Alessandro Torre

La Corte Suprema del Regno Unito: la nuova forma di una vecchia idea

(articolo già pubblicato sul Giornale di storia costituzionale, 2006, fascicolo n. 11).

 

Alla svolta della Palmerston age (Briggs, Victorian People, 1990, p. 95 ss.) e pertanto all'esordio di un periodo che si sarebbe caratterizzato per il relativo declino della magniloquenza costituzionale della prima età vittoriana, esprimendosi senza mezzi termini e con il consueto spregiudicato ragionare sulle cose istituzionali, di cui è disseminato il suo pensiero, Walter Bagehot poneva in luce una questione che ancor oggi, nonostante la recente istituzione della Supreme Court of the United Kingdom, è ben lontana dall'aver trovato una risposta che (soprattutto se considerata dal punto d'osservazione del costituzionalista continentale) si possa considerare pienamente risolutrice:

«The supreme court of the English people ought to be a great conspicuus tribunal, ought to rule all other courts, ought to have no competitor, ought to bring our law into unity, ought not to be hidden beneath the robes of a legislative assembly»,

[The English Constitution, p. 147]

Questo frammento tra i meno noti del pensiero bagehotiano, che si può rintracciare cercando tra le pieghe della sua fondamentale opera  sulla costituzione inglese può essere considerato una perfetta provocazione iniziale sulla quale innestare la ricostruzione del contesto in cui oggigiorno si inserisce l'adozione del Constitutional Reform Act 2005.

Questa legge introduce anche nel Regno Unito una Corte Suprema e si impone all'attenzione comune come una delle ultime espressioni della rapida progressione modernizzatrice che è stata inaugurata nel 1997 dal New Labour blairiano con una serie di importanti interventi riformatori attraverso i quali – solo per citare gli esempi più eclatanti – è stato incorporata nell'ordinamento domestico la Convenzione Europea per i Diritti dell'Uomo (Human Rights Act 1998); sono state introdotte forme asimmetriche di devolution in Scozia (Scotland Act 1998), Galles (Government of Wales Act 1998) e in una semi-pacificata Irlanda del Nord (Northern Ireland Act 1998); è stato ridefinito lo status costituzionale della Banca d'Inghilterra (Bank of England Act 1998); è stata modificata per la prima volta nella storia la tradizionale struttura della Camera dei Pari (House of Lords Act 1999); è stata ripristinato il governo strategico della Grande Londra (Greater London Authority Act 1999); sono stati ampliati i margini di godimento della libertà di informazione e con ciò segnata un'importante tappa della realizzazione dell'open government (Freedom of Information Act 2000); si sono realizzate nuove misure le la regolazione dell'attività politica (Political Parties, Elections and Referendums Act 2000); e purtroppo è stato affrontata in termini critici  la questione del bilanciamento tra esercizio delle libertà fondamentali ed esigenze della sicurezza nationale (Terrorism Act 2000 e Regulation of Investigatory Powers Act 2000).

L'intuizione della necessità di dare forma a un tribunale superiore (e unico) della costituzionalità non è nuova nel Regno Unito, se è vero che – sebbene attraverso gli accenti dell'ingegno critico di un autentico outsider del pensiero costituzionale medio-vittoriano quale era Walter Bagehot – nello stesso contesto in cui era stata varata la seconda grande riforma elettorale dell'età liberale si era fatta strada anche l'idea di porre ordine nelle proiezioni costituzionali di un ancora frammentario sistema giurisdizionale. Tale intuizione tuttavia ha seguito un andamento carsico nel pensiero costituzionale britannico: pressoché scomparsa nelle elaborazioni dell'ortodossia giuspubblicistica delle generazioni post-vittoriane e dei decenni del welfare state, essa è riaffiorata solo di recente (Hope, A Phoenix from the Ashes? Accommodating a New Supreme Court, 2005). Pur nell'assenza di una costituzione scritta e sovraordinata, varie forme di giustizia che si potrebbe definire "della costituzionalità" era infatti erogata dalle esistenti giurisdizioni della alte Corti, che di lì a poco le grandi riforme della magistrature di common law e di Scots law (realizzate con i Judicature Acts 1872  e 1873) avrebbero efficacemente razionalizzato dando un assetto più coerente a un sistema giudiziario di antica tradizione, l'origine delle cui organizzazioni di base risaliva al medioevo. Le riforme della media età vittoriana tuttavia non avrebbero affrontato la questione dell'unicità della giustizia suprema, e di una giustizia suprema unica che si occupasse di risolvere tutti quei casi di forte conflittualità politica che anche nel Regno Unito si sollevavano, per utilizzare un'espressione che tempo addietro era stata coniata dai cugini d'Oltreoceano, «under the Constitution» (si pensi alla questione irlandese, che nell'ultimo ventennio dell'Ottocento condizionò  pesantemente i governi liberali di Gladstone e dei suoi successori; o alla grave crisi infraparlamentare del 1909-11). D'altra parte, se i pilastri dell'ordine costituzionale britannico andavano rintracciati nella rule of law, nella supremacy of Parliament e nel convenzionalismo che regolava i rapporti tra istituzioni operanti nel circuito del potere politico, e se la costituzione del regno era considerata "inesistente" o comunque non scritta, in base a quale convincente argomento si sarebbe individuata la necessità di creare una Corte Suprema di modello statunitense ?

Del resto, se si analizza con più attenzione il frammento bagehotiano, in carenza di una costituzione superiore l'idea di dare corpo a un «conspicuous tribunal» si rivelerebbe essere non la (necessaria) conseguenza dell'introduzione di una (non necessaria) costituzione scritta d'impianto benthamiano, bensì un elemento di quella razionalizzazione degli ordinamenti giudiziari che era in gestazione negli anni in cui Bagehot pubblicava le prime dispense della English Constitution, ma che in seguito intere generazioni di riformatori avrebbero sostanzialmente accantonato. A ciò va aggiunta la necessità, questa sì realmente avvertita dai più illuminati statisti dell'epoca e giunta intatta fino alla recentissima riforma istitutiva della Supreme Court (Carnwath, Do We Need a Supreme Court?, 1992), di sottrarre l'alta giurisdizione (o parte di essa) all'istituzione parlamentare che la esercitava attraverso uno spezzone della Camera dei Lords o alla Corona, che operava atraverso il Privy Council. A ciò va aggiunta la prospettiva di dare realizzazione a un principio, se non proprio di separazione dei poteri di concezione montesqueiana altrove perentoriamente respinto da Bagehot come non applicabile al sistema costituzionale britannico, almeno di ulteriore e completa autonomizzazione delle alte funzioni giudiziarie. La perentorietà con cui Bagehot (ma, in seguito, non più altri eminenti protagonisti del pensiero costituzionale della tarda età vittoriana e della transizione edoardiana come Albert Venn Dicey, Frederick W. Maitland e James Bryce), pur negando per il sistema britannico l'attendibilità di un assetto di separation of power, si rendeva fautore dell'istituzione di una Corte Suprema ante litteram in un contesto in cui peraltro nessun paese dell'Europa liberale dotatosi di una costituzioni scritta aveva ancora dato vita a supremi tribunali costituzionali, era pertanto dettata  dall'osservazione desolata della caotica frammentarietà di un'azione giudiziaria ripartita tra diversi corpi. Questa condizione di frammentarietà era considerata da Bagehot una vistosa assurdità del sistema costituzionale di matrice inglese.

In realtà, pur senza aver mai (a parte l’effimero periodo del Commonwealth cromwelliano: 1653-60) dato forma a una carta costituzionale scritta, il regno d'Inghilterra e, in seguito, la complessa entità statuale nota come il Regno Unito (Rose, Understanding the United Kingdom, 1982 ) è tutt'altro che un sistema acostituzionale, ovvero privo di un ordine costituzionale dotato di una propria coerenza. In esso le libertà fondamentali riposano su un solido apparato di garanzie, e le strutture di governo sono effettivamente responsabili, per la loro azione di policy-making, nei confronti del Parlamento. E, sebbene la nozione giuridica dello Stato non sia mai stata coltivata con convinzione nel pensiero politico (cfr. Dyson, The State Tradition in Western Europe, p. 186 ss.), forte e relativamente coesa è la statualità britannica fondata sull'effettività del government e non su proiezioni astratte della personalità giuridica di un ente superiore. Agli occhi di un osservatore che sia appena un po' meno superficiale del solito, non dovrebbero pertanto destare sorpresa le circostanze che in piena età vittoriana, pur restando in seguito inascoltata, si sia fatta strada l'istanza della necessità di una singola giustizia superiore, e che lungo il corso della contemporanea evolutività del sistema britannico (un sistema che, si badi bene, è sempre più integrato nell'Unione Europea e soggetto ai suoi influssi giuridici) si sia precisata quella nozione di "giustizia della costituzionalità" che  dappertutto è un elemento essenziale e ormai indefettibile del diritto pubblico nei sistemi a costituzione scritta.

D'altronde, se si considera la questione con lo sguardo formale del costituzionalista continentale, chi mai avrebbe mai sospettato che le odierne prospettive di sviluppo di questa nozione, che mai in linea di principio era stata enunciata per via dottrinale da parte dei constitutional lawyers dell'ortodossia egemone, si stiano oggi orientando in via di fatto lungo i medesimi percorsi delle altre esperienze nazionali che, al contrario, sono pressoché tutte rette da costituzioni deliberatamente codificate in rigide forme documentarie e per lo più innestate su forti princìpi statalistici (D. Oliver, Written Constitutions: Principles and Problems, 1992)? Se valutato sotto questo profilo, ben si adatta al dibattito odierno che ha prodotto l'istituzione della Supreme Court britannica il verso di uno dei romantici Fourteen Sonnets di W.L. Bowles: «c'è una musica insolita nel mormorio del vento», «there is a strange music in the stirring wind» (W.L. Bowles, November, 1793). A patto di interpretarne il ruolo con spregiudicata libertà intellettuale, la nascita, nel Regno Unito blairiano, della Supreme Court (della quale i riformatori hanno scelto di escludere esplicitamente la fisionomia di corte costituzionale, ma che in futuro potrebbe affermarsi come un inedito anello di congiunzione tra i sindacati "di costituzionalità" che erano esercitati da diverse agenzie giurisdizionali e la giurisdizione di un tribunale di rango supremo costruito sui modelli europei e nordamericano) potrebbe tuttavia non destare eccessivo stupore.

Perché ciò avvenga, i dati dai quali occorre prendere le mosse adattandosi a tenere in poco conto l'obiettiva circostanza dell'inesistenza nel Regno Unito di un singolo corpo di alta giurisdizione appartenente al genus delle corti costituzionali e istituzionalmente legittimato a giudicare under the Constitution, sono che il tradizionale senso di autosufficienza giuridica e culturale delle pensiero costituzionalistico britannico appare da alcuni anni considerevolmente attenuato, e che, d'altra parte, diversi corpi giudicanti esercitano di fatto forme di giustizia di costituzionalità districandosi entro l'eterogeneo contesto di una tipica matter of convenience quale è la Costituzione del regno (e sovente contribuendo a determinare attivamente i contorni di tale materia). Seguendo la pragmatica metodologia del do it yourself, questi corpi operano in via ripartita e spesso occasionale ponendo in essere  alcune tra quelle forme di adjudication che dappertutto in Europa continentale e altrove nel globo competono alle corti costituzionali, e che solamente in tempi più recenti hanno sviluppato una certa influenza sul pensiero dei common lawyers tanto da poter essere annoverate tra gli elementi che hanno concorso all'impostazione della riforma che ha prodotto la Supreme Court (Le Sueur, Building the UK's New Supreme Court, 2004).

 

Le cronache mondane registrano come qualche tempo addietro un brillante conferenziere (Simon, Quelques reflexions sir le régime parlementaire en Grande-Bretagne, 1935), affrontando nel modo più classico il tema della natura della costituzione britannica, desse avvio alla sua apostrofe affermando che, così come l’Irlanda era una terra «senza serpenti», la Gran Bretagna era un paese “senza costituzione” («Eh bien, l'Angleterre il n'y à pas de Constitution»): apparentemente semplice, come per lo zoologo, sarebbe perciò risultato il compito inquirente del costituzionalista. Era  un modo, questo, amabilmente retorico che presupponeva il mito, apparentemente molto caro al Tocqueville che tuttavia operava  in ben altro contesto (Torre, Interpretare la Costituzione britannica, 1997, p.212 ss.), dell’inesistenza della costituzione britannica come incontestabile peculiarità. In realtà l'oratore introduceva la questione dell’essenziale duplicità del dato costituzionale nel Regno Unito – sulla quale diverse generazioni di dottrinari britannici non hanno cessato di interrogarsi soprattutto se poste di fronte alle trasformazioni dell’età thatcheriana e del blairismo (Munro, What Is a Constitution?, 1983; Barendt, Is There a United Kingdom Constitution?, 1996;  King, Does the United Kingdom Still Have a Constitution?, 2001), privo certamente di una singola costituzione scritta ma eccezionalmente solido nella salvaguardia delle libertà fondamentali riconosciute ai sudditi e nell’efficacia d’azione delle proprie istituzioni di governo. Il medesimo registro argomentativo si adatta facilmente alla questione della giustizia costituzionale, che si suole considerare inesistente in terra britannica per via della mancanza a monte di quel rigido parametro che dappertutto nel mondo è configurato da costituzioni mono- o pluridocumentarie, ma pur sempre scritte e – ciò che più conta – sovraordinate.

Ma in realtà muovere alla ricerca di elementi di giurisdizione costituzionale nel Regno Unito non è impresa infruttuosa come l’andare a caccia di rettili in Irlanda. Sotto questo riguardo il compito del costituzionalista è più semplice di quello del naturalista poiché è evidente che, se sulla scorta dell’asserzione della non scrittura della costituzione britannica ci si limitasse a negare ogni possibilità alla sussistenza di un'esplicita iurisdictio costituzionale, ebbene questo non sarebbe un modo alquanto grossolano di trattare una questione che invece rivela elementi di particolare complessità? Infatti, per quanto possa sembrare paradossale o quanto meno contraddittorio, proprio l'assenza di una costituzione scritta consente di sviluppare una riflessione in vitro rivelatrice di elementi di particolare pregnanza per il costituzionalista che non si fermi alla superficie.

Vero crogiuolo della cultura costituzionale universale, da molto tempo l’esperienza anglo-britannica contiene in sé, se non propriamente le forme istituzionali concrete che altrove si esprimono in una singola istanza giurisdizionale all'uopo deputata, almeno i prerequisiti di una giustizia della costituzionalità che non può essere considerata assente per il semplice fatto che nel Regno Unito non esista una costituzione scritta e che il suo ordine costituzionale sia flessibile e anzi in essa si individui l’archetipo della flessibilità costituzionale: il che tuttavia non è di per sé sufficiente a escludere che anche a essa si possa riconoscere quella che è stata definita, prendendo spunto da Bryce, una «naturale rigidità» (Pace, Le cause della rigidità costituzionale, 1996). Sulla scorta del pensiero diceyano, basti considerare quale resistenza al mutamento oppongano, per esempio, le convenzioni costituzionali maturate attraverso l’esercizio di prassi comunemente condivise e accettate e non disinvoltamente modificabili attraverso semplici statuizioni normative (Marshall, Constitutional Conventions, 1986) o quanto l’influenza della “moralità costituzionale” innervi di sé e consolidi dati politico-istituzionali che altrimenti risulterebbero aleatori (Torre, Dicey, o della “constitutional morality”, 2003).

Sotto altro profilo, l'indagine sulle recenti evoluzioni britanniche che hanno prodotto la confluenza nel corredo potestativo della Supreme Court di attività giurisdizionali che sono variamente collegate alla questione costituzionale e che, come si vedrà, rientravano nelle competenze di differenti corpi giudicanti,  pone in rilievo suggestive implicazioni metodologiche. Se infatti da un sistema di governo si elimina il dato formale fondamentale da cui esso è determinato e che, nella prospettiva di salvare e, possibilmente, stabilizzare l’armonia tra Grundnormen costituzionali e legislazione primaria, configura uno dei principali motivi informatori della suprema giurisdizione fino al punto di formare una sineddoche che confonde una parte per il tutto (si pensa, ovviamente, all'esistenza di una Carta che sia il prodotto di una deliberata operazione di constitution-making), allora l’osservazione del caso britannico consente di destrutturare la categoria concettuale complessa che si configura nella nozione ampia di “giustizia costituzionale” e di metterne in rilievo alcuni moventi di fondo che, appunto, prescindono aprioristicamente dalla sussistenza di una carta costituzionale scritta. Questi moventi non sono meno autentici quali elementi fondanti la necessità di una giustizia costituzionale, e questa necessità – come ipotizzava Bagehot senza tuttavia spingere il suo pensiero fino ad affermare la necessità di istituire una corte costituzionale ante litteram   è ben presente nella storia costituzionale del Regno Unito dall’età vittoriana in poi.

In parole povere, perché si crei la necessità di una giustizia di costituzionalità il caso anglo-britannico dimostra che non è necessario che sullo sfondo vi sia una costituzione scritta e sovraordinata (tutto dipende dal concetto di costituzione dal quale si prendono le mosse). Poiché è privo del fondamentale punto di pregiudizialità che informa di sé la totalità delle giurisdizioni costituzionali operanti su scala planetaria, l’osservazione del Regno Unito consente di risalire alle componenti essenziali della giustizia costituzionale rivelando che l’essenziale natura di tale forma di giurisdizione è l’agire come garante di quegli equilibri istituzionali e politici dei quali è parte "anche", ma non più esclusivamente, l'armonizzazione delle fonti legislative con il superiore dettato politico-normativo: componente, questa, che risulta priva di consistenza in un sistema del quale, in ideale continuità con un celebre passaggio della Constitution d’Angleterre di J.L. de Lolme, Alexis de Tocqueville diceva che «peut  changer sans cesse, ou plutot elle n’existe point».

La questione può essere esposta, in altri termini, sottolineando che nei sistemi a costituzione scritta l'esistenza di una corte costituzionale è una conseguenza che proviene "dall'alto" di un sistema che in un dato momento storico sceglie di dotarsi di un strumento atto a regolare supremamente l'ordinato amdamento dell'attività delle istituzioni e dei loro rapporti con la società civile. La stessa corte costituzionale rappresenta, d'altronde, l'ipostasi in chiave giurisdizionale di tale fondamentale necessità che non sempre è garantita dal senso di self restraint delle istituzioni politiche. Laddove, come nel Regno Unito, la costituzione non è scritta, tale necessità sorge "dal basso", o meglio si direbbe "dall'interno" del sistema organizzato, ove si avverte la necessità di proteggere l'integrità dell'ordine costituzionale. Si può dire, in questo caso, che la giurisdizione suprema vi sia una necessità sociale prima ancora che giuridica, ovvero un meccanismo garantistico attraverso il quale l'assetto sociale protegge se stesso in quanto realtà storica e in quanto sistema politico al quale le istituzioni si adattano, parafrasando l'Hatschek che adattava la costituzione allo Stato, «come un vestito al corpo» («wie das Kleid zum Korper», come citato in Ducci, La posizione degli organi costituzionali britannici nella dottrina e nella prassi, 1982, p.851-2).   

 

Nonostante il fatto che l'assenza di una costituzione singolarmente scritta che si proponga come fundamental law del paese e la presenza di un forte e autorevole apparato di Corti di giustizia prestino seri argomenti alla convinzione che nel Regno Unito l’azione di una corte costituzionale sia giuridicamente superflua (per via dell’assenza di una costituzione-parametro) e istituzionalmente inopportuna (per via del forte potere che è tradizionalmente esercitato dalle magistrature, segnatamente di common law, le quali ove possibile difendono le libertà, vigilano sugli equilibri costituzionali e fissano le regole della "buona pratica" istituzionale), il profilarsi di una Supreme Court of the United Kingdom (dal cui modello non sarebbero peraltro del tutto assenti alcune suggestioni statunitensi, così come si trova esplicitamente suggerito in Wintour e Dyer, Ministers Shun US Model for Supreme Court, 2003) resta comunque un dato oggettivo che induce a riflessioni su quali siano il senso e i protagonisti di tale forma di giustizia suprema nella più recente storia costituzionale britannica.

 

Per quanto concerne il senso, come di fatto si avvide il Chief Justice Marshall in Marbury v. Madison e come tutti i costituenti delle ultime generazioni novecentesche avrebbero in seguito statuito facendo tesoro del precedente maturato nell’originaria esperienza statunitense, la necessità di garantire stabilmente che nessuna violazione da parte del legislatore turbi l’armonia fra la supreme law of the land e la produzione normativa ordinaria è essenziale affinché il sistema costituzionale sussista e la costituzione stessa sopravviva. Sotto tale profilo, di fronte alla prospettiva di un conflitto o semplicemente al profilarsi di un’antinomia o di un elemento di contraddizione sistemica, è raro che un ordine costituzionale possa eludere l’appuntamento con l’enforcement giurisdizionale, e in ciò anche il Regno Unito, pur nella mancanza di una costituzione scritta e di una corte costituzionale, non fa eccezione. Per normalizzare quelle inevitabili contraddizioni del sistema che non siano previamente neutralizzate dall’applicazione della «constitutional morality» teorizzata da Dicey e da altri (Raz, Authority, Law and Morality, 1985), sulla scorta della consapevolezza che «several of the most divisive moral conflicts that have beset us Americans in the period since the end of World War II have been trasmuted into constitutional conflicts – ... – and resolved as such»: Perry, What is "The Constitution"? (and Other Fundamental Questions), 1998, p.98) tale compito è stato affidato a quell'attività interpretativa delle Corti (e di collegi giudicanti di diverso rango investiti, come si vedrà, di funzioni ad hoc) che nel lessico del diritto inglese rientra sotto la generica nozione di judicial review. Ma il judicial review of legislation, pur occupandovi una posizione  di primario rilievo, non esaurisce il catalogo di quelle garanzie che, soprattutto se erette a difesa della democrazia e di tutti quegli elementi che le diverse culture politiche intendono come pre-costituzionali (Barak, The Role of the Supreme Court in a Democracy, 1999), sono fondamentali per la sopravvivenza stessa di un ordine costituzionale, sia esso scritto o – come nel Regno Unito – non scritto, che si impone come una realtà justice-seeking ossia reclamante l’esercizio di una forma particolare di giustizia, anche se fino a tempi non molto lontani una lettura acritica – e forse fraintesa – del concetto diceyano della rule of law tendeva a ridimensionare il contributo creativo delle Corti alla costruzione dell'ordinamento democratico, a tutto vantaggio del ruolo del Parlamento (Cosgrove, The Rule of Law: Albert Venn Dicey, Victorian Jurist, 1980, cap. 4 e 5), asserendo che, in estrema sintesi, «democracy was to be protected by Acts of Parliament, not by the judges» (Stevens, Government and the Judiciary, 2003, p.336).  

Da ciò scaturisce la ricognizione di quali corpi giudiziari abbiano, nell’ordinamento britannico, disimpegnato tale funzione. Si deve affrontare a questo punto, in quanto essenziale per comprendere cosa sia oggi la nuova Supreme Court britannica, il discorso su quali siano nel Regno Unito i protagonisti storici di quella giurisdizione nella quale il punto di separazione fra tecnica giuridica e alta valutazione politica non è sempre chiaramente definibile, in ossequio al principio secondo cui, se si accetta la premessa per cui la costituzione stessa è il precipitato giuridico di un ordine politico originario (Preuss, The Politics of Constitution Making: Transforming Politics into Constitutions, 1991),  il diritto costituzionale è il “terzo ordine del politico” (Loughlin, Constitutional Law: The Third Order of the Political, 2003).

                                                                             

Sviluppata con riferimento al sistema costituzionale statunitense la nozione di «domain of constitutional justice», che è stata definita come «a general area of concern» nella quale la giurisdizione costituzionale si esprime in relazione a un sistema coerente di garanzie che ha il compito di allineare le esigenze di una giustizia come espressione dell'autorità dello Stato («justice-bearing provisions») e quelle delle originarie autonomie dei singoli e dei gruppi sociali («liberty-bearing provisions») (Sager, The Domain of Constitutional Justice, 1998), è particolarmente utile per l'osservazione del caso britannico poiché nel composito ordinamento del Regno Unito trova declinazioni particolarmente significative. Ma qui, non senza tenere bene a mente l’annotazione per cui «la “giustizia costituzionale” è una delle più salienti caratteristiche dell’attuale “Stato costituzionale” (Ruggieri e Spadaro,  Lineamenti di giustizia costituzionale, 2004, p. 23), il domain della giustizia costituzionale va ricostruito riepilogando, anziché attraverso la rievocazione di princìpi astratti, in via pragmatica attraverso l'azione concreta di corpi giudiziari che ciascuno per suo conto, nell'assenza di una corte specificamente deputata, hanno sviluppato un complesso coerente di garanzie fondamentali alcune tra le quali sono recentemente confluite entro la sfera funzionale della Supreme Court.

Tali corpi sono – come si vedrà – le Corti di giustizia nella loro veste storica di esercenti il judicial review e, in epoche più recenti, di garanti delle libertà fondamentali (Jackson, The Judiciary and the Protection of Rights,, 2003): la giurisdizione che esercitano può considerarsi diffusa e si svolge attraverso una sofisticata attività di interpretazione. In  via accentrata operano invece i judicial committees del Consiglio Privato della Corona e della Camera dei Lords, caratteristica comune della cui giurisdizione è il porre in essere, con rationes decidendi tra loro diverse ma non per questo non comunicanti, modalità giudiziali di risoluzione di conflitti che pure attingono a quel judicial review classico che, nato anticamente nel contesto del diritto inglese e trasmigrato nel lessico di altri sistemi politici di common law (tra i quali ha rilievo lo statunitense ove è nato il prototipo della Corte Suprema), una volta entrato a contatto con la fenomenologia e con le categorie logiche delle costituzioni rigide e cartolari ha subìto una metagenesi dei fini e oggi è ampiamente utilizzato per definire, sebbene in modo improprio, il sindacato di costituzionalità delle leggi.

Il judicial review costituzionalmente declinato è in realtà una tecnica di superamento delle antinomie del sistema politico e istituzionale che di questi nodi conflittuali valuta, in luogo di un’improponibile costituzionalità formale, la "convenzionalità". Le coordinate concettuali di queste convenzionalità sono dettate dalla stessa pluralità delle fonti che, a seconda delle circostanze e dei punti di vista, sono tenute come fundamental law o come parte di essa: il legista medievale Henry de Bracton, teorizzatore della storica distinzione tra gubernaculum e iurisdictio (McIlwain, Costitutionalismo antico e moderno, 1990) e gli antichi common lawyers la individuavano nella lex Angliae, o lex terrae o the law of the land (Maitland, The Constitutional History of England, 1948, p. 1 ss.); i parlamentaristi moderni la collocavano nel Bill of Rights del 1689 (dell’Instrument of Government cromwelliano, unico testo a presentare nella storia inglese i caratteri di una vera costituzione, non si tiene alcun conto in quanto sottoposto a una totale damnatio memoriae); i nazionalisti scozzesi nell'Act of Union 1707; i critici della sovranità parlamentare nell'European Communities Act 1972 (MacCormick, La sovranità in discussione, 2003); i costituzionalisti non-conformisti delle aree substatali, nelle ultime legislazioni devolutive secondo i costituzionalisti non-conformisti delle aree substatali,; e infine diversi operatori del diritto, compreso alcuni giudici, nello Human Rights Act 1998. Tutto ciò dimostra quanto la ricerca dei parametri della costituzionalità britannica sia più che mai una questione di interpretazione.

 

La peculiarità britannica non è isolata. Per quanto ciò possa apparire strano, una somiglianza di fondo sussiste tra il concetto britannico di giustizia di costituzionalità e quello francese.

L'accostamento tra un sistema che è estremamente produttivo di carte costituzionali, molte tra le quali di breve vita, e uno che ne è privo poiché il suo ordine costituzionale scaturisce dall'integrazione tra fonti di diversa natura (Beatson, Common Law, Statute Law, and Constitutional Law, 2006) può sorprendere il comparatista di stretta osservanza uso a considerare, e di certo non senza fondamento, i due sistemi come collocati agli antipodi. Non si intende in questa sede affrontare l'intuizione, che pure non mancherebbe di proiettare la sua lunga ombra sulla questione delle concrete modalità di esercizio della giustizia costituzionale, per cui in Francia la frenetica produttività di testi fondamentali e nel Regno Unito il rifiuto di ogni costituzione scritta possono essere considerati in estrema sintesi, spingendosi al di là della storia e del diritto, come le due facce di una medesima essenziale condizione di flessibilità dell'ordine politico. Nondimeno occorre riflettere su un'interessante circostanza: nel Regno Unito: messa per un momento da parte la questione dell'inesistenza di una carta costituzionale che sia parametro della costituzionalità dell'ordinamento (il che sarebbe bastevole a escludere logicamente ogni sindacato sulla legittimità costituzionale delle leggi inteso come questione di conflitto tra fonti, che pure è un tema diceyano classico, non si può fare a meno di porre in risalto una singolare analogia fra i due sistemi di giurisdizione della costituzionalità.

L'analogia fa sì che entrambi i sistemi occupino una posizione a sé stante, o forse meglio si potrebbe dire che non occupano alcuna posizione, in quella condivisa catalogazione delle forme di giustizia costituzionale che distingue tra sindacati di modello statunitense e di modello europeo-continentale (Favoureau, Modèle américain et modèle européen de justice constitutionnelle, 1998), e consiste nel fatto che, se in Francia a nessun organo è consentito sindacare in via successiva e concreta la costituzionalità della legge che sia stata posta in essere per via parlamentare e che per questo è espressione della volontà generale della Nazione il cui fondamento concettuale e giuridico si rintraccia nell'art. 3 della Dichiarazione dei Diritti del 1789 (Rousseau, La legittimità del controllo di costituzionalità delle leggi, 2006), nel Regno Unito il medesimo sindacato è da escludersi perché nessun contropotere può legittimamente sindacare le opzioni legislative della statute law scaturenti dalla volontà di un Parlamento in posizione di egemonia costituzionale non in quanto proiezione di un concetto di nazione rivelatosi, alla prova della storia e della sociologia, in gran parte fittizio (semmai, con John Locke e i parlamentaristi liberali, esponenziale della «general reason of the whole») bensì in quanto, secondo una persistente dogmatica di origine vittoriana (Bradley, The Sovereignty of Parliament. Form or Substance?, 2000; Goldsworty, The Sovereignty of Parliament: History and Philosophy, 2001), titolare della sovranità. Ai giudici compete pertanto di dichiarare la legge nel sostanziale rispetto della sovranità parlamentare. In entrambi i casi, pertanto, se di un legittimo controllo di costituzionalità si può discorrere senza che si entri in contraddizione con il più profondo e radicato substrato costituzionale, esso deve essere di certo esercitato ab intra. In Francia lo è perché il Conseil Constitutionnel in un certo senso coopera con il Legislativo al perfezionamento della legge, e pertanto il suo sindacato di costituzionalità può essere chiamato in causa come il contributo, a seconda dei punti di vista, di un intruso o di un autorevole consulente dell'organo che distilla e infine esprime la volonté générale (la pronuncia del Conseil, ove eventualmente o obbligatoriamente attivata prima della promulgazione, è vincolante, ma interviene prima che la volonté sia perfetta).

È curioso tuttavia osservare come, nell'ottica del common lawyer di stretta osservanza classica, sia invece il potere legislativo (e lo sarebbe, ove esistente, anche il potere costituente: vera e propria forza bruta della normazione che gli statisti anglo-britannici si sono ben guardati dall'attivare) a essere a sua volta considerato come un intruso nel campo della produzione del diritto, e anche di quelle norme "fondamentali" che si propongono come il distillato di esperienze e il consolidamento di sperimentazioni più che come applicazione di princìpi aprioristicamente inscritti nel sistema politico. A tratti la formulazione di tali regole di buona condotta costituzionale, molte tra le quali attinenti al funzionamento delle istituzioni e limitative dei loro abusi nei confronti delle libertà individuali, è stata spesso dovuta all'esercizio della judicial freedom delle Corti, come nel caso Bowles v. The Bank of England che nel 1913, a margine della grave crisi infraparlamentare che aveva contrapposto i Lords alla Camera dei Comuni sulla formulazione del budget, fissava regole in materia di approvazione del bilancio nazionale; e in altri, fra le centinaia che si potrebbero richiamare alla memoria: Stockdale v. Hansard (1839), limitativo della creazione di nuovi privilegi parlamentari in tema di iter legis; Ridge v. Baldwin (1964), che ribadiva la garanzia processuale dell’audi alteram partem; Entick v. Carrington (1765), che proclamava l’illegalità delle incriminazioni collettive, e così via. Da questo complesso di sentenze, che si presenta straordinariamente ricco di spunti sulle molteplici funzioni della giustizia costituzionale in un quadro di costituzione flessibile, emerge chiaramente un ruolo delle Corti come regulators di diritto pubblico (Prosser, Law and the Regulators, 1997) che si esercita in un modo fortemente interlocutorio con il Legislativo e con l’Esecutivo che oggi ne domina le espressioni politiche e istituzionali.

Alla luce di tali considerazioni sembra evidente che del tutto sui generis resta comunque la posizione del Regno Unito, paese privo di una corte costituzionale anche in seguito alla recente istituzione della Supreme Court la quale, nonostante ne riassuma alcuni elementi tipici, al momento è tutt’altro che una corte costituzionale: figura istituzionale, questa, che appunto non trova riscontro nella Supreme Court of the United Kingdom, prima ancora che sotto il profilo dell’attribuzione funzionale (le manca, infatti, il sindacato sulla costituzionalità delle leggi: ma fin qui s'è tentato di dimostrare che questa funzione non è essenziale per l'esercizio della giurisdizione costituzionale), sotto il riguardo della possibilità, che si concretizzerebbe aggiungendo una propria judge-made law a quella che per lunga esperienza è creata dalle Corti di giustizia e dalle branche giudicanti del Privy Council e della Camera alta, di creare un corpus giurisprudenziale autonomo, ma soprattutto della volontà politica di non creare un nuovo fronte di conflittualità con le magistrature del paese spingendo troppo oltre il raggio d'azione di un riformismo che sta già producendo un forte impatto sul sistema costituzionale.

 

Lo sviluppo di forme ed esperienze di giustizia costituzionale ha avuto luogo nel Regno Unito obbedendo, più che a dottrine teoricamente formulate, al senso pragmatico che tradizionalmente informa di sé l'intera evoluzione dell'ordine costituzionale. In particolare, se da tale substrato esperienziale si intendesse estrarre dei princìpi informatori, ebbene questi non si discosterebbero da quegli stessi princìpi che hanno sovrinteso allo sviluppo delle istituzioni rappresentative, delle amministrazioni, dei governi territoriali e così via dicendo: tali i princìpi o meglio si direbbe gli approcci del problem solving e dell'ad-hoc administration, ovvero del procedere per singole soluzioni a singole questioni sfruttando gli interstizi di un sistema a formazione gradualistica e senza una costituzione scritta, anche se a qualche commentatore il sovrapporsi di numerose riforme a carattere fondamentale ha dato motivo di credere che l’appuntamento con la scrittura non sia troppo distante nel tempo (Brazier, How Near Is a Written Constitution?, 2001).

Ciò rende concettualmente inesistente anche la distinzione tra leggi di produzione ordinaria e norme costituzionali poiché, privo di un singolo documento che si possa definire «la Costituzione», l'ordinamento britannico si forma come un eterogeneo complesso giuridico nel quale di certo non mancano le fonti scritte (siano esse antichi documenti di diversa origine quali la Magna Carta del 1215, il Bill of Rights rivoluzionario del 1688, gli Atti parlamentari rientranti nella sconfinata categoria della statute law e via via fino alle recenti leggi sulla devolution, allo Human Rights Act 1998 e al Constitutional Reform Act 2005), ma che attribuisce forza e valore normativi, spesso superiori a quelli della legge formale, a princìpi ordinatori del sistema quali la sovranità del Parlamento e la rule of law, e al vasto complesso delle convenzioni e degli usi. Mentre la sovranità del Parlamento dà la struttura intrinseca all’assetto delle istituzioni, ossia al potere organizzato in corpi politici, la rule of law (nozione che con buona approssimazione si può tradurre con l’espressione “dominio” o “imperio della legge”) regola nelle Isole britanniche la questione delle libertà, ovvero delle autonomie delle persone e delle formazioni sociali, e del bilanciamento tra queste e l’azione delle istituzioni politiche: si realizza in tal la quadratura del cerchio del costituzionalismo storico (Matteucci, Lo Stato moderno, 1997, p. 127 ss.), e in particolare per quanto concerne la rule of law (della quale una recente dottrina giunge a ipotizzare una prospettiva evolutiva considerandola un presupposto dell'instaurazione di una nuova forma di giustizia costituzionale (Jowell, Beyond the Rule of Law: Towards Constitutional Judicial Review, 2000), va rilevato come la dottrina costituzionalistica liberal-vittoriana non abbia esitato ad attribuirle la natura di alveo giuridico di una giustizia britannica della costituzionalità affidata, anziché a una singola corte costituzionale, al sindacato diffuso delle Corti (Allan, Law, Liberty and Justice: The Legal Foundations of British Constitutionalism , 1993; Constitutional Justice. A Liberal Theory of the Rule of Law, 2001).

La tradizionale tendenza a non affidare la costruzione del sistema politico a un'unica stesura costituzionale molto deve anche al sospetto che da secoli circonda, nel pensiero inglese, le tesi del constitutional legalism ovvero di quella corrente positivistica del costituzionalismo classico che affidava la costruzione dell'ordinamento nazionale alla scrittura, e alla scrittura costituzionale resa efficace non solamente per virtù e forza propria ma anche attraverso l'enforcement delle Corti: tesi, quella del "legalismo costituzionale", che in Inghilterra fu interpretata come un'enfatizzazione dell'autorità delle magistrature superiori e della loro judge-made law (in ciò ravvisandosi un anello di congiunzione con le evoluzioni statunitensi che culminano nell’attività della Corte Suprema (Jaffé, English and American Judges as Lawmakers, 1969), ma tendenzialmente deresponsabilizzante per quanto riguardava l'azione delle istituzioni di government e la loro fisionomia di compartecipi dell'osservanza della Costituzione "non scritta", nonché foriera di conflitti tra i due ordini di potere, il Giudiziario e il Legislativo (Lord Scarman, Codification and Judge-Made Law: A Problem of Coexistence, 1967). E qualcosa in più può essere detto in proposito: lungi dall’atteggiarsi come semplici notai o acritici custodi dell’ordine costituzionale le Corti (ma in realtà i giudici, sistematicamente molto autorevoli e influenti, che ne fanno parte: prova, questa, dell’estrema personalizzazione della giustizia di common  law) hanno sempre osservato in modo rigoroso la loro separazione dalle branche governanti del sistema, ma nel contempo hanno sviluppato un ruolo di considerevole politicità (Griffith, The Politics of the Judiciary, 1967, e Judicial Politics since the 1920s, 1993; Lord Devlin, Judges, Government and Politics, 1978; Stevens, The English Judges: Their Role in the Changing Constitution, 2002; Torre, Magistratura e potere dello stato: antiche e moderne esperienze britanniche, 2004), dando forza all’ordinamento con le proprie sentenze interpretative della legislazione parlamentare, assicurando l‘effettivo dispiegarsi della rule of law, e con ciò «themselves acting from time to time as architects of the Constitution» (Oliver, Constitutional Reform in the United Kingdom, op.cit., p. 330).

 In ciò il senso profondo della “giustizia della costituzionalità” che si intende esercitata dalle Corti, ovvero nell’operare come garanti dell’assetto costituzionale, della sua conservazione e delle inevitabili trasformazioni, in un ruolo che condividono con il Legislativo e con le istituzioni del governo attivo (ma a volte non senza significativi punti di attrito), nonché, ove si aderisca al punto di vista del moderno pluralismo, con le più attive componenti della società civile (Torre, Le ipostasi costituzionali della società civile britannica, 2003) e con i valori dell’ordinamento democratico (Pfersmann e Cerrina Feroni, La "Costituzione contingente": a proposito del dibattito sul judicial review, 2005).

 Ma nonostante la culturale preclusione nei confronti di ogni sintesi costituzionale che prendesse la forma di un documento unico, l'esigenza di identificare i caratteri di una fundamental law che operasse come parametro per l'azione del sovrano e come nucleo della ratio decidendi delle Corti non è assente nella riflessione giuridica anglo-britannica. Negli anni della grande transizione dall'assolutismo strisciante dell'avvicendamento Tudor-Stuart alla stagione dell'affermazione del moderno potere parlamentare, essa aveva dato impulso a una delle correnti più significative del costituzionalismo inglese alla quale prestarono il loro apporto autorevoli legisti parlamentari tra cui si distinse Edward Coke, supremo giudice dapprima nella Court of Common Pleas e quindi nel King's Bench che nel Bonham's Case deciso nel 1610, gettava lo sguardo verso l'orizzonte di un corpus normativo "supremo" che valesse a frenare l'arbitrio della Corona e che pertanto fornisse alle Corti di giustizia un complesso di norme-parametro in base alle quali fosse possibile esercitare un sindacato sull'operato del gubernaculum e che, secondo l'espressione del baconiano De fontibus iuris, identificasse le leges legum idonee a formare un corpo di norme «ex quibus informatio peti possit, quid in singulis legibus bene aut perperam positum aut constitutum sit». In questo originario substrato giuridico non si può evitare di udire l'eco inglese del nomos basileus platonico.

Tuttavia ai princìpi enunciati dalla Court of Common Pleas (uno dei tribunali regi operanti fin dall'età medievale, e pertanto tutt'altro che una corte attestata su un livello che lontanamente si potesse considerare "costituzionale": essa infatti si occupava di controversie "ordinarie" o, appunto, "comuni", di profilo minore) mancavano ancora due elementi che si considerano fondamentali affinché già nell'Inghilterra pre-rivoluzionaria si potesse a ragione discorrere di un judicial review di profilo costituzionale: un Legislativo che operasse come autore incontrastato delle leggi del paese e – appunto – una fundamental law dai contorni giuridicamente definiti (il primo si è storicamente realizzato con la rivoluzione del 1688-89; la seconda ha tuttora contorni indefiniti, i quali restano ancora «matters of convenience» (Hood Phillips, Constitutional and Administrative Law, 2001, p. 22).

In seguito, i numerosi tentativi di identificare la Grundnorm britannica, operante come parametro di costituzionalità, avrebbero impegnato numerosi protagonisti della vita pubblica, dal parlamentarista Edmund Burke che sosteneva la coincidenza tra tradizionalità-ereditarietà costituzionale e fondamentalità delle norme politiche, ai positivisti Jeremy Bentham e John Austin fautori della codificazione anche in campo giuspubblicistico, fino ai giudici scozzesi della Court of Session presieduta nel 1953 da Lord Cooper il quale, con la sentenza MacCormick v. Lord Advocate, intendeva rintracciare la Grundnorm in alcune clausole garantistiche dell'Act of Union del 1707 e in tal modo giungeva a negare la consistenza costituzionale della sovranità parlamentare. Oggi questa ricerca è propria degli europeisti che nella Convenzione Europea per i Diritti dell'Uomo e nello Human Rights Act 1998 collocano i nuovi e fondamentali vincoli per la legislazione britannica (non casualmente, la vigilanza su tale nuova dimensione della coerenza "costituzionale" è affidata alle Corti di giustizia (Patrono, La forza dei diritti. Il Regno Unito dalla rule of law all'Human Rights Act 1998: sulle tracce di un lungo inseguimento, 2005) che derivano dall'integrazione comunitaria.

Questa "legge fondamentale" era nondimeno giudicata esistente e individuabile nel contesto della common law. Il secondo carattere del Format costituzionale anglo-britannico risiede pertanto in un evidente dato fattuale: l'Inghilterra può vantare fin dall'età medievale il primo apparato di Corti di giustizia, e si direbbe anche il più organico rispetto alle esigenze della statualità, che mai uno Stato nazionale abbia realizzato in Europa (Van Caenegem, Judges, Legislators and Professors, 1987). Tale sistema giudiziario, i cui princìpi informatori e la cui organizzazione di base erano stabiliti in forme coerenti già nel tardo XII secolo, si sarebbe in seguito esteso ad altre parti (Galles e Irlanda) del Regno Unito senza tuttavia fagocitare le difformità giuridiche scozzesi, in tal modo determinando un sistema di coesistenza di ordinamenti in cui la common law di matrice inglese convive con la semi-codificata Scots law (sistema i cui operatori giuridici sono spesso critici a riguardo dei tradizionali dogmatismi del diritto costituzionale di matrice inglese) senza che ciò sia considerato una minaccia per la certezza del diritto nazionale. Nessuno dei due sistemi giuridici che convivono in Gran Bretagna ha mai dato vita a corti costituzionali, riservando ai giudici del Re e, in particolare, alle rispettive Corti di rango superiore il compito di tutelare le libertà individuali (per esempio attraverso l'emissione di writs of habeas corpus) o di regolare in tempi difficili i rapporti tra le istituzioni del potere politico (si pensi al Case of Proclamations del 1611, con cui i supremi giudici inglesi regolavano l'uso della prerogativa regia), tra queste e la società civile (per esempio, con il caso Anisminic v. Foreign Compensation Commission (n°2) del 1969 con cui si realizzava l'intervento delle Corti nel campo del diritto amministrativo) o tra l'ordinamento nazionale e l'Unione Europea (così nel 1991 con la memorabile sentenza che ha deciso il caso sinteticamente noto come Factortame), o perfino di inventare nuovi parametri di sindacato sull’operato politico dell’Esecutivo (come nel caso della dottrina della bi-polar sovereignty, che ha affermato la legittimità del potere della Crown-in-the-Courts di esercitare una valutazione giurisdizionale degli atti posti in essere dal Governo sotto il duplice riguardo della discrezionalità e della legittimità dell’azione amministrativa).

Si è realizzata in tal modo, senza che ciò abbia prodotto una corte costituzionale né ne abbia suscitato in misura apprezzabile la necessità, una singolare esperienza di giurisdizione diffusa che a tutt'oggi ben si adatta alla costituzione pluralistica, o stratificata, del Regno Unito (Bamforth, Courts in a Multi-Layered Constitution, 2003).

Ma in realtà, all'approssimarsi della modernità, il semplice richiamo alla common law, o ad altre dimensioni della legalità fondamentale (quali la law of the land o la lex Angliae tanto remote e indefinite da diventare metagiuridiche) si sarebbe rivelato inadeguato a dare risposta alla sempre più pressante necessità di una Grundnorm. Entra pertanto in gioco il terzo carattere del Format costituzionale anglo-britannico, che si delinea in base a un altro dato di fatto (anche in tal caso sono singolarmente assenti le solenni e speculative enunciazioni di principio): lo sviluppo, in Inghilterra, di un sistema relativamente coerente di diritti fondamentali.

Le vicende delle libertà inglesi è nota in quanto generalmente considerata un paradigma della storia delle libertà universali dalla prima formulazione del 1215 con la Magna Carta Libertatum, e via via attraverso ulteriori fasi di consolidamento giunte fino al secolo delle rivoluzioni parlamentari e al Bill of Rights 1689. Sulla costante dialettica tra istanze di libertà e necessità del potere organizzato si innestava il pensiero del costituzionalismo anglo-britannico antico e moderno, sempre proteso nella ricerca degli elementi di una fundamental law che regolasse, dando loro un equilibrio stabile, le relazioni fra due grandezze tra loro concettualmente inconciliabili: le autonomie sociali e le coercizioni politiche.  La più recente manifestazione di tale dibattito si è posta sotto l'egida dell'integrazione del Regno Unito nel contesto dell'Europa comunitaria: nel 1998, lo Human Rights Act ha incorporato nell'ordinamento domestico la Convenzione europea sui diritti dell'uomo, realizzando una più diretta saldatura fra i diritti storici degli Inglesi emersi dagli eventi delle rivoluzioni seicentesche (ma anche la Scozia, pressappoco nello stesso clima politico della «gloriosa rivoluzione», si dava un Claim of Right che risulta tuttora vigente) e i diritti solidalmente elaborati nell'Unione europea (Ferrari, La Convenzione europea e la sua “incorporation” nel Regno Unito, 1999). La pregnante innovazione legislativa del 1998 ha prodotto e non cessa tuttora di produrre molte e articolate opportunità volte all’affermazione di un nuovo costituzionalismo e, quel che più interessa il discorso che qui si sta svolgendo, di inedite forme di sindacato giurisdizionale d’indole “costituzionale” affidato, come di consueto, alle Corti di giustizia: come infatti si è  accennato, uno straordinario impulso al sindacato giurisdizionale è stato impresso dalla incorporation dei diritti europei  nell’ordinamento domestico del Regno Unito, circostanza che ha affidato ai giudici l’esercizio di quella che si definirebbe una forma soft di judicial review, consistente in un sindacato sulla conformità della legislazione parlamentare rispetto allo statuto dei diritti contemplati nella Convenzione, che tuttavia non si risolve nella disapplicazione della norma o nel suo annullamento (eventualità del tutto incompatibili sia con la sovranità del Parlamento  sia con il principio di soggezione del giudice alla legge) bensì in un atti di impulso nei confronti del Legislativo e, in definitiva, in un incremento dell’influenza del Giudiziario sul circuito dei poteri attivi di govern (Edwards, Judicial Deference under the Human Rights Act, , 2002).

 

Se si considera quanto fin qui detto a proposito dell’operato delle Corti, si può dire che nel Regno Unito sia praticata una forma di giustizia metacostituzionale che opera ab intra rispetto al sistema di diritto pubblico. Infatti le Corti di giustizia formate da giudici professionali la cui ermeneutica dichiarativa del diritto, almeno fino alla seconda metà del Novecento, è risultata impareggiabilmente più sofisticata ed efficace della tecnica redazionale del drafting legislativo; esse interpretano le norme della statute law e, pur mai disapplicandole, ne condizionano l'applicazione concreta, il che talvolta può produrre effetti giuridici più penetranti, influenti e duraturi di un "semplice" annullamento o disapplicazione (infatti l'ablazione della norma produce un effetto immediatamente diminuitivo sull'ordinamento mentre la sua interpretazione giudiziale, tecnica in cui i giudici di common law eccellono, può creare nuovi elementi della cultura giuridica, amministrativa e istituzionale, e contribuire decisivamente al loro consolidamento ordinamentale: in tal modo si spiega la nota espressione judge-made law; su cui cfr. Cappelletti, Giudici legislatori?, 1984).

Sul versante anglo-britannico, pertanto, il judicial review of legislation opera alla stregua di una giustizia costituzionale diffusa. Esso si orienta metodologicamente, per quanto riguarda la ratio decidendi, secondo i canoni della common law (e, al di là del Vallo di Adriano, della Scots law) e lungo le medesime linee di flessibilità dell'ordine costituzionale che i giudici tutelano di volta in volta arginando gli abusi del potere o, laddove le circostanze lo richiedano e lo permettano nei grandi momenti di svolta storica (per esempio, nelle rivoluzioni seicentesche), contribuendo con la propria autorità a modificare tale ordine.

Spostandosi su altre dimensioni, anche nel Regno Unito la doppia questione dei conflitti interorganici e dei conflitti territoriali, che occupano una parte non secondaria nel catalogo funzionale delle corti supreme e costituzionali,  non ha mancato di porsi in termini concreti e pertanto di richiedere peculiari interventi della giurisdizione. Mentre i conflitti, manifestatisi nella loro forma più virulenta in diverse fasi evolutive del sistema costituzionale, hanno consacrato il protagonismo delle Corti di giustizia che hanno assunto funzioni dirimenti nei momenti di maggior disagio costituzionale della storia inglese, per quanto concerne la seconda tipologia conflittuale che si innesta sulle questioni territoriali il sindacato giurisdizionale è stato attribuito a uno specifico corpo giurisdizionale: tale il Judicial Committee of the Privy Council.

 

Oggi del Privy Council, organo di derivazione medievale a composizione miscellanea che nella prima metà del Seicento Sir Edward Coke avava definito una «most noble, honourable, and reverend assembly of the King and his privy councell in the King’s court or palace » ponendone in piena evidenza la natura di collegio operante all’esclusivo servizio della Corona («with this councell the King himself doth sit at pleasure»), fanno parte di diritto diverse categorie di Councellors tutti nominati con patente regia e designati in varie forme. In virtù di convenzioni, vi siedono tutti i cabinet ministers in carica e il Leader dell’Opposizione di Sua Maestà; ex officio, alcuni arcivescovi della Chiesa d’Inghilterra ed esponenti delle alte magistrature; per consuetudine, infine, ne fanno parte eminenti statisti di paesi aderenti al Commonwealth, lo Speaker della Camera dei Comuni, gli ambasciatori britannici all’estero. Un tempo operante come consulente del sovrano per l’amministrazione degli affari di Stato e per l’erogazione di quella porzione di alta giustizia che rientrava nella prerogativa regia, il Privy Council ha perso la massima parte delle funzioni amministrative per via dell’eclisse del potere personale di governo del Re determinata dall’evoluzione della forma monarchica da costituzionale pura a parlamentare e, in seguito, “a Primo ministro”, ma ha conservato alcune funzioni costituzionali residue attraverso le quali si esplica quella sezione della royal prerogative che è formalmente svincolata dagli indirizzi dell’Esecutivo. Per esercitare tali funzioni Il Consiglio si riunisce di solito a Buckingham Palace, alla presenza reale. In realtà vi è visibile l’influenza degli orientamenti politici del Gabinetto: è, per esempio, attraverso la decretazione degli Orders in Council (atti regi emanati con l'advice del Consiglio) che la Corona scioglie e convoca il Parlamento o ne proroga il mandato, compie atti di politica internazionale quali la proclamazione della guerra e la dichiarazione della pace, istituisce nuovi dicasteri governativi o ne modifica l’assetto, regola lo stato giuridico del civil service, o pubblico impiego. Ma la funzione del Privy Council che qui interessa è la giudiziaria, che la degna istituzione non disimpegna (come al tempo in cui giudicava i crimini di Stato e tutte quelle controversie che manifestamente non avevano trovato adeguati rimedi presso le Corti di giustizia del regno) nella sua globalità bensì per mezzo della sua sezione specializzata che opera quale Commissione giudiziaria.

L’odierno Judicial Committee of the Privy Council, collegio istituito con il Judicial Committee Act 1833, è pertanto una specificazione del Consiglio Privato. La sua composizione è regolata dall’atto costitutivo del 1833 e da altri adottati nel secondo Novecento, e include il Lord Chancellor (ovvero il tradizionale esponente di vertice della giustizia del Regno Unito, che riepiloga in sé i poteri giudiziario quale membro di alti collegi giudicanti, esecutivo in qualità di autorevole membro del Gabinetto con funzioni di ministro della giustizia, e parlamentare in quanto presidente della Camera dei Pari) e gli ex detentori di tale carica; i Lords of Appeal in Ordinary (ovvero i giudici che fanno parte della Camera dei Pari e ai quali compete la carica baronale vitalizia, i quali formano la branca detta Appellate Commitee); il Lord President of the Council (che, non necessariamente un giudice togato, presiede l’intero Privy Council); i Lords Justices of Appeal (sedenti nella Court of Appeal, alto organo giudiziario che con altre Corti della giurisdizione civile forma la Supreme Court of Judicature), e diversi  giudici superiori provenienti dai paesi del Commonwealth per il quali il Judicial Commitee opera ancora come corte d’appello. Diretta è pertanto la connesisone tra il Privy Council e l'organizzazione giudiziaria di common law (Jackson, The Machinery of Justice in England, 1977).  

Organo pletorico (ma per la validità delle sue decisioni si prevede saggiamente un limitato quorum di tre: se ne evita in tal modo la paralisi), il Judicial Committee of the Privy Council era istituito supremo tribunale d’appello con il Judicial Committee Act 1844 in forza del quale, mediante l'emanazione di propri Orders in Council, la Corona era legittimata dal Parlamento ad avocare a sé qualsiasi appello proveniente da Corti di qualsiasi paese che fosse, a titolo di colonia o di possesso, sotto l’autorità del Regno Unito (Howell, , The Judicial Committee of the Privy Council, 1833-1876, 1979). Sulla base di questa originaria previsione il ruolo del Judicial Committee quale supremo arbitro di controversie sorte all’esterno della Gran Bretagna lo proponeva come garante dell'unità applicativa della common law  nei vasti possedimenti del Regno Unito sparsi in tutto il mondo: ciò rivestì una considerevole importanza nella stagione dell’imperialismo, non senza un'ulteriore  razionalizzazione con lo Statute of Westminster 1931 che gettava le fondamenta di quello che, di lì a poco, si sarebbe configurato come il Commonwealth britannico (Beth, The Judicial Committee: Its Development, Organisation and Procedure, 1975). Nell'ambito di questo sodalizio internazionale il giudizio d'appello del Privy Council la sussiste tuttora anche se considerevolmente ridimensionato per via dalla raggiunta autosufficienza dei paesi del Commonwealth le cui Corti erano solite ricorrere in appello al collegio britannico (alcuni appelli trasmessi da corti neozelandesi, canadesi e australiane hanno storicamente formato materia dell’alta giurisdizione del Consiglio Privato, e così dicasi ordinariamente per gli altri possessi del Regno Unito e per le Isole della Manica e di Man, territori insulari – questi ultimi – che in forza di antiche consuetudini sono a vario titolo subordinati alla Corona e non al Parlamento “sovrano” di Westminster).

Tuttavia l’operato della giurisdizione d’appello del Privy Counciul non avrebbe mai acquisito la statura di giustizia della costituzionalità, o ciò sarebbe avvenuto in via mediata e poco più che occasionale, se il coinvolgimento giudiziario in questioni più immediatamente attinenti alla territorialità non fosse divenuto una realtà esplicita verso la fine dell’Ottocento in relazione alla turbolenta questione irlandese sulla quale, nella totale assenza di un organo preposto, il Judicial Commitee si trovò nella condizione più favorevole all'estensione, in via di prassi e con procedimento analogico, della sua giurisdizione. Si trattava stavolta non di conoscere in via d’appello casi non giudicabili in via ordinaria dalle Corti di giustizia (procedimento attivabile partendo da qualsiasi corte di common law, ivi incluso il sub-sistema irlandesi) né di attivare appelli speciali di carattere imperiale (in forza dell’Act of Union 1800, infatti l’Irlanda era parte integrante del Regno Unito, e non una colonia, un possesso o un dominion), bensì di affrontare questioni di straordinario impegno istituzionale concernenti le rivendicazioni separatiste di home rule, le richieste di autonomizzazione parlamentare e amministrativa, le radicali revisioni dei tradizionali rapporti istituzionali: ovvero controversie, come è evidente, non meramente giuridiche e pertanto non risolvibili con gli strumenti della common law “tecnica”.

Il Judicial Committee of the Privy Council acquisiva per l’occasione, almeno sulla carta, la facoltà di dare soluzione a controversie connesse alle rivendicazioni territoriali, e su tale base un promettente sconfinamento sul versante della costituzionalità è stato da ultimo registrato da parte della giurisdizione del Privy Council in relazione al nuovo quadro della devolution, ovvero della vasta ondata riformatrice che ha modificato il quadro dei poteri territoriali nelle aree substatali della Scozia, del Galles e dell’Irlanda del Nord (Burrows, Devolution, 2000; Torre, "On devolution", 2000; Bogdanor, Devolution in the United Kingdom, 2001). Il revival di tale forma di giurisdizione, che proviene da un coinvolgimento del Judicial Committee of the Privy Council nei conflitti generati tra istituzioni operanti in parti diverse del Regno Unito – per cui nella realtà dei fatti la Commissione era «in effect become the Constitutional Court for Scotland and Northern Ireland» (Hood Phillips, Constitutional and Administrative Law, 2001, p. 1999) – è stato legato prevalentemente alla Scozia, unica area di devolution nella quale, stante l’attuale inerzia delle istituzioni nordirlandesi, la creazione di un Legislativo decentrato è suscettibile di sollevare serie questioni di conflicts of laws e, pertanto, di costituzionalità delle fonti (Boyd, Parliament and Courts: Powers and Dispute Resolution, 1997).

La giurisdizione devolutiva del Privy Council è stata instaurata tra il 1998 e il 2000 per effetto dell’entrata in vigore dello Scotland Act, il Wales Act  e il Northern Ireland Act , distinguendosi peraltro in tre filoni: il primo consiste in una funzione di giurisdizione informale, o astratta, che i giuristi del collegio esercitano, prima della loro promulgazione sulle leggi adottate da assemblee devolute, segnalando le eventuali incoerenze con la legislazione di Westminster (emerge in questo caso una analogia con l’azione preventiva del Conseil Constitutionnel francese); il secondo forma una classica funzione di adjudication su questioni attinenti a rapporti tra istituzioni di devolution, o tra queste e le istituzioni nazionali (questo sindacato rientra lato sensu nella tipologia dei conflitti di attribuzione); la terza funzione si riallaccia alle attribuzioni classiche del Privy Council in quanto giudice d'appell provenienti da Corti dei sistemi substatali operanti nelle aree di devolution (è evidente che l’ipotesi è molto concreta segnatamente in relazione al sistema giudiziario di Scots law  e al sub-sistema di common law che è operante nelle Corti dell’Ulster). Fatta salva la funzione di giudice d’appello, che rientra fra le tradizionali attribuzioni potestative del Judicial Committee del Consiglio Privato, le funzioni di advice preventivo e di giudizio su questioni sorgenti nell’alveo della devolution attiva si rivelano profondamente permeate di costituzionalità, poiché se l’osservazione si spinge al di là delle questioni tecniche che sono delineate dai conflitti di cui s’è detto (per le quali il commitment del Consiglio Privato non differisce da quello delle corti costituzionali, il che si può dire lo abbia reso, almeno finché le sue funzioni non sono state trasferite alla nuova Supreme Court, una corte costituzionale honoris causa operante a mezzo servizio), la fondamentale questione costituzionale sulla quale il Judicial Committee è stato posto a vigilare resta quella della salvaguardia della sovranità parlamentare e del judicial review che le è inerente (O'Neill, Judicial Politics and the Judicial Committee: The Devolution Jurisprudence of the Privy Council, 2001; Groppi, Conflitti devolutivi: nuovi percorsi per il judicial review, 2005), pressapoco la medesima su cui vegliano le Corti con il loro judicial review of legislation e con la ricognizione delle norme domestiche che si svolge alla luce della Convenzione europea.     

Si può constatare pour cause che l’affidamento della questione ad un altro organo della giustizia metacostituzionale operante nel Regno Unito (la Camera dei Lords, anch’essa nella sua commissione giudiziaria alla quale peraltro non è negata del tutto la possibilità di giudicare le devolution issues che le siano presentate in via ultimativa sarebbe stato altamente inopportuno non solo per via del considerevole scarto tecnico esistente fra i Law Lords sedenti nella Camera alta e i giuristi del Privy Council , ma anche per la situazione di dubbia costituzionalità in cui, alla luce dello Human Rights Act 1998 e delle garanzie europee introdotto nell’ordinamento nazionale si sarebbe trovato il Lord Chancellor, membro di diritto della commissione giudicante della Camera alta  (e come tale tenuto alla più rigorosa imparzialità di fronte a controversie sorgenti dalle aree di devolution) e nel contempo  componente dell’Esecutivo e del Parlamento legiferante di Westminster (e pertanto in pieno conflitto di interessi rispetto a un qualsiasi Esecutivo o Legislativo devoluto dalla cui azione amministrativa o soprattutto legislativa sarebbe scaturito uno dei molti, possibili devolution clashes ).

In diverse occasioni è stata presa in esame l’ipotesi della fusione tra il Judicial Committee of the Privy Council e l’analogo collegio operante nella Camera dei Lords, altro imponente corpo di alta giurisdizione la cui funzione di suprema corte di appello, risalente anch’essa al periodo medievale come espressione del potere del King in His Council in Parliament, è stata modernamente istituita con l’Appellate Jurisdiction Act 1876 (ultimo di una sequenza di importanti interventi legislativi che nella media età vittoriana razionalizzarono l’intera organizzazione delle magistrature nelle Isole britanniche (Stevens, The Final Appeal: Reform of the House of Lords and Privy Council, 1867-1876, 1964; Bloom-Cooper e Drewry, Final Appeal: A Study of the House of Lords in Its Judicial Capacity, 1972). Prima della riforma non esisteva un particolare ruolo interno alla Camera alta che fosse occupato da giuristi, sicché la giurisdizione dei Lords era considerata la meno qualificata del regno a tutto vantaggio di quella erogata dal Privy Council; ma per effetto della legge del 1876 la formazione del Judicial Committee con i Lords of Appeal in Ordinary, alti magistrati professionali ai quali si aggiungono di diritto il Lord Chancellor (con funzione di presidente) e con quei Pari che occupino cariche di rilievo («high judicial offices») nell’ordinamento giudiziario, ha attribuito grande autorevolezza al collegio.

Mentre al Privy Council competeva non solo la giurisdizione d’appello da qualsiasi parte del regno e dai possedimenti della Corona, ma anche la giurisdizione “territoriale” scaturita dalla questione irlandese e in seguito dalla devolution of power e altre giurisdizioni speciali (ammiragliato, cause ecclesiastiche, casi sollevato nel quadro di determinati ordini professionali), la funzione giurisdizionale della Camera alta nella sua Commissione giudiziaria si è proposta come generalistica, nella sua qualità di vertice del sistema giudiziario di common law. In altri termini, il Judicial Committee of the House of Lords si è pienamente qualificato come la suprema istanza giurisdizionale del Regno Unito, verso la quale dall’intera area di common law ovvero da Inghilterra, Galles e Irlanda, ma in seguito anche dal sistema di Scots law, confluivano in origine le cause civili (ma anche le cause penali dall’Irlanda) e quindi anche gli appelli in materia penale a norma del Criminal Appeal Act 1907. La particolarità del suo ruolo pertanto deriva non già dalla specialità delle attribuzioni giurisdizionali bensì dalla particolare esposizione che la giurisprudenza della Camera dei Lords ha sviluppato, quale giudice di massimo appello, in materie di impianto fondamentale quali la salvaguardia delle libertà e, da oltre un ventennio a questa parte, la regolazione dei rapporti tra diritto domestico e diritto dell’Europa comunitaria.

Sotto il profilo della vigilanza sui diritti fondamentali (compito di giurisdizione nobile che, con l’adozione dello Human Rights Act 1998, è vieppiù entrato in un fruttuoso corto circuito con il ruolo “europeo” del Judicial Committee of the House of Lords) le attività della Camera dei Pari e del Consiglio Privato non mancano di punti di intersezione. Ma va sottolineato che, se l’impegno giurisdizionale del Privy Council può giungere a ricomprendere nella propria sfera decisionale anche istanze che siano attinenti all’esercizio delle libertà fondamentali nel Regno Unito o in quei paesi dai quali è previsto provenga l’istanza di appello del giudizio, la qualifica di giudice supremo d’appello che è attribuita in via ordinaria al Judicial Committee della Camera dei Pari (collegio formato in prevalenza da giudici professionali e non costituito in base a un substrato di norme consuetudinarie) ha fatto sì che da parte dei Law Lords potessero essere trattate, con  efficacia costituzionalmente probante, alcune delicate questioni per lo più attinenti all’esercizio di libertà individuali (le cronache citano spesso come particolarmente emblematico il caso del 1999 Reynolds v. Times Newspapers Ltd., in tema di libertà d’espressione) e a forme di giustizia implicanti valutazioni sconfinanti in questioni di libertà personale e di diritto internazionale (memorabile, negli ultimi tempi, il caso Pinochet del 2000).

Va inoltre evidenziato che ogni decisione di questo Judicial Commitee, la cui produttività giudiziaria ultimamente aveva tratto un forte impulso dall’assistenza fornita dal rinforzato Lord Chancellor’s Department, forma l’oggetto di un dettagliato rapporto ufficiale che è presentato al plenum della Camera dei Pari e da questa adottato come atto proprio: con ciò si enfatizza il dato che la sentenza d’appello è emanata dal Parlamento nella sua alta funzione giudiziaria. Lo stesso dicasi per le opinioni giuridiche che, in ossequio ai canoni “costituzionali” della common law, i Law Lords possono esplicitare in relazione a singole questioni loro sottoposte. Le espressioni di questo autorevole advice giurisdizionale, che in coerenza con i canoni del diritto inglese pongono in evidenza il protagonismo individuale del giudici, formano oggetto di una vasta letteratura, ma non sono considerate vincolanti erga omnes a meno di non essere ratificate dai Pari in seduta plenaria.

 

In quanto fin qui esposto si ravvisa un ulteriore elemento di valutazione del variegato modo in cui si articola la giurisdizione della costituzionalità nel Regno Unito: lungi dal configurare un potere “altro” rispetto alle Corti di giustizia e rispetto alle istituzioni politiche, i Judicial Commitees del Consiglio Privato e della Camera dei Pari operano all’interno delle istituzioni stesse e integrano la loro azione con quelle delle Corti delle quali sono istanze di appello non, pertanto, sostitutive. Per quanto riguarda l’aspetto giurisdizionale, la giustizia di rango costituzionale (o meglio si direbbe su questioni di diritto costituzionale) non forma una dimensione giuridica autonoma ma scaturisce dall’ordinario dibattito giudiziario e, pertanto, dal capace e sostanzialmente protettivo alveo della rule of law che fornisce elementi di giudizio tanto alle Corti ordinarie quanto ai Judicial Committees. Per quel che concerne l’aspetto istituzionale, sebbene di questi ultimi sia stato esplicitamente ipotizzato, non di diritto per formale attribuzione ma di fatto per le esperienze giudiziarie maturate “sul campo”, un comune ruolo di «Constitutional Courts» annidate in un sistema a costituzione non scritta (Maxwell, The House of Lords as a Constitutional Court. The Implications of ex parte E.O.C., 1999), entrambi sono parte integrante del circuito politico-istituzionale, ma con una sostanziale differenza che concerne la diversa natura della giustizia metacostituzionale da essi erogata: il Privy Council è incardinato nella prerogativa regia e promana dalla Corona; la Camera dei Lords è un istituto parlamentare e si esprime come la proiezione giudiziaria di un ramo del Legislativo, sicché ben si potrebbe discorrere, al di là di quanto s’è detto a proposito del judicial review che è esercitato dalle Corti di giustizia, di una duplice identità della giurisdizione costituzionale esercitata dai Judicial Committees, la quale promana da corpi politici il cui comune intento è, una volta consegnate alla storia le antiche controversie sull’attribuzione della sovranità, preservare la pace del regno, ossia – come osservava un autorevole osservatore statunitense – operare «for the sake of peace and the common welfare» (Warren, The Supreme Court and the Sovereign States, 1924, p.35).

Le due commissioni giudiziarie, in sintesi, fondono le dimensioni bcactoniane della iurisdictio e del gubernaculum, il che dà forma e sostanza alla “costituzionalità” della giustizia che da esse è separatamente amministrata. D’altronde non è solamente tradizionalismo, ma soprattutto per via dell’autorevolezza tutta politica sviluppata dai giudici sedenti nella Camera dei Lords in tema di diritti fondamentali (Stevens, Law and Politics: The House of Lords as a Judicial Body, 1800-1976, 1979) e, di converso, della separata esperienza che il Privy Council ha sviluppato in tema di rapporti territoriali (Oliver, The Lord Chancellor, the Judicial Commitee of the Privy Council and Devolution,, 1999), che nonostante il comune impegno su questioni che si possono agevolmente definire di diritto costituzionale e le critiche che da parte della dottrina sono state occasionalmente rivolte nei confronti della presunta ridondanza delle forme di giustizia suprema operanti nel Regno Unito, le proposte di unificazione fra i Judicial Committees del Consiglio Privato e della Camera alta non hanno avuto corso, almeno fino a che l’intervento razionalizzatore del Constitutional Reform Act 2005 non ha affrontato la questione incidendo sulla loro funzionalità. 

 

L'evento che dimostra in modo più eloquente fino a qual punto il Regno Unito stia per intraprendere un percorso al cui termine potrebbe essere la realizzazione di una giurisdizione costituzionale in senso proprio, seppure di una giurisdizione del tutto sui generis, si riconosce nell'istituzione della Supreme Court of the United Kingdom, iniziativa che non appare finalizzata alla realizzazione di una corte stricto sensu costituzionale, bensì alla consacrazione di un principio – la separazione dei poteri – che un tempo il più consolidato pensiero del liberalismo parlamentarista, come dimostra ancora una volta Walter Bagehot per il quale

 

«There are two descriptions of the English Constitution which have exercised immense influence, but which are erroneous. First, it is laid down as a principle of the English polity, that in the legislative, the executive, and the judicial powers are quite divided – that each is entrusted to a separate person or set of persons – that no one of these can at all interfere with the work of the other»

[The English Constitution, p. 59]

 

considerava privo di spazi effettivi in un ordine costituzionale dominato dai canoni della common law e dalla necessità della cooperazione, e non già della divisione, fra le istituzioni del potere pubblico organizzato.

L'argomento può essere rapidamente sintetizzato ponendo in evidenza che la diretta sintonia britannica tra poteri, e in particolare tra il Legislativo e l'Esecutivo ma senza sottovalutare il ruolo profondamente politico di un sistema di Corti costituzionalmente indipendente, è tuttora alla base del sistema di governo del Regno Unito: in questa diretta comunicazione politica tra i due poteri della statualità, ovvero nella «fusion of the legislative and the executive», si individuava «the latest essence and effectual secret of the English Constitution» (Bagehot, The English Constitution, p.69). La proposizione è ancor oggi pienamente accettabile, e dunque qual è il suo collegamento con l’esigenza di dare forma nel Regno Unito alla giustizia della costituzionalità?

L'elemento che, almeno in apparenza, risulta più innovativo nella riforma del 2005 e che per questo può interessare maggiormente il costituzionalista contemporaneo sta nel diretto collegamento fra l'istituzione di una suprema istanza giudiziaria che si riconduce entro il genus della giurisdizione costituzionale e la necessità di garantire un'espressione istituzionale, resa finalmente esplicita e visibile, proprio a quella separazione di poteri (Caravale, La separazione del giudiziario. Tradizione e innovazione nel Constitutional Reform Act 2005, 2004) che il costituzionalismo classico, esaltando la cooperazione tra Legislativo ed Esecutivo e dogmatizzando il principio della independence of the Judiciary e l'innervazione costituzionale della common law (Griffith, The Commom Law and the Political Constitution, 2001), si ostinava a negare (Bagehot) o semplicemente a ignorare (Dicey, e molti altri in seguito). Affinché sia considerata come un elemento non alieno rispetto alla percezione tradizionale del basilare rapporto fra autonomie degli individui e potere delle istituzioni – classico nervo scoperto del costituzionalismo di ogni paese che presuma di dare forme democratiche al proprio ordinamento costituzionale, ma che nel Regno Unito ha trovato il suo alveo di composizione nel nesso fra società civile, istituzione parlamentare rappresentativa e garanzie della giurisdizione – l'esigenza di una nuova forma di azione giurisdizionale di rango supremo trova il suo più eloquente punto di saldatura nella questione dei diritti, alla quale nel 1998 è stato dato corpo con lo Human Rights Act che ha accolto nell'ordinamento britannico la Convenzione Europea per i Diritti dell'Uomo e, in tal modo, ha aperto la via verso nuove forme di armonizzazione del tradizionale diritto di common law con il più ampio scenario dei valori costituzionali europei (Singh Juss, Constitutinalising Rights Without a Constitution, 2006).

In un certo qual modo, è anche e soprattutto alla luce dello Human Rights Act 1998 che il revival britannico della separation of power riesce a sottrarsi all'astrazione e acquisisce fome di storica concretezza che contribuiscono al superamento intellettuale delle persistenti preclusioni della dottrina classica di matrice vittoriana. Ma un altro elemento molto significativo operante nel senso del riconoscimento della necessità di una giurisdizione d’indole costituzionale si individua nella devolution of power: complesso e dinamico processo modernizzatore dell'esercizio territoriale del potere pubblico in relazione al quale la nascita di una suprema istanza giurisdizionale, verso cui si riversino e in un certo senso si riassumano le tradizionali condizioni e le nuove forme del pluralismo giuridico del Regno Unito, offre alla giustizia costituzionale nuove possibilità di espressione.

La creazione di una Corte Suprema è, a prima vista, un evento inedito nella storia costituzionale anglo-britannica, ma in realtà le sue premesse si ravvisano nell'intrinseca natura del sistema di governo (Lord Steyn, The Case for a Supreme Court, 2002; Lord Bingham, A New Supreme Court for the United Kingdom, 2002; Orlandi, Verso una “Corte Suprema” britannica?, 2005). Si sono con ciò riportate alla memoria alcune tra le riforme costituzionali più significative che sono state introdotte nell'ultimo decennio dal New Labour di Tony Blair, alle quali si deve allo stato attuale il contesto in cui ha preso forma lo strumento della Supreme Court of the United Kingdom e che può essere sommariamente definito come quello di un sistema costituzionale in transizione del quale siano considerati elementi essenziali non solo il Legislativo di Westminster e il governo di Gabinetto ma anche l’apparato giudiziario nella sua complessità che – come dichiarava Lord Lester nel suo programmatico intervento al dibattito della Camera dei Pari dell’ottobre 1998 – forma la  «terza branca» di governo del paese. Alla luce di questa nuova fisionomia, che dichiara una realtà già da secoli presente nella storia costituzionale, non stupisce che alla giurisdizione sia oggi chiesto di esercitare un potere pubblico nella loro qualità di custode dell’ordine costituzionale, della quale essa è parte e non una sezione separata (Leopold, La struttura della magistratura britannica e la Costituzione, 2004).

 

Preannunciato dall'istituzione, decisa in Consiglio Privato e realizzata con un apposito Order in Council che formulava anche la proposta – in seguito ridimensionata – di abolizione della plurisecolare carica del Lord Chancellor, di un nuovo dicastero governativo (Torre, Il nuovo Department for Constitutional Affairs: una 'bomba a grappolo' nell'ordinamento britannico, 2004), il progetto di intervento dell’Esecutivo britannico sul potere giudiziario ha condotto infine alla creazione della Supreme Court of the United Kingdom.

Con il trasferimento (provvisorio nel 2003 in attesa dell'istituzione di una apposita commissione indipendente, e oggi reso reraltà dall'intervento normativo del 2005) al nuovo Segretario di Stato delle responsabilità che un tempo competevano al Lord Chancellor in materia di patronage sulle nomine dei giudici (Oliver, The Lord Chancellor's Department and the Judges, 1994), s'è inteso superare quella condizione di confusione dei poteri derivante dall'ibridazione del ruolo giudiziario, parlamentare e governativo del titolare del vetusto ufficio, che dalla riforma risulterebbe più modernamente "costituzionalizzato" (Leyland, Separating Powers and Constitutionalising the Office of Lord Chancellor,, 2004), ovvero retto da norme scritte e certe anziché da dignitose consuetudini. Ma, al di là del nuovo status costituzionale del Lord Chancellor (la cui importanza al vertice dell'organizzazione garantistica dell'intero Regno Unito, anziché svanire, esce confermata dalla recente riforma e, pertanto, più elevata), la necessità di segnare un ulteriore passo in avanti verso il conseguimento di un più convincente assetto di separation in favore del quale si era appuntata la stessa attenzione critica della giurisdizione comunitaria, si sarebbe trasformato in uno dei motivi fondamentali dell'istituzione della nuova Supreme Court.

Alla genesi della Supreme Court si pone inoltre il passaggio da una concezione diffusa e, se si vuole, eminentemente dispersiva della forma costituzionale britannica (tipica del pensiero tardo-liberale che, con Dicey, assegnava l'egemonia costituzionale alle garanzie della common law e a pochi, essenziali dogmatismi), a un pensiero costituzionale coeso. In tal senso la riflessione aveva trovato avvia con l'attività (tra il 1969 e il 1973) della Royal Commission on the Constitution, la quale aveva svolto una complessa indagine sull'impatto costituzionale della questione territoriale e della devolution; e, dopo un lungo congelamento thatcheriano, le odierne riflessioni sulla Costituzione si sono dapprima sviluppate attraverso l'ondata riformista avviata nel 1997 e tuttora in svolgimento. Con il dibattito sul Constitutional Reform Bill, dal quale sarebbe scaturita la riforma che ha dato vita alla Corte Suprema, si è inoltre focalizzato il più recente dibattito dottrinale (Morgan, Between the Fairy Tale and the Abyss: the Creation of a Supreme Court for the United Kingdom, 2005; Hale, A Supreme Court for the United Kingdom?, 2005; Legg, Brave New World: the New Supreme Court and Judicial Appointments, 2005;  Himsworth e Paterson, A Supreme Court for the United Kingdon: Views from the Northern Kingdom, 2005; Woodhouse, The Constitutional and Political Implications of a United Kingdom Supreme Court , 2005).

Lo spostamento dell'asse del confronto sulla questione della Costituzione come assetto fondamentale del sistema politico del paese ha prodotto l'effetto di attrarre il potere giurisdizionale, tradizionalmente indipendente e pertanto posto non "dentro" l'ordine costituzionale bensì sullo sfondo di esso (tale il ruolo classico, in sostanza, attrbuito alla common law: informare di sé un assetto costituzionale derivato), entro la sfera del discorso costituzionale. Prospettiva ultima di un simile mutamento d'indirizzo non sembra essere tanto l'inglobamento del potere delle Corti nel quadro politico (d'altra parte, s'è visto come la posizione di indipendenza dei giudici britannici non abbia mai ostacolato il loro protagonismo costituzionale), quanto piuttosto la piena valorizzazione del loro tradizionale ruolo di regulators del diritto costituzionale.

Contrariamente alle radicali previsioni del 2003 la nuova Corte non eclissa totalmente il ruolo del Lord Chancellor, il quale resta un supremo organo monocratico di riferimento costituzionale, nella qualità di tutore dei valori della giustizia sostanziale a fronte delle altre esigenze, potenzialmente confliggenti, rappresentate da altri dipartimenti governativi. Sotto tale riguardo, si può ipotizzare che in esso si possa individuare un nuovo protagonista del sistema costituzionale. Se considerata alla luce dei valori giuridici europei e, con una certa dose di buona volontà, perfino del diritto comparato, la riforma del 2005 assicurerà una migliore salvaguardia "costituzionale" delle libertà fondamentali nel paese. Restituito il Lord Chancellor alla costituzionalità e alla rule of law (e il principio di separazione dei poteri essendo soddisfatto dalla sottrazione al Lord Chancellor del potere di patronage e dall'assegnazione di questo potere a una autonoma Judicial Appointments Commission), il riformatore ha trasmesso alla Supreme Court, inizialmente formata da dodici Justices of the Supreme Court, le funzioni del Judicial Committee del Consiglio Privato e dell'Appellate Committee della Camera dei Pari.

Nasce in tal modo un nuovo corpo giurisdizionale con funzioni arbitrali. Ma, nonostante la sua qualifica di Corte Suprema "del Regno Unito" titolare del potere di giudicare le devolution issues e principalmente i conflitti che sorgono tra istituzioni decentrate in quei sistemi – come dal 1998 è il Regno Unito, in cui peraltro il trasferimento territoriale di poteri è un processo in costante evoluzione (Davies, Devolution. A Process, Not an Event, 1999) se si considera quanto statuisce il Government of Wales Act 2006 – che si danno organizzazioni composite, il riformatore ha voluto escludere che il nuovo collegio formi un quartum genus di giurisdizione che si sovrapponga a quello delle Corti di giustizia e dei Judicial Committees of the Privy Council e della Camera dei Pari, con ciò complicando il quadro di una giurisdizione di costituzionalità che è ripartito e diffuso al pari dell'ordine costituzionale che essa difende con le proprie decisioni. D'altra parte sarebbe poco realistico negare recisamente che alla Supreme Court sarà del tutto preclusa la possibilità di creare una giurisprudenza autonoma, se non altro per il fatto che – da un lato – il capace alveo della devolution si preannuncia,a circa dieci anni dalla sua prima organizzazione nelle aree substatali e nonostante la sonora battuta d'arresto dello strano progetto di devoluzione-regionalizzazione dell'Inghilterra – come una inesauribile miniera di contraddizioni costituzionali; e – dall'altro lato – la giurisdizione della Corte sarà amministrata con tendenziale uniformità per i sistemi di common e di Scots law (Arden, The Jurisdiction of the New United Kingdom Supreme Court , 2004) e, così facendo, non mancherà di aprire nel Regno Unito nuovi percorsi della giurisdizione fondamentale (senza dire delle sue competenze "europee", lasciate del tutto indeterminate dall'Atto costitutivo). Anche sotto questo profilo la Supreme Court of the United Kingdom potrebbe configurare un efficace elemento di sintesi di un sistema complesso di giurisdizioni che storicamente amministrano frammenti di giustizia costituzionale senza che alcuna tra esse ne abbia mai esercitato il monopolio.

 

 

 

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