Alessandro Torre
La Corte Suprema del Regno Unito: la
nuova forma di una vecchia idea
(articolo già pubblicato sul Giornale di storia
costituzionale, 2006, fascicolo n. 11).
Alla
svolta della Palmerston age (Briggs, Victorian People, 1990, p. 95 ss.) e pertanto all'esordio di un
periodo che si sarebbe caratterizzato per il relativo declino della
magniloquenza costituzionale della prima età vittoriana, esprimendosi senza
mezzi termini e con il consueto spregiudicato ragionare sulle cose
istituzionali, di cui è disseminato il suo pensiero, Walter Bagehot poneva in
luce una questione che ancor oggi, nonostante la recente istituzione della Supreme Court of the United Kingdom, è
ben lontana dall'aver trovato una risposta che (soprattutto se considerata dal
punto d'osservazione del costituzionalista continentale) si possa considerare
pienamente risolutrice:
«The
supreme court of the English people ought to be a great conspicuus tribunal,
ought to rule all other courts, ought to have no competitor, ought to bring our
law into unity, ought not to be hidden beneath the robes of a legislative
assembly»,
[The English Constitution, p. 147]
Questo
frammento tra i meno noti del pensiero bagehotiano, che si può rintracciare
cercando tra le pieghe della sua fondamentale opera sulla costituzione inglese può essere
considerato una perfetta provocazione iniziale sulla quale innestare la
ricostruzione del contesto in cui oggigiorno si inserisce l'adozione del Constitutional Reform Act 2005.
Questa
legge introduce anche nel Regno Unito una Corte Suprema e si impone
all'attenzione comune come una delle ultime espressioni della rapida progressione
modernizzatrice che è stata inaugurata nel 1997 dal New Labour blairiano con una serie di importanti interventi
riformatori attraverso i quali – solo per citare gli esempi più eclatanti – è
stato incorporata nell'ordinamento domestico la Convenzione Europea per i
Diritti dell'Uomo (Human Rights Act 1998);
sono state introdotte forme asimmetriche di devolution
in Scozia (Scotland Act 1998), Galles
(Government of Wales Act 1998) e in
una semi-pacificata Irlanda del Nord (Northern Ireland Act 1998); è stato ridefinito lo status costituzionale della Banca
d'Inghilterra (Bank of England Act 1998);
è stata modificata per la prima volta nella storia la tradizionale struttura
della Camera dei Pari (House of Lords Act
1999); è stata ripristinato il governo strategico della Grande Londra (Greater London Authority Act 1999); sono
stati ampliati i margini di godimento della libertà di informazione e con ciò
segnata un'importante tappa della realizzazione dell'open government (Freedom of
Information Act 2000); si sono realizzate nuove misure le la regolazione
dell'attività politica (Political
Parties, Elections and Referendums Act 2000); e purtroppo è stato
affrontata in termini critici la
questione del bilanciamento tra esercizio delle libertà fondamentali ed
esigenze della sicurezza nationale (Terrorism
Act 2000 e Regulation of Investigatory Powers Act 2000).
L'intuizione
della necessità di dare forma a un tribunale superiore (e unico) della
costituzionalità non è nuova nel Regno Unito, se è vero che – sebbene attraverso
gli accenti dell'ingegno critico di un autentico outsider del pensiero costituzionale medio-vittoriano quale era
Walter Bagehot – nello stesso contesto in cui era stata varata la seconda
grande riforma elettorale dell'età liberale si era fatta strada anche l'idea di
porre ordine nelle proiezioni costituzionali di un ancora frammentario sistema
giurisdizionale. Tale intuizione tuttavia ha seguito un andamento carsico nel
pensiero costituzionale britannico: pressoché scomparsa nelle elaborazioni
dell'ortodossia giuspubblicistica delle generazioni post-vittoriane e dei
decenni del welfare state, essa è
riaffiorata solo di recente (Hope, A
Phoenix from the Ashes? Accommodating a New Supreme Court, 2005). Pur
nell'assenza di una costituzione scritta e sovraordinata, varie forme di
giustizia che si potrebbe definire "della costituzionalità" era
infatti erogata dalle esistenti giurisdizioni della alte Corti, che di lì a
poco le grandi riforme della magistrature di common law e di Scots law
(realizzate con i Judicature Acts 1872 e 1873)
avrebbero efficacemente razionalizzato dando un assetto più coerente a un
sistema giudiziario di antica tradizione, l'origine delle cui organizzazioni di
base risaliva al medioevo. Le riforme della media età vittoriana tuttavia non
avrebbero affrontato la questione dell'unicità della giustizia suprema, e di
una giustizia suprema unica che si occupasse di risolvere tutti quei casi di
forte conflittualità politica che anche nel Regno Unito si sollevavano, per
utilizzare un'espressione che tempo addietro era stata coniata dai cugini
d'Oltreoceano, «under the Constitution»
(si pensi alla questione irlandese, che nell'ultimo ventennio dell'Ottocento
condizionò pesantemente i governi
liberali di Gladstone e dei suoi successori; o alla grave crisi infraparlamentare
del 1909-11). D'altra parte, se i pilastri dell'ordine costituzionale
britannico andavano rintracciati nella rule
of law, nella supremacy of Parliament
e nel convenzionalismo che regolava i rapporti tra istituzioni operanti nel
circuito del potere politico, e se la costituzione del regno era considerata
"inesistente" o comunque non scritta, in base a quale convincente
argomento si sarebbe individuata la necessità di creare una Corte Suprema di
modello statunitense ?
Del
resto, se si analizza con più attenzione il frammento bagehotiano, in carenza
di una costituzione superiore l'idea di dare corpo a un «conspicuous tribunal» si rivelerebbe essere non la (necessaria)
conseguenza dell'introduzione di una (non necessaria) costituzione scritta
d'impianto benthamiano, bensì un elemento di quella razionalizzazione degli
ordinamenti giudiziari che era in gestazione negli anni in cui Bagehot
pubblicava le prime dispense della English
Constitution, ma che in seguito intere generazioni di riformatori avrebbero
sostanzialmente accantonato. A ciò va aggiunta la necessità, questa sì
realmente avvertita dai più illuminati statisti dell'epoca e giunta intatta
fino alla recentissima riforma istitutiva della Supreme Court (Carnwath, Do
We Need a Supreme Court?, 1992), di sottrarre l'alta giurisdizione (o parte
di essa) all'istituzione parlamentare che la esercitava attraverso uno spezzone
della Camera dei Lords o alla Corona,
che operava atraverso il Privy Council.
A ciò va aggiunta la prospettiva di dare realizzazione a un principio, se non
proprio di separazione dei poteri di concezione montesqueiana altrove
perentoriamente respinto da Bagehot come non applicabile al sistema
costituzionale britannico, almeno di ulteriore e completa autonomizzazione
delle alte funzioni giudiziarie. La perentorietà con cui Bagehot (ma, in
seguito, non più altri eminenti protagonisti del pensiero costituzionale della
tarda età vittoriana e della transizione edoardiana come Albert Venn Dicey,
Frederick W. Maitland e James Bryce), pur negando per il sistema britannico
l'attendibilità di un assetto di separation
of power, si rendeva fautore
dell'istituzione di una Corte Suprema ante
litteram in un contesto in cui peraltro nessun paese dell'Europa liberale
dotatosi di una costituzioni scritta aveva ancora dato vita a supremi tribunali
costituzionali, era pertanto dettata
dall'osservazione desolata della caotica frammentarietà di un'azione
giudiziaria ripartita tra diversi corpi. Questa condizione di frammentarietà
era considerata da Bagehot una vistosa assurdità del sistema costituzionale di
matrice inglese.
In
realtà, pur senza aver mai (a parte l’effimero periodo del Commonwealth cromwelliano: 1653-60) dato forma a una carta
costituzionale scritta, il regno d'Inghilterra e, in seguito, la complessa
entità statuale nota come il Regno Unito (Rose, Understanding the United Kingdom, 1982 ) è tutt'altro che un sistema acostituzionale, ovvero privo di un
ordine costituzionale dotato di una propria coerenza. In esso le libertà
fondamentali riposano su un solido apparato di garanzie, e le strutture di
governo sono effettivamente responsabili, per la loro azione di policy-making, nei confronti del
Parlamento. E, sebbene la nozione giuridica dello Stato non sia mai stata
coltivata con convinzione nel pensiero politico (cfr. Dyson, The State Tradition in Western Europe,
p. 186 ss.), forte e relativamente coesa è la statualità britannica fondata
sull'effettività del government e non
su proiezioni astratte della personalità giuridica di un ente superiore. Agli occhi
di un osservatore che sia appena un po' meno superficiale del solito, non
dovrebbero pertanto destare sorpresa le circostanze che in piena età
vittoriana, pur restando in seguito inascoltata, si sia fatta strada l'istanza
della necessità di una singola giustizia superiore, e che lungo il corso della
contemporanea evolutività del sistema britannico (un sistema che, si badi bene,
è sempre più integrato nell'Unione Europea e soggetto ai suoi influssi giuridici)
si sia precisata quella nozione di "giustizia della costituzionalità"
che dappertutto è un elemento essenziale
e ormai indefettibile del diritto pubblico nei sistemi a costituzione scritta.
D'altronde,
se si considera la questione con lo sguardo formale del costituzionalista
continentale, chi mai avrebbe mai sospettato che le odierne prospettive di
sviluppo di questa nozione, che mai in linea di principio era stata enunciata
per via dottrinale da parte dei constitutional
lawyers dell'ortodossia egemone, si stiano oggi orientando in via di fatto
lungo i medesimi percorsi delle altre esperienze nazionali che, al contrario,
sono pressoché tutte rette da costituzioni deliberatamente codificate in rigide
forme documentarie e per lo più innestate su forti princìpi statalistici (D.
Oliver, Written Constitutions: Principles
and Problems, 1992)? Se valutato sotto questo profilo, ben si adatta al
dibattito odierno che ha prodotto l'istituzione della Supreme Court britannica il verso di uno dei romantici Fourteen Sonnets di W.L. Bowles: «c'è
una musica insolita nel mormorio del vento», «there is a strange music in the stirring wind» (W.L. Bowles, November, 1793). A patto di
interpretarne il ruolo con spregiudicata libertà intellettuale, la nascita, nel
Regno Unito blairiano, della Supreme
Court (della quale i riformatori hanno scelto di escludere esplicitamente
la fisionomia di corte costituzionale, ma che in futuro potrebbe affermarsi
come un inedito anello di congiunzione tra i sindacati "di
costituzionalità" che erano esercitati da diverse agenzie giurisdizionali
e la giurisdizione di un tribunale di rango supremo costruito sui modelli
europei e nordamericano) potrebbe tuttavia non destare eccessivo stupore.
Perché ciò avvenga, i dati dai quali occorre prendere le mosse
adattandosi a tenere in poco conto l'obiettiva circostanza dell'inesistenza nel
Regno Unito di un singolo corpo di alta giurisdizione appartenente al genus delle corti costituzionali e
istituzionalmente legittimato a giudicare under
the Constitution, sono che il tradizionale senso di autosufficienza
giuridica e culturale delle pensiero costituzionalistico britannico appare da
alcuni anni considerevolmente attenuato, e che, d'altra parte, diversi corpi
giudicanti esercitano di fatto forme di giustizia di costituzionalità
districandosi entro l'eterogeneo contesto di una tipica matter of convenience quale è la Costituzione del regno (e sovente
contribuendo a determinare attivamente i contorni di tale materia). Seguendo la
pragmatica metodologia del do it yourself,
questi corpi operano in via ripartita e spesso occasionale ponendo in
essere alcune tra quelle forme di adjudication che dappertutto in Europa
continentale e altrove nel globo competono alle corti costituzionali, e che
solamente in tempi più recenti hanno sviluppato una certa influenza sul pensiero
dei common lawyers tanto da poter
essere annoverate tra gli elementi che hanno concorso all'impostazione della
riforma che ha prodotto la Supreme Court (Le
Sueur, Building the UK's New Supreme
Court, 2004).
Le
cronache mondane registrano come qualche tempo addietro un brillante
conferenziere (Simon, Quelques reflexions
sir le régime parlementaire en Grande-Bretagne, 1935), affrontando nel modo
più classico il tema della natura della costituzione britannica, desse avvio
alla sua apostrofe affermando che, così come l’Irlanda era una terra «senza
serpenti», la Gran Bretagna era un paese “senza costituzione” («Eh bien, l'Angleterre il n'y à pas de
Constitution»): apparentemente semplice, come per lo zoologo, sarebbe
perciò risultato il compito inquirente del costituzionalista. Era un modo, questo, amabilmente retorico che
presupponeva il mito, apparentemente molto caro al Tocqueville che tuttavia
operava in ben altro contesto (Torre, Interpretare la Costituzione britannica,
1997, p.212 ss.), dell’inesistenza della costituzione britannica come
incontestabile peculiarità. In realtà l'oratore introduceva la questione
dell’essenziale duplicità del dato costituzionale nel Regno Unito – sulla quale
diverse generazioni di dottrinari britannici non hanno cessato di interrogarsi
soprattutto se poste di fronte alle trasformazioni dell’età thatcheriana e del
blairismo (Munro, What Is a Constitution?,
1983; Barendt, Is There a United Kingdom Constitution?, 1996; King, Does
the United Kingdom Still Have a Constitution?, 2001), privo certamente di
una singola costituzione scritta ma eccezionalmente solido nella salvaguardia
delle libertà fondamentali riconosciute ai sudditi e nell’efficacia d’azione
delle proprie istituzioni di governo. Il medesimo registro argomentativo si
adatta facilmente alla questione della giustizia costituzionale, che si suole
considerare inesistente in terra britannica per via della mancanza a monte di
quel rigido parametro che dappertutto nel mondo è configurato da costituzioni
mono- o pluridocumentarie, ma pur sempre scritte e – ciò che più conta –
sovraordinate.
Ma in
realtà muovere alla ricerca di elementi di giurisdizione costituzionale nel
Regno Unito non è impresa infruttuosa come l’andare a caccia di rettili in
Irlanda. Sotto questo riguardo il compito del costituzionalista è più semplice
di quello del naturalista poiché è evidente che, se sulla scorta
dell’asserzione della non scrittura della costituzione britannica ci si
limitasse a negare ogni possibilità alla sussistenza di un'esplicita iurisdictio costituzionale, ebbene questo
non sarebbe un modo alquanto grossolano di trattare una questione che invece
rivela elementi di particolare complessità? Infatti, per quanto possa sembrare
paradossale o quanto meno contraddittorio, proprio l'assenza di una
costituzione scritta consente di sviluppare una riflessione in vitro rivelatrice di elementi di
particolare pregnanza per il costituzionalista che non si fermi alla
superficie.
Vero
crogiuolo della cultura costituzionale universale, da molto tempo l’esperienza
anglo-britannica contiene in sé, se non propriamente le forme istituzionali
concrete che altrove si esprimono in una singola istanza giurisdizionale
all'uopo deputata, almeno i prerequisiti di una giustizia della
costituzionalità che non può essere considerata assente per il semplice fatto
che nel Regno Unito non esista una costituzione scritta e che il suo ordine
costituzionale sia flessibile e anzi in essa si individui l’archetipo della
flessibilità costituzionale: il che tuttavia non è di per sé sufficiente a
escludere che anche a essa si possa riconoscere quella che è stata definita,
prendendo spunto da Bryce, una «naturale rigidità» (Pace, Le cause della rigidità costituzionale, 1996). Sulla scorta del
pensiero diceyano, basti considerare quale resistenza al mutamento oppongano,
per esempio, le convenzioni costituzionali maturate attraverso l’esercizio di
prassi comunemente condivise e accettate e non disinvoltamente modificabili
attraverso semplici statuizioni normative (Marshall, Constitutional Conventions, 1986) o quanto l’influenza della
“moralità costituzionale” innervi di sé e consolidi dati politico-istituzionali
che altrimenti risulterebbero aleatori (Torre, Dicey, o della “constitutional morality”, 2003).
Sotto altro
profilo, l'indagine sulle recenti evoluzioni britanniche che hanno prodotto la
confluenza nel corredo potestativo della Supreme
Court di attività giurisdizionali che sono variamente collegate alla
questione costituzionale e che, come si vedrà, rientravano nelle competenze di
differenti corpi giudicanti, pone in
rilievo suggestive implicazioni metodologiche. Se infatti da un sistema di
governo si elimina il dato formale fondamentale da cui esso è determinato e che,
nella prospettiva di salvare e, possibilmente, stabilizzare l’armonia tra Grundnormen costituzionali e
legislazione primaria, configura uno dei principali motivi informatori della
suprema giurisdizione fino al punto di formare una sineddoche che confonde una
parte per il tutto (si pensa, ovviamente, all'esistenza di una Carta che sia il
prodotto di una deliberata operazione di constitution-making),
allora l’osservazione del caso britannico consente di destrutturare la
categoria concettuale complessa che si configura nella nozione ampia di “giustizia
costituzionale” e di metterne in rilievo alcuni moventi di fondo che, appunto,
prescindono aprioristicamente dalla sussistenza di una carta costituzionale
scritta. Questi moventi non sono meno autentici quali elementi fondanti la
necessità di una giustizia costituzionale, e questa necessità – come ipotizzava
Bagehot senza tuttavia spingere il suo pensiero fino ad affermare la necessità
di istituire una corte costituzionale ante
litteram – è ben presente nella
storia costituzionale del Regno Unito dall’età vittoriana in poi.
In parole povere, perché si crei la necessità di una giustizia di
costituzionalità il caso anglo-britannico dimostra che non è necessario che
sullo sfondo vi sia una costituzione scritta e sovraordinata (tutto dipende dal
concetto di costituzione dal quale si prendono le mosse). Poiché è privo del
fondamentale punto di pregiudizialità che informa di sé la totalità delle
giurisdizioni costituzionali operanti su scala planetaria, l’osservazione del
Regno Unito consente di risalire alle componenti essenziali della giustizia
costituzionale rivelando che l’essenziale natura di tale forma di giurisdizione
è l’agire come garante di quegli equilibri istituzionali e politici dei quali è
parte "anche", ma non più esclusivamente, l'armonizzazione delle
fonti legislative con il superiore dettato politico-normativo: componente,
questa, che risulta priva di consistenza in un sistema del quale, in ideale
continuità con un celebre passaggio della Constitution
d’Angleterre di J.L. de Lolme, Alexis de Tocqueville diceva che «peut
changer sans cesse, ou plutot elle n’existe point».
La questione può essere esposta, in altri termini, sottolineando che nei
sistemi a costituzione scritta l'esistenza di una corte costituzionale è una
conseguenza che proviene "dall'alto" di un sistema che in un dato
momento storico sceglie di dotarsi di un strumento atto a regolare supremamente
l'ordinato amdamento dell'attività delle istituzioni e dei loro rapporti con la
società civile. La stessa corte costituzionale rappresenta, d'altronde,
l'ipostasi in chiave giurisdizionale di tale fondamentale necessità che non
sempre è garantita dal senso di self
restraint delle istituzioni politiche. Laddove, come nel Regno Unito, la
costituzione non è scritta, tale necessità sorge "dal basso", o
meglio si direbbe "dall'interno" del sistema organizzato, ove si
avverte la necessità di proteggere l'integrità dell'ordine costituzionale. Si
può dire, in questo caso, che la giurisdizione suprema vi sia una necessità
sociale prima ancora che giuridica, ovvero un meccanismo garantistico
attraverso il quale l'assetto sociale protegge se stesso in quanto realtà
storica e in quanto sistema politico al quale le istituzioni si adattano,
parafrasando l'Hatschek che adattava la costituzione allo Stato, «come un
vestito al corpo» («wie das Kleid zum
Korper», come citato in Ducci, La
posizione degli organi costituzionali britannici nella dottrina e nella prassi,
1982, p.851-2).
Nonostante il fatto che l'assenza di una costituzione singolarmente scritta
che si proponga come fundamental law
del paese e la presenza di un forte e autorevole apparato di Corti di giustizia
prestino seri argomenti alla convinzione che nel Regno Unito l’azione di una
corte costituzionale sia giuridicamente superflua (per via dell’assenza di una
costituzione-parametro) e istituzionalmente inopportuna (per via del forte
potere che è tradizionalmente esercitato dalle magistrature, segnatamente di common law, le quali ove possibile
difendono le libertà, vigilano sugli equilibri costituzionali e fissano le
regole della "buona pratica" istituzionale), il profilarsi di una Supreme Court of the United Kingdom (dal
cui modello non sarebbero peraltro del tutto assenti alcune suggestioni
statunitensi, così come si trova esplicitamente suggerito in Wintour e Dyer, Ministers Shun US Model for Supreme Court,
2003) resta comunque un dato oggettivo che induce a riflessioni su quali siano
il senso e i protagonisti di tale forma di giustizia suprema nella più recente
storia costituzionale britannica.
Per quanto concerne il senso, come di fatto si avvide il Chief Justice Marshall in Marbury v. Madison e come tutti i
costituenti delle ultime generazioni novecentesche avrebbero in seguito
statuito facendo tesoro del precedente maturato nell’originaria esperienza
statunitense, la necessità di garantire stabilmente che nessuna violazione da
parte del legislatore turbi l’armonia fra la supreme law of the land e la produzione normativa ordinaria è
essenziale affinché il sistema costituzionale sussista e la costituzione stessa
sopravviva. Sotto tale profilo, di fronte alla prospettiva di un conflitto o
semplicemente al profilarsi di un’antinomia o di un elemento di contraddizione
sistemica, è raro che un ordine costituzionale possa eludere l’appuntamento con
l’enforcement giurisdizionale, e in
ciò anche il Regno Unito, pur nella mancanza di una costituzione scritta e di
una corte costituzionale, non fa eccezione. Per normalizzare quelle inevitabili
contraddizioni del sistema che non siano previamente neutralizzate
dall’applicazione della «constitutional
morality» teorizzata da Dicey e da altri (Raz, Authority, Law and Morality, 1985), sulla scorta della
consapevolezza che «several of the most
divisive moral conflicts that have beset us Americans in the period since the
end of World War II have been trasmuted into constitutional conflicts – ... –
and resolved as such»: Perry, What is
"The Constitution"? (and Other Fundamental Questions), 1998,
p.98) tale compito è stato affidato a quell'attività interpretativa delle Corti
(e di collegi giudicanti di diverso rango investiti, come si vedrà, di funzioni
ad hoc) che nel lessico del diritto
inglese rientra sotto la generica nozione di judicial review. Ma il judicial
review of legislation, pur occupandovi una posizione di primario rilievo, non esaurisce il
catalogo di quelle garanzie che, soprattutto se erette a difesa della
democrazia e di tutti quegli elementi che le diverse culture politiche
intendono come pre-costituzionali (Barak, The
Role of the Supreme Court in a Democracy, 1999), sono fondamentali per la
sopravvivenza stessa di un ordine costituzionale, sia esso scritto o – come nel
Regno Unito – non scritto, che si impone come una realtà justice-seeking ossia reclamante l’esercizio di una forma particolare
di giustizia, anche se fino a tempi non molto lontani una lettura acritica – e
forse fraintesa – del concetto diceyano della rule of law tendeva a ridimensionare il contributo creativo delle
Corti alla costruzione dell'ordinamento democratico, a tutto vantaggio del
ruolo del Parlamento (Cosgrove, The Rule
of Law: Albert Venn Dicey, Victorian
Jurist, 1980, cap. 4 e 5), asserendo che, in estrema sintesi, «democracy was to be protected by Acts of
Parliament, not by the judges» (Stevens, Government and the Judiciary, 2003, p.336).
Da ciò
scaturisce la ricognizione di quali corpi giudiziari abbiano, nell’ordinamento
britannico, disimpegnato tale funzione. Si deve affrontare a questo punto, in
quanto essenziale per comprendere cosa sia oggi la nuova Supreme Court britannica, il discorso su quali siano nel Regno
Unito i protagonisti storici di quella giurisdizione nella quale il punto di
separazione fra tecnica giuridica e alta valutazione politica non è sempre
chiaramente definibile, in ossequio al principio secondo cui, se si accetta la
premessa per cui la costituzione stessa è il precipitato giuridico di un ordine
politico originario (Preuss, The Politics
of Constitution Making: Transforming Politics into Constitutions,
1991), il diritto costituzionale è il
“terzo ordine del politico” (Loughlin, Constitutional
Law: The Third Order of the Political, 2003).
Sviluppata
con riferimento al sistema costituzionale statunitense la nozione di «domain of constitutional justice», che è
stata definita come «a general area of
concern» nella quale la giurisdizione costituzionale si esprime in
relazione a un sistema coerente di garanzie che ha il compito di allineare le
esigenze di una giustizia come espressione dell'autorità dello Stato («justice-bearing provisions») e quelle
delle originarie autonomie dei singoli e dei gruppi sociali («liberty-bearing provisions») (Sager, The Domain of Constitutional Justice,
1998), è particolarmente utile per l'osservazione del caso britannico poiché
nel composito ordinamento del Regno Unito trova declinazioni particolarmente
significative. Ma qui, non senza tenere bene a mente l’annotazione per cui «la “giustizia costituzionale” è una delle
più salienti caratteristiche dell’attuale “Stato costituzionale” (Ruggieri
e Spadaro, Lineamenti di giustizia costituzionale, 2004, p. 23), il domain della giustizia costituzionale va
ricostruito riepilogando, anziché attraverso la rievocazione di princìpi
astratti, in via pragmatica attraverso l'azione concreta di corpi giudiziari
che ciascuno per suo conto, nell'assenza di una corte specificamente deputata,
hanno sviluppato un complesso coerente di garanzie fondamentali alcune tra le
quali sono recentemente confluite entro la sfera funzionale della Supreme Court.
Tali
corpi sono – come si vedrà – le Corti di giustizia nella loro veste storica di
esercenti il judicial review e, in
epoche più recenti, di garanti delle libertà fondamentali (Jackson, The Judiciary and the Protection of Rights,,
2003): la giurisdizione che esercitano può considerarsi diffusa e si svolge
attraverso una sofisticata attività di interpretazione. In via accentrata operano invece i judicial committees del Consiglio
Privato della Corona e della Camera dei Lords,
caratteristica comune della cui giurisdizione è il porre in essere, con rationes decidendi tra loro diverse ma
non per questo non comunicanti, modalità giudiziali di risoluzione di conflitti
che pure attingono a quel judicial review
classico che, nato anticamente nel contesto del diritto inglese e trasmigrato
nel lessico di altri sistemi politici di common
law (tra i quali ha rilievo lo statunitense ove è nato il prototipo della
Corte Suprema), una volta entrato a contatto con la fenomenologia e con le
categorie logiche delle costituzioni rigide e cartolari ha subìto una
metagenesi dei fini e oggi è ampiamente utilizzato per definire, sebbene in
modo improprio, il sindacato di costituzionalità delle leggi.
Il judicial review costituzionalmente
declinato è in realtà una tecnica di superamento delle antinomie del sistema
politico e istituzionale che di questi nodi conflittuali valuta, in luogo di
un’improponibile costituzionalità formale, la "convenzionalità". Le
coordinate concettuali di queste convenzionalità sono dettate dalla stessa pluralità
delle fonti che, a seconda delle circostanze e dei punti di vista, sono tenute
come fundamental law o come parte di
essa: il legista medievale Henry de Bracton, teorizzatore della storica
distinzione tra gubernaculum e iurisdictio (McIlwain, Costitutionalismo antico e moderno,
1990) e gli antichi common lawyers la
individuavano nella lex Angliae, o lex terrae o the law of the land (Maitland, The
Constitutional History of England, 1948, p. 1 ss.); i parlamentaristi
moderni la collocavano nel Bill of Rights
del 1689 (dell’Instrument of
Government cromwelliano, unico testo a presentare nella storia inglese i
caratteri di una vera costituzione, non si tiene alcun conto in quanto
sottoposto a una totale damnatio memoriae);
i nazionalisti scozzesi nell'Act of Union
1707; i critici della sovranità parlamentare nell'European Communities Act 1972 (MacCormick, La sovranità in discussione, 2003); i costituzionalisti
non-conformisti delle aree substatali, nelle ultime legislazioni devolutive
secondo i costituzionalisti non-conformisti delle aree substatali,; e infine
diversi operatori del diritto, compreso alcuni giudici, nello Human Rights Act 1998. Tutto ciò
dimostra quanto la ricerca dei parametri della costituzionalità britannica sia
più che mai una questione di interpretazione.
La
peculiarità britannica non è isolata. Per quanto ciò possa apparire strano, una
somiglianza di fondo sussiste tra il concetto britannico di giustizia di
costituzionalità e quello francese.
L'accostamento
tra un sistema che è estremamente produttivo di carte costituzionali, molte tra
le quali di breve vita, e uno che ne è privo poiché il suo ordine
costituzionale scaturisce dall'integrazione tra fonti di diversa natura
(Beatson, Common Law, Statute Law, and
Constitutional Law, 2006) può sorprendere il comparatista di stretta
osservanza uso a considerare, e di certo non senza fondamento, i due sistemi
come collocati agli antipodi. Non si intende in questa sede affrontare
l'intuizione, che pure non mancherebbe di proiettare la sua lunga ombra sulla
questione delle concrete modalità di esercizio della giustizia costituzionale,
per cui in Francia la frenetica produttività di testi fondamentali e nel Regno
Unito il rifiuto di ogni costituzione scritta possono essere considerati in
estrema sintesi, spingendosi al di là della storia e del diritto, come le due
facce di una medesima essenziale condizione di flessibilità dell'ordine
politico. Nondimeno occorre riflettere su un'interessante circostanza: nel
Regno Unito: messa per un momento da parte la questione dell'inesistenza di una
carta costituzionale che sia parametro della costituzionalità dell'ordinamento
(il che sarebbe bastevole a escludere logicamente ogni sindacato sulla legittimità
costituzionale delle leggi inteso come questione di conflitto tra fonti, che
pure è un tema diceyano classico, non si può fare a meno di porre in risalto
una singolare analogia fra i due sistemi di giurisdizione della
costituzionalità.
L'analogia
fa sì che entrambi i sistemi occupino una posizione a sé stante, o forse meglio
si potrebbe dire che non occupano alcuna posizione, in quella condivisa catalogazione delle forme di giustizia
costituzionale che distingue tra sindacati di modello statunitense e di modello
europeo-continentale (Favoureau, Modèle
américain et modèle européen de justice constitutionnelle, 1998),
e consiste nel fatto
che, se in Francia a nessun organo è consentito sindacare in via successiva e
concreta la costituzionalità della legge che sia stata posta in essere per via
parlamentare e che per questo è espressione della volontà generale della
Nazione il cui fondamento concettuale e giuridico si rintraccia nell'art. 3
della Dichiarazione dei Diritti del 1789 (Rousseau, La legittimità del controllo di costituzionalità delle leggi,
2006), nel Regno Unito il medesimo sindacato è da escludersi perché nessun
contropotere può legittimamente sindacare le opzioni legislative della statute law scaturenti dalla volontà di
un Parlamento in posizione di egemonia costituzionale non in quanto proiezione
di un concetto di nazione rivelatosi, alla prova della storia e della
sociologia, in gran parte fittizio (semmai, con John Locke e i parlamentaristi
liberali, esponenziale della «general
reason of the whole») bensì in quanto, secondo una persistente dogmatica di
origine vittoriana (Bradley, The
Sovereignty of Parliament. Form
or Substance?, 2000; Goldsworty, The Sovereignty of Parliament: History and
Philosophy, 2001), titolare della sovranità. Ai giudici compete pertanto di dichiarare la legge nel
sostanziale rispetto della sovranità parlamentare. In entrambi i casi,
pertanto, se di un legittimo controllo di costituzionalità si può discorrere
senza che si entri in contraddizione con il più profondo e radicato substrato
costituzionale, esso deve essere di certo esercitato ab intra. In Francia lo è perché il Conseil Constitutionnel in un certo senso coopera con il
Legislativo al perfezionamento della legge, e pertanto il suo sindacato di
costituzionalità può essere chiamato in causa come il contributo, a seconda dei
punti di vista, di un intruso o di un autorevole consulente dell'organo che
distilla e infine esprime la volonté
générale (la pronuncia del Conseil,
ove eventualmente o obbligatoriamente attivata prima della promulgazione, è
vincolante, ma interviene prima che la volonté
sia perfetta).
È
curioso tuttavia osservare come, nell'ottica del common lawyer di stretta osservanza classica, sia invece il potere
legislativo (e lo sarebbe, ove esistente, anche il potere costituente: vera e propria
forza bruta della normazione che gli statisti anglo-britannici si sono ben
guardati dall'attivare) a essere a sua volta considerato come un intruso nel
campo della produzione del diritto, e anche di quelle norme
"fondamentali" che si propongono come il distillato di esperienze e
il consolidamento di sperimentazioni più che come applicazione di princìpi
aprioristicamente inscritti nel sistema politico. A tratti la formulazione di
tali regole di buona condotta costituzionale, molte tra le quali attinenti al
funzionamento delle istituzioni e limitative dei loro abusi nei confronti delle
libertà individuali, è stata spesso dovuta all'esercizio della judicial freedom delle Corti, come nel
caso Bowles v. The Bank of England
che nel 1913, a margine della grave crisi infraparlamentare che aveva
contrapposto i Lords alla Camera dei
Comuni sulla formulazione del budget,
fissava regole in materia di approvazione del bilancio nazionale; e in altri,
fra le centinaia che si potrebbero richiamare alla memoria: Stockdale v. Hansard (1839), limitativo
della creazione di nuovi privilegi parlamentari in tema di iter legis; Ridge v. Baldwin (1964), che ribadiva la garanzia processuale dell’audi alteram partem; Entick v. Carrington (1765),
che proclamava l’illegalità delle incriminazioni collettive, e così via. Da
questo complesso di sentenze, che si presenta straordinariamente ricco di
spunti sulle molteplici funzioni della giustizia costituzionale in un quadro di
costituzione flessibile, emerge chiaramente un ruolo delle Corti come regulators di diritto pubblico (Prosser,
Law and the Regulators, 1997) che si
esercita in un modo fortemente interlocutorio con il Legislativo e con
l’Esecutivo che oggi ne domina le espressioni politiche e istituzionali.
Alla
luce di tali considerazioni sembra evidente che del tutto sui generis resta comunque la posizione del Regno Unito, paese
privo di una corte costituzionale anche in seguito alla recente istituzione
della Supreme Court la quale,
nonostante ne riassuma alcuni elementi tipici, al momento è tutt’altro che una
corte costituzionale: figura istituzionale, questa, che appunto non trova
riscontro nella Supreme Court of the
United Kingdom, prima ancora che sotto il profilo dell’attribuzione
funzionale (le manca, infatti, il sindacato sulla costituzionalità delle leggi:
ma fin qui s'è tentato di dimostrare che questa funzione non è essenziale per
l'esercizio della giurisdizione costituzionale), sotto il riguardo della
possibilità, che si concretizzerebbe aggiungendo una propria judge-made law a quella che per lunga
esperienza è creata dalle Corti di giustizia e dalle branche giudicanti del Privy Council e della Camera alta, di
creare un corpus giurisprudenziale
autonomo, ma soprattutto della volontà politica di non creare un nuovo fronte
di conflittualità con le magistrature del paese spingendo troppo oltre il
raggio d'azione di un riformismo che sta già producendo un forte impatto sul
sistema costituzionale.
Lo
sviluppo di forme ed esperienze di giustizia costituzionale ha avuto luogo nel
Regno Unito obbedendo, più che a dottrine teoricamente formulate, al senso
pragmatico che tradizionalmente informa di sé l'intera evoluzione dell'ordine
costituzionale. In particolare, se da tale substrato esperienziale si intendesse
estrarre dei princìpi informatori, ebbene questi non si discosterebbero da
quegli stessi princìpi che hanno sovrinteso allo sviluppo delle istituzioni
rappresentative, delle amministrazioni, dei governi territoriali e così via
dicendo: tali i princìpi o meglio si direbbe gli approcci del problem solving e dell'ad-hoc administration, ovvero del
procedere per singole soluzioni a singole questioni sfruttando gli interstizi
di un sistema a formazione gradualistica e senza una costituzione scritta,
anche se a qualche commentatore il sovrapporsi di numerose riforme a carattere
fondamentale ha dato motivo di credere che l’appuntamento con la scrittura non
sia troppo distante nel tempo (Brazier, How
Near Is a Written Constitution?, 2001).
Ciò
rende concettualmente inesistente anche la distinzione tra leggi di produzione
ordinaria e norme costituzionali poiché, privo di un singolo documento che si
possa definire «la Costituzione», l'ordinamento britannico si forma come un
eterogeneo complesso giuridico nel quale di certo non mancano le fonti scritte
(siano esse antichi documenti di diversa origine quali la Magna Carta del 1215, il Bill
of Rights rivoluzionario del 1688, gli Atti parlamentari rientranti nella
sconfinata categoria della statute law
e via via fino alle recenti leggi sulla devolution,
allo Human Rights Act 1998 e al Constitutional Reform Act 2005), ma che
attribuisce forza e valore normativi, spesso superiori a quelli della legge
formale, a princìpi ordinatori del sistema quali la sovranità del Parlamento e
la rule of law, e al vasto complesso
delle convenzioni e degli usi. Mentre la sovranità del Parlamento dà la
struttura intrinseca all’assetto delle istituzioni, ossia al potere organizzato
in corpi politici, la rule of law
(nozione che con buona approssimazione si può tradurre con l’espressione
“dominio” o “imperio della legge”) regola nelle Isole britanniche la questione
delle libertà, ovvero delle autonomie delle persone e delle formazioni sociali,
e del bilanciamento tra queste e l’azione delle istituzioni politiche: si
realizza in tal la quadratura del cerchio del costituzionalismo storico
(Matteucci, Lo Stato moderno, 1997,
p. 127 ss.), e in particolare per quanto concerne la rule of law (della quale una recente dottrina giunge a ipotizzare
una prospettiva evolutiva considerandola un presupposto dell'instaurazione di
una nuova forma di giustizia costituzionale (Jowell, Beyond the Rule of Law: Towards Constitutional Judicial Review,
2000), va rilevato come la dottrina costituzionalistica liberal-vittoriana non
abbia esitato ad attribuirle la natura di alveo giuridico di una giustizia
britannica della costituzionalità affidata, anziché a una singola corte
costituzionale, al sindacato diffuso delle Corti (Allan, Law, Liberty and Justice: The Legal Foundations of British Constitutionalism , 1993; Constitutional
Justice. A Liberal Theory of the Rule of Law, 2001).
La
tradizionale tendenza a non affidare la costruzione del sistema politico a
un'unica stesura costituzionale molto deve anche al sospetto che da secoli circonda,
nel pensiero inglese, le tesi del constitutional
legalism ovvero di quella corrente positivistica del costituzionalismo
classico che affidava la costruzione dell'ordinamento nazionale alla scrittura,
e alla scrittura costituzionale resa efficace non solamente per virtù e forza
propria ma anche attraverso l'enforcement
delle Corti: tesi, quella del "legalismo costituzionale", che in
Inghilterra fu interpretata come un'enfatizzazione dell'autorità delle
magistrature superiori e della loro judge-made
law (in ciò ravvisandosi un anello di congiunzione con le evoluzioni
statunitensi che culminano nell’attività della Corte Suprema (Jaffé, English and American Judges as Lawmakers,
1969), ma tendenzialmente deresponsabilizzante per quanto riguardava l'azione
delle istituzioni di government e la
loro fisionomia di compartecipi dell'osservanza della Costituzione "non
scritta", nonché foriera di conflitti tra i due ordini di potere, il Giudiziario
e il Legislativo (Lord Scarman, Codification
and Judge-Made Law: A Problem of Coexistence, 1967). E qualcosa in più può
essere detto in proposito: lungi dall’atteggiarsi come semplici notai o
acritici custodi dell’ordine costituzionale le Corti (ma in realtà i giudici,
sistematicamente molto autorevoli e influenti, che ne fanno parte: prova,
questa, dell’estrema personalizzazione della giustizia di common law) hanno sempre
osservato in modo rigoroso la loro separazione dalle branche governanti del
sistema, ma nel contempo hanno sviluppato un ruolo di considerevole politicità
(Griffith, The Politics of the Judiciary,
1967, e Judicial Politics since the 1920s,
1993; Lord Devlin, Judges, Government and
Politics, 1978; Stevens, The English
Judges: Their Role in the Changing Constitution, 2002; Torre, Magistratura e potere dello stato: antiche e
moderne esperienze britanniche, 2004), dando forza all’ordinamento con le
proprie sentenze interpretative della legislazione parlamentare, assicurando
l‘effettivo dispiegarsi della rule of law,
e con ciò «themselves acting from time to
time as architects of the Constitution» (Oliver,
Constitutional Reform in the United
Kingdom, op.cit., p. 330).
In ciò il senso profondo della “giustizia
della costituzionalità” che si intende esercitata dalle Corti, ovvero nell’operare
come garanti dell’assetto costituzionale, della sua conservazione e delle
inevitabili trasformazioni, in un ruolo che condividono con il Legislativo e
con le istituzioni del governo attivo (ma a volte non senza significativi punti
di attrito), nonché, ove si aderisca al punto di vista del moderno pluralismo,
con le più attive componenti della società civile (Torre, Le ipostasi costituzionali della società civile britannica, 2003) e
con i valori dell’ordinamento democratico (Pfersmann e Cerrina Feroni, La "Costituzione contingente": a
proposito del dibattito sul judicial review, 2005).
Ma nonostante la culturale preclusione nei
confronti di ogni sintesi costituzionale che prendesse la forma di un documento
unico, l'esigenza di identificare i caratteri di una fundamental law che operasse come parametro per l'azione del
sovrano e come nucleo della ratio
decidendi delle Corti non è assente nella riflessione giuridica
anglo-britannica. Negli anni della grande transizione dall'assolutismo
strisciante dell'avvicendamento Tudor-Stuart alla stagione dell'affermazione
del moderno potere parlamentare, essa aveva dato impulso a una delle correnti
più significative del costituzionalismo inglese alla quale prestarono il loro
apporto autorevoli legisti parlamentari tra cui si distinse Edward Coke,
supremo giudice dapprima nella Court of
Common Pleas e quindi nel King's
Bench che nel Bonham's Case
deciso nel 1610, gettava lo sguardo verso l'orizzonte di un corpus normativo "supremo" che
valesse a frenare l'arbitrio della Corona e che pertanto fornisse alle Corti di
giustizia un complesso di norme-parametro in base alle quali fosse possibile
esercitare un sindacato sull'operato del gubernaculum
e che, secondo l'espressione del baconiano De
fontibus iuris, identificasse le leges
legum idonee a formare un corpo di norme «ex quibus informatio peti possit, quid in singulis legibus bene aut
perperam positum aut constitutum sit». In questo originario substrato giuridico non si può evitare di udire
l'eco inglese del nomos basileus
platonico.
Tuttavia
ai princìpi enunciati dalla Court of
Common Pleas (uno dei tribunali regi operanti fin dall'età medievale, e
pertanto tutt'altro che una corte attestata su un livello che lontanamente si
potesse considerare "costituzionale": essa infatti si occupava di
controversie "ordinarie" o, appunto, "comuni", di profilo
minore) mancavano ancora due elementi che si considerano fondamentali affinché
già nell'Inghilterra pre-rivoluzionaria si potesse a ragione discorrere di un judicial review di profilo
costituzionale: un Legislativo che operasse come autore incontrastato delle
leggi del paese e – appunto – una fundamental
law dai contorni giuridicamente definiti (il primo si è storicamente
realizzato con la rivoluzione del 1688-89; la seconda ha tuttora contorni
indefiniti, i quali restano ancora «matters
of convenience» (Hood Phillips, Constitutional
and Administrative Law, 2001, p. 22).
In
seguito, i numerosi tentativi di identificare la Grundnorm britannica, operante come parametro di costituzionalità,
avrebbero impegnato numerosi protagonisti della vita pubblica, dal
parlamentarista Edmund Burke che sosteneva la coincidenza tra
tradizionalità-ereditarietà costituzionale e fondamentalità delle norme
politiche, ai positivisti Jeremy Bentham e John Austin fautori della
codificazione anche in campo giuspubblicistico, fino ai giudici scozzesi della Court of Session presieduta nel 1953 da
Lord Cooper il quale, con la sentenza MacCormick
v. Lord Advocate, intendeva rintracciare la Grundnorm in alcune clausole garantistiche dell'Act of Union del 1707 e in tal modo
giungeva a negare la consistenza costituzionale della sovranità parlamentare.
Oggi questa ricerca è propria degli europeisti che nella Convenzione Europea
per i Diritti dell'Uomo e nello Human Rights
Act 1998 collocano i nuovi e fondamentali vincoli per la legislazione
britannica (non casualmente, la vigilanza su tale nuova dimensione della
coerenza "costituzionale" è affidata alle Corti di giustizia (Patrono,
La forza dei diritti. Il Regno Unito
dalla rule of law all'Human Rights Act 1998: sulle tracce di un lungo
inseguimento, 2005) che derivano dall'integrazione comunitaria.
Questa
"legge fondamentale" era nondimeno giudicata esistente e
individuabile nel contesto della common
law. Il secondo carattere del Format costituzionale
anglo-britannico risiede pertanto in un evidente dato fattuale: l'Inghilterra
può vantare fin dall'età medievale il primo apparato di Corti di giustizia, e
si direbbe anche il più organico rispetto alle esigenze della statualità, che
mai uno Stato nazionale abbia realizzato in Europa (Van Caenegem, Judges, Legislators and Professors,
1987). Tale sistema giudiziario, i
cui princìpi informatori e la cui organizzazione di base erano stabiliti in
forme coerenti già nel tardo XII secolo, si sarebbe in seguito esteso ad altre
parti (Galles e Irlanda) del Regno Unito senza tuttavia fagocitare le
difformità giuridiche scozzesi, in tal modo determinando un sistema di
coesistenza di ordinamenti in cui la common
law di matrice inglese convive con la semi-codificata Scots law (sistema i cui operatori giuridici sono spesso critici a
riguardo dei tradizionali dogmatismi del diritto costituzionale di matrice
inglese) senza che ciò sia considerato una minaccia per la certezza del diritto
nazionale. Nessuno dei due sistemi giuridici che convivono in Gran Bretagna ha
mai dato vita a corti costituzionali, riservando ai giudici del Re e, in
particolare, alle rispettive Corti di rango superiore il compito di tutelare le
libertà individuali (per esempio attraverso l'emissione di writs of habeas corpus) o di regolare in tempi difficili i rapporti
tra le istituzioni del potere politico (si pensi al Case of Proclamations del 1611, con cui i supremi giudici inglesi
regolavano l'uso della prerogativa regia), tra queste e la società civile (per
esempio, con il caso Anisminic v. Foreign Compensation Commission (n°2) del
1969 con cui si realizzava l'intervento delle Corti nel campo del diritto amministrativo)
o tra l'ordinamento nazionale e l'Unione Europea (così nel 1991 con la
memorabile sentenza che ha deciso il caso sinteticamente noto come Factortame), o perfino di inventare
nuovi parametri di sindacato sull’operato politico dell’Esecutivo (come nel
caso della dottrina della bi-polar
sovereignty, che ha affermato la legittimità del potere della Crown-in-the-Courts di esercitare una
valutazione giurisdizionale degli atti posti in essere dal Governo sotto il
duplice riguardo della discrezionalità e della legittimità dell’azione
amministrativa).
Si è
realizzata in tal modo, senza che ciò abbia prodotto una corte costituzionale
né ne abbia suscitato in misura apprezzabile la necessità, una singolare
esperienza di giurisdizione diffusa che a tutt'oggi ben si adatta alla
costituzione pluralistica, o stratificata, del Regno Unito (Bamforth, Courts in a Multi-Layered Constitution,
2003).
Ma in
realtà, all'approssimarsi della modernità, il semplice richiamo alla common law, o ad altre dimensioni della legalità
fondamentale (quali la law of the land
o la lex Angliae tanto remote e
indefinite da diventare metagiuridiche) si sarebbe rivelato inadeguato a dare
risposta alla sempre più pressante necessità di una Grundnorm. Entra pertanto in gioco il terzo carattere del Format costituzionale anglo-britannico,
che si delinea in base a un altro dato di fatto (anche in tal caso sono
singolarmente assenti le solenni e speculative enunciazioni di principio): lo
sviluppo, in Inghilterra, di un sistema relativamente coerente di diritti
fondamentali.
Le
vicende delle libertà inglesi è nota in quanto generalmente considerata un
paradigma della storia delle libertà universali dalla prima formulazione del
1215 con la Magna Carta Libertatum, e
via via attraverso ulteriori fasi di consolidamento giunte fino al secolo delle
rivoluzioni parlamentari e al Bill of
Rights 1689. Sulla costante dialettica tra istanze di libertà e necessità
del potere organizzato si innestava il pensiero del costituzionalismo
anglo-britannico antico e moderno, sempre proteso nella ricerca degli elementi
di una fundamental law che regolasse,
dando loro un equilibrio stabile, le relazioni fra due grandezze tra loro
concettualmente inconciliabili: le autonomie sociali e le coercizioni
politiche. La più recente manifestazione
di tale dibattito si è posta sotto l'egida dell'integrazione del Regno Unito
nel contesto dell'Europa comunitaria: nel 1998, lo Human Rights Act ha incorporato nell'ordinamento domestico la
Convenzione europea sui diritti dell'uomo, realizzando una più diretta
saldatura fra i diritti storici degli Inglesi emersi dagli eventi delle
rivoluzioni seicentesche (ma anche la Scozia, pressappoco nello stesso clima
politico della «gloriosa rivoluzione», si dava un Claim of Right che risulta tuttora vigente) e i diritti
solidalmente elaborati nell'Unione europea (Ferrari, La Convenzione europea e la sua “incorporation” nel Regno Unito,
1999). La pregnante innovazione legislativa del 1998 ha prodotto e non cessa
tuttora di produrre molte e articolate opportunità volte all’affermazione di un
nuovo costituzionalismo e, quel che più interessa il discorso che qui si sta
svolgendo, di inedite forme di sindacato giurisdizionale d’indole
“costituzionale” affidato, come di consueto, alle Corti di giustizia: come
infatti si è accennato, uno
straordinario impulso al sindacato giurisdizionale è stato impresso dalla incorporation dei diritti europei nell’ordinamento domestico del Regno Unito,
circostanza che ha affidato ai giudici l’esercizio di quella che si definirebbe
una forma soft di judicial review, consistente in un
sindacato sulla conformità della legislazione parlamentare rispetto allo
statuto dei diritti contemplati nella Convenzione, che tuttavia non si risolve
nella disapplicazione della norma o nel suo annullamento (eventualità del tutto
incompatibili sia con la sovranità del Parlamento sia con il principio di soggezione del
giudice alla legge) bensì in un atti di impulso nei confronti del Legislativo
e, in definitiva, in un incremento dell’influenza del Giudiziario sul circuito
dei poteri attivi di govern (Edwards, Judicial
Deference under the Human Rights Act, , 2002).
Se si
considera quanto fin qui detto a proposito dell’operato delle Corti, si può dire
che nel Regno Unito sia praticata una forma di giustizia metacostituzionale che
opera ab intra rispetto al sistema di
diritto pubblico. Infatti le Corti di giustizia formate da giudici
professionali la cui ermeneutica dichiarativa del diritto, almeno fino alla
seconda metà del Novecento, è risultata impareggiabilmente più sofisticata ed
efficace della tecnica redazionale del drafting
legislativo; esse interpretano le norme della statute law e, pur mai disapplicandole, ne condizionano
l'applicazione concreta, il che talvolta può produrre effetti giuridici più
penetranti, influenti e duraturi di un "semplice" annullamento o
disapplicazione (infatti l'ablazione della norma produce un effetto immediatamente
diminuitivo sull'ordinamento mentre la sua interpretazione giudiziale, tecnica
in cui i giudici di common law
eccellono, può creare nuovi elementi della cultura giuridica, amministrativa e
istituzionale, e contribuire decisivamente al loro consolidamento
ordinamentale: in tal modo si spiega la nota espressione judge-made law; su cui cfr. Cappelletti, Giudici legislatori?, 1984).
Sul
versante anglo-britannico, pertanto, il judicial
review of legislation opera alla stregua di una giustizia costituzionale
diffusa. Esso si orienta metodologicamente,
per quanto riguarda la ratio decidendi,
secondo i canoni della common law (e,
al di là del Vallo di Adriano, della Scots
law) e lungo le medesime linee di flessibilità dell'ordine costituzionale
che i giudici tutelano di volta in volta arginando gli abusi del potere o,
laddove le circostanze lo richiedano e lo permettano nei grandi momenti di
svolta storica (per esempio, nelle rivoluzioni seicentesche), contribuendo con
la propria autorità a modificare tale ordine.
Spostandosi
su altre dimensioni, anche nel Regno Unito la doppia questione dei conflitti
interorganici e dei conflitti territoriali, che occupano una parte non
secondaria nel catalogo funzionale delle corti supreme e costituzionali, non ha mancato di porsi in termini concreti e
pertanto di richiedere peculiari interventi della giurisdizione. Mentre i
conflitti, manifestatisi nella loro forma più virulenta in diverse fasi
evolutive del sistema costituzionale, hanno consacrato il protagonismo delle
Corti di giustizia che hanno assunto funzioni dirimenti nei momenti di maggior
disagio costituzionale della storia inglese, per quanto concerne la seconda
tipologia conflittuale che si innesta sulle questioni territoriali il sindacato
giurisdizionale è stato attribuito a uno specifico corpo giurisdizionale: tale
il Judicial Committee of the Privy
Council.
Oggi
del Privy Council, organo di
derivazione medievale a composizione miscellanea che nella prima metà del
Seicento Sir Edward Coke avava definito una «most noble, honourable, and reverend assembly of the King and his privy
councell in the King’s court or palace » ponendone in piena evidenza la
natura di collegio operante all’esclusivo servizio della Corona («with this councell the King himself doth sit
at pleasure»), fanno parte di diritto diverse categorie di Councellors tutti nominati con patente
regia e designati in varie forme. In virtù di convenzioni, vi siedono tutti i cabinet ministers in carica e il Leader dell’Opposizione di Sua Maestà; ex officio, alcuni arcivescovi della
Chiesa d’Inghilterra ed esponenti delle alte magistrature; per consuetudine,
infine, ne fanno parte eminenti statisti di paesi aderenti al Commonwealth, lo Speaker della Camera dei Comuni, gli ambasciatori britannici
all’estero. Un tempo operante come consulente del sovrano per l’amministrazione
degli affari di Stato e per l’erogazione di quella porzione di alta giustizia
che rientrava nella prerogativa regia, il Privy
Council ha perso la massima parte delle funzioni amministrative per via
dell’eclisse del potere personale di governo del Re determinata dall’evoluzione
della forma monarchica da costituzionale pura a parlamentare e, in seguito, “a
Primo ministro”, ma ha conservato alcune funzioni costituzionali residue
attraverso le quali si esplica quella sezione della royal prerogative che è formalmente svincolata dagli indirizzi
dell’Esecutivo. Per esercitare tali funzioni Il Consiglio si riunisce di solito
a Buckingham Palace, alla presenza reale. In realtà vi è visibile l’influenza
degli orientamenti politici del Gabinetto: è, per esempio, attraverso la
decretazione degli Orders in Council (atti
regi emanati con l'advice del
Consiglio) che la Corona scioglie e convoca il Parlamento o ne proroga il
mandato, compie atti di politica internazionale quali la proclamazione della
guerra e la dichiarazione della pace, istituisce nuovi dicasteri governativi o
ne modifica l’assetto, regola lo stato giuridico del civil service, o pubblico impiego. Ma la funzione del Privy Council che qui interessa è la
giudiziaria, che la degna istituzione non disimpegna (come al tempo in cui
giudicava i crimini di Stato e tutte quelle controversie che manifestamente non
avevano trovato adeguati rimedi presso le Corti di giustizia del regno) nella
sua globalità bensì per mezzo della sua sezione specializzata che opera quale
Commissione giudiziaria.
L’odierno Judicial Committee of the
Privy Council, collegio istituito con il Judicial Committee Act 1833, è pertanto una specificazione del
Consiglio Privato. La sua composizione è regolata dall’atto costitutivo del 1833
e da altri adottati nel secondo Novecento, e include il Lord Chancellor (ovvero il tradizionale esponente di vertice della
giustizia del Regno Unito, che riepiloga in sé i poteri giudiziario quale
membro di alti collegi giudicanti, esecutivo in qualità di autorevole membro
del Gabinetto con funzioni di ministro della giustizia, e parlamentare in
quanto presidente della Camera dei Pari) e gli ex detentori di tale carica; i Lords
of Appeal in Ordinary (ovvero i giudici che fanno parte della Camera dei
Pari e ai quali compete la carica baronale vitalizia, i quali formano la branca
detta Appellate Commitee); il Lord President of the Council (che, non
necessariamente un giudice togato, presiede l’intero Privy Council); i Lords Justices
of Appeal (sedenti nella Court of
Appeal, alto organo giudiziario che con altre Corti della giurisdizione
civile forma la Supreme Court of
Judicature), e diversi giudici
superiori provenienti dai paesi del Commonwealth
per il quali il Judicial Commitee
opera ancora come corte d’appello. Diretta è pertanto la connesisone tra il Privy Council e l'organizzazione
giudiziaria di common law (Jackson, The Machinery of Justice in England,
1977).
Organo
pletorico (ma per la validità delle sue decisioni si prevede saggiamente un
limitato quorum di tre: se ne evita
in tal modo la paralisi), il Judicial
Committee of the Privy Council era istituito supremo tribunale d’appello
con il Judicial Committee Act 1844 in
forza del quale, mediante l'emanazione di propri Orders in Council, la Corona era legittimata dal Parlamento ad
avocare a sé qualsiasi appello proveniente da Corti di qualsiasi paese che
fosse, a titolo di colonia o di possesso, sotto l’autorità del Regno Unito
(Howell, , The Judicial Committee of the Privy Council, 1833-1876,
1979). Sulla base di questa originaria previsione il ruolo del Judicial Committee quale supremo arbitro
di controversie sorte all’esterno della Gran Bretagna lo proponeva come garante
dell'unità applicativa della common law nei vasti possedimenti del Regno Unito sparsi
in tutto il mondo: ciò rivestì una considerevole importanza nella stagione
dell’imperialismo, non senza un'ulteriore
razionalizzazione con lo Statute
of Westminster 1931 che gettava le fondamenta di quello che, di lì a poco,
si sarebbe configurato come il Commonwealth
britannico (Beth, The Judicial
Committee: Its Development, Organisation and Procedure, 1975). Nell'ambito
di questo sodalizio internazionale il giudizio d'appello del Privy Council la sussiste tuttora anche
se considerevolmente ridimensionato per via dalla raggiunta autosufficienza dei
paesi del Commonwealth le cui Corti
erano solite ricorrere in appello al collegio britannico (alcuni appelli
trasmessi da corti neozelandesi, canadesi e australiane hanno storicamente
formato materia dell’alta giurisdizione del Consiglio Privato, e così dicasi
ordinariamente per gli altri possessi del Regno Unito e per le Isole della
Manica e di Man, territori insulari – questi ultimi – che in forza di antiche
consuetudini sono a vario titolo subordinati alla Corona e non al Parlamento
“sovrano” di Westminster).
Tuttavia
l’operato della giurisdizione d’appello del Privy
Counciul non avrebbe mai acquisito la statura di giustizia della
costituzionalità, o ciò sarebbe avvenuto in via mediata e poco più che
occasionale, se il coinvolgimento giudiziario in questioni più immediatamente
attinenti alla territorialità non fosse divenuto una realtà esplicita verso la
fine dell’Ottocento in relazione alla turbolenta questione irlandese sulla
quale, nella totale assenza di un organo preposto, il Judicial Commitee si trovò nella condizione più favorevole
all'estensione, in via di prassi e con procedimento analogico, della sua
giurisdizione. Si trattava stavolta non di conoscere in via d’appello casi non
giudicabili in via ordinaria dalle Corti di giustizia (procedimento attivabile
partendo da qualsiasi corte di common law,
ivi incluso il sub-sistema irlandesi) né di attivare appelli speciali di
carattere imperiale (in forza dell’Act of
Union 1800, infatti l’Irlanda era parte integrante del Regno Unito, e non
una colonia, un possesso o un dominion),
bensì di affrontare questioni di straordinario impegno istituzionale
concernenti le rivendicazioni separatiste di home rule, le richieste di autonomizzazione parlamentare e amministrativa,
le radicali revisioni dei tradizionali rapporti istituzionali: ovvero
controversie, come è evidente, non meramente giuridiche e pertanto non
risolvibili con gli strumenti della common
law “tecnica”.
Il Judicial Committee of the Privy Council acquisiva
per l’occasione, almeno sulla carta, la facoltà di dare soluzione a
controversie connesse alle rivendicazioni territoriali, e su tale base un
promettente sconfinamento sul versante della costituzionalità è stato da ultimo
registrato da parte della giurisdizione del Privy
Council in relazione al nuovo quadro della devolution, ovvero della vasta ondata riformatrice che ha
modificato il quadro dei poteri territoriali nelle aree substatali della
Scozia, del Galles e dell’Irlanda del Nord (Burrows, Devolution, 2000; Torre, "On
devolution", 2000; Bogdanor, Devolution
in the United Kingdom, 2001). Il revival
di tale forma di giurisdizione, che proviene da un coinvolgimento del Judicial Committee of the Privy Council
nei conflitti generati tra istituzioni operanti in parti diverse del Regno
Unito – per cui nella realtà dei fatti la Commissione era «in effect become the Constitutional Court for Scotland and Northern
Ireland» (Hood Phillips, Constitutional
and Administrative Law, 2001, p. 1999) – è stato legato prevalentemente
alla Scozia, unica area di devolution
nella quale, stante l’attuale inerzia delle istituzioni nordirlandesi, la
creazione di un Legislativo decentrato è suscettibile di sollevare serie
questioni di conflicts of laws e, pertanto,
di costituzionalità delle fonti (Boyd, Parliament
and Courts: Powers and Dispute Resolution, 1997).
La
giurisdizione devolutiva del Privy
Council è stata instaurata tra il 1998 e il 2000 per effetto dell’entrata
in vigore dello Scotland Act, il Wales Act e il Northern
Ireland Act , distinguendosi peraltro in tre filoni: il primo consiste in
una funzione di giurisdizione informale, o astratta, che i giuristi del
collegio esercitano, prima della loro promulgazione sulle leggi adottate da
assemblee devolute, segnalando le eventuali incoerenze con la legislazione di
Westminster (emerge in questo caso una analogia con l’azione preventiva del Conseil Constitutionnel francese); il
secondo forma una classica funzione di adjudication
su questioni attinenti a rapporti tra istituzioni di devolution, o tra queste e le istituzioni nazionali (questo
sindacato rientra lato sensu nella
tipologia dei conflitti di attribuzione); la terza funzione si riallaccia alle
attribuzioni classiche del Privy Council
in quanto giudice d'appell provenienti da Corti dei sistemi substatali operanti
nelle aree di devolution (è evidente
che l’ipotesi è molto concreta segnatamente in relazione al sistema giudiziario
di Scots law e al sub-sistema di common law che è operante nelle Corti dell’Ulster). Fatta salva la
funzione di giudice d’appello, che rientra fra le tradizionali attribuzioni
potestative del Judicial Committee del
Consiglio Privato, le funzioni di advice preventivo
e di giudizio su questioni sorgenti nell’alveo della devolution attiva si rivelano profondamente permeate di
costituzionalità, poiché se l’osservazione si spinge al di là delle questioni
tecniche che sono delineate dai conflitti di cui s’è detto (per le quali il commitment del Consiglio Privato non
differisce da quello delle corti costituzionali, il che si può dire lo abbia
reso, almeno finché le sue funzioni non sono state trasferite alla nuova Supreme Court, una corte costituzionale honoris causa operante a mezzo
servizio), la fondamentale questione costituzionale sulla quale il Judicial Committee è stato posto a
vigilare resta quella della salvaguardia della sovranità parlamentare e del judicial review che le è inerente
(O'Neill, Judicial Politics and the
Judicial Committee: The Devolution Jurisprudence of the Privy Council,
2001; Groppi, Conflitti devolutivi: nuovi
percorsi per il judicial review, 2005), pressapoco la medesima su cui
vegliano le Corti con il loro judicial
review of legislation e con la ricognizione delle norme domestiche che si
svolge alla luce della Convenzione europea.
Si può
constatare pour cause che
l’affidamento della questione ad un altro organo della giustizia
metacostituzionale operante nel Regno Unito (la Camera dei Lords, anch’essa nella sua commissione giudiziaria alla quale peraltro
non è negata del tutto la possibilità di giudicare le devolution issues che le siano presentate in via ultimativa sarebbe
stato altamente inopportuno non solo per via del considerevole scarto tecnico
esistente fra i Law Lords sedenti
nella Camera alta e i giuristi del Privy
Council , ma anche per la situazione di dubbia costituzionalità in cui,
alla luce dello Human Rights Act 1998
e delle garanzie europee introdotto nell’ordinamento nazionale si sarebbe
trovato il Lord Chancellor, membro di
diritto della commissione giudicante della Camera alta (e come tale tenuto alla più rigorosa
imparzialità di fronte a controversie sorgenti dalle aree di devolution) e nel contempo componente dell’Esecutivo e del Parlamento
legiferante di Westminster (e pertanto in pieno conflitto di interessi rispetto
a un qualsiasi Esecutivo o Legislativo devoluto dalla cui azione amministrativa
o soprattutto legislativa sarebbe scaturito uno dei molti, possibili devolution clashes ).
In diverse occasioni è stata presa in esame
l’ipotesi della fusione tra il Judicial
Committee of the Privy Council e l’analogo collegio operante nella Camera
dei Lords, altro imponente corpo di
alta giurisdizione la cui funzione di suprema corte di appello, risalente
anch’essa al periodo medievale come espressione del potere del King in His Council in Parliament, è
stata modernamente istituita con l’Appellate
Jurisdiction Act 1876 (ultimo di una sequenza di importanti interventi
legislativi che nella media età vittoriana razionalizzarono l’intera organizzazione
delle magistrature nelle Isole britanniche (Stevens, The Final Appeal: Reform of the House of Lords and Privy Council,
1867-1876, 1964; Bloom-Cooper e Drewry, Final
Appeal: A Study of the House of Lords in Its Judicial Capacity, 1972).
Prima della riforma non esisteva un particolare ruolo interno alla Camera alta
che fosse occupato da giuristi, sicché la giurisdizione dei Lords era considerata la meno
qualificata del regno a tutto vantaggio di quella erogata dal Privy Council; ma per effetto della
legge del 1876 la formazione del Judicial
Committee con i Lords of Appeal in
Ordinary, alti magistrati professionali ai quali si aggiungono di diritto
il Lord Chancellor (con funzione di
presidente) e con quei Pari che occupino cariche di rilievo («high judicial offices») nell’ordinamento
giudiziario, ha attribuito grande autorevolezza al collegio.
Mentre al Privy
Council competeva non solo la giurisdizione d’appello da qualsiasi parte
del regno e dai possedimenti della Corona, ma anche la giurisdizione
“territoriale” scaturita dalla questione irlandese e in seguito dalla devolution of power e altre
giurisdizioni speciali (ammiragliato, cause ecclesiastiche, casi sollevato nel
quadro di determinati ordini professionali), la funzione giurisdizionale della
Camera alta nella sua Commissione giudiziaria si è proposta come generalistica,
nella sua qualità di vertice del sistema giudiziario di common law. In altri termini, il Judicial Committee of the House of Lords si è pienamente
qualificato come la suprema istanza giurisdizionale del Regno Unito, verso la
quale dall’intera area di common law
ovvero da Inghilterra, Galles e Irlanda, ma in seguito anche dal sistema di Scots law, confluivano in origine le
cause civili (ma anche le cause penali dall’Irlanda) e quindi anche gli appelli
in materia penale a norma del Criminal
Appeal Act 1907. La particolarità
del suo ruolo pertanto deriva non già dalla specialità delle attribuzioni
giurisdizionali bensì dalla particolare esposizione che la giurisprudenza della
Camera dei Lords ha sviluppato, quale
giudice di massimo appello, in materie di impianto fondamentale quali la
salvaguardia delle libertà e, da oltre un ventennio a questa parte, la
regolazione dei rapporti tra diritto domestico e diritto dell’Europa comunitaria.
Sotto il profilo della vigilanza sui diritti
fondamentali (compito di giurisdizione nobile che, con l’adozione dello Human Rights Act 1998, è vieppiù entrato
in un fruttuoso corto circuito con il ruolo “europeo” del Judicial Committee of the House of Lords) le attività della Camera
dei Pari e del Consiglio Privato non mancano di punti di intersezione. Ma va
sottolineato che, se l’impegno giurisdizionale del Privy Council può giungere a ricomprendere nella propria sfera
decisionale anche istanze che siano attinenti all’esercizio delle libertà
fondamentali nel Regno Unito o in quei paesi dai quali è previsto provenga
l’istanza di appello del giudizio, la qualifica di giudice supremo d’appello
che è attribuita in via ordinaria al Judicial
Committee della Camera dei Pari (collegio formato in prevalenza da giudici
professionali e non costituito in base a un substrato di norme consuetudinarie)
ha fatto sì che da parte dei Law Lords potessero
essere trattate, con efficacia
costituzionalmente probante, alcune delicate questioni per lo più attinenti
all’esercizio di libertà individuali (le cronache citano spesso come
particolarmente emblematico il caso del 1999 Reynolds v. Times Newspapers Ltd., in tema di libertà
d’espressione) e a forme di giustizia implicanti valutazioni sconfinanti in
questioni di libertà personale e di diritto internazionale (memorabile, negli
ultimi tempi, il caso Pinochet del
2000).
Va inoltre evidenziato che ogni decisione di questo Judicial Commitee, la cui produttività
giudiziaria ultimamente aveva tratto un forte impulso dall’assistenza fornita
dal rinforzato Lord Chancellor’s
Department, forma l’oggetto di un dettagliato rapporto ufficiale che è
presentato al plenum della Camera dei
Pari e da questa adottato come atto proprio: con ciò si enfatizza il dato che
la sentenza d’appello è emanata dal Parlamento nella sua alta funzione
giudiziaria. Lo stesso dicasi per le opinioni giuridiche che, in ossequio ai
canoni “costituzionali” della common law,
i Law Lords possono esplicitare in
relazione a singole questioni loro sottoposte. Le espressioni di questo
autorevole advice giurisdizionale,
che in coerenza con i canoni del diritto inglese pongono in evidenza il
protagonismo individuale del giudici, formano oggetto di una vasta letteratura,
ma non sono considerate vincolanti erga
omnes a meno di non essere ratificate dai Pari in seduta plenaria.
In quanto fin qui esposto si ravvisa un ulteriore
elemento di valutazione del variegato modo in cui si articola la giurisdizione
della costituzionalità nel Regno Unito: lungi dal configurare un potere “altro”
rispetto alle Corti di giustizia e rispetto alle istituzioni politiche, i Judicial Commitees del Consiglio Privato
e della Camera dei Pari operano all’interno delle istituzioni stesse e
integrano la loro azione con quelle delle Corti delle quali sono istanze di
appello non, pertanto, sostitutive. Per quanto riguarda l’aspetto
giurisdizionale, la giustizia di rango costituzionale (o meglio si direbbe su
questioni di diritto costituzionale) non forma una dimensione giuridica
autonoma ma scaturisce dall’ordinario dibattito giudiziario e, pertanto, dal
capace e sostanzialmente protettivo alveo della rule of law che fornisce elementi di giudizio tanto alle Corti
ordinarie quanto ai Judicial Committees.
Per quel che concerne l’aspetto istituzionale, sebbene di questi ultimi sia
stato esplicitamente ipotizzato, non di diritto per formale attribuzione ma di
fatto per le esperienze giudiziarie maturate “sul campo”, un comune ruolo di «Constitutional Courts» annidate in un
sistema a costituzione non scritta (Maxwell, The House of Lords as a Constitutional Court. The Implications of ex
parte E.O.C., 1999), entrambi sono parte integrante del circuito
politico-istituzionale, ma con una sostanziale differenza che concerne la
diversa natura della giustizia metacostituzionale da essi erogata: il Privy Council è incardinato nella
prerogativa regia e promana dalla Corona; la Camera dei Lords è un istituto parlamentare e si esprime come la proiezione
giudiziaria di un ramo del Legislativo, sicché ben si potrebbe discorrere, al
di là di quanto s’è detto a proposito del judicial
review che è esercitato dalle Corti di giustizia, di una duplice identità
della giurisdizione costituzionale esercitata dai Judicial Committees, la quale promana da corpi politici il cui
comune intento è, una volta consegnate alla storia le antiche controversie
sull’attribuzione della sovranità, preservare la pace del regno, ossia – come
osservava un autorevole osservatore statunitense – operare «for the sake of peace and the common welfare»
(Warren, The Supreme Court and the
Sovereign States, 1924, p.35).
Le due commissioni giudiziarie, in sintesi, fondono
le dimensioni bcactoniane della iurisdictio
e del gubernaculum, il che dà
forma e sostanza alla “costituzionalità” della giustizia che da esse è
separatamente amministrata. D’altronde non è solamente tradizionalismo, ma
soprattutto per via dell’autorevolezza tutta politica sviluppata dai giudici
sedenti nella Camera dei Lords in
tema di diritti fondamentali (Stevens,
Law and Politics: The House of Lords as a Judicial Body, 1800-1976, 1979)
e, di converso, della separata esperienza che il Privy Council ha sviluppato in tema di rapporti territoriali
(Oliver, The Lord Chancellor, the
Judicial Commitee of the Privy Council and Devolution,, 1999), che nonostante il comune impegno su
questioni che si possono agevolmente definire di diritto costituzionale e le
critiche che da parte della dottrina sono state occasionalmente rivolte nei confronti
della presunta ridondanza delle forme di giustizia suprema operanti nel Regno
Unito, le proposte di unificazione fra i Judicial
Committees del Consiglio Privato e della Camera alta non hanno avuto corso,
almeno fino a che l’intervento razionalizzatore del Constitutional Reform Act 2005 non ha affrontato la questione
incidendo sulla loro funzionalità.
L'evento
che dimostra in modo più eloquente fino a qual punto il Regno Unito stia per
intraprendere un percorso al cui termine potrebbe essere la realizzazione di
una giurisdizione costituzionale in senso proprio, seppure di una giurisdizione
del tutto sui generis, si riconosce
nell'istituzione della Supreme Court of
the United Kingdom, iniziativa che non appare finalizzata alla
realizzazione di una corte stricto sensu
costituzionale, bensì alla consacrazione di un principio – la separazione dei
poteri – che un tempo il più consolidato pensiero del liberalismo
parlamentarista, come dimostra ancora una volta Walter Bagehot per il quale
«There
are two descriptions of the English Constitution which have exercised immense
influence, but which are erroneous. First, it is laid down as a principle of the English polity, that in the
legislative, the executive, and the judicial powers are quite divided – that
each is entrusted to a separate person or set of persons – that no one of these
can at all interfere with the work of the other»
[The English Constitution, p. 59]
considerava
privo di spazi effettivi in un ordine costituzionale dominato dai canoni della common law e dalla necessità della
cooperazione, e non già della divisione, fra le istituzioni del potere pubblico
organizzato.
L'argomento
può essere rapidamente sintetizzato ponendo in evidenza che la diretta sintonia
britannica tra poteri, e in particolare tra il Legislativo e l'Esecutivo ma
senza sottovalutare il ruolo profondamente politico di un sistema di Corti
costituzionalmente indipendente, è tuttora alla base del sistema di governo del
Regno Unito: in questa diretta comunicazione politica tra i due poteri della
statualità, ovvero nella «fusion of the
legislative and the executive», si individuava «the latest essence and effectual secret of the English Constitution» (Bagehot, The English Constitution, p.69). La
proposizione è ancor oggi pienamente accettabile, e dunque qual è il suo
collegamento con l’esigenza di dare forma nel Regno Unito alla giustizia della
costituzionalità?
L'elemento
che, almeno in apparenza, risulta più innovativo nella riforma del 2005 e che
per questo può interessare maggiormente il costituzionalista contemporaneo sta
nel diretto collegamento fra l'istituzione di una suprema istanza giudiziaria
che si riconduce entro il genus della
giurisdizione costituzionale e la necessità di garantire un'espressione
istituzionale, resa finalmente esplicita e visibile, proprio a quella
separazione di poteri (Caravale, La separazione
del giudiziario. Tradizione e innovazione nel Constitutional Reform Act 2005,
2004) che il costituzionalismo classico, esaltando la cooperazione tra Legislativo
ed Esecutivo e dogmatizzando il principio della independence of the Judiciary e l'innervazione costituzionale della
common law (Griffith, The Commom Law and the Political Constitution,
2001), si ostinava a negare (Bagehot) o semplicemente a ignorare (Dicey, e
molti altri in seguito). Affinché sia considerata come un elemento non alieno
rispetto alla percezione tradizionale del basilare rapporto fra autonomie degli
individui e potere delle istituzioni – classico nervo scoperto del
costituzionalismo di ogni paese che presuma di dare forme democratiche al
proprio ordinamento costituzionale, ma che nel Regno Unito ha trovato il suo
alveo di composizione nel nesso fra società civile, istituzione parlamentare
rappresentativa e garanzie della giurisdizione – l'esigenza di una nuova forma
di azione giurisdizionale di rango supremo trova il suo più eloquente punto di
saldatura nella questione dei diritti, alla quale nel 1998 è stato dato corpo
con lo Human Rights Act che ha
accolto nell'ordinamento britannico la Convenzione Europea per i Diritti
dell'Uomo e, in tal modo, ha aperto la via verso nuove forme di armonizzazione
del tradizionale diritto di common law
con il più ampio scenario dei valori costituzionali europei (Singh Juss, Constitutinalising Rights Without a
Constitution, 2006).
In un
certo qual modo, è anche e soprattutto alla luce dello Human Rights Act 1998 che il
revival britannico della separation of power riesce a sottrarsi
all'astrazione e acquisisce fome di storica concretezza che contribuiscono al
superamento intellettuale delle persistenti preclusioni della dottrina classica
di matrice vittoriana. Ma un altro elemento molto significativo operante nel
senso del riconoscimento della necessità di una giurisdizione d’indole
costituzionale si individua nella devolution
of power: complesso e dinamico processo modernizzatore dell'esercizio
territoriale del potere pubblico in relazione al quale la nascita di una
suprema istanza giurisdizionale, verso cui si riversino e in un certo senso si
riassumano le tradizionali condizioni e le nuove forme del pluralismo giuridico
del Regno Unito, offre alla giustizia costituzionale nuove possibilità di
espressione.
La
creazione di una Corte Suprema è, a prima vista, un evento inedito nella storia
costituzionale anglo-britannica, ma in realtà le sue premesse si ravvisano
nell'intrinseca natura del sistema di governo (Lord Steyn, The Case for a Supreme Court, 2002; Lord Bingham, A New Supreme Court for the United Kingdom,
2002; Orlandi, Verso una “Corte Suprema”
britannica?, 2005). Si sono con ciò riportate alla memoria alcune tra le
riforme costituzionali più significative che sono state introdotte nell'ultimo
decennio dal New Labour di Tony Blair,
alle quali si deve allo stato attuale il contesto in cui ha preso forma lo
strumento della Supreme Court of the
United Kingdom e che può essere sommariamente definito come quello di un
sistema costituzionale in transizione del quale siano considerati elementi
essenziali non solo il Legislativo di Westminster e il governo di Gabinetto ma
anche l’apparato giudiziario nella sua complessità che – come dichiarava Lord
Lester nel suo programmatico intervento al dibattito della Camera dei Pari
dell’ottobre 1998 – forma la «terza
branca» di governo del paese. Alla luce di questa nuova fisionomia, che
dichiara una realtà già da secoli presente nella storia costituzionale, non
stupisce che alla giurisdizione sia oggi chiesto di esercitare un potere
pubblico nella loro qualità di custode dell’ordine costituzionale, della quale
essa è parte e non una sezione separata (Leopold, La struttura della magistratura britannica e la Costituzione,
2004).
Preannunciato
dall'istituzione, decisa in Consiglio Privato e realizzata con un apposito Order in Council che formulava anche la
proposta – in seguito ridimensionata – di abolizione della plurisecolare carica
del Lord Chancellor, di un nuovo
dicastero governativo (Torre, Il nuovo
Department for Constitutional Affairs: una 'bomba a grappolo' nell'ordinamento
britannico, 2004), il progetto di intervento dell’Esecutivo britannico sul
potere giudiziario ha condotto infine alla creazione della Supreme Court of the United Kingdom.
Con il
trasferimento (provvisorio nel 2003 in attesa dell'istituzione di una apposita
commissione indipendente, e oggi reso reraltà dall'intervento normativo del
2005) al nuovo Segretario di Stato delle responsabilità che un tempo
competevano al Lord Chancellor in
materia di patronage sulle nomine dei
giudici (Oliver, The Lord Chancellor's
Department and the Judges, 1994), s'è inteso superare quella condizione di
confusione dei poteri derivante dall'ibridazione del ruolo giudiziario,
parlamentare e governativo del titolare del vetusto ufficio, che dalla riforma
risulterebbe più modernamente "costituzionalizzato" (Leyland, Separating Powers and Constitutionalising
the Office of Lord Chancellor,, 2004), ovvero retto da norme scritte e
certe anziché da dignitose consuetudini. Ma, al di là del nuovo status costituzionale del Lord Chancellor (la cui importanza al
vertice dell'organizzazione garantistica dell'intero Regno Unito, anziché
svanire, esce confermata dalla recente riforma e, pertanto, più elevata), la
necessità di segnare un ulteriore passo in avanti verso il conseguimento di un
più convincente assetto di separation in
favore del quale si era appuntata la stessa attenzione critica della
giurisdizione comunitaria, si sarebbe trasformato in uno dei motivi
fondamentali dell'istituzione della nuova Supreme
Court.
Alla
genesi della Supreme Court si pone
inoltre il passaggio da una concezione diffusa e, se si vuole, eminentemente
dispersiva della forma costituzionale britannica (tipica del pensiero
tardo-liberale che, con Dicey, assegnava l'egemonia costituzionale alle
garanzie della common law e a pochi,
essenziali dogmatismi), a un pensiero costituzionale coeso. In tal senso la
riflessione aveva trovato avvia con l'attività (tra il 1969 e il 1973) della Royal Commission on the Constitution, la
quale aveva svolto una complessa indagine sull'impatto costituzionale della
questione territoriale e della devolution;
e, dopo un lungo congelamento thatcheriano, le odierne riflessioni sulla
Costituzione si sono dapprima sviluppate attraverso l'ondata riformista avviata
nel 1997 e tuttora in svolgimento. Con il dibattito sul Constitutional Reform Bill, dal quale
sarebbe scaturita la riforma che ha dato vita alla Corte Suprema, si è inoltre
focalizzato il più recente dibattito dottrinale (Morgan, Between the Fairy Tale and the
Abyss: the Creation of a Supreme Court for the United Kingdom,
2005; Hale, A Supreme Court for the
United Kingdom?, 2005; Legg, Brave
New World: the New Supreme Court and Judicial Appointments, 2005; Himsworth e Paterson, A Supreme Court for the United Kingdon: Views from the Northern Kingdom,
2005; Woodhouse, The Constitutional and
Political Implications of a United Kingdom Supreme Court , 2005).
Lo
spostamento dell'asse del confronto sulla questione della Costituzione come
assetto fondamentale del sistema politico del paese ha prodotto l'effetto di
attrarre il potere giurisdizionale, tradizionalmente indipendente e pertanto
posto non "dentro" l'ordine costituzionale bensì sullo sfondo di esso
(tale il ruolo classico, in sostanza, attrbuito alla common law: informare di sé un assetto costituzionale derivato),
entro la sfera del discorso costituzionale. Prospettiva ultima di un simile
mutamento d'indirizzo non sembra essere tanto l'inglobamento del potere delle
Corti nel quadro politico (d'altra parte, s'è visto come la posizione di
indipendenza dei giudici britannici non abbia mai ostacolato il loro
protagonismo costituzionale), quanto piuttosto la piena valorizzazione del loro
tradizionale ruolo di regulators del
diritto costituzionale.
Contrariamente
alle radicali previsioni del 2003 la nuova Corte non eclissa totalmente il
ruolo del Lord Chancellor, il quale
resta un supremo organo monocratico di riferimento costituzionale, nella
qualità di tutore dei valori della giustizia sostanziale a fronte delle altre
esigenze, potenzialmente confliggenti, rappresentate da altri dipartimenti
governativi. Sotto tale riguardo, si può ipotizzare che in esso si possa
individuare un nuovo protagonista del sistema costituzionale. Se considerata
alla luce dei valori giuridici europei e, con una certa dose di buona volontà,
perfino del diritto comparato, la riforma del 2005 assicurerà una migliore
salvaguardia "costituzionale" delle libertà fondamentali nel paese.
Restituito il Lord Chancellor alla
costituzionalità e alla rule of law (e
il principio di separazione dei poteri essendo soddisfatto dalla sottrazione al
Lord Chancellor del potere di patronage e dall'assegnazione di questo
potere a una autonoma Judicial
Appointments Commission), il riformatore ha trasmesso alla Supreme Court, inizialmente formata da
dodici Justices of the Supreme Court, le funzioni del Judicial Committee del Consiglio Privato e dell'Appellate Committee della Camera dei
Pari.
Nasce
in tal modo un nuovo corpo giurisdizionale con funzioni arbitrali. Ma,
nonostante la sua qualifica di Corte Suprema "del Regno Unito"
titolare del potere di giudicare le devolution
issues e principalmente i conflitti che sorgono tra istituzioni decentrate
in quei sistemi – come dal 1998 è il Regno Unito, in cui peraltro il
trasferimento territoriale di poteri è un processo in costante evoluzione
(Davies, Devolution. A Process, Not an
Event, 1999) se si considera quanto statuisce il Government of Wales Act 2006 – che si danno organizzazioni
composite, il riformatore ha voluto escludere che il nuovo collegio formi un quartum genus di giurisdizione che si sovrapponga a quello delle Corti di
giustizia e dei Judicial Committees of
the Privy Council e della Camera dei Pari, con ciò complicando il quadro di
una giurisdizione di costituzionalità che è ripartito e diffuso al pari
dell'ordine costituzionale che essa difende con le proprie decisioni. D'altra
parte sarebbe poco realistico negare recisamente che alla Supreme Court sarà del tutto preclusa la possibilità di creare una
giurisprudenza autonoma, se non altro per il fatto che – da un lato – il capace
alveo della devolution si
preannuncia,a circa dieci anni dalla sua prima organizzazione nelle aree
substatali e nonostante la sonora battuta d'arresto dello strano progetto di
devoluzione-regionalizzazione dell'Inghilterra – come una inesauribile miniera
di contraddizioni costituzionali; e – dall'altro lato – la giurisdizione della
Corte sarà amministrata con tendenziale uniformità per i sistemi di common e di Scots law (Arden, The
Jurisdiction of the New United Kingdom Supreme Court , 2004) e, così facendo, non mancherà di
aprire nel Regno Unito nuovi percorsi della giurisdizione fondamentale (senza
dire delle sue competenze "europee", lasciate del tutto indeterminate
dall'Atto costitutivo). Anche sotto questo profilo la Supreme Court of the United
Kingdom potrebbe configurare un efficace elemento di sintesi di un sistema
complesso di giurisdizioni che storicamente amministrano frammenti di giustizia
costituzionale senza che alcuna tra esse ne abbia mai esercitato il monopolio.
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