Antonio
Ruggeri
(La nota fa
riferimento alle seguenti decisioni della Corte cost.: nn. 382, 397 e 416 del
2001; 9, 13,14, 17, 26, 65, 72, 73, 76, 80, 96, 106, 117, 133, 141, 142, 144,
156, 157, 162, 165, 166, 182, 189, 190, 192, 196, 212, 228, 230, 235, 245, 246,
247, 248, 302, 304, 306 del 2002)
1.
Ius superveniens, improcedibilità dei
ricorsi governativi presentati prima della riforma e restituzione degli atti ai
giudici a quibus.- I nodi, come si sa, prima o poi vengono al pettine:
davanti alla riscrittura del titolo V della Costituzione ed ai non pochi,
aggrovigliati problemi ad essa legati, la Corte, anziché sforzarsi
pazientemente di sciogliere il nodo del contenzioso pendente in modo adeguato
ai singoli casi ed alle loro varie esigenze, ha preferito tagliarlo con un
colpo secco di accetta, rispedendo al mittente le questioni ed i ricorsi
presentati prima della riforma[1].
Nessuna sostanziale differenza di trattamento, dalla prospettiva qui adottata, si
riscontra tra i procedimenti attivati in via incidentale e quelli in via di
azione: chiaramente, solo nel primo caso la questione è stata riportata nelle
mani dell’autorità remittente; nel secondo, invece, si è in buona sostanza dato
il via libera per la promulgazione della legge regionale, cui può conseguire
tanto la reiterazione del controllo quanto il suo mancato esercizio (è tuttavia
evidente che il vero destinatario della pronunzia non è la Regione bensì
l’organo agente, il Governo). Insomma, se una conclusione è dato ricavare
dall’insieme delle pronunzie qui annotate è che lo ius superveniens costituzionale spiega immediati (e, a quanto pare,
non dissimili) effetti sul contenzioso pendente, quale che sia la via seguita
per impiantarlo e quale che sia il vizio originariamente denunziato.
Con riferimento al
procedimento in via di azione, la tesi enunciata nella sent. n. 17 del 2002[2]
è che lo ius superveniens
costituzionale rileva tanto per l’aspetto procedimentale quanto per quello
sostanziale, ma per il primo con carattere di priorità rispetto al secondo, non
considerandosi ormai più – in deroga al principio tempus regit actum – validamente radicato il ricorso presentato nel
vigore delle vecchie norme.
Se nella pronunzia ora
richiamata la Corte mostra di voler porre in primo piano il profilo
procedimentale, nelle altre decisioni emesse con riguardo a questioni sollevate
in via di eccezione l’unico piano sul quale esse sono trattate è, ovviamente,
quello sostanziale: in un caso e nell’altro, ad ogni buon conto, lo ius superveniens costituzionale non dà
modo – dice la Corte – di passare al merito. Singolare, nondimeno, rimane la
circostanza per cui il giudice delle leggi non ha ritenuto di doversi
interrogare circa la natura di quest’ultimo, se meramente “formale” ovvero
“sostanziale”, così come invece ha talora (e sia pure in casi sporadici) fatto
con riguardo allo ius superveniens
legislativo[3].
La sent. n. 17, con la
declaratoria di improcedibilità in essa fatta[4],
sollecita, dunque, a dar ulteriore corso alla legge, riconoscendo allo stesso
tempo come possibile la ripetizione dell’atto di controllo da parte del Governo
con le nuove regole dell’art. 127[5].
La Corte dà per scontato che la legge sia promulgata e pubblicata; è, tuttavia,
da chiedersi se lo ius superveniens
non possa valere anche per il Presidente della Regione[6]
che proprio da esso potrebbe considerarsi abilitato a non promulgare la legge.
La questione è antica.
Come si sa, l’ipotesi di un rinvio delle delibere legislative da parte del
Presidente della Regione è già stato prospettato da tempo, quanto meno con
riguardo ai casi più gravi (il cui accertamento, nondimeno, rimane largamente
opinabile e sfuggente); e va pure rammentato che, proprio dopo le recenti
innovazioni costituzionali, l’idea di prevedere espressamente in ambito
regionale (ovviamente, negli statuti) un potere di rinvio è stata ripresa da
una sensibile dottrina, al fine di rafforzare le garanzie della rigidità
statutaria, altrimenti gravemente esposte[7].
Il punto non può essere
qui approfondito come si conviene e ci si
deve pertanto limitare ad osservare che il caso ora discusso è comunque
diverso da quello a suo tempo ragionato in dottrina, se non altro per la
circostanza che il potere di rinvio sarebbe qui esclusivamente legato alla
contingente situazione di passaggio da un assetto costituzionale all’altro,
diversamente da ciò che potrebbe aversi a regime. E va pure considerato che il
rinvio presidenziale in ambito regionale, verso il quale in via generale mi
dichiaro contrario non sembrandomi trapiantabile meccanicamente la “logica”
dell’art. 74 cost. per la evidente diversità dei contesti[8],
presenterebbe l’indubbio vantaggio di dar modo agevolmente al Consiglio
regionale di “riappropriarsi” della legge, apportandovi le eventuali modifiche
sollecitate dal mutato quadro costituzionale, senza dover perciò far luogo
all’inizio di un nuovo procedimento legislativo[9].
Ad ogni buon conto, è,
questa, una eventualità che mi parrebbe non potersi a priori scartare (per quanto in senso avverso giochi la
circostanza per cui essa non dispone di specifico fondamento positivo[10]),
ma che non tocca il cuore della questione ora discussa: quella della
reiterabilità del controllo da parte del Governo. Del controllo – è stato fatto opportunamente notare[11]
– e non già del giudizio: il rischio,
già altrove paventato[12],
di una duplicazione di quest’ultimo, quale avrebbe potuto astrattamente aversi
per il caso che la Corte avesse mandato la prima volta assolta la delibera
legislativa che, divenuta quindi legge, avrebbe potuto essere nuovamente
impugnata con le nuove regole[13],
è stato abilmente scansato dalla Corte col fatto stesso di non esser passata al
merito della “questione”. Nessun dubbio, poi, può aversi a riguardo del fatto
che l’eventuale successivo ricorso può essere, in rapporto al primo, sia
“nuovo” che non. Il giudicato costituzionale, che pure secondo dottrina
corrente non sarebbe prodotto dalle decisioni di rigetto[14],
non potrebbe in ogni caso trovarsi coinvolto, non avendo la Corte fatto luogo
la prima volta ad alcun accertamento di merito.
A seguire il filo del
ragionamento svolto dal giudice delle leggi e dandosi immediato rilievo allo ius superveniens anche per l’aspetto
formale-procedimentale, se ne dovrebbe avere che l’intero iter di formazione della legge sia da considerare ormai toccato dal
mutamento normativo, risultando dunque travolta per intero e con effetti
immediati la disciplina previgente. Nessuna differenza dovrebbe, pertanto,
farsi – come invece da alcuni sostenuto[15]
– tra leggi già impugnate e leggi solo rinviate, le quali ultime pure
potrebbero esser promulgate e pubblicate. Non si vede, infatti, come
argomentare la tesi secondo cui, mentre le delibere legislative rimaste ad uno
stadio meno avanzato si troverebbero ad esser governate, in ordine al loro
regime, dalla vecchia disciplina (e, pertanto, richiederebbero di essere
nuovamente approvate, ecc.), invece per quelle già portate davanti alla Corte
varrebbe da subito il nuovo ordinamento. Quale che sia, perciò, il grado di
maturazione del procedimento di formazione, il nuovo diritto costituzionale –
fa capire la Corte – si impone con effetti immediati ed omnipervasivi.
È da chiedersi come mai
la Corte non abbia pensato di far luogo ad una pronunzia di cessazione della
materia del contendere, come pure era stato ventilato[16]
e si è usualmente fatto in caso di ius
superveniens legislativo (ed in altri casi ancora) e quali differenze siano
astrattamente prospettabili tra siffatta dichiarazione e quella
d’improcedibilità resa nella sent. n. 17 di quest’anno. Viene da pensare che le
ragioni tenute presenti possano essere state due, l’una opposta all’altra: per
un verso, la delibera legislativa impugnata avrebbe potuto considerarsi
inidonea ad essere promulgata e pubblicata (analogamente a quanto, come si sa,
si è detto per i casi di promulgazione parziale delle leggi siciliane, pure
assai diversi da quello ora in esame[17])
e la Regione si sarebbe, pertanto, trovata costretta a far partire da capo un
nuovo procedimento legislativo in materia per portare ad effetto le proprie
norme. Per un altro verso, invece, ritenendosi la delibera ormai liberata dal
cappio del ricorso e, dunque, automaticamente “trasformata” in legge (ancorché
bisognosa di promulgazione e pubblicazione) avrebbe potuto considerarsi non più
impugnabile dal Governo, proprio in conseguenza della dichiarazione di
cessazione della materia del contendere.
Per il primo aspetto,
sarebbe stata evidentemente, irragionevolmente sacrificata l’autonomia
regionale; e se si pensa che, in via di principio, il mutamento di quadro
costituzionale posto in essere con la riforma dovrebbe piuttosto preludere al
suo rafforzamento, la soluzione ora ipotizzata avrebbe suonato amaramente
paradossale. Per il secondo, sarebbe stato – ancora una volta, irragionevolmente
– messo da canto il diritto del Governo di avere comunque una risposta da parte
della Corte, facendo sfuggire artificiosamente la legge al controllo sia con le
vecchie che con le nuove regole.
La soluzione mediana
preferita dall’arbitro costituzionale è stata, dunque, nel senso di spostare
temporalmente in avanti e far ripartire da capo la partita, senza pregiudizio
per le posizioni di alcuna delle parti in campo.
Ma, siamo certi che non
vi fossero altre vie ugualmente percorribili, senza dover disinvoltamente
accantonare il principio tempus regit
actum? A me pare che a questa domanda si potesse (e si possa) rispondere di
sì, per quanto il percorso da seguire si sarebbe invero rivelato maggiormente
scomodo ed impegnativo per la Corte. E questo avrebbe potuto (o un domani,
volendo, potrebbe) valere tanto per le impugnazioni in via diretta quanto per
quelle in via di eccezione.
2.
Notazioni critiche a riguardo della
soluzione “a scatto automatico” preferita dalla Corte, nel quadro di una
possibile utilizzazione dello ius superveniens maggiormente articolata e differenziata in ragione dei casi.- Ora,
per avvedersi di come avrebbe potuto esser diversamente impostata la questione,
va preliminarmente avvertito che, al fondo di essa, sta un’altra, più generale
questione, ad oggi non organicamente affrontata e compiutamente risolta,
riguardante la teoria dell’assorbimento dei vizi. Al pari, ad es., di ciò che
concerne la riunione dei giudizi (altra questione fin qui molto
approssimativamente risolta, sulla base di sollecitazioni contingenti ed al di
fuori di un quadro concettuale previamente definito anche solo nei suoi
lineamenti essenziali[18]),
la Corte non si è mai dotata (né, per la verità, è stata soccorsa da una
riflessione dottrinale al riguardo assai carente[19])
di una lineare ed internamente ben strutturata teoria dell’assorbimento dei
vizi di costituzionalità. E, invero, si fatica non poco a comprendere quale
ordine logico ed assiologico si dia nell’esame del profilo procedurale e di
quello sostanziale in sede di giudizio di costituzionalità e quali, dunque,
possano essere i riflessi su entrambi determinati dallo ius superveniens costituzionale.
La giurisprudenza
pregressa insegna che, in non pochi casi, la questione si presta ad essere
dichiarata inammissibile per ragioni indipendenti dall’eventuale mutamento
normativo, al livello del parametro così come dell’oggetto del giudizio di
costituzionalità. Questioni ancipiti, ipotetiche, ad oggetto indeterminato,
palesemente carenti in fatto di rilevanza, ecc., possono essere – come si sa –
immediatamente fermate davanti all’uscio della Consulta senza necessità di
ulteriori indagini[20].
Di contro, quanto ai ricorsi in via principale, alcune “questioni” possono
essere ugualmente scrutinate nel merito, rimanendo per ciò assolutamente
indifferente ogni eventuale innovazione al livello delle norme sulla competenza
(in senso lato, sia che attengano ai tipi di potestà legislativa e sia che
riguardino le materie). Una legge impugnata per violazione dell’eguaglianza
può, ad es., essere scrutinata in ogni caso, quale che sia l’entità del
mutamento recato all’art. 117 cost.[21].
Qui, per la verità, la
questione si lega a quella relativa ai vizi rilevabili dopo la riforma.
Qualora dovesse ritenersi,
così come (sia pure dubitativamente) prospettato in dottrina[22],
che d’ora innanzi le leggi regionali potranno essere attaccate unicamente per
violazione della competenza, allora l’ipotesi sopra fatta non potrebbe più
riscontrarsi in futuro. Per il caso, invece, che il regime dei vizi dovesse
considerarsi immutato e si avesse una impugnazione di legge regionale motivata
tanto con il sospetto superamento della sfera di competenza quanto con la
violazione di altri parametri costituzionali ovvero solo di questi ultimi,
allora rimarrebbe da stabilire quale possa o debba essere l’ordine “giusto” di
esame dei vizi.
Dalla prospettiva ora
adottata, una piatta ed uniformante applicazione, “a scatto automatico”, della restituzione degli atti al mittente per
ius superveniens costituzionale può
rivelarsi diseconomica per i casi in cui la radice o una delle radici della
invalidità della legge non abbia a che fare col mutamento del parametro, sì da
poter essere subito estirpata se colta e messa in evidenza già in sede di primo
scrutinio della questione[23].
Volendo, dunque,
mantenere la coerenza interna alla decisione della Corte di rimandare indietro
le leggi impugnate e tentare di ricostruirne la ratio, dovrebbe dirsi che: a)
lo ius superveniens procedimentale
precede quello sostanziale, il cui esame non è consentito fintantoché non si corregge il ricorso, reiterandolo in
applicazione delle nuove regole (sent. n. 17, cit.); b) quanto, poi, allo ius
superveniens sostanziale, l’esame relativo al rispetto della nuova norma
costituzionale sulla competenza (art. 117) precede, secondo quanto emerge dalle
decisioni di restituzione degli atti ai giudici a quibus, logicamente ogni
altro tipo di accertamento e senza passare prima da esso non è, dunque,
possibile procedere ad altro scrutinio di merito; c) la Corte si considera sgravata dell’onere o come che sia
impedita di far luogo a siffatto accertamento “a prima battuta”, salvo –
naturalmente – il farlo “in seconda”, a seguito della eventuale reiterazione
della questione.
Quest’orientamento,
tuttavia, come si accennava poc’anzi, non appare pienamente in linea con quello
stesso seguito in tema di ius superveniens legislativo, quanto
meno con riguardo ai casi in cui la Corte si è spinta a verificarne il
carattere sostanzialmente innovativo[24].
Si potrebbe opporre che un conto sono le vicende riguardanti l’oggetto del giudizio di
costituzionalità, un altro quelle afferenti il parametro, solo apparentemente (ma falsamente) speculari le une
alle altre e, dunque, non meritevoli di essere riguardate dalla stessa
prospettiva e, comunque, trattate allo stesso modo. Tuttavia, avverso siffatto
ipotetico argomentare si potrebbe, a mia opinione, far valere più d’una
considerazione. A prescindere, infatti, dal carattere approssimativo (e –
diciamo pure – apodittico) dell’affermazione, non va perduta di vista, per un
verso, la circostanza per cui la “questione” di costituzionalità, sia nella sua
astratta e teorica connotazione così come in concreto, quale questione
individua, nella tipicità degli elementi fattuali e normativi che la compongono
e connotano, risulta da un insieme di “dati”, fra i quali principalmente
appunto i “termini” positivi, concorrenti nella stessa misura a farla e caratterizzarla[25].
Per un altro verso, poi, le innovazioni per fatti riguardanti il parametro sono
idonee a svolgersi non soltanto, appunto, al piano del parametro stesso ma
altresì a quello dell’oggetto, sotto un duplice profilo: vuoi per il fatto che
lo ius superveniens costituzionale
potrebbe commutarsi e, allo stesso tempo, presentarsi anche come ius superveniens legislativo, abrogando
e variamente modificando disposti di legge (tra i quali, ovviamente, possono
comprendersi proprio quelli sui quali la Corte è chiamata a pronunziarsi)[26]
e vuoi ancora per la ragione che, comunque, in virtù del carattere sistematico
e “circolare” dei processi interpretativi, la stessa ricognizione di senso
della disposizione-oggetto potrebbe risultare variamente “impressionata” dal
mutamento costituzionale, così come, naturalmente, viceversa. Insomma, lo ius superveniens può anche radicarsi ad
un piano di esperienza ma poi contagiare immediatamente anche l’altro (o, a
cascata, gli altri), proprio per la loro contiguità e, dunque, per il flusso di
mutua alimentazione semantica che senza sosta si intrattiene tra i “materiali”
che su ciascuno di essi si impiantano e rinnovano. Separare in modo netto parametro ed oggetto (con le relative vicende) o, peggio, trattarli a fini
processuali in modo distinto appare, pertanto, largamente artificioso.
Così stando le cose ed in
considerazione della portata potenzialmente dirompente delle innovazioni
introdotte dalla legge cost. n. 3 del 2001, idonee a riflettersi su porzioni
assai estese dell’ordinamento[27],
va avvertito che la stessa legislazione statale, nella identica (e, forse,
persino in una ancora maggiore[28])
misura di quella regionale, è toccata dalla riforma[29]:
col rischio, evidente, che, seguitando nel frattempo la Corte a pronunziarsi su
leggi statali non sospette di violare il titolo V, siano mantenute in vigore ed
applicate[30]
norme da esse prodotte che avrebbero piuttosto meritato di essere caducate, sol
perché il parametro indicato nell’ordinanza di rimessione non è tra quelli
espressamente toccati dalla riforma.
Questo rischio non è,
tuttavia, parabile fino in fondo. Sarebbe insensato pensare che la
giurisprudenza si fermi e rimandi indietro qualunque
questione sollevata, in nome di uno ius
superveniens potenzialmente omnipervasivo. Ma, non è ugualmente sensato che
la Corte non me rimandi indietro alcuna,
sol perché tra i parametri indicati nell’ordinanza di rimessione non erano
espressamente richiamate disposizioni contenute nel titolo V. Non si trascuri,
infatti, che la riforma si proietta ben oltre il pur ampio “campo” descritto
dagli artt. 114 ss., specie laddove fa riferimento alla sussidiarietà
“orizzontale”, alle azioni positive in genere a tutela delle donne (e
particolarmente con riguardo alle consultazioni elettorali), ecc., sicché possibili
riflessi a carico di enunciati sostantivi della Carta sono da mettere in conto[31].
Non saprei, invero, dire
quante volte la Corte si è fin qui interrogata circa la possibile (ma,
evidentemente esclusa) incisione di parametri evocati dalle ordinanze di
rimessione e diversi da disposizioni del titolo V. Sta di fatto che solo
qualora siano richiamate esplicitamente queste ultime si assiste alla
restituzione degli atti alle autorità remittenti. Nel caso opposto, la Corte
reputa, dunque, di poter passare al merito[32].
Sarà poi affare del giudice, specificamente in presenza di una decisione di
rigetto, stabilire se la norma fatta salva può essere ugualmente applicata al
caso o se non richieda piuttosto di essere portata ad oggetto di una nuova
questione “conseguente” proprio allo ius
superveniens.
Ma, così come i singoli
casi potranno variamente indirizzare l’attività “conseguenziale” dei giudici[33],
specificamente per ciò che concerne gli effetti dello ius superveniens costituzionale, ugualmente varia può essere
l’incidenza da quest’ultimo esercitata già a monte, nel processo
costituzionale, a seconda del modo con cui il punto relativo alla competenza si
pone in rapporto ad altri punti.
Nei giudizi in via
incidentale in particolare – checché mostri di pensarne la Corte, col fatto di
rispedire al mittente ogni questione riguardata (ma solo in modo espresso)
dallo ius superveniens costituzionale
– una questione di rapporto o di ordinazione gerarchica tra norme (e vizi) di
competenza e norme (e cause di vizio) diverse non si ha. Le violazioni di
carattere sostanziale stanno tutte, in astratto, sullo stesso piano, mentre
possono come sempre trovarsi collocate in scale di priorità variabili a seconda
dei casi. Tagliando con un colpo secco ogni
questione la cui soluzione avrebbe richiesto il riferimento a parametri
contenuti nel titolo V, pur laddove – come si è fatto notare – avrebbe potuto
essere chiusa con una pronunzia d’inammissibilità (persino manifesta…), la Corte lascia dunque intendere che lo scopo reale
avuto di mira sia stato quello non già di verificare quale vizio possa
assorbire l’altro o gli altri, ma – all’inverso – quale non possa (o, meglio, possa
non) farlo, sì da tenere comunque aperta la partita.
Fin qui si è sempre
pensato che l’obiettivo istituzionalmente proprio della Corte fosse
prioritariamente quello di verificare se la questione può essere chiusa in
partenza o, comunque, nel modo più sbrigativo e sicuro possibile, in quanto
inammissibile o per altre ragioni anche attinenti al merito, non già quello di
ricercare il modo per tenerla (alle volte, artificialmente) in vita malgrado
con le sue sole forze non ne sia capace: fosse, insomma, quello di dipanare (o
concorrere a dipanare) matasse aggrovigliate, nel modo più lineare possibile e,
dunque, prendendo la via più corta per operare lo scrutinio di
costituzionalità, facendo opera di chiarificazione ed offrendo prestazioni
stabili ed univoche al servizio della certezza del diritto costituzionale. La
Corte, invece, oggi ci dice di preferire che le questioni sollevate rimangano
per partito preso “aperte”, pur laddove avrebbero potuto essere altrimenti
chiuse[34],
restando in gioco con tutta la loro intrinseca complessità, ulteriormente
aggravata dallo ius superveniens
costituzionale; in seguito, si vedrà come risolverle, sulla base delle
iniziative che gli altri operatori istituzionali riterranno di assumere[35].
Le ragioni di opportunità che stanno a base di siffatta scelta si comprendono
agevolmente e non occorre qui esplicitarle[36];
ho, tuttavia, non pochi dubbi che esse si concilino fino in fondo con
l’esigenza, diffusamente avvertita e insistentemente dichiarata, di lineari ed
uniformi applicazioni delle regole e delle tecniche decisorie in tema di
processo costituzionale.
[1] Non tutti, per la verità: prescindendo,
infatti, dai casi, di cui alle ordd. nn. 141, 142, 189 e
Solo in parte
analoghi i casi risolti con sentt. nn. 304 e 306, dove ugualmente
[2] … quindi puntualmente richiamata
dalle ordd. nn. 65, 182, 228, 246, 247, 248 del 2002. È da notare che la prima
delle decisioni ora menzionate riguardava l’impugnazione di una delibera
legislativa di Regione a statuto speciale; il che – come ha opportunamente
rilevato G. Silvestri,
intervenendo su Le Regioni speciali nel
nuovo assetto costituzionale, Palermo 21-22 giugno 2002 – può far pensare
che
È, poi,
ancora da notare che nell’ord. n. 228, sopra cit., si dà atto della rinunzia al
ricorso da parte del Governo; non risultando, tuttavia, pervenuta
l’accettazione della controparte,
[3] Si rammentino i casi di spostamento
dell’oggetto da una disposizione all’altra o, per dir meglio, di riconoscimento
della sostanziale identità della norma-oggetto malgrado la diversità della
disposizione che la esprime (da ultimo, v. sent. n. 25 del 2002). Sulle non
poche questioni che si pongono in relazione ai mutamenti di situazioni
normative ed al modo con cui essi sono complessivamente trattati in
giurisprudenza, v., assai di recente, A. Morelli,
Lo ius superveniens come tecnica di selezione delle questioni di
legittimità costituzionale, in AA.VV., Il
giudizio sulle leggi e la sua “diffusione”. Verso un controllo di costituzionalità
di tipo diffuso?, a cura di E. Malfatti-R. Romboli-E. Rossi, Torino 2002,
583 ss.
[4] Questo esito era stato prefigurato
da A. Concaro, Corte costituzionale e riforma del Titolo V
della Costituzione: spunti di riflessione su alcuni problemi di diritto intertemporale,
in questa Rivista, 6/2001, 1334 s.
[5] Ad esser pignoli, si potrebbe
opporre che non di vera “ripetizione” si tratta, dal momento che il primo
ricorso aveva ad oggetto una “delibera legislativa” ed il secondo una “legge”;
ma che esse possano, per la loro sostanza normativa, coincidere del tutto non è
dubbio.
[6] … e, di riflesso, secondo una
ipotesi che si passa subito a ragionare nel testo, per lo stesso Consiglio
regionale, che potrebbe essere chiamato a pronunziarsi nuovamente sul testo
della legge.
[7] V., in tal senso, part. R. Bin, Le potestà legislative regionali, dalla Bassanini ad oggi, e A. Spadaro, I “contenuti” degli statuti regionali (con particolare riguardo alle
forme di governo), entrambi in AA.VV., Le
fonti di diritto regionale alla ricerca di una nuova identità, a cura di A.
Ruggeri e G. Silvestri, Milano 2001, rispettivamente, 150 e 91. Secondo una
diversa proposta, patrocinata da T. Groppi, Quale garante per lo Statuto regionale?,
in AA.VV., La potestà statutaria
regionale nella riforma della Costituzione. Temi rilevanti e profili comparati,
Milano 2001, 293 ss., e che vedo ora ripresa da alcune bozze di statuto in
circolazione, il modo più adeguato per preservare la rigidità statutaria in
ambito regionale sarebbe quello di far luogo alla istituzione di un organo di
garanzia, sulla cui complessiva connotazione peraltro il dibattito è ancora
aperto, facendosi notare come si corra il rischio di valicare la soglia della
“giurisdizionalità” davanti alla quale, come si sa,
[8] Si faccia, ad ogni modo, caso al
fatto che altro è il rinvio quale forma di garanzia ad opera di un organo super partes (ciò che si spiega in
ambito statale ma non a livello regionale) ed altro ancora il rinvio per ius superveniens, di cui ora si
discorre, che potrebbe addurre a proprio sostegno una motivazione anche
squisitamente politica, nel senso subito di seguito indicato nel testo.
[9] L’ipotesi di un’eventuale
riapprovazione della legge conseguente alla remissione di quest’ultima da parte
della Corte è ora ragionata da P. Nicosia,
Primi passi della Corte costituzionale
nell’applicazione del nuovo art. 127 della Costituzione, in forum di Quad. cost., in rete.
[10] Argomento, questo che si richiama al
principio di attribuzione, indubbiamente assai forte ma che la dottrina
corrente in via generale tende a considerare non insuperabile (si pensi, ad
es., al potere comunemente riconosciuto al Capo di Stato di “rinvio” degli atti
del Governo portatigli per la firma, malgrado non se ne abbia – come si sa –
traccia in Costituzione).
[11] Ancora P. Nicosia, nello scritto sopra richiamato.
[12] … nel mio La riforma costituzionale del Titolo V e i problemi della sua
attuazione, con specifico riguardo alle dinamiche della normazione ed al piano
dei controlli, intervento all’incontro di studio di Bologna del 14 gennaio
scorso, a cura dell’A.I.C., su Il nuovo Titolo
V della Parte II della Costituzione. Primi problemi della sua attuazione,
in Quad. reg., 2/2001, 627 ss., e già
in www.associazionedeicostituzionalisti.it.
[13] Il presupposto dell’ipotesi
ragionata nel mio scritto sopra cit. è proprio quello ora rigettato dalla
Corte, vale a dire la intangibilità del principio tempus regit actum, in nome del quale il contenzioso pendente
avrebbe dovuto restare incardinato in base alla vecchia disciplina costituzionale
per l’aspetto procedimentale e deciso alla luce della nuova, quanto al profilo
sostanziale. Il timore – paventato da A. Concaro,
Corte costituzionale e riforma del Titolo
V della Costituzione, cit., 1335 s. – di una possibile incisione del principio
della corrispondenza tra il chiesto ed il pronunciato, conseguente alla
sostituzione “d’ufficio” del parametro, avrebbe potuto (o un domani potrebbe…)
esser fugato nella considerazione secondo cui – anche a prescindere dal modo
comunque peculiare e non rigido con cui il principio stesso trova applicazione
nelle esperienze della giustizia costituzionale –
[14] Un quadro di sintesi delle ricostruzioni
proposte può ora vedersi in F. Dal
Canto, Giudicato costituzionale, in Enc.
dir., Agg., V (2001), 437 ss.
[15] R. Tosi,
La legge costituzionale n. 3 del 2001:
note sparse in tema di potestà legislativa ed amministrativa, G. Falcon, Modello e transizione nel nuovo
titolo V della Parte seconda della Costituzione, e A. Concaro, Corte costituzionale e riforma del Titolo V
della Costituzione, cit., tutti in questa Rivista, 6/2001, rispettivamente, 1242 ss., 1266 ss. e 1329 ss.
[16] Ancora T. Groppi, La legge
costituzionale n. 3/2001 tra attuazione e autoapplicazione, in AA.VV.,
[17] La promulgazione parziale, infatti,
si spiega proprio in quella logica del controllo preventivo che è stata ora
spazzata via dalla riforma dell’anno scorso, così come, dal suo canto, la
dichiarazione di cessazione della materia del contendere da parte della Corte
consegue alla promulgazione parziale della legge, della quale presuppone
dunque, a differenza del caso nostro, l’entrata in vigore.
[18] Incisive notazioni critiche al
riguardo sono in C. Salazar, Riunione delle cause nel giudizio sulle
leggi e teorie del “caos”, ovvero: della “leggerezza” (insostenibile?) del
processo costituzionale, in AA.VV., L’organizzazione
e il funzionamento della Corte costituzionale, a cura di P. Costanzo,
Torino 1996, 358 ss.
[19] Ma v. lo studio di L. D’Andrea, Prime note in tema di assorbimento nei giudizi di costituzionalità,
in AA.VV., Corte costituzionale e
Parlamento. Profili problematici e ricostruttivi, a cura di A. Ruggeri e G.
Silvestri, Milano 2000, 79 ss., il quale, dopo aver fatto notare come
[20] Ciò che, invero,
[21] Proprio la legge toscana che,
unitamente ad una ligure, ha dato origine al caso risolto con la sent. n. 17,
sopra richiamata, era stata censurata dal Governo anche in relazione all’art. 3
cost., ma – per la verità – non solo rispetto ad esso.
[22] V., ora, T. Martines-A. Ruggeri-C.
Salazar, Lineamenti di diritto regionale, Milano 2002, 298 ss. e A. Concaro, Corte costituzionale e riforma del Titolo V della Costituzione,
cit., 1339 ss. Diversamente, P. Caretti,
L’assetto dei rapporti tra competenza
legislativa statale e regionale, alla luce del nuovo Titolo V della
Costituzione: aspetti problematici, in questa Rivista, 6/2001, 1230 ss.
[23] La gran parte delle questioni
rimesse ai giudici che le avevano sollevate coinvolgeva anche parametri esterni
al titolo V, quali quelli enunciati negli artt. 3 e 24 (ord. n. 416 del 2001),
2, 18, 42 e 43 (ord. n. 13 del 2002), 18 (ord. n. 14 del 2002), 3 (ord. n. 26
del 2002), 2, 3, 41 e 77 (ord. n. 60 del 2002), 3 e 24 (ord. n.72 del 2002), 3,
4 e 35 (ord. n. 80 del 2002), 3, 5 e 25 (ord. n. 96 del 2002), 3 (ordd. nn. 117
e 162 del 2002), 41 (ord. n. 190 del 2002), 3 e 70 (ord. n. 230 del 2002), 3, 5
e 11 (ord. n. 235 del 2002), 3 e 97 (ord. n. 245 del 2002). Quale, poi, fosse
il legame “sistematico” riscontrabile tra i parametri stessi, sia tra di loro
che in rapporto a disposti del titolo V, richiederebbe, come sempre, un
accertamento caso per caso.
[24] È interessante notare come in uno
dei casi ora trattati, di cui all’ord. n. 26 del 2002 sopra cit., l’Avvocatura
dello Stato avesse eccepito altresì lo
ius superveniens legislativo, senza nondimeno ricevere sul punto alcuna
risposta dalla Corte; in un altro caso ancora (ord. n. 96 del 2002, cit.), lo ius superveniens legislativo è
prospettato dalla stessa Corte, che tuttavia significativamente aggiunge come
“indipendentemente dall’intervenuto mutamento della legislazione statale
concernente la materia in oggetto, successivamente alla pronuncia di tutte le
ordinanze di rimessione, è entrata in vigore la legge costituzionale 18 ottobre
2001, n. 3…”: evidentemente, lo ius
superveniens costituzionale, nell’ordine gerarchico fatto proprio dalla
Consulta, precede lo stesso ius
superveniens legislativo (ma, non si vede proprio quale ne possa essere il
fondamento teorico). Nel caso, poi, risolto con ord. n. 60 del 2002,
[25] Riassuntivamente sul punto, di
cruciale rilievo per la teoria non solo della giustizia costituzionale ma della
stessa Costituzione, può ora, volendo, vedersi A. Ruggeri-A. Spadaro,
Lineamenti di giustizia costituzionale,
Torino 2001, 99 ss., spec. 129 ss.
[26] La questione è tornata di
particolare attualità proprio dopo la riforma del titolo V, interrogandosi la
dottrina circa la sorte di interi settori della legislazione previgente (ad
es., in materia di controlli) la cui compatibilità col nuovo quadro
costituzionale appaia assai dubbia o – diciamo pure – impossibile (sul punto,
v., nuovamente, T. Groppi, La legge costituzionale, cit., nonché il
mio La riforma costituzionale, cit.).
[27] … persino su ambiti un tempo
ritenuti categoricamente sottratti all’intervento regionale. Si pensi, ad es.,
al limite della materia processuale o a quello dei rapporti privati e, persino,
degli stessi diritti fondamentali, oggi meritevoli di esser funditus riconsiderati: quanto al primo,
particolarmente, alla luce della previsione contenuta nell’art. 116, III c.; al
secondo, in forza delle formule di cui alle lett. l) ed m), pure di
faticosa, reciproca armonizzazione, ed al terzo, ancora una volta, in base alla
formula da ultimo richiamata, che parrebbe giustificare una produzione
normativa regionale per tutto ciò che non attiene ai “livelli essenziali delle
prestazioni concernenti i diritti civili e sociali” (se n’è, da ultimo,
ampiamente discusso in occasione del Convegno su La definizione del principio unitario negli ordinamenti decentrati,
Certosa di Pontignano 10-11 maggio 2002, e del Convegno su Il ‘nuovo’ ordinamento regionale in Italia: confronti europei (Spagna,
Germania e Regno Unito), Cosenza 3-4 giugno 2002, ed ivi, part., la relazione di G.U. Rescigno,
I diritti civili e sociali fra
legislazione esclusiva dello Stato e Regioni). Un primo, cauto approccio
alle questioni qui accennate è, ora, in Corte cost. n. 282 del 2002, annotata
da B. Caravita, Prime precisazioni della Corte
costituzionale sulla potestà legislativa regionale nel nuovo art.
[28] È chiaro che le novità apportate
dalla inversione della tecnica di riparto delle materie tra Stato e Regioni
sono assolutamente speculari, alla espansione della sfera di competenze di
queste corrispondendo un restringimento della sfera di quello; ma, non si
dimentichi che, per ciò che concerne i possibili esiti di una vicenda
processuale, le probabilità che una legge regionale, già di per sé valida alla
luce del vecchio quadro costituzionale, divenga invalida dopo la riforma sono
praticamente assai remote, a differenza di ciò che può dirsi delle leggi
statali.
[29] … così come lo è l’amministrazione;
anzi, nel caso di quest’ultima, il giudizio sugli atti che ne sono espressione,
in quanto assunti come idonei a determinare una lesione o menomazione della
sfera di competenza regionale, a stare all’ordine di idee della Corte, dovrebbe
essere comunque subordinato all’accertamento degli effetti prodotti dallo ius superveniens costituzionale. Ciò
che, invece, non s’è fatto con le sentt. nn. 133, 156 e 196 del 2002. Con la
prima, in particolare, è stato annullato, in sede di conflitto di attribuzioni,
un decreto ministeriale (peraltro, fa notare la stessa Corte, già di per sé
inapplicabile…) lesivo dell’autonomia della Regione siciliana, per violazione
del principio di leale cooperazione. La circostanza per cui la lesione stessa
avrebbe a maggior ragione potuto essere riscontrata alla luce del nuovo quadro
costituzionale lascia assolutamente indifferente
[30] Qui, la questione specificamente si
intreccia con quella, accesamente discussa, riguardante la ricostruzione del
“modello” di rapporti intercorrenti, dopo la riforma, tra leggi statali e leggi
regionali. Se, tuttavia, si conviene con la tesi, come si sa già invalsa
nell’esperienza formatasi nel vecchio contesto, secondo cui le norme statali si
prestano a spiegare effetti nei territori regionali fintantoché non siano
progressivamente rimpiazzate dalle norme regionali (così come queste ultime
possono essere immediatamente modificate dalle regole statali adottate in svolgimento
di nuovi princìpi), nessun ostacolo vi sarebbe alla perdurante applicazione
delle leggi statali. Il punto, tuttavia, va oggi rivisto alla luce del modo con
cui è complessivamente ricostruito l’intero “modello”. Non nascondo qui la mia
preferenza, altrove manifestata, per il mantenimento della “logica” della
integrazione delle competenze (e delle fonti che ne sono espressione), tuttavia
– come si sa – oggi al centro di controverse valutazioni e divergenti
orientamenti (e basti, al riguardo, confrontare i non coincidenti punti di
vista di R. Tosi e G. Falcon, così come espressi negli
scritti sopra richiamati).
[31] Certo si è, nondimeno, che, in forza
della unicità-totalità sistematica del dettato costituzionale e del carattere
ugualmente sistematico dell’interpretazione, v’è il rischio assai serio che, da
una prospettiva sostanziale di qualificazione del parametro, molte più
questioni di quanto a prima vista non sembri debbano considerarsi interessate
dallo ius superveniens.
[32] V., ad es., i casi decisi con ordd.
nn. 240 e 241 del 2002, pure relativi a leggi regionali.
[33] Ancora oggi una fitta coltre di
nebbia avvolge il “seguito” giudiziario (per non dire di quello
amministrativo…) delle decisioni di costituzionalità, sia per ciò che si pone
specificamente in rapporto al verdetto della Corte (e, dunque, costituisce
quello che si potrebbe chiamare il “seguito” in senso proprio) e sia pure per
quanto attiene a vicende ad esso estranee, quale appunto potrebbe essere uno ius superveniens (sia anteriore che
successivo alla decisione della Corte), ancorché variamente intrecciate con gli
esiti del processo costituzionale. Per una prima, encomiabile opera di
chiarificazione svolta sul versante giudiziario, v. gli studi di E. Lamarque, Gli effetti della pronuncia interpretativa di rigetto della Corte
costituzionale nel giudizio a quo
(un’indagine sul “seguito” delle pronunce costituzionali), in Giur. cost., 2000, 685 ss. e Il seguito giudiziario alle decisioni della
Corte costituzionale, in AA.VV., Il
giudizio sulle leggi e la sua “diffusione”, cit., 200 ss.
[34] … e, però, come si è veduto a
proposito delle pronunzie su leggi statali, chiuse, pur laddove avrebbero
potuto restare aperte, in conseguenza di una complessiva “riconformazione” del
parametro per ius superveniens.
[35] Come si vede,
[36] Senza dubbio efficace, vincente, la
“tecnica” di smaltimento dell’arretrato ora elaborata dalla Corte; come si è venuti
dicendo, è, però, tutta da verificare la sua rispondenza a canoni di “sistema”
previamente fissati e dalla stessa Corte in precedenti occasioni rispettati.