vertice di Lisbona nel dicembre prossimo. Considerato che allo stato si tratta soltanto di un pactum de contrahendo non è agevole approfondire il tema non sapendo quando e come le necessarie intese per consentire l'adesione di cui sopra saranno realizzate. Se queste dovessero limitarsi a ribadire i limiti all'applicabilità della normativa sui diritti umani, già contenuti nella Carta dei diritti fondamentali, risolvendo soltanto i problemi di competenza giurisdizionale fra le due Corti e dei rispettivi meccanismi di ricorso, allora, probabilmente, le conclusioni che la Corte costituzionale raggiunge al riguardo nelle sentenza in esame, non dovrebbe subire alcuna variazione.

Diversamente, invece, qualora l'obbligo di rispettare i diritti umani, quali contenuti nella Convenzione europea, si dovesse estendere alle attività degli Stati membri, anche a prescindere dal limitato aspetto della attuazione del diritto comunitario, con un obbligo del tutto equiparato a qualsiasi altra norma di diritto comunitario, allora il problema della accennata “comunitarizzazione” delle norme della Convenzione dovrebbe essere interamente rivisto.

Escluso pertanto che l'art. 11 della Costituzione possa trovar applicazione nei confronti della Convenzione europea, sia direttamente ma sia anche indirettamente, attraverso l'accennato tramite comunitario, il problema del valore delle norme CEDU nell'ordinamento italiano viene riproposto sulla base delle tradizionali considerazioni applicabili a qualunque trattato di internazionale. Ricorda, infatti, la Corte che nell'ordinamento italiano i trattati internazionali ai quali si è data esecuzione con provvedimento normativo assumono, nell'ordinamento stesso, valore e rango delle norme che vi hanno dato esecuzione e quindi, nella maggior parte dei casi, l. ordinaria. “Con riguardo alle disposizioni della CEDU, questa Corte ha più volte affermato che, in mancanza di una specifica previsione costituzionale, le medesime, rese esecutive nell'ordinamento interno con l. ordinaria, ne acquistano il rango e quindi non si collocano a livello costituzionale” (sent. n. 349 par. 6.1)

La Corte evoca i vari tentativi precedentemente esperiti per considerare le norme CEDU quali norme di particolari resistenza [10], evoca, analogamente, altri tentativi proposti per salvaguardare l'autorità della Convenzione stessa, ma senza alcun particolare approfondimento, sostenendo che l'art. 117 introduce ormai un esplicito limite alla attività normativa dello Stato, e quindi contiene sufficienti elementi per esaminare, sotto un nuovo profilo, il valore delle norme CEDU nell'ordinamento italiano.

 

3. L’art. 117 ed i parametri di riferimento per i limiti alla potestà legislativa.

Richiamando il testo dell'art. 117 la Corte vi ravvisa, anzitutto, una differenza nella redazione con la quale si cita, da una parte l'ordinamento comunitario e dall'altra gli obblighi internazionali: Ad avviso della Corte, “la disposizione costituzionale ora richiamata distingue infatti, in modo significativo, i vincoli derivanti dall'«ordinamento comunitario» da quelli riconducibili agli «obblighi internazionali». (sent. n. 348 par. 3.3).

Ad una testuale lettura, tuttavia, non sembra che relativamente al solo art. 117 si possa ravvisare una diversa posizione dell'ordinamento comunitario rispetto agli altri obblighi internazionali. E ciò in quanto i due limiti vengono menzionati con una congiunzione - “e”- , e senza alcuna ulteriore specificazione. Ne consegue che, letteralmente, l'azione normativa interna può dar luogo ad atti in contrasto con l'ordinamento comunitario, così come può dar luogo ad atti in contrasto con gli altri obblighi internazionali derivanti da un qualunque trattato.

La differenza dei due limiti menzionati -diritto comunitario e obblighi internazionali-, non è ricavabile direttamente dall'art. 117 ma solo dall'art. 11 richiamato. In altri termini se, per effetto dell'art. 117 il legislatore italiano non può adottare norme in contrasto con il diritto comunitario, essendosi realizzata una limitazione di sovranità (meglio “cessione”) a favore della Comunità, come già chiarito in applicazione dell'art. 11, vi sono altresì, per effetto di tale cessione, dei limiti che impediscono allo Stato non soltanto di legiferare in maniera difforme ma di legiferare su determinate materie per le quali si è attribuita una competenza esclusiva alla Comunità.

 In questo senso è ben diverso l'effetto del limite del diritto comunitario rispetto a quello derivante dagli altri obblighi internazionali; ma tale effetto non è riconducibile all'art. 117 che, a mio avviso, non pone alcuna differenza fra i due limiti, bensì dell'art. 11 già citato. Non solo, ma quando si interpreta l'art. 117 per valutare come si può risolvere il caso nel quale la normativa interna confligge con la predetta norma per essere in contrasto con il diritto comunitario o con gli obblighi internazionali, anche sotto tale profilo, la differenza tra i due limiti rileva in quanto, in relazione al diritto comunitario è stata ormai acclarata dalla stessa Corte, con numerose pronunce, la supremazia del diritto comunitario rispetto al diritto interno e quindi la conseguenza, in ipotesi, è la disapplicazione della norma interna confliggente.

Ma se ciò si applica, almeno a partire dal 1984, soltanto nei confronti del diritto comunitario, lo stesso principio non è certo applicabile nei confronti del contrasto con qualunque altra norma di diritto internazionale. La soluzione di questo contrasto deve essere trovata altrove. Ed è a questo punto che la Corte affronta l'interpretazione dell'art. 117 in maniera più puntuale, sgombrando anzitutto il campo da quelle tesi che volevano applicare la disposizione limitatamente ai rapporti tra Stato e regioni [11]. La Corte al riguardo, chiaramente ed opportunamente, precisa che l'art. 117 si applica a qualunque attività normativa possa in essere dallo Stato o dalle regioni [12].

Considerando il richiamato limite derivante dagli obblighi di diritto internazionale e quindi il potenziale contrasto di una norma interna con gli stessi, la Corte esclude, anzitutto, che tale contrasto possa essere risolto mediante la disapplicazione della norma confliggente, evocando al riguardo quanto già richiamato in ordine alla supremazia del diritto comunitario [13]. Con tale affermazione la Corte indirettamente respinge la tesi, già formulata in alcune pronunce della Corte di Cassazione e da ultimo nella sent. n. 2800 del 1/12/2006-25/1/2007, nella quale la Corte di Cassazione, ritenendo prevalente la norma della Convenzione, annulla il provvedimento emanato in base alla norma interna in contrasto [14].

In assenza di una gerarchia di norme chiaramente accertata, come nel caso del diritto comunitario, la Corte ritiene che gli obblighi derivanti da norme internazionali costituendo, così come evocato dall'articolo 117, un limite all'attività normativa dello Stato, si pongono in una posizione intermedia tra le norme costituzionali e le norme ordinarie [15].

L'affermazione, riferita naturalmente alla Convenzione CEDU, si applica, a mio avviso, a qualunque obbligo internazionale e quindi a qualunque norma di diritto internazionale pattizio che pone obblighi nei confronti degli Stati contraenti. Viene così modificata la precedente affermazione della giurisprudenza della Corte, e poi anche dalla conforme dottrina, nella quale si sosteneva che le norme di diritto internazionale pattizio, introdotte in Italia con provvedimento normativo, hanno lo stesso valore e rango delle norme interne che vi hanno dato esecuzione. Oggi questa affermazione non è più corretta perché, attraverso l’art. 117, le norme internazionali rappresentano un limite alle norme interne che non possono per ciò stesso, non solo abrogarle o modificabile, ma tanto meno derogarle, e quindi hanno un rango superiore alle norme interne per effetto del richiamato art. 117 [16].

Affermato così il carattere delle norme della Convenzione europea, come limite all’attività normativa interna, la Corte costituzionale si pone anzitutto il problema di verificare qual è l'esatto contenuto e la portata della norma internazionale che dev'essere poi utilizzato quale parametro di riferimento per valutare se la norma interna, in relazione al contenuto specifico dell'obbligo internazionale, violi l'art. 117 della Costituzione.

 

4. Gli effetti della interpretazione della Corte europea per la determinazione del parametro di riferimento.

Al riguardo la Corte ricorda che nel sistema della Convenzione europea gli Stati hanno istituito uno specifico organo giurisdizionale -la Corte europea dei diritti dell’uomo- attribuendo alla stessa l'esclusiva competenza per interpretare le norme della Convenzione [17]. La Corte ricorda altresì come le norme della Convenzione ed in genere qualsiasi norma di diritto, vivono in relazione alla interpretazione che alla norma stessa viene data; e ciò assume particolare rilievo nella Convenzione europea in funzione della interpretazione che delle stesse viene progressivamente formulata dalla Corte di Strasburgo [18].

La Corte costituzionale afferma, quindi, che il parametro di riferimento per valutare l'attività normativa interna non è soltanto la norma della Convenzione europea, ma la norma così come interpretata dalla Corte europea. È questa una affermazione di particolare rilievo perché, con la stessa, si riconosce non soltanto l'autorità della interpretazione formulata dalla Corte, ma anche l'obbligatorietà, che peraltro deriva dall'art. 46 della Convenzione, che impone agli Stati di rispettare le sentenze della Corte; e ciò nella interpretazione della norma, ancor prima, che nella esecuzione delle misure eventualmente disposte nel caso di specie [19]. La formulazione al riguardo utilizzata dalla sent. n. 348 suscita qualche dubbio laddove si legge che “Si deve peraltro escludere che le pronunce della Corte di Strasburgo siano incondizionatamente vincolanti ai fini del controllo di costituzionalità delle leggi nazionali. Tale controllo deve sempre ispirarsi al ragionevole bilanciamento tra il vincolo derivante dagli obblighi internazionali, quale imposto dall'art. 117, primo comma, Cost., e la tutela degli interessi costituzionalmente protetti contenuta in altri articoli” (par. 4.7)

 

5. La conseguente analisi di conformità delle norme CEDU alla Costituzione.

L'idea di un bilanciamento tra vincolo derivante dalla CEDU e vincolo derivante da altre norme costituzionali, che non viene ulteriormente specificato nel prosieguo della sentenza, appare in contrasto con il successivo schema proposto ed utilizzato nella stessa sentenza, secondo il quale la Corte deve anzitutto accertare se effettivamente vi sia o no “un contrasto risolvibile per via interpretativa tra la norma censurata e le norme CEDU, come interpretate dalla Corte europea ed assunte come fonte integratrice del parametro di costituzionalità di cui all'articolo 117; nel qual caso appare evidente che la verifica può essere condotta solo con riferimento alla norma della Convenzione e non anche con riferimento ad altre norme costituzionali.

Il secondo passaggio dello schema proposto tende a verificare se “ le norme CEDU invocate come integrazione del parametro nell’interpretazione ad esse data dalla stessa Corte, siano compatibili con l’ordinamento costituzionale italiano”.

In tale successione di analisi non sembra ipotizzabile alcun bilanciamento dal momento che il parametro di riferimento della prima analisi è soltanto la norma della Convenzione e quindi l'analisi può condurre soltanto ad un risultato di conformità o, al contrario, di difformità; mentre la seconda analisi tende a sua volta a verificare la compatibilità della norma della Convenzione con l'intera Costituzione, ed ancora una volta il risultato di tale esame può essere soltanto di conformità ovvero, in senso opposto, di non conformità. In quest'ultimo caso, come si dirà, la Corte anticipa che “nell'ipotesi di una norma interposta che risulti in contrasto con una norma costituzionale, questa Corte ha il dovere di dichiarare l'inidoneità della stessa ad integrare il parametro, provvedendo, nei modi rituali, ad espungerla dall'ordinamento giuridico italiano” [20] , il che equivale a dire che occorre denunciare la Convenzione, nei termini e nei modi dalla stessa previsti, per sottrarsi agli obblighi dichiarati contrari alla Costituzione.

In questo schema logico non sembra possa trovare alcuno spazio un bilanciamento dei limiti posti dalla norma della Convenzione rispetto a quelli posti dalla Costituzione. La norma interna deve rispettare i primi per effetto dell’art. 117, ma deve rispettare altresì l'intera Costituzione. Perché la soluzione possa essere univoca occorre che ambedue i limiti conducano al medesimo risultato, e che, di conseguenza, la norma CEDU sia compatibile con la Costituzione e quindi la norma interna, rispettando la norma CEDU, rispetterà anche la Costituzione.

Di bilanciamento tra i due parametri si può parlare solo nei limiti in cui la norma CEDU lascia un margine di apprezzamento discrezionale agli Stati; ed è questo il caso del problema concreto evocato in sentenza, in materia di esproprio, almeno per alcune modalità dell'esproprio stesso, nel qual caso la specifica norma convenzionale può essere applicata in Italia tenendo conto anche di altri eventuali esigenze nazionali; ma tale possibilità non è effetto di un bilanciamento interpretativo, ma solo della interpretazione della norma convenzionale che lascia un margine di apprezzamento allo Stato e quindi riduce, se così si può dire, il vincolo dell'obbligo internazionale che costituisce il parametro dell'art. 117 della Costituzione. Qualora la norma CEDU, nell'interpretazione fornita dalla Corte, non consenta alcun margine di apprezzamento, allora il bilanciamento è impossibile e si tratterà soltanto di valutare se la norma convenzionale presenti effettivamente un contrasto con l'ordinamento costituzionale italiano, nel qual caso è inevitabile che lo Stato italiano si sottragga all’obbligo internazionale assunto.

La Corte non affronta il problema della interpretazione di obblighi internazionali derivanti da accordi internazionali per i quali non è stato istituito uno specifico organo giurisdizionale o di altra natura per interpretare le norme stesse, ma fa riferimento soltanto ai casi nei quali l'interpretazione nasca da un metodo di risoluzione delle controversie [21]. Atteso il riconoscimento dell'autorità della giurisprudenza della Corte europea, ancorché questa sia esplicitamente prevista nella Convenzione stessa, si può ritenere che analogo ragionamento valga per le pronunce di organi eventualmente istituiti per la soluzione controversie, dalle quale generalmente scaturisce l’obbligo internazionale di rispettarle.

Rimanendo in tema di diritti umani sarebbe, poi, da chiedersi quale soluzione potrà applicarsi nel caso di accordi internazionali che hanno istituito organi di controllo che non hanno carattere giurisdizionale, ma che, applicando le norme della Convenzione di riferimento, sono inevitabilmente indotti ad interpretare le norme stesse, ancorché non ne abbiano una esplicita competenza esclusiva. Mi riferisco, ad esempio, al Comitato delle Nazioni Unite per il Patto sui diritti civili e politici, nonché ai diversi comitati istituiti nell'ambito di singole convenzioni sia a livello Nazioni Unite ( discriminazione, donne, fanciulli ecc), sia in ambito Consiglio d'Europa ( discriminazione, tortura, etc). In tali casi è da auspicare che il ragionamento formulato dalla Corte in base al quale la norma CEDU deve essere valutata così come interpretata dalla Corte di Strasburgo, sia logicamente esteso anche alle norme di altre convenzioni, così come interpretate dagli organi istituiti nell'ambito delle convenzioni stesse.

Applicando quanto precede al caso di specie, e quindi all'art. 1 del primo Protocollo, così come interpretato dalla Corte europea, la Corte costituzionale conferma che questo rappresenta un limite per l'ordinamento italiano in quanto lo Stato italiano, pur potendolo fare, non ha formulato alcuna riserva al riguardo né tanto meno ha denunciato il Protocollo che rimane ovviamente vigente [22].

 

6. Il contrasto fra le norme interne e l’art. 117 della Costituzione.

Affrontando l'aspetto concreto del seguito da dare, qualora una norma interna sia ritenuta confliggente con una norma della Convenzione europea, la Corte ricorda come spetti anzitutto al giudice, che deve farne applicazione, individuare, ove possibile, una interpretazione della norma interna che possa essere compatibile con la Convenzione europea.

Qualora ciò sia impossibile e rimanga pertanto il contrasto fra le due norme, il giudice, come ricordato, non può disapplicare la norma nazionale a favore di quella europea per le ragioni sopra esposte, ma deve rilevare il contrasto con l'art. 117 della Costituzione e quindi promuovere l'intervento della Corte costituzionale [23]. Spetterà soltanto a quest'ultima, con il procedimento di cui sopra, procedere eventualmente, alla dichiarazione di incostituzionalità della norma interna in contrasto; si ripropone cioè la tesi già affermata dalla stessa Corte costituzionale con la sent. 30 ottobre 1975 n. 232, confermata in altre sentenze successive, in ordine al diritto comunitario, ed in base alla quale l'incompatibilità della norma interna con il diritto comunitario doveva essere sollevata di fronte la Corte costituzionale spettando soltanto a quest'ultima far prevalere la norma comunitaria mediante la dichiarazione di incostituzionalità della norma interna in contrasto [24]. E’ ben noto come questa tesi non piacque poi alla Corte europea, (sentenza “Simmenthal” del 9 marzo 1978) perché contrastante con l'effetto immediato del diritto comunitario, ed aprì la strada alla pronuncia del 1984 ( sent. 8 giugno 1984 n. 170) che affermò la diretta applicabilità, l'efficacia immediata e la supremazia del diritto comunitario sul diritto interno.

Le sentenze in esame contengono altresì un interessante rilievo in ordine all'obbligo di esecuzione delle sentenze della Corte europea derivante dall'art. 46 della Convenzione. Con riferimento al caso di specie, infatti, viene citata la sentenza della Grande Camera della Corte europea, con la quale la Corte invita lo Stato a «sopprimere qualsiasi ostacolo per l'ottenimento di un indennizzo avente un rapporto ragionevole con il valore del bene espropriato» (sentenza 29 marzo 2006, “Scordino”). Il richiamo viene effettuato a confermare come la stessa Corte europea non riconosca effetti diretti alle norme della Convenzione, in quanto si rivolge allo Stato perché assuma i provvedimenti conseguenti. In realtà la grande Camera, nella stessa sentenza, afferma, però…. “Encore faut-il que les juridictions nationales aient la possibilité en droit interne d’appliquer directement la jurisprudence européenne…” [25].

La Corte costituzionale non aggiunge altre riflessioni al riguardo, ma, ove necessario, è da chiedersi se la Corte costituzionale sia disposta ad applicare le stesse argomentazioni anche a quella parte delle sentenze della Corte europea che non sono interpretative delle norme della Convenzione ma indicano le misure conseguenti all'accertata violazione e che lo Stato deve adottare per dare esecuzione alla sentenza stessa. Si tratta di un diverso problema che non doveva essere affrontato in quella sede, ma che nella stessa viene risolto nel senso voluto dalla Corte, almeno nel caso di specie, con la rimozione delle norme incompatibili, attraverso la dichiarazione di incostituzionalità.

 

7. L’esecuzione delle sentenze della Corte europea.

Il richiamo alle sentenze della Corte europea meriterebbe un ulteriore approfondimento perché, oltre alle funzioni di queste ultime intese ad interpretare le norme della Convenzione e sulle quali la Corte costituzionale si è chiaramente espressa accettando sia il carattere esclusivo della competenze, sia il carattere di res interpretata, le sentenze hanno anche la funzione di rimediare alla violazione subita attraverso la restitutio in integrum, là dove possibile, ovvero l'attribuzione di una equa soddisfazione alla parte lesa.

Tale aspetto della sentenza europea ha acquisito una particolare rilevanza negli ultimi anni da quando cioè la Corte interviene, con sempre maggiore incisività, per invitare gli Stati a rimuovere le cause che sono all'origine della violazione, specie quando queste denunciano evidenti problemi strutturali dell'ordinamento dello Stato. Rilevato che il carattere vincolante delle sentenze e l'obbligo assunto dagli Stati di darvi esecuzione discende direttamente dall’art. 46 della Convenzione, è facile ritenere che anche questa norma, come le altre che più direttamente attengono alla enunciazione dei diritti, integrano quei parametri degli obblighi internazionali di cui al richiamato art. 117. Se l'obbligo imposto dalla norma CEDU è quello di dare esecuzione alle sentenze della Corte, tale obbligo costituisce altresì un limite che dev'essere rispettato dalla attività legislativa evocata e quindi dalle norme interne lo Stato.

L'art. 46 della Convenzione prevede l'obbligo generale di dare esecuzione alle sentenze, che si concreta poi nell’obbligo specifico che deriva dalla singola sentenza alla quale lo Stato deve dare esecuzione. In concreto, pertanto, l'eventuale contrasto con l'ordinamento interno non si porrà nei confronti dell'obbligo astratto di dare esecuzione alle sentenze, quanto al predetto obbligo riferito ad una specifica sentenza e quindi, in concreto, alle indicazioni contenute nella sentenza stessa. Ora, quando la Corte riscontra problemi strutturali dell'ordinamento dello Stato e invita pertanto quest'ultimo ad adottare misure di carattere generale, molto spesso si tratta di modificare o abrogare norme interne in contrasto con la Convenzione; in tal caso, quindi, prima ancora di far ricorso all'art. 46 della Convenzione, il limite di cui all'art. 117 della Costituzione potrà agevolmente essere rinvenuto nelle norme CEDU nei cui confronti la Corte europea ha ritenuto che la norma si pone in contrasto. La soluzione potrà quindi essere ritrovata con riferimento alle predette norme europee; l'art. 46 sull'obbligatorietà della sentenza e sul vincolo dell'esecuzione della medesima, assumendo soltanto carattere di argomento aggiuntivo.

Qualora poi la Corte dovesse invitare lo Stato, anziché a modificare o ad abrogare una normativa esistente, ad adottare nuove disposizioni per colmare un eventuale lacuna, e quindi un obbligo di fare, rimane da chiedersi se, ed in quale misura, l'art. 117 della Costituzione può assumere rilevanza. L'obbligo di dare esecuzione alla sentenza della Corte europea si rivolge, come è noto, allo Stato, e quindi a tutte le sue componenti. Dell'ipotesi di eventuale contrasto normativo, e quindi dell'esplicita soluzione offerta dall'articolo 117, si è già detto, ma la sentenza della Corte potrebbe comportare la soppressione di un atto amministrativo o regolamentare[26]; al riguardo occorre verificare, anzitutto, se l'atto in questione sia un atto determinato da una precisa norma dell'ordinamento, e quindi la contrarietà con la norma convenzionale non deve cercarsi solo nel provvedimento amministrativo in questione, ma anche, ed ancor prima, nella norma che lo ha determinato. In tal caso, anche se attraverso il rinvio dall'atto amministrativo alla norma e da quest'ultima al parametro di cui all'art. 117, il procedimento non sarebbe difforme da quanto evocato perché la contrarietà discenderebbe sempre dalla norma che ha dato origine all'atto amministrativo incriminato.

Qualora, invece, la contrarietà sia specifica dell'atto amministrativo e non della norma sulla cui base lo stesso è stato adottato, si pone un apparente problema perché l'art. 117 richiama esplicitamente la funzione legislativa e non altro. È noto però che le sentenze della Corte europea, come richiamato, si rivolgono allo Stato nella sua unità di soggetto internazionale e quindi il soggetto obbligato a dare esecuzione alla sentenza è lo Stato in tutte le sue componenti e, nel caso di specie, l'autorità amministrativa che ha adottato l'atto in questione. È da ritenersi, pertanto, che la subordinazione dell'atto amministrativo autonomamente inteso, non implicante cioè il rinvio ad altra norma dell'ordinamento, derivi comunque dalla corretta interpretazione dell'art. 117 e ciò in quanto se gli obblighi internazionali evocati dalla norma costituzionale, e nella specie quindi le norme CEDU, costituiscono un limite dell'attività legislativa dello Stato e delle Regioni e quindi un parametro di riferimento per dichiarare l'eventuale incostituzionalità delle norme in contrasto, a maggior ragione ciò deve applicarsi nei confronti di un atto amministrativo o regolamentare subordinato alla l., quale è appunto l'atto amministrativo in ipotesi incriminato.

La Corte sostiene, infatti, che la norma interna va interpretata, nei limiti del possibile, in maniera conforme agli obblighi internazionalmente assunti dallo Stato. Pertanto, se la norma che prevede l'emanazione dell'atto incriminato può essere interpretata in maniera conforme all'obbligo internazionalmente assunto, l'atto amministrativo in oggetto potrà essere agevolmente annullato o modificato qualora si ponesse in contrasto con una norma CEDU, e quindi con la norma interna interpretata in maniera conforme alla norma CEDU. Tale annullamento potrebbe avvenire per le consuete vie amministrative non essendovi al riguardo alcuna competenza della Corte costituzionale.

Al contrario, qualora l’atto amministrativo incriminato fosse conforme alla l. interna che lo prevede o lo autorizza, ed il contrasto con le norme CEDU fosse rinvenibile nella predetta l., ci troveremmo, allora, in altra ipotesi di applicazione dell'art. 117 e del procedimento individuato dalla Corte costituzionale giacché il contrasto, apparentemente rilevato nei confronti del provvedimento amministrativo, sarebbe in realtà insito nella norma che tale provvedimento ha originato.

Le sentenze della Corte europea possono anche rilevare che la violazione di un obbligo internazionalmente assunto dallo Stato derivi non tanto da atti normativi o amministrativi dello Stato stesso, quanto dal comportamento assunto da taluni organi, in assenza di specifiche previsioni normative, o ancora dalla lacuna normativa al riguardo. In tali casi la sentenza può invitare lo Stato ad adottare quei provvedimenti normativi o amministrativi necessari ad evitare che una situazione di carenza possa determinare il perdurare della violazione della Convenzione.

Sul piano internazionale l'obbligo di dare esecuzione alla sentenza si rivolge allo Stato e quindi sarà il Comitato dei ministri a sorvegliare l'attività dello Stato in maniera da verificare se e quando la sentenza sia stata eseguita mediante l’adozione delle misure indicate.

Sul piano interno occorre verificare se l'art. 117 sopra esaminato possa contribuire a risolvere il problema. Se da una parte, infatti, l'articolo impone allo Stato ed alle Regioni di legiferare in maniera conforme agli obblighi internazionali assunti, è da chiedersi se analogo obbligo sussista quando il problema riguarda una normativa dovuta, o meglio richiesta dalla sentenza della Corte europea e non realizzata. Credo che l'obbligo imposto dalla norma costituzionale, di cui è stata acclarata la valenza ed il significato di limite alla normativa interna, debba essere utilizzato anche nei confronti di una carenza di azione e ciò perché quest'ultima, una volta accertata nella sentenza della Corte europea, costituisce il parametro di riferimento per valutare, nel caso concreto, l'obbligo imposto allo Stato dall'art. 46 della Convenzione, cioè dare esecuzione alla sentenza. E’ implicito, poi, che le indicazioni contenute in sentenza circa l’obiettivo della normativa da adottare rappresentano un limite costituzionale (ex art. 117) all’attività dello Stato.

Naturalmente, trattandosi di un obbligo di fare, il problema si sposta sul momento e sulle condizioni nelle quali sorge la responsabilità dello Stato per il mancato adempimento. Se questa, cioè, debba attendere un ragionevole lasso di tempo, ovvero ancora se da questa carenza debba attendersi una conseguenza che incida su interessi e diritti soggettivi che potrebbero essere fatti valere nelle sedi appropriate. Qualora, poi, la norma della Convenzione lo consenta si potrebbe anche ipotizzare una diretta applicazione della norma europea allo scopo di colmare la lacuna evidenziata con la sentenza, e ciò quando il ritardo dello Stato nel dare esecuzione alla sentenza adottando la normativa richiesta, possa determinare il perdurare delle violazioni. L’accennato problema della responsabilità dello Stato meriterebbe un approfondimento ulteriore che non rientra nei limiti della presente nota. È certo però che, a mio avviso, oltre all'obbligo internazionale esistente per lo Stato e monitorato, come sappiamo, dal Comitato dei ministri del Consiglio d'Europa, la cui azione sarà resa più incisiva dall'entrata in vigore del Protocollo 14[27], anche sul piano interno, per effetto dell'art. 117 della Costituzione, sussiste l'obbligo per lo Stato di dare esecuzione alla sentenza della Corte europea e la conseguente responsabilità per inadempimento.

 

8. Il rilevato contrasto con l’art. 117 nel caso sottoposto alla Corte costituzionale.

Con riferimento all'oggetto specifico dell’accertamento, - il meccanismo del calcolo dell'indennità di esproprio -, le sentenze differiscono parzialmente in quanto la 349, come si è detto, esamina il calcolo applicabile alla occupazione acquisitiva, mentre la 348 si occupa delle altre forme di esproprio. Ne consegue che la sent. n. 349 conclude nel senso che “… essendosi consolidata l'affermazione della illegittimità nella fattispecie in esame di un ristoro economico che non corrisponda al valore reale del bene, la disciplina della liquidazione del danno stabilita dalla norma nazionale censurata si pone in contrasto, insanabile in via interpretativa, con l'art. 1 del Protocollo addizionale, nell'interpretazione datane dalla Corte europea; e per ciò stesso viola l'art. 117, primo comma, della Costituzione. D'altra parte, la norma internazionale convenzionale così come interpretata dalla Corte europea, non è in contrasto con le conferenti norme della nostra Costituzione.” [28]

La sent. n. 348, invece, dopo aver affermato che la norma censurata “ la quale prevede un'indennità oscillante, nella pratica, tra il 50 ed il 30 per cento del valore di mercato del bene – non supera il controllo di costituzionalità in rapporto al «ragionevole legame» con il valore venale, prescritto dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo e coerente, del resto, con il «serio ristoro» richiesto dalla giurisprudenza consolidata di questa Corte. (par. 5.7); aggiunge che non emergono profili di incompatibilità tra la norma europea e l'ordinamento italiano, con particolare riferimento all'articolo 42 della Costituzione. Ed è proprio su questo aspetto che la sentenza stessa sviluppa aggiuntive considerazioni de lege ferenda, (non nuove per la verità nell'operato della Corte), affermando che il legislatore ” non ha il dovere di commisurare integralmente l'indennità di espropriazione al valore di mercato del bene ablato. L'art. 42 Cost. prescrive alla l. di riconoscere e garantire il diritto di proprietà, ma ne mette in risalto la «funzione sociale».(par. 5.7), e, ad avviso della Corte, ciò sarebbe consentito, in applicazione di quel margine di apprezzamento riconosciuto allo Stato. “Valuterà il legislatore se l'equilibrio tra l'interesse individuale dei proprietari e la funzione sociale della proprietà debba essere fisso e uniforme, oppure, in conformità all'orientamento della Corte europea, debba essere realizzato in modo differenziato, in rapporto alla qualità dei fini di utilità pubblica perseguiti. Esiste la possibilità di arrivare ad un giusto mezzo, che possa rientrare in quel «margine di apprezzamento», all'interno del quale è legittimo, secondo la costante giurisprudenza della Corte di Strasburgo, che il singolo Stato si discosti dagli standard previsti in via generale dalle norme CEDU, così come interpretate dalle decisioni della stessa Corte.( par. 5.7)

 

9. Considerazioni conclusive.

Le sentenze esaminate hanno il rilevante merito di aver risolto, anzitutto, il problema sollevato dalla Corte europea in relazione al caso esaminato, e cioè l’incompatibilità della normativa italiana relativa al calcolo della indennità di esproprio, ma, più in generale, di aver riconosciuto l'obbligo, per l'ordinamento italiano, di conformarsi alle norme della Convenzione europea, nella interpretazione che delle stesse viene fornita data dalla Corte Strasburgo.

Le affermazioni risolutive delle sentenze, senza ripetere le argomentazioni e le specificazioni sopra esaminate, possono essere sinteticamente riassunte in tre punti essenziali:

1. Le norme della Convenzione europea nell'ordinamento italiano hanno valore di norme interposte (fra le leggi e la Costituzione) che devono essere rispettate, in quanto integrano il contenuto degli obblighi internazionali che, in applicazione dell'art. 117 della Costituzione, si impongono all'attività normativa dello Stato e delle Regioni, sempre che esse stesse non siano in contrasto con altre norme costituzionali.

2. La Corte europea ha una competenza esclusiva ad interpretare le norme della Convenzione e quindi queste debbono essere applicate in Italia così come interpretate dalla Corte Strasburgo.

3. Le norme interne vanno interpretate, per quanto possibile, conformemente alle norme della Convenzione europea. Se questo esercizio non permette di risolvere il contrasto con la Convenzione, la norma interna di riferimento deve essere sottoposta all'attenzione della Corte costituzionale perché ne possa valutare l'incostituzionalità in relazione all'art. 117 della Costituzione.

Il carattere innovativo delle affermazioni contenute nelle sentenze potrebbe costituire la base di successive interpretazioni, alcune implicitamente ricavabili dalle affermazioni già evocate, altre, invece, che necessitano di rielaborazioni intese, ci si augura, ad un sempre più efficace adeguamento dell'ordinamento italiano all’ordine pubblico europeo dei diritti dell'uomo, che deve rappresentare un parametro costituzionale, comune per tutti gli Stati parti contraenti della Convenzione. In tale prospettiva sembra naturale, anzitutto, estendere l'obbligo di cui all’art. 117 allo Stato nel suo complesso, e quindi, da una parte, a tutte le attività, quale che sia il carattere normativo amministrativo o altro delle stesse, e dall'altra, in relazione ad ogni attività e comportamento di organi e soggetti, comunque riconducibili allo Stato a livello internazionale.

Analoga interpretazione dell'obbligo di cui alla richiamata disposizione dovrebbe essere estesa, altresì, ad ogni ipotesi di carenza normativa, o di altra natura, riscontrata dalla Corte europea come causa di violazione di norme convenzionali, ipotizzandosi, al riguardo, l'applicazione diretta della norma convenzionale, qualora lo Stato non provveda ad adottare gli atti richiesti, e sempre che la norma della Convenzione consenta di colmare la lacuna dell'ordinamento interno ed evitare, di conseguenza, il perdurare della violazione.

In relazione, poi, alla rinnovata e controversa interpretazione dell'art. 11 della Costituzione, in una ulteriore riflessione, sarebbe auspicabile pervenire alla diretta applicabilità delle norme della Convenzione europea ed alla loro conseguente superiorità rispetto al diritto interno utilizzando, da un lato, gli elementi desumibili dalle finalità poste dall'articolo stesso per le limitazioni della sovranità, e dall'altro, il carattere di ordine pubblico europeo riscontrabile non solo nella Convenzione e nei suoi Protocolli, ma anche in tutto il sistema europeo di affermazione e protezione dei diritti dell'uomo. Al riguardo, infine, anche l'art. 2 della Costituzione, che nel caso di specie non è stato in alcun modo evocato, potrebbe essere un utile riferimento a complemento del carattere primario delle norme sui diritti umani.

Il lento processo seguito dalla Corte costituzionale per arrivare alle ben note affermazioni in tema di diritto comunitario, lascia ben sperare e può costituire, al riguardo, un utile precedente. Anche le reiterate affermazioni della Corte di cassazione, mostrando la disponibilità, almeno di una parte della magistratura, a proporre ed accettare soluzioni del tutto innovative, vanno nella direzione auspicata. Infine, anche l'opinione pubblica accetterebbe, certo, più volentieri la subordinazione dello Stato ad una tutela europea dei diritti umani, di quanto non abbia fatto oggi in relazione all'ordinamento comunitario.

Roma, 9 novembre 2007.



* Ordinario di diritto internazionale nell’Università di Roma «La Sapienza».

[1] «Pour aider l’Etat défendeur à remplir ses obligations au titre de l’article 46, la Cour a cherché à indiquer le type de mesures que l’Etat italien pourrait prendre pour mettre un terme à la situation structurelle constatée en l’espèce. Elle estime que l’Etat défendeur devrait, avant tout, supprimer tout obstacle à l’obtention d’une indemnité en rapport raisonnable avec la valeur du bien exproprié, et garantir ainsi par des mesures légales, administratives et budgétaires appropriées la réalisation effective et rapide du droit en question relativement aux autres demandeurs concernés par des biens expropriés, conformément aux principes de la protection des droits patrimoniaux énoncés à l’article 1 du Protocole no 1, en particulier aux principes applicables en matière d’indemnisation (paragraphes 93-98 ci-dessus)» (sentenza « Scordino » Grande Camera, 26 marzo 2006 par. 237) .

[2] “Sul primo punto deve considerarsi ormai acquisito, il principio della immediata precettività delle norme della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. La giurisprudenza di legittimità “ha espressamente riconosciuto la natura sovraordinata alle norme della Convenzione sancendo l’obbligo per il giudice di disapplicare la norma interna in contrasto con la norma pattizia dotata di immediata precettività nel caso concreto” (Cassazione, Su civili, 28507/05). Ed ha concluso il caso di specie dichiarando “ l’inefficacia dell’ordine di carcerazione emesso in esecuzione della sent. 3 ottobre 1994 della Corte di Assise di Udine, irrevocabile il 27 marzo 1996, nei confronti di Dorigo Paolo”.(sent. Cass, Pen. I del 1.12.2006 -25. 1.2007 n. 2800).

[3] Le riflessioni che seguono sono limitate agli aspetti internazionalistici delle sentenze e rinviano ad altri il commento in ordine alla materia dell’indennità di esproprio.

[4] Si fa riferimento alla posizione assunta anzitutto da QUADRI (Diritto internazionale pubblico, Palermo 1956 p. 62 ss) che afferma l’esistenza nell’art. 10 di un adattamento automatico “globale” comprendente anche il diritto pattizio.

[5] “Con l'adesione ai Trattati comunitari, l'Italia è entrata a far parte di un “ordinamento” più ampio, di natura sopranazionale, cedendo parte della sua sovranità, anche in riferimento al potere legislativo, nelle materie oggetto dei Trattati medesimi, con il solo limite dell'intangibilità dei principi e dei diritti fondamentali garantiti dalla Costituzione.

La Convenzione EDU, invece, non crea un ordinamento giuridico sopranazionale e non produce quindi norme direttamente applicabili negli Stati contraenti. Essa è configurabile come un trattato internazionale multilaterale – pur con le caratteristiche peculiari che saranno esaminate più avanti – da cui derivano “obblighi” per gli Stati contraenti” (sent. n. 348 par. 3.3).

“In riferimento alla CEDU, questa Corte ha, inoltre, ritenuto che l'art. 11 Cost. «neppure può venire in considerazione non essendo individuabile, con riferimento alle specifiche norme convenzionali in esame, alcuna limitazione della sovranità nazionale»….. Va inoltre sottolineato che i diritti fondamentali non possono considerarsi una “materia” in relazione alla quale sia allo stato ipotizzabile, oltre che un'attribuzione di competenza limitata all'interpretazione della Convenzione, anche una cessione di sovranità”. (sent. n. 349 par. 6.1).

[6] Si noti fra l’altro come coraggiosamente la Corte citi l’UE come un ordinamento di “…natura sopranazionale..” (sent. n. 348, vedi anche nota 5).

[7] Oltre alla Corte europea, il Segretario Generale ed il Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa.

[8] l'Assemblea parlamentare, il Commissario per i diritti umani ed i diversi Comitati di esperti in materia, sempre nell'ambito del Consiglio d'Europa.

[9] Principi già sostenuti dalla Commissione europea dei diritti dell'uomo nel caso Austria/ Italia in Ann. vol. 4. 117.

[10] È rimasto senza seguito il precedente secondo il quale le norme in esame deriverebbero da «una fonte riconducibile a una competenza atipica» e, come tali, sarebbero «insuscettibili di abrogazione o di modificazione da parte di disposizioni di l. ordinaria» (sent. n. 349 par. 6.1.1).

[11] “Escluso che l'art. 117, primo comma, Cost., nel nuovo testo, possa essere ritenuto una mera riproduzione in altra forma di norme costituzionali preesistenti (in particolare gli artt. 10 e 11), si deve pure escludere che lo stesso sia da considerarsi operante soltanto nell'ambito dei rapporti tra lo Stato e le Regioni.” (sent. n. 348 par. 4.4).

[12] “Il dovere di rispettare gli obblighi internazionali incide globalmente e univocamente sul contenuto della l. statale; la validità di quest'ultima non può mutare a seconda che la si consideri ai fini della delimitazione delle sfere di competenza legislativa di Stato e Regioni o che invece la si prenda in esame nella sua potenzialità normativa generale”. (sent. n. 348 par. 4.4).

[13] “Tale situazione di incertezza ha spinto alcuni giudici comuni a disapplicare direttamente le norme legislative in contrasto con quelle CEDU, quali interpretate dalla Corte di Strasburgo. S'è fatta strada in talune pronunce dei giudici di merito, ma anche in parte della giurisprudenza di legittimità (Cass., sez. I, sent. n. 6672 del 1998; Cass., sezioni unite, sent. n. 28507 del 2005), l'idea che la specifica antinomia possa essere eliminata con i normali criteri di composizione in sistema delle fonti del diritto. In altre parole, si è creduto di poter trarre da un asserito carattere sovraordinato della fonte CEDU la conseguenza che la norma interna successiva, modificativa o abrogativa di una norma prodotta da tale fonte, fosse inefficace, per la maggior forza passiva della stessa fonte CEDU, e che tale inefficacia potesse essere la base giustificativa della sua non applicazione da parte del giudice comune.” (sent. n. 348 par. 4.3).

[14] “In applicazione di tale principio di diritto, poiché la decisione non richiede accertamenti di fatto e valutazioni di merito, deve pronunciarsi l’annullamento senza rinvio dell’ordinanza impugnata ai sensi dell’articolo 620 lettera l) c.p.p. e, per l’effetto, deve dichiararsi l’inefficacia dell’ordine di carcerazione emesso in esecuzione della sent. 3 ottobre 1994 della Corte di Assise di Udine, irrevocabile il 27 marzo 1996, nei confronti di Dorigo Paolo, con i provvedimenti consequenziali”. (sent. n. 349 par. 6.2).

[15] “ Con l'art. 117, primo comma, si è realizzato, in definitiva, un rinvio mobile alla norma convenzionale di volta in volta conferente, la quale dà vita e contenuto a quegli obblighi internazionali genericamente evocati e, con essi, al parametro, tanto da essere comunemente qualificata “norma interposta” (sent. n. 349 par. 6.2).

[16] “Il parametro costituzionale in esame comporta, infatti, l'obbligo del legislatore ordinario di rispettare dette norme, con la conseguenza che la norma nazionale incompatibile con la norma della CEDU e dunque con gli “obblighi internazionali” di cui all'art. 117, primo comma, viola per ciò stesso tale parametro costituzionale.” (sent. n. 349 par. 6.2) “il parametro costituito dall'art. 117, primo comma, Cost. diventa concretamente operativo solo se vengono determinati quali siano gli “obblighi internazionali” che vincolano la potestà legislativa dello Stato e delle Regioni. Nel caso specifico sottoposto alla valutazione di questa Corte, il parametro viene integrato e reso operativo dalle norme della CEDU, la cui funzione è quindi di concretizzare nella fattispecie la consistenza degli obblighi internazionali dello Stato”. (sent. n. 348 par. 4.6).

[17] “L'interpretazione della Convenzione di Roma e dei Protocolli spetta alla Corte di Strasburgo, ciò che solo garantisce l'applicazione del livello uniforme di tutela all'interno dell'insieme dei Paesi membri.” (sent. n. 349 par. 6.2).

[18]  “Poiché le norme giuridiche vivono nell'interpretazione che ne danno gli operatori del diritto, i giudici in primo luogo, la naturale conseguenza che deriva dall'art. 32, paragrafo 1, della Convenzione è che tra gli obblighi internazionali assunti dall'Italia con la sottoscrizione e la ratifica della CEDU vi è quello di adeguare la propria legislazione alle norme di tale trattato, nel significato attribuito dalla Corte specificamente istituita per dare ad esse interpretazione ed applicazione.” (sent. n. 348 par. 4.6).

[19] Nell’intervento proposto dall’Avvocatura dello Stato per la Presidenza del Consiglio dei ministri (atto Ct.3055406 del 6 novembre 2006) non soltanto si ignora, ma altresì si contesta la competenza esclusiva della Corte europea “… sembra necessario richiedersi, prima di tutto, se davvero la giurisprudenza della CEDU possa, attraverso l'interpretazione, imporre agli Stati stipulanti di considerare ridotte o espanse le norme convenzionali, in una sorta di diritto di esclusiva che farebbe premio sia si procedimento di formazione patti internazionali sia sulla diretta interpretazione del giudice nazionale.”….. “la pretesa della CEDU di disporre un simile preteso potere creativo di norme di natura convenzionale vincolanti non ha spazio alcuno nel diritto internazionale generale”

[20] Sent. n. 348 par 4.7

[21] “la rilevanza di quest'ultima, (la CEDU) così come interpretata dal “suo” giudice, rispetto al diritto interno è certamente diversa rispetto a quella della generalità degli accordi internazionali, la cui interpretazione rimane in capo alle Parti contraenti, salvo, in caso di controversia, la composizione del contrasto mediante negoziato o arbitrato o comunque un meccanismo di conciliazione di tipo negoziale.” (sent. n. 349 par. 6.2).

[22] “Gli stessi Stati membri, peraltro, hanno significativamente mantenuto la possibilità di esercitare il diritto di riserva relativamente a questa o quella disposizione in occasione della ratifica, così come il diritto di denuncia successiva, sì che, in difetto dell'una e dell'altra, risulta palese la totale e consapevole accettazione del sistema e delle sue implicazioni.” (sent. n. 349 par. 6.2).

[23] “Al giudice comune spetta interpretare la norma interna in modo conforme alla disposizione internazionale, entro i limiti nei quali ciò sia permesso dai testi delle norme. Qualora ciò non sia possibile, ovvero dubiti della compatibilità della norma interna con la disposizione convenzionale 'interposta', egli deve investire questa Corte della relativa questione di legittimità costituzionale rispetto al parametro dell'art. 117, primo comma, come correttamente è stato fatto dai rimettenti in questa occasione.” (sent. n. 349 par. 6.2).

[24] “Di fronte alla situazione determinata dalla emanazione di norme legislative italiane…che comporta una violazione indiretta dell’art. 11 Cost. e rende pertanto costituzionalmente illegittime tali norme interne…….il giudice è tenuto a sollevare la questione della loro legittimità costituzionale” sent. 30 ottobre 1975 n. 232.

[25] Sentenza della Grande Camera del 29 marzo 2006, par. 239. La stessa posizione, come è noto, è stata più volte manifestata dalla prima Sezione della Cassazione penale “ il Collegio ritiene di dover ribadire il principio per cui il giudice italiano è tenuto a conformarsi alle sentenze pronunciate dalla stessa Corte (europea) e, per conseguenza deve riconoscere il diritto al nuovo processo anche se ciò comporta la necessità di mettere in discussione, attraverso il riesame o la riapertura del procedimento penale, l'intangibilità del giudicato” (Cass. sez. pen. sent. “Somogy” n. 32678/06) ; e ancora: ” il giudice dell'esecuzione deve dichiarare a norma dell'articolo 670 Cpp l’ineseguibilità del giudicato quando la Corte europea per i diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali abbia accertato che la condanna è stata pronunciata per effetto della violazione delle regole sul processo equo sancite dall'art. 6 della Convenzione europea ed abbia riconosciuto il diritto del condannato alla rinnovazione del giudizio, anche se il legislatore abbia omesso di introdurre nell'ordinamento in mezzo idoneo a restaurare il nuovo processo” (Cass. sez. pen. sent. del 1/12/06-25/1/07, “Dorigo” n. 2800).

[26] L'ipotesi è certamente più frequente nei casi di misure che riguardano singoli individui, piuttosto che in situazione strutturali.

[27] Le modifiche introdotte dal Protocollo 14 all'art. 46 della Convenzione prevedono che qualora il Comitato dei ministri ritenga che uno Stato si rifiuti di dare esecuzione alla sentenza, debba prima mettere in mora lo Stato stesso con una decisione a maggioranza dei due terzi e quindi investire la Corte del problema della mancata esecuzione. Se la Corte constata la violazione rinvia la questione al Comitato dei ministri il quale esamina le misure da adottare (“..il examine les mesure à prendre”). Si tratta, com'è evidente, di una modifica intesa rafforzare il potere di controllo del Comitato dei ministri e, attraverso lo stesso, l'obbligo assunto dagli Stati dare esecuzione alle sentenze, con una indiretta previsione di misure sanzionatorie, ancorché non specificate, che potrebbero giungere sino alla espulsione dello Stato membro del Consiglio d'Europa, in applicazione dell'art. 8 dello Statuto.

[28] Sent. n. 349 par. 8.