LARA TRUCCO
LE TUTELE COMUNITARIE NEI CONFRONTI DELLE LAVORATRICI ALLA PROVA DELLA FECONDAZIONE IN VITRO
Corte di Giustizia (Grande Sezione), sent. del 26 febbraio 2008
C-506/06, Sabine
Mayr - Bäckerei und Konditorei Gerhard Flöckner
(per gentile concessione della Rivista “Giurisprudenza Italiana”)
Sommario:
1. I fatti all’origine della
questione. – 2. L’ambito di
applicazione della direttiva 92/85/CEE – 3. … e della direttiva 76/207/CEE – 4. Segue: L’applicazione della direttiva 76/207/CEE nel caso di specie. – 5. Le possibili implicazioni della pronuncia
(cenni).
Dopo essersi sottoposta
per circa un mese e mezzo al trattamento ormonale previsto per l’applicazione
delle tecniche di fecondazione in vitro,
la signora Mayr su prescrizione del proprio medico curante usufruiva di cinque
giorni di congedo (dall’8 al 13 marzo), al fine di sottoporsi al prelievo
follicolare (l’8 marzo) e al successivo trasferimento in utero degli ovuli
fecondati (il 13 marzo). Sennonché, proprio in quest’arco di tempo (il 10
marzo), il suo datore di lavoro,
La lavoratrice si
rivolgeva pertanto all’autorità giudiziaria, assumendo che il licenziamento
fosse illegittimo, poiché avvenuto in contrasto con quanto previsto dall’art.
10, n. 1, della legge austriaca «sulla tutela della maternità» (Mutterschutzgesetz: MSchG), che ne pone
il divieto nei confronti delle lavoratrici «durante il periodo di gravidanza,
[e] nei quattro mesi successivi al parto». Di diverso avviso era invece il
datore di lavoro che, ritenendo che all’epoca del licenziamento la propria
dipendente non fosse propriamente incinta, richiedeva il rigetto dell’istanza[1].
Là dove tali incertezze
interpretative sono state dovute alla novità della situazione venutasi a creare
in seguito all’impiego delle tecniche di fecondazione in vitro che (a differenza del passato, quando, pur nell’“alone di
mistero che circondava la gravidanza[2]”
non vi erano dubbi sul fatto che il concepimento avvenisse – e non potesse che
avvenire – nell’utero della madre) hanno reso possibile una “soluzione di
continuità” tra il momento di fusione tra ovulo e spermatozoo e quello
dell’impianto dell’ovulo fecondato nell’utero della donna. Il che, come si
diceva, nel caso in esame, ha posto il problema del momento di insorgenza dello
“stato di gravidanza”: se con la fecondazione degli ovuli in vitro, oppure in seguito al loro impianto nell’utero della
donna.
A tale riguardo, il Landesgericht Salzburg, investito della controversia
in primo grado, ritenendo che, anche nel caso di fecondazione in vitro, l’inizio della gravidanza
andasse individuato nella fecondazione dell’ovulo e che pertanto da quel
preciso istante dovesse essere fatta decorrere la tutela contro il licenziamento
prevista dall’art. 10 dell’MSchG, accoglieva la domanda della signora Mayr. Di
diverso avviso si dimostrava invece l’Oberlandesgericht
Linz, giudice di appello in materia di diritto del lavoro e diritto
sociale, che, non ritenendo ammissibile una gravidanza isolata dal corpo della
donna, affermava di poter considerare iniziata la gravidanza, e
conseguentemente attivata la tutela della gestante, soltanto in seguito
all’impianto dell’ovulo fecondato nel corpo della donna.
Sulla sentenza
pronunciata in appello è stato quindi presentato ricorso per “Revision” (ricorso per cassazione) all’Oberster Gerichtshof, che, dinnanzi ai
profili di indubbia “novità” che presentava la questione, ritenendo che essa
richiedesse l’interpretazione della direttiva 92/85/CEE, ha sospeso il
giudizio, rivolgendosi in via pregiudiziale alla Corte di Lussemburgo.
2. L’ambito di applicazione della direttiva 92/85/CEE
Chiamata, dunque, per la
prima volta a pronunciarsi sull’individuazione del momento a partire dal quale,
nel caso di applicazione delle tecniche di fecondazione in vitro, comincia la gestazione e si attivano le relative tutele
avverso il licenziamento,
Ciò in quanto le tutele
contro il licenziamento di “lavoratrici gestanti, puerpere o in periodo di
allattamento” previste dall’art. 10 di tale direttiva[4]
richiedono “che la gravidanza abbia avuto inizio”, circostanza, questa, che pur
volendo «tenersi conto della prima data possibile di inizio della gravidanza»,
il giudice non ritiene di poter ravvisare nel caso in esame, per «ragioni
relative al rispetto del principio della certezza del diritto»[5].
Secondo
Ancora in altri termini,
legare le sorti della tutela istituita dall’art. 10 della direttiva 92/85 CEE a
quanto precede l’impianto degli ovuli fecondati, secondo il giudice comunitario
potrebbe «avere l’effetto di concedere il beneficio di tale tutela anche
qualora il trasferimento degli ovuli fecondati, per un qualsivoglia motivo, sia
rimandato per diversi anni o addirittura si sia definitivamente rinunciato a un
tale trasferimento e la fecondazione in
vitro sia stata praticata come semplice misura cautelativa», estendendo
inammissibilmente la protrazione del divieto di licenziamento per un lasso di
tempo indeterminato.
3. … e della direttiva 76/207/CEE
Già da prima dell’entrata
in vigore della direttiva 92/85 CEE, infatti,
In particolare, la
necessità di “proteggere” “lo stato di gravidanza”[12], – per i più alti rischi che presenta
di pregiudizio per la salute della donna (disturbi e complicazioni «idonee a
ridurre ed in alcuni casi addirittura a compromettere la capacità lavorativa»),
e, indirettamente, anche per quella del feto (interruzioni volontarie della
gravidanza, dovute al timore delle madri di essere licenziate)[13],
– ha condotto il giudice comunitario a ritenere illegittimo il licenziamento in
qualunque momento nel corso della gravidanza[14].
Successivamente
all’entrata in vigore della direttiva 92/85 CEE[15], – che ha sancito il rigoroso divieto[16] di licenziare la donna lavoratrice
«nel periodo compreso tra l’inizio della gravidanza e il termine del congedo di
maternità» –, la lettura congiunta dell’art. 10 di tale direttiva e dell’art.
5, n. 1, della direttiva 76/207 CEE (anche alla luce della CEDU[17]), ha consentito alla Corte di
Giustizia di proseguire, – consolidando, si direbbe, definitivamente[18]–,
il percorso di tutela avverso il licenziamento «a motivo [dello] stato di
gravidanza», concedendolo – prima e durante il congedo di maternità –, anche in
quei casi in cui al momento della conclusione del contratto di lavoro la
lavoratrice avesse omesso (essendone a conoscenza) di informare il datore di
lavoro circa il proprio stato di gravidanza[19];
e nonostante il fatto che, a motivo di tale stato, non fosse più in grado di
svolgere l’attività lavorativa per una parte rilevante della durata del
contratto[20]…
non avendo alcun rilievo, per il giudice comunitario, né la durata del rapporto[21];
né, più in generale, le condizioni del contratto stesso; né, tanto meno, il
tipo di “impresa” (di grandi o di piccole dimensioni; assumente frequentemente
o di rado personale a tempo determinato…) o il danno economico da essa subito[22].
Diversamente, la mancanza
di presupposti di gravità analoga a quelli più sopra riferiti ha fatto sì che,
rispetto invece al periodo immediatamente successivo alla “gravidanza” sia
venuto a formarsi un quadro più blando di tutele, risultando ammissibile non
solo operare la riduzione della retribuzione del lavoratore nel caso di
malattia connessa alla gravidanza o al parto[23], ma anche il licenziamento a motivo
di «stati patologici» dovuti alla gravidanza o al parto stessi. In tale fase,
infatti,
4. Segue: L’applicazione della direttiva 76/207/CEE
nel caso di specie
Anche rispetto a questo
quadro emerge con tutta evidenza la novità del caso in esame, essendosi
Di qui l’invito al
giudice del rinvio a verificare se la lavoratrice fosse stata licenziata per
assenza dovuta a malattia «nelle stesse condizioni di un lavoratore» o se,
invece il licenziamento si fosse basato essenzialmente sul fatto che la donna
si stava sottoponendo ai trattamenti necessari per la fecondazione in vitro. Soltanto in questo secondo
caso, infatti, avrebbe potuto aversi a che fare con una discriminazione diretta
fondata sul sesso, visto e considerato che «gli interventi di cui trattasi
nella causa principale, vale a dire un prelievo follicolare e il trasferimento
nell’utero della donna degli ovuli prelevati immediatamente dopo la loro
fecondazione» non potrebbero che riguardare «direttamente [e solo] le donne».
Del resto si tratta di
una conclusione compatibile coi presupposti configurati dalla Corte per la
protezione della maternità di cui s’è già detto, attraverso la lettura
congiunta delle norme delle due direttive. Di qui dunque l’applicabilità del
“regime comune” di “assenza per malattia” per la fase che precede l’impianto,
con l’importante puntualizzazione legata al divieto di licenziamento nel caso
di eventuale riscontro, all’origine del licenziamento, di un “trattamento di
fecondazione in vitro”, il cui
accertamento, insieme alla concessione delle relative tutele, resta affidato,
sia nell’an, sia nel quomodo, al giudice “nazionale”.
A tale riguardo infatti,
5. Le possibili implicazioni della pronuncia (cenni)
Per fondare la propria
decisione il giudice comunitario tiene dunque conto esclusivamente «della
formulazione, dell’economia e degli scopi» della normativa (prgr. 38),
mantenendo un approccio strettamente “giuridico”, evitando, così, di sconfinare
in «questioni di natura medica o etica», legate a quei profili più
immediatamente connessi agli interrogativi su «quando inizi il processo
biologico diretto alla nascita di un nuovo individuo» (conclusioni Avv. Gen., prgr., 29).
Tale approccio lascia
aperta al giudice comunitario la possibilità di rimettere in discussione le
proprie conclusioni, se dovessero porsi
le condizioni – in particolare, se fosse posta in essere una “disciplina
uniforme”, idonea a delimitare in un lasso di tempo ragionevolmente circoscritto
il periodo che intercorre dalla data di fecondazione degli ovuli al loro
trasferimento nell’utero delle lavoratrici, facendo venir meno quelle ragioni
di “incertezza giuridica” alla base della dicotomia tracciata nella pronuncia
–, con ciò garantendosi quella flessibilità necessaria ad una riflessione che,
specie in materie “scientificamente fluide” non può che essere di ripensamento
incessantemente continuo.
[1] Inoltre, secondo la società convenuta, anche volendo ammettere che la signora Mayr fosse incinta al momento del licenziamento, non avrebbe potuto usufruire di alcuna tutela per non aver informato del proprio stato il datore di lavoro: affermazione su cui l’Avv. Gen. non si è trovato d’accordo, dal momento che l’art. 10 della normativa austriaca (a cui spetta di regolamentare la materia, sulla base dell’art. 2 della direttiva) considera valide le comunicazioni fino a cinque giorni dall’annuncio del licenziamento e la sig.ra Mayr aveva informato per iscritto l’impresa dell’andamento della sua gravidanza lo stesso giorno della conversazione telefonica, dunque nei termini (cfr. in proposito le conclusioni dell’Avv. Gen. Dámaso Ruiz-Jarabo Colomer nella causa in esame, C-506/06, Sabine Mayr c. Bäckerei und Konditorei Gerhard Flöckner OHG, presentate il 27 novembre 2007, prgr. 26 e 27, reperibili, come le pronunce della Corte di Giustizia che si richiameranno nel prosieguo, all’indirizzo telematico https://curia.europa.eu/it/content/juris/index.htm).
[2] Come rileva l’Avv. Gen., nelle conclusioni cit., prgr. 1.
[3] Rammentiamo che la disciplina italiana in materia di tutela della maternità è contenuta nel d.lgs. 26 marzo 2001, n. 151 (Testo unico delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità, a norma dell’articolo 15 della legge 8 marzo 2000, n. 53), che, tra le altre normative, ha “incorporato” il d. lgs. 25 novembre 1996, n. 645 che aveva recepito la direttiva 92/85/CEE (per una prima lettura del quale v. Della Rocca, Sicurezza e salute sul lavoro delle lavoratrici madri, in Dir. Lav., 1997, 534, secondo cui l’eventuale incidenza della direttiva nel nostro ordinamento sarebbe limitata «in quanto i livelli di protezione delle lavoratrici gestanti, puerpere o in periodo di allattamento fissati dalla direttiva 92/85/CEE, risultano, per molti aspetti, inferiori rispetto alla normativa italiana sulla protezione della maternità», contenuta nella legge 30 dicembre 1971 n. 1204 e nel d.P.R. 25 novembre 1976, n. 1026). Ai sensi della vigente disciplina, il divieto di licenziamento della lavoratrice opera in connessione con lo stato oggettivo di gravidanza, con alcune eccezioni precise (v. l’art. 54, 3° comma):
a) colpa grave della lavoratrice costituente giusta causa di risoluzione del rapporto;
b) cessazione dell’attività dell’azienda cui essa è addetta;
c) ultimazione della prestazione per la quale la lavoratrice è stata assunta, ovvero scadenza del termine;
d) esito negativo della prova, fermo restando il divieto di discriminazione di cui all’art. 4 della legge 10 aprile 1991, n. 125 e successive modificazioni.
[4] Sulla
tutela comunitaria delle “lavoratrici madri” rispetto al licenziamento, si
rinvia a Arrigo, Il diritto del lavoro dell’Unione europea,
Milano, 2001, 29 e segg.
[5] L’Avv. Gen. (nelle proprie conclusioni, cit., prgr. 28 e segg.) aveva invece proposto (oltre a questa) altri tre ordini di argomentazioni onde sostenere che la tutela giuridica della gestante cominci con l’impianto nell’utero:
1) una prima muovente dall’analisi di quanto avviene nella scienza medica (che, per vero, fa decorrere l’inizio della gestazione da momenti differenti: dal giorno dell’ultima mestruazione, da quello dell’ovulazione, o, come avviene anche “per tradizione”, dalla data della fecondazione e solo a partire dalla metà secolo scorso dall’impianto dell’ovocita fecondato utero) e nella letteratura specialistica, che si orienta in questo senso (v. per tutti il Comitato per gli aspetti etici della riproduzione umana della Federazione Internazionale di Ginecologia e Ostetricia (FIGO)), nella dichiarazione resa al Cairo nel marzo 1998, v. https://www.figo.org/about_guidelines.asp);
2) la seconda valorizzante il significato stesso del termine «gravidanza», comunemente identificata con lo sviluppo di un nuovo essere nel ventre materno;
3) la terza che si basa sulla considerazione della corrispondenza della conclusione della non configurabilità di una gravidanza nel caso in esame con la ratio della direttiva 92/85, mirante a promuovere il miglioramento della sicurezza e della salute delle lavoratrici gestanti, con ciò intendendo la loro condizione fisiologica;
4) solo per ultimo l’Avv. Gen. avverte dell’eventualità di una
protrazione della tutela contro il licenziamento sine die nei casi di possibile procrastino del trasferimento degli
embrioni. Significativo è notare come rispetto a tale argomentazione, che
dunque è stata quella che ha maggiormente inciso sulla decisione definitiva,
[6] Anche l’Avv. Gen. (nelle conclusioni, cit. prgr. 44) evidenzia l’ampio ventaglio di disposizioni adottate dagli Stati membri, che vanno dal divieto di conservare gli ovuli fecondati, posto dalla legislazione italiana (art. 14 della L. n. 40/2004), a quanto consentito dalla legge spagnola del 26 maggio 2006, n. 14, (Sobre técnicas de reproducción humana asistida), di prolungare la crioconservazione degli ovuli, del tessuto ovarico e dei “preembrioni” in soprannumero fino a che i responsabili medici diagnostichino che la ricevente non soddisfa i requisiti clinici necessari per la riproduzione assistita; per arrivare alla possibilità prevista da altre legislazioni nazionali ancora (tra cui quella austriaca) di conservare gli embrioni vitali anche per anni.
[7] Mentre
[8] Cfr. a
tale proposito Costanzo, che evidenzia la «circostanza per cui comunque
[9] Così l’Avv. Gen., conclusioni, cit. prgr. 2.
[10] Cfr.
Corte giust. CE, 8 novembre
[11] Cfr. Corte giust. CE, causa 179/88, cit. prgr. 13; nello stesso senso, successivamente, Id., 14 luglio 1994, C-32/93, Carole Louise Webb c. EMO Air Cargo (UK) Ltd, prgr. 19; Id., 30 giugno 1998, C-394/96, Mary Brown c. Rentokil Ltd., prgr. 24; Id, sent. 4 ottobre 2001, C-109/00, Tele Danmark A/S c. Handels- og Kontorfunktionærernes Forbund i Danmark (HK)., prgr. 25; e Id., sent. 8 settembre 2005, C-191/03, North Western Health Board c. Margaret McKenna, prgr. 54.
[12] Si badi, non in quanto di per sé “patologico” (v. Corte giust. CE, C-32/93, cit., prgr. 25; e Id., in C-191/03, cit., prgr. 46).
[13] V. al proposito, Corte giust. CE, C-394/96, cit., prgr. 18; Id., C-109/00, cit. prgr. 26; e, da ultimo, Id., sent. 11 ottobre 2007, C-460/06, Paquay c. Société d’architectes Hoet, Minne SPRL, prgr. 30.
[14] Anche
se se questa si riveli «subito dopo la conclusione del contratto di lavoro»
(così Corte giust. CE, C-32/93,
cit., prgr. 24).
[15] La
direttiva 92/85 CEE si basa sull’art.
[16] Al proposito, nel procedimento C-460/06 (cit., prgr. 33 e segg.), il giudice comunitario rileva la mancanza di eccezioni o deroghe al divieto di licenziamento delle lavoratrici gestanti «salvo in casi eccezionali non collegati al loro stato e a condizione che il datore di lavoro giustifichi per iscritto i motivi di tale licenziamento» (così come già affermato nelle pronunce rese in C-394/96, cit., prgr. 18; C-32/93, cit., prgr. 22; e C-109/00, cit. prgr. 27); nonché il divieto per gli Stati membri di modificare la portata della nozione di «licenziamento» prevista dalla direttiva, «privando così d’effetto l’estensione della tutela offerta da tale disposizione e compromettendone l’effetto utile» ed il fatto che la tutela accordata da tale disposizione esclude sia l’adozione e la notifica di una decisione di licenziamento sia l’adozione di misure preparatorie al licenziamento (quali la ricerca e la previsione di una sostituzione definitiva dell’impiegata interessata a causa della gravidanza e/o della nascita di un figlio).
[17]
Ci riferiamo, in particolare, a Corte giust. CE, 22 settembre 1998, C-185/97,
Belinda Jane Coote c. Granada Hospitality
Ltd., prgr. 21 e
[18] Cfr.
al proposito Mattace Raso, Tutela della donna in gravidanza e
condizioni di accesso al lavoro, in Lav.
nella Giur., 2000, 825.
[20] Tale principio v.lo già affermato in Corte giust. CE, C-394/96, cit., prgr. 21; e successivamente, Id., C-109/00, cit., prgr. 34.
[21]
Cfr. Corte giust. CE, C-109/00,
cit., prgr. 34 (e la nota di Foglia
e Saggio, Licenziamento delle
lavoratrici gestanti, in Corriere
giur., 2002,
[23] Questo
«a condizione che l'ammontare delle prestazioni corrisposte non sia talmente
esiguo da pregiudicare la finalità di tutelare la lavoratrice prima del parto» (cfr.
Corte
giust. CE, C-191/03, cit., prgr.
[24] Sul calcolo dei periodi – di assenza
per malattia – che giustificano il licenziamento e della diversa interpretazione
che ne dà il giudice comunitario, v. A.
Pardini, La malattia connessa a
gravidanza nella giurisprudenza della Corte di Giustizia, in Riv. It. Dir. Lav., 2006, 281 e segg.
[25]
Cfr. Corte giust. CE, causa 179/88, cit., prgr. 16. Peraltro, in tale pronuncia
[26] Cfr. Corte giust. CE, causa 179/88, cit., prgr. 17; e nello stesso senso, successivamente, Id., C-394/96, cit., prgr. 26 (su cui è critica Conti, Malattia dovuta a gravidanza e decorrenza del periodo di comporto in Dir. lav., 1999, 153 e segg., per il fatto che nel quadro venutosi a formare la malattia causata dalla gravidanza non può più essere considerata agli effetti del computo del periodo di comporto di malattia e, quindi, utile ai fini della giustificazione del licenziamento al termine del periodo di tutela garantito dalla l. 1204/1971); e Id. C-191/03, cit., prgr. 54;
[27] Cfr. P. Costanzo, La dimensione dei diritti della persona nel
diritto dell’Unione europea, relazione al convegno svoltosi a Bologna il 9
giugno 2008 sul tema “Nel sessantesimo
della Costituzione italiana e della Dichiarazione universale dei diritti
dell’uomo.