Antonio Ruggeri

La Corte e lo ius superveniens costituzionale (a proposito della riforma del titolo V e dei suoi effetti sui giudizi pendenti)

 

(La nota fa riferimento alle seguenti decisioni della Corte cost.: nn. 382, 397 e 416 del 2001; 9, 13,14, 17, 26, 65, 72, 73, 76, 80, 96, 106, 117, 133, 141, 142, 144, 156, 157, 162, 165, 166, 182, 189, 190, 192, 196, 212, 228, 230, 235, 245, 246, 247, 248, 302, 304, 306 del 2002)

 

1. Ius superveniens, improcedibilità dei ricorsi governativi presentati prima della riforma e restituzione degli atti ai giudici a quibus.- I nodi, come si sa, prima o poi vengono al pettine: davanti alla riscrittura del titolo V della Costituzione ed ai non pochi, aggrovigliati problemi ad essa legati, la Corte, anziché sforzarsi pazientemente di sciogliere il nodo del contenzioso pendente in modo adeguato ai singoli casi ed alle loro varie esigenze, ha preferito tagliarlo con un colpo secco di accetta, rispedendo al mittente le questioni ed i ricorsi presentati prima della riforma[1]. Nessuna sostanziale differenza di trattamento, dalla prospettiva qui adottata, si riscontra tra i procedimenti attivati in via incidentale e quelli in via di azione: chiaramente, solo nel primo caso la questione è stata riportata nelle mani dell’autorità remittente; nel secondo, invece, si è in buona sostanza dato il via libera per la promulgazione della legge regionale, cui può conseguire tanto la reiterazione del controllo quanto il suo mancato esercizio (è tuttavia evidente che il vero destinatario della pronunzia non è la Regione bensì l’organo agente, il Governo). Insomma, se una conclusione è dato ricavare dall’insieme delle pronunzie qui annotate è che lo ius superveniens costituzionale spiega immediati (e, a quanto pare, non dissimili) effetti sul contenzioso pendente, quale che sia la via seguita per impiantarlo e quale che sia il vizio originariamente denunziato.

Con riferimento al procedimento in via di azione, la tesi enunciata nella sent. n. 17 del 2002[2] è che lo ius superveniens costituzionale rileva tanto per l’aspetto procedimentale quanto per quello sostanziale, ma per il primo con carattere di priorità rispetto al secondo, non considerandosi ormai più – in deroga al principio tempus regit actum – validamente radicato il ricorso presentato nel vigore delle vecchie norme.

Se nella pronunzia ora richiamata la Corte mostra di voler porre in primo piano il profilo procedimentale, nelle altre decisioni emesse con riguardo a questioni sollevate in via di eccezione l’unico piano sul quale esse sono trattate è, ovviamente, quello sostanziale: in un caso e nell’altro, ad ogni buon conto, lo ius superveniens costituzionale non dà modo – dice la Corte – di passare al merito. Singolare, nondimeno, rimane la circostanza per cui il giudice delle leggi non ha ritenuto di doversi interrogare circa la natura di quest’ultimo, se meramente “formale” ovvero “sostanziale”, così come invece ha talora (e sia pure in casi sporadici) fatto con riguardo allo ius superveniens legislativo[3].

La sent. n. 17, con la declaratoria di improcedibilità in essa fatta[4], sollecita, dunque, a dar ulteriore corso alla legge, riconoscendo allo stesso tempo come possibile la ripetizione dell’atto di controllo da parte del Governo con le nuove regole dell’art. 127[5]. La Corte dà per scontato che la legge sia promulgata e pubblicata; è, tuttavia, da chiedersi se lo ius superveniens non possa valere anche per il Presidente della Regione[6] che proprio da esso potrebbe considerarsi abilitato a non promulgare la legge.

La questione è antica. Come si sa, l’ipotesi di un rinvio delle delibere legislative da parte del Presidente della Regione è già stato prospettato da tempo, quanto meno con riguardo ai casi più gravi (il cui accertamento, nondimeno, rimane largamente opinabile e sfuggente); e va pure rammentato che, proprio dopo le recenti innovazioni costituzionali, l’idea di prevedere espressamente in ambito regionale (ovviamente, negli statuti) un potere di rinvio è stata ripresa da una sensibile dottrina, al fine di rafforzare le garanzie della rigidità statutaria, altrimenti gravemente esposte[7].

Il punto non può essere qui approfondito come si conviene e ci si  deve pertanto limitare ad osservare che il caso ora discusso è comunque diverso da quello a suo tempo ragionato in dottrina, se non altro per la circostanza che il potere di rinvio sarebbe qui esclusivamente legato alla contingente situazione di passaggio da un assetto costituzionale all’altro, diversamente da ciò che potrebbe aversi a regime. E va pure considerato che il rinvio presidenziale in ambito regionale, verso il quale in via generale mi dichiaro contrario non sembrandomi trapiantabile meccanicamente la “logica” dell’art. 74 cost. per la evidente diversità dei contesti[8], presenterebbe l’indubbio vantaggio di dar modo agevolmente al Consiglio regionale di “riappropriarsi” della legge, apportandovi le eventuali modifiche sollecitate dal mutato quadro costituzionale, senza dover perciò far luogo all’inizio di un nuovo procedimento legislativo[9].

Ad ogni buon conto, è, questa, una eventualità che mi parrebbe non potersi a priori scartare (per quanto in senso avverso giochi la circostanza per cui essa non dispone di specifico fondamento positivo[10]), ma che non tocca il cuore della questione ora discussa: quella della reiterabilità del controllo da parte del Governo. Del controllo – è stato fatto opportunamente notare[11] – e non già del giudizio: il rischio, già altrove paventato[12], di una duplicazione di quest’ultimo, quale avrebbe potuto astrattamente aversi per il caso che la Corte avesse mandato la prima volta assolta la delibera legislativa che, divenuta quindi legge, avrebbe potuto essere nuovamente impugnata con le nuove regole[13], è stato abilmente scansato dalla Corte col fatto stesso di non esser passata al merito della “questione”. Nessun dubbio, poi, può aversi a riguardo del fatto che l’eventuale successivo ricorso può essere, in rapporto al primo, sia “nuovo” che non. Il giudicato costituzionale, che pure secondo dottrina corrente non sarebbe prodotto dalle decisioni di rigetto[14], non potrebbe in ogni caso trovarsi coinvolto, non avendo la Corte fatto luogo la prima volta ad alcun accertamento di merito.

A seguire il filo del ragionamento svolto dal giudice delle leggi e dandosi immediato rilievo allo ius superveniens anche per l’aspetto formale-procedimentale, se ne dovrebbe avere che l’intero iter di formazione della legge sia da considerare ormai toccato dal mutamento normativo, risultando dunque travolta per intero e con effetti immediati la disciplina previgente. Nessuna differenza dovrebbe, pertanto, farsi – come invece da alcuni sostenuto[15] – tra leggi già impugnate e leggi solo rinviate, le quali ultime pure potrebbero esser promulgate e pubblicate. Non si vede, infatti, come argomentare la tesi secondo cui, mentre le delibere legislative rimaste ad uno stadio meno avanzato si troverebbero ad esser governate, in ordine al loro regime, dalla vecchia disciplina (e, pertanto, richiederebbero di essere nuovamente approvate, ecc.), invece per quelle già portate davanti alla Corte varrebbe da subito il nuovo ordinamento. Quale che sia, perciò, il grado di maturazione del procedimento di formazione, il nuovo diritto costituzionale – fa capire la Corte – si impone con effetti immediati ed omnipervasivi.

È da chiedersi come mai la Corte non abbia pensato di far luogo ad una pronunzia di cessazione della materia del contendere, come pure era stato ventilato[16] e si è usualmente fatto in caso di ius superveniens legislativo (ed in altri casi ancora) e quali differenze siano astrattamente prospettabili tra siffatta dichiarazione e quella d’improcedibilità resa nella sent. n. 17 di quest’anno. Viene da pensare che le ragioni tenute presenti possano essere state due, l’una opposta all’altra: per un verso, la delibera legislativa impugnata avrebbe potuto considerarsi inidonea ad essere promulgata e pubblicata (analogamente a quanto, come si sa, si è detto per i casi di promulgazione parziale delle leggi siciliane, pure assai diversi da quello ora in esame[17]) e la Regione si sarebbe, pertanto, trovata costretta a far partire da capo un nuovo procedimento legislativo in materia per portare ad effetto le proprie norme. Per un altro verso, invece, ritenendosi la delibera ormai liberata dal cappio del ricorso e, dunque, automaticamente “trasformata” in legge (ancorché bisognosa di promulgazione e pubblicazione) avrebbe potuto considerarsi non più impugnabile dal Governo, proprio in conseguenza della dichiarazione di cessazione della materia del contendere.

Per il primo aspetto, sarebbe stata evidentemente, irragionevolmente sacrificata l’autonomia regionale; e se si pensa che, in via di principio, il mutamento di quadro costituzionale posto in essere con la riforma dovrebbe piuttosto preludere al suo rafforzamento, la soluzione ora ipotizzata avrebbe suonato amaramente paradossale. Per il secondo, sarebbe stato – ancora una volta, irragionevolmente – messo da canto il diritto del Governo di avere comunque una risposta da parte della Corte, facendo sfuggire artificiosamente la legge al controllo sia con le vecchie che con le nuove regole.

La soluzione mediana preferita dall’arbitro costituzionale è stata, dunque, nel senso di spostare temporalmente in avanti e far ripartire da capo la partita, senza pregiudizio per le posizioni di alcuna delle parti in campo.

Ma, siamo certi che non vi fossero altre vie ugualmente percorribili, senza dover disinvoltamente accantonare il principio tempus regit actum? A me pare che a questa domanda si potesse (e si possa) rispondere di sì, per quanto il percorso da seguire si sarebbe invero rivelato maggiormente scomodo ed impegnativo per la Corte. E questo avrebbe potuto (o un domani, volendo, potrebbe) valere tanto per le impugnazioni in via diretta quanto per quelle in via di eccezione.

2. Notazioni critiche a riguardo della soluzione “a scatto automatico” preferita dalla Corte, nel quadro di una possibile utilizzazione dello ius superveniens maggiormente articolata e differenziata in ragione dei casi.- Ora, per avvedersi di come avrebbe potuto esser diversamente impostata la questione, va preliminarmente avvertito che, al fondo di essa, sta un’altra, più generale questione, ad oggi non organicamente affrontata e compiutamente risolta, riguardante la teoria dell’assorbimento dei vizi. Al pari, ad es., di ciò che concerne la riunione dei giudizi (altra questione fin qui molto approssimativamente risolta, sulla base di sollecitazioni contingenti ed al di fuori di un quadro concettuale previamente definito anche solo nei suoi lineamenti essenziali[18]), la Corte non si è mai dotata (né, per la verità, è stata soccorsa da una riflessione dottrinale al riguardo assai carente[19]) di una lineare ed internamente ben strutturata teoria dell’assorbimento dei vizi di costituzionalità. E, invero, si fatica non poco a comprendere quale ordine logico ed assiologico si dia nell’esame del profilo procedurale e di quello sostanziale in sede di giudizio di costituzionalità e quali, dunque, possano essere i riflessi su entrambi determinati dallo ius superveniens costituzionale.

La giurisprudenza pregressa insegna che, in non pochi casi, la questione si presta ad essere dichiarata inammissibile per ragioni indipendenti dall’eventuale mutamento normativo, al livello del parametro così come dell’oggetto del giudizio di costituzionalità. Questioni ancipiti, ipotetiche, ad oggetto indeterminato, palesemente carenti in fatto di rilevanza, ecc., possono essere – come si sa – immediatamente fermate davanti all’uscio della Consulta senza necessità di ulteriori indagini[20]. Di contro, quanto ai ricorsi in via principale, alcune “questioni” possono essere ugualmente scrutinate nel merito, rimanendo per ciò assolutamente indifferente ogni eventuale innovazione al livello delle norme sulla competenza (in senso lato, sia che attengano ai tipi di potestà legislativa e sia che riguardino le materie). Una legge impugnata per violazione dell’eguaglianza può, ad es., essere scrutinata in ogni caso, quale che sia l’entità del mutamento recato all’art. 117 cost.[21].

Qui, per la verità, la questione si lega a quella relativa ai vizi rilevabili dopo la riforma.

Qualora dovesse ritenersi, così come (sia pure dubitativamente) prospettato in dottrina[22], che d’ora innanzi le leggi regionali potranno essere attaccate unicamente per violazione della competenza, allora l’ipotesi sopra fatta non potrebbe più riscontrarsi in futuro. Per il caso, invece, che il regime dei vizi dovesse considerarsi immutato e si avesse una impugnazione di legge regionale motivata tanto con il sospetto superamento della sfera di competenza quanto con la violazione di altri parametri costituzionali ovvero solo di questi ultimi, allora rimarrebbe da stabilire quale possa o debba essere l’ordine “giusto” di esame dei vizi.

Dalla prospettiva ora adottata, una piatta ed uniformante applicazione, “a scatto automatico”,  della restituzione degli atti al mittente per ius superveniens costituzionale può rivelarsi diseconomica per i casi in cui la radice o una delle radici della invalidità della legge non abbia a che fare col mutamento del parametro, sì da poter essere subito estirpata se colta e messa in evidenza già in sede di primo scrutinio della questione[23].

Volendo, dunque, mantenere la coerenza interna alla decisione della Corte di rimandare indietro le leggi impugnate e tentare di ricostruirne la ratio, dovrebbe dirsi che: a) lo ius superveniens procedimentale precede quello sostanziale, il cui esame non è consentito fintantoché non si corregge il ricorso, reiterandolo in applicazione delle nuove regole (sent. n. 17, cit.); b) quanto, poi, allo ius superveniens sostanziale, l’esame relativo al rispetto della nuova norma costituzionale sulla competenza (art. 117) precede, secondo quanto emerge dalle decisioni di restituzione degli atti ai giudici a quibus, logicamente ogni altro tipo di accertamento e senza passare prima da esso non è, dunque, possibile procedere ad altro scrutinio di merito; c) la Corte si considera sgravata dell’onere o come che sia impedita di far luogo a siffatto accertamento “a prima battuta”, salvo – naturalmente – il farlo “in seconda”, a seguito della eventuale reiterazione della questione.

Quest’orientamento, tuttavia, come si accennava poc’anzi, non appare pienamente in linea con quello stesso seguito in  tema di ius superveniens legislativo, quanto meno con riguardo ai casi in cui la Corte si è spinta a verificarne il carattere sostanzialmente innovativo[24]. Si potrebbe opporre che un conto sono le vicende riguardanti l’oggetto del giudizio di costituzionalità, un altro quelle afferenti il parametro, solo apparentemente (ma falsamente) speculari le une alle altre e, dunque, non meritevoli di essere riguardate dalla stessa prospettiva e, comunque, trattate allo stesso modo. Tuttavia, avverso siffatto ipotetico argomentare si potrebbe, a mia opinione, far valere più d’una considerazione. A prescindere, infatti, dal carattere approssimativo (e – diciamo pure – apodittico) dell’affermazione, non va perduta di vista, per un verso, la circostanza per cui la “questione” di costituzionalità, sia nella sua astratta e teorica connotazione così come in concreto, quale questione individua, nella tipicità degli elementi fattuali e normativi che la compongono e connotano, risulta da un insieme di “dati”, fra i quali principalmente appunto i “termini” positivi, concorrenti nella stessa misura a farla e caratterizzarla[25]. Per un altro verso, poi, le innovazioni per fatti riguardanti il parametro sono idonee a svolgersi non soltanto, appunto, al piano del parametro stesso ma altresì a quello dell’oggetto, sotto un duplice profilo: vuoi per il fatto che lo ius superveniens costituzionale potrebbe commutarsi e, allo stesso tempo, presentarsi anche come ius superveniens legislativo, abrogando e variamente modificando disposti di legge (tra i quali, ovviamente, possono comprendersi proprio quelli sui quali la Corte è chiamata a pronunziarsi)[26] e vuoi ancora per la ragione che, comunque, in virtù del carattere sistematico e “circolare” dei processi interpretativi, la stessa ricognizione di senso della disposizione-oggetto potrebbe risultare variamente “impressionata” dal mutamento costituzionale, così come, naturalmente, viceversa. Insomma, lo ius superveniens può anche radicarsi ad un piano di esperienza ma poi contagiare immediatamente anche l’altro (o, a cascata, gli altri), proprio per la loro contiguità e, dunque, per il flusso di mutua alimentazione semantica che senza sosta si intrattiene tra i “materiali” che su ciascuno di essi si impiantano e rinnovano. Separare in modo netto parametro ed oggetto (con le relative vicende) o, peggio, trattarli a fini processuali in modo distinto appare, pertanto, largamente artificioso.

Così stando le cose ed in considerazione della portata potenzialmente dirompente delle innovazioni introdotte dalla legge cost. n. 3 del 2001, idonee a riflettersi su porzioni assai estese dell’ordinamento[27], va avvertito che la stessa legislazione statale, nella identica (e, forse, persino in una ancora maggiore[28]) misura di quella regionale, è toccata dalla riforma[29]: col rischio, evidente, che, seguitando nel frattempo la Corte a pronunziarsi su leggi statali non sospette di violare il titolo V, siano mantenute in vigore ed applicate[30] norme da esse prodotte che avrebbero piuttosto meritato di essere caducate, sol perché il parametro indicato nell’ordinanza di rimessione non è tra quelli espressamente toccati dalla riforma.

Questo rischio non è, tuttavia, parabile fino in fondo. Sarebbe insensato pensare che la giurisprudenza si fermi e rimandi indietro qualunque questione sollevata, in nome di uno ius superveniens potenzialmente omnipervasivo. Ma, non è ugualmente sensato che la Corte non me rimandi indietro alcuna, sol perché tra i parametri indicati nell’ordinanza di rimessione non erano espressamente richiamate disposizioni contenute nel titolo V. Non si trascuri, infatti, che la riforma si proietta ben oltre il pur ampio “campo” descritto dagli artt. 114 ss., specie laddove fa riferimento alla sussidiarietà “orizzontale”, alle azioni positive in genere a tutela delle donne (e particolarmente con riguardo alle consultazioni elettorali), ecc., sicché possibili riflessi a carico di enunciati sostantivi della Carta sono da mettere in conto[31].

Non saprei, invero, dire quante volte la Corte si è fin qui interrogata circa la possibile (ma, evidentemente esclusa) incisione di parametri evocati dalle ordinanze di rimessione e diversi da disposizioni del titolo V. Sta di fatto che solo qualora siano richiamate esplicitamente queste ultime si assiste alla restituzione degli atti alle autorità remittenti. Nel caso opposto, la Corte reputa, dunque, di poter passare al merito[32]. Sarà poi affare del giudice, specificamente in presenza di una decisione di rigetto, stabilire se la norma fatta salva può essere ugualmente applicata al caso o se non richieda piuttosto di essere portata ad oggetto di una nuova questione “conseguente” proprio allo ius superveniens.

Ma, così come i singoli casi potranno variamente indirizzare l’attività “conseguenziale” dei giudici[33], specificamente per ciò che concerne gli effetti dello ius superveniens costituzionale, ugualmente varia può essere l’incidenza da quest’ultimo esercitata già a monte, nel processo costituzionale, a seconda del modo con cui il punto relativo alla competenza si pone in rapporto ad altri punti.

Nei giudizi in via incidentale in particolare – checché mostri di pensarne la Corte, col fatto di rispedire al mittente ogni questione riguardata (ma solo in modo espresso) dallo ius superveniens costituzionale – una questione di rapporto o di ordinazione gerarchica tra norme (e vizi) di competenza e norme (e cause di vizio) diverse non si ha. Le violazioni di carattere sostanziale stanno tutte, in astratto, sullo stesso piano, mentre possono come sempre trovarsi collocate in scale di priorità variabili a seconda dei casi. Tagliando con un colpo secco ogni questione la cui soluzione avrebbe richiesto il riferimento a parametri contenuti nel titolo V, pur laddove – come si è fatto notare – avrebbe potuto essere chiusa con una pronunzia d’inammissibilità (persino manifesta…), la Corte lascia dunque intendere che lo scopo reale avuto di mira sia stato quello non già di verificare quale vizio possa assorbire l’altro o gli altri, ma – all’inverso – quale non possa (o, meglio, possa non) farlo, sì da tenere comunque aperta la partita.

Fin qui si è sempre pensato che l’obiettivo istituzionalmente proprio della Corte fosse prioritariamente quello di verificare se la questione può essere chiusa in partenza o, comunque, nel modo più sbrigativo e sicuro possibile, in quanto inammissibile o per altre ragioni anche attinenti al merito, non già quello di ricercare il modo per tenerla (alle volte, artificialmente) in vita malgrado con le sue sole forze non ne sia capace: fosse, insomma, quello di dipanare (o concorrere a dipanare) matasse aggrovigliate, nel modo più lineare possibile e, dunque, prendendo la via più corta per operare lo scrutinio di costituzionalità, facendo opera di chiarificazione ed offrendo prestazioni stabili ed univoche al servizio della certezza del diritto costituzionale. La Corte, invece, oggi ci dice di preferire che le questioni sollevate rimangano per partito preso “aperte”, pur laddove avrebbero potuto essere altrimenti chiuse[34], restando in gioco con tutta la loro intrinseca complessità, ulteriormente aggravata dallo ius superveniens costituzionale; in seguito, si vedrà come risolverle, sulla base delle iniziative che gli altri operatori istituzionali riterranno di assumere[35]. Le ragioni di opportunità che stanno a base di siffatta scelta si comprendono agevolmente e non occorre qui esplicitarle[36]; ho, tuttavia, non pochi dubbi che esse si concilino fino in fondo con l’esigenza, diffusamente avvertita e insistentemente dichiarata, di lineari ed uniformi applicazioni delle regole e delle tecniche decisorie in tema di processo costituzionale.



[1] Non tutti, per la verità: prescindendo, infatti, dai casi, di cui alle ordd. nn. 141, 142, 189 e 192, in cui s’è dato rilievo alla volontà delle parti di chiudere la partita rinunziando alla causa, così non s’è fatto in occasione della vicenda cui si riferisce la sent. n. 106 del 2002 (relativa alla singolare pretesa del Consiglio ligure di fregiarsi altresì del titolo di “Parlamento della Liguria”, da aggiungere al suo nome di battesimo costituzionale), dove, pur denunziandosi la mancata osservanza (tra gli altri) degli artt. 115 e 121 cost., la Corte ha ritenuto ugualmente di potersi pronunziare sul merito della lite. Quanto a quest’ultimo, nulla dirò in questa sede; quanto, poi, ai profili di stretto diritto processuale, non ho dubbi a riguardo del fatto che la decisione di passare al merito non è qui dipesa dalla circostanza che la Corte era stata adita in sede di conflitto di attribuzioni, a differenza degli altri casi trattati, tutti aventi ad oggetto giudizi su leggi. La verità è che la Corte ha qui voluto far sentire, alto e forte, il timbro della sua voce a difesa della unicità o esclusività del Parlamento quale sede della rappresentanza politica nazionale. Peccato che non si sia avveduta del fatto che la pronunzia, con la sua stessa esistenza, introduce un elemento di disarmonia nel quadro delle decisioni di seguito annotate, in cui – come si vedrà – l’affermazione della necessità di tornare a verificare, alla luce dello ius superveniens, la perdurante attualità della questione o del ricorso presentati è categorica e parrebbe non ammettere (perlomeno, fino al momento in cui si scrive) eccezione alcuna. Si potrebbe, invero, addurre, a giustificazione della scelta fatta dalla Corte nella sent. n. 106 di trattare comunque la “questione”, la circostanza che quest’ultima è stata, in realtà, ambientata e risolta avuto riguardo a parametri (e valori) inscritti in “luoghi” dell’articolato costituzionale diversi dal titolo V (a partire dagli artt. 55 e seguenti, nei loro collegamenti con l’intero sistema dei princìpi fondamentali); e, tuttavia, rimane ugualmente il fatto che nell’atto di ricorso erano stati richiamati disposti innovati dalla riforma. Sicché rimane comunque la deviazione dalla “regola” che la stessa Corte si è ora data di non passare al merito tutte le volte che tra le norme-parametro presuntivamente violate ve ne fosse anche una sola appartenente al titolo V.

Solo in parte analoghi i casi risolti con sentt. nn. 304 e 306, dove ugualmente la Corte si è addentrata nel merito dei ricorsi malgrado lo ius superveniens costituzionale. Vi sono, tuttavia, alcuni elementi di differenziazione rispetto ai casi restanti, qui specificamente presi in considerazione, il maggiore dei quali è costituito dall’essere oggetto dei ricorsi, per la prima volta, delle leggi approvate ai sensi dell’art. 123 cost. Per ciò che ora specificamente importa osservare, assai singolare (e francamente stupefacente) è la circostanza per cui, nel secondo dei casi ora menzionati, la Corte abbia ritenuto di non dover dichiarare inammissibile, così come a mia opinione giustamente richiesto dalla Regione resistente, il ricorso governativo presentato contro la delibera legislativa statutaria in sede di conflitto di attribuzione, anziché in sede di procedimento in via d’azione, adducendo la giustificazione secondo cui ciò che solo conta è non già la forma degli atti introduttivi dei giudizi ma unicamente la loro sostanza e mostrando, in tal modo, di non distinguere tra atti (o, meglio, i loro contenuti) ed i procedimenti al cui interno gli atti stessi prendono forma e si dispongono. Inconferente, poi, di tutta evidenza, è l’ulteriore circostanza, alla quale la Corte parrebbe stranamente assegnare rilievo, secondo cui il ricorso stesso è stato proposto non già entro il termine più ampio previsto dagli artt. 39 e 41, l. n. 87, bensì entro quello fissato nell’art. 123, laddove – com’è chiaro – non si può certo censurare il comportamento di quel soggetto che si determini a presentare il proprio ricorso… troppo presto.

[2] … quindi puntualmente richiamata dalle ordd. nn. 65, 182, 228, 246, 247, 248 del 2002. È da notare che la prima delle decisioni ora menzionate riguardava l’impugnazione di una delibera legislativa di Regione a statuto speciale; il che – come ha opportunamente rilevato G. Silvestri, intervenendo su Le Regioni speciali nel nuovo assetto costituzionale, Palermo 21-22 giugno 2002 – può far pensare che la Corte, per il solo fatto di sviluppare per intero il suo ragionamento facendo esclusivo riferimento all’art. 127, abbia considerato come maggiormente favorevole per l’autonomia il sistema di ricorso stabilito in tale art., così come “novellato” dalla legge cost. n. 3 dello scorso anno, rispetto a quelli previsti negli statuti speciali (quanto meno, rispetto a quello della Regione la cui legge era sub iudice), tanto da far immediata applicazione del nuovo ingranaggio di ricorso in forza della clausola al riguardo fissata nell’art. 10 della legge di riforma: maggior favore dell’uno sistema al confronto degli altri che, in generale, può esser invero riconosciuto, con la sola eccezione tuttavia del regime previsto per la Sicilia, con ogni probabilità da ritenere, nel suo insieme, ancora più “benevolo” per la Regione, sempre che applicato coi suoi caratteri originari, ma esso pure dimostratosi – come si sa – meno conveniente, per il modo con cui si è complessivamente inverato.

È, poi, ancora da notare che nell’ord. n. 228, sopra cit., si dà atto della rinunzia al ricorso da parte del Governo; non risultando, tuttavia, pervenuta l’accettazione della controparte, la Corte si è trovata costretta a ricorrere ad una pronunzia d’“improcedibilità”, nel senso subito si seguito chiarito. Ciò che fa prevedere che il Governo non impugnerà nuovamente la delibera regionale ormai divenuta, con la sua promulgazione, legge in senso proprio. E, però, nulla vieta che il Governo possa avere un ripensamento al riguardo, tornando a rivolgersi alla Corte.

[3] Si rammentino i casi di spostamento dell’oggetto da una disposizione all’altra o, per dir meglio, di riconoscimento della sostanziale identità della norma-oggetto malgrado la diversità della disposizione che la esprime (da ultimo, v. sent. n. 25 del 2002). Sulle non poche questioni che si pongono in relazione ai mutamenti di situazioni normative ed al modo con cui essi sono complessivamente trattati in giurisprudenza, v., assai di recente, A. Morelli, Lo ius superveniens come tecnica di selezione delle questioni di legittimità costituzionale, in AA.VV., Il giudizio sulle leggi e la sua “diffusione”. Verso un controllo di costituzionalità di tipo diffuso?, a cura di E. Malfatti-R. Romboli-E. Rossi, Torino 2002, 583 ss.

[4] Questo esito era stato prefigurato da A. Concaro, Corte costituzionale e riforma del Titolo V della Costituzione: spunti di riflessione su alcuni problemi di diritto intertemporale, in questa Rivista, 6/2001, 1334 s.

[5] Ad esser pignoli, si potrebbe opporre che non di vera “ripetizione” si tratta, dal momento che il primo ricorso aveva ad oggetto una “delibera legislativa” ed il secondo una “legge”; ma che esse possano, per la loro sostanza normativa, coincidere del tutto non è dubbio.

[6] … e, di riflesso, secondo una ipotesi che si passa subito a ragionare nel testo, per lo stesso Consiglio regionale, che potrebbe essere chiamato a pronunziarsi nuovamente sul testo della legge.

[7] V., in tal senso, part. R. Bin, Le potestà legislative regionali, dalla Bassanini ad oggi, e A. Spadaro, I “contenuti” degli statuti regionali (con particolare riguardo alle forme di governo), entrambi in AA.VV., Le fonti di diritto regionale alla ricerca di una nuova identità, a cura di A. Ruggeri e G. Silvestri, Milano 2001, rispettivamente, 150 e 91. Secondo una diversa proposta, patrocinata da T. Groppi, Quale garante per lo Statuto regionale?, in AA.VV., La potestà statutaria regionale nella riforma della Costituzione. Temi rilevanti e profili comparati, Milano 2001, 293 ss., e che vedo ora ripresa da alcune bozze di statuto in circolazione, il modo più adeguato per preservare la rigidità statutaria in ambito regionale sarebbe quello di far luogo alla istituzione di un organo di garanzia, sulla cui complessiva connotazione peraltro il dibattito è ancora aperto, facendosi notare come si corra il rischio di valicare la soglia della “giurisdizionalità” davanti alla quale, come si sa, la Regione è costretta ad arrestarsi [un appunto critico in tal senso, con ulteriori ragguagli, può ora vedersi nel mio I nuovi statuti al bivio tra continuità ed innovazione (ragionando sui possibili “modelli” e sulle loro complessive carenze, alla luce delle indicazioni date da una bozza di statuto della Regione Calabria), in www.federalismi.it, par. 4].

[8] Si faccia, ad ogni modo, caso al fatto che altro è il rinvio quale forma di garanzia ad opera di un organo super partes (ciò che si spiega in ambito statale ma non a livello regionale) ed altro ancora il rinvio per ius superveniens, di cui ora si discorre, che potrebbe addurre a proprio sostegno una motivazione anche squisitamente politica, nel senso subito di seguito indicato nel testo.

[9] L’ipotesi di un’eventuale riapprovazione della legge conseguente alla remissione di quest’ultima da parte della Corte è ora ragionata da P. Nicosia, Primi passi della Corte costituzionale nell’applicazione del nuovo art. 127 della Costituzione, in forum di Quad. cost., in rete.

[10] Argomento, questo che si richiama al principio di attribuzione, indubbiamente assai forte ma che la dottrina corrente in via generale tende a considerare non insuperabile (si pensi, ad es., al potere comunemente riconosciuto al Capo di Stato di “rinvio” degli atti del Governo portatigli per la firma, malgrado non se ne abbia – come si sa – traccia in Costituzione).

[11] Ancora P. Nicosia, nello scritto sopra richiamato.

[12] … nel mio La riforma costituzionale del Titolo V e i problemi della sua attuazione, con specifico riguardo alle dinamiche della normazione ed al piano dei controlli, intervento all’incontro di studio di Bologna del 14 gennaio scorso, a cura dell’A.I.C., su Il nuovo Titolo V della Parte II della Costituzione. Primi problemi della sua attuazione, in Quad. reg., 2/2001, 627 ss., e già in www.associazionedeicostituzionalisti.it.

[13] Il presupposto dell’ipotesi ragionata nel mio scritto sopra cit. è proprio quello ora rigettato dalla Corte, vale a dire la intangibilità del principio tempus regit actum, in nome del quale il contenzioso pendente avrebbe dovuto restare incardinato in base alla vecchia disciplina costituzionale per l’aspetto procedimentale e deciso alla luce della nuova, quanto al profilo sostanziale. Il timore – paventato da A. Concaro, Corte costituzionale e riforma del Titolo V della Costituzione, cit., 1335 s. – di una possibile incisione del principio della corrispondenza tra il chiesto ed il pronunciato, conseguente alla sostituzione “d’ufficio” del parametro, avrebbe potuto (o un domani potrebbe…) esser fugato nella considerazione secondo cui – anche a prescindere dal modo comunque peculiare e non rigido con cui il principio stesso trova applicazione nelle esperienze della giustizia costituzionale – la Corte avrebbe pur sempre fatto capo alla stessa disposizione-parametro originariamente indicata dal ricorrente (in specie, l’art. 117), nondimeno rivista alla luce delle innovazioni ad essa recate dalla legge di riforma. Ed è bensì vero che la disposizione stessa è stata profondamente innovata; ma, questo, ai fini del processo costituzionale e delle sue esigenze, non può mai dirsi a priori o in astratto (e, perciò, ripetuto a mo’ di slogan) ma va, appunto, valutato in concreto. E, così come l’innovatività sostanziale dello ius superveniens legislativo è, alle volte (e sia pure di rado), riconosciuta o negata “d’ufficio” dalla Corte, allo stesso modo avrebbe potuto (o potrebbe) essere anche nel caso nostro, giustificandosi pertanto, quanto meno con riguardo a talune questioni o ricorsi di costituzionalità, la trattazione della causa (ma v., sul punto, amplius, infra).

[14] Un quadro di sintesi delle ricostruzioni proposte può ora vedersi in F. Dal Canto, Giudicato costituzionale, in Enc. dir., Agg., V (2001), 437 ss.

[15] R. Tosi, La legge costituzionale n. 3 del 2001: note sparse in tema di potestà legislativa ed amministrativa, G. Falcon, Modello e transizione nel nuovo titolo V della Parte seconda della Costituzione, e A. Concaro, Corte costituzionale e riforma del Titolo V della Costituzione, cit., tutti in questa Rivista, 6/2001, rispettivamente, 1242 ss., 1266 ss. e 1329 ss.

[16] Ancora T. Groppi, La legge costituzionale n. 3/2001 tra attuazione e autoapplicazione, in AA.VV., La Repubblica delle autonomie. Regioni ed enti locali nel nuovo titolo V, a cura di T. Groppi e M. Olivetti, Torino 2001, 220.

[17] La promulgazione parziale, infatti, si spiega proprio in quella logica del controllo preventivo che è stata ora spazzata via dalla riforma dell’anno scorso, così come, dal suo canto, la dichiarazione di cessazione della materia del contendere da parte della Corte consegue alla promulgazione parziale della legge, della quale presuppone dunque, a differenza del caso nostro, l’entrata in vigore.

[18] Incisive notazioni critiche al riguardo sono in C. Salazar, Riunione delle cause nel giudizio sulle leggi e teorie del “caos”, ovvero: della “leggerezza” (insostenibile?) del processo costituzionale, in AA.VV., L’organizzazione e il funzionamento della Corte costituzionale, a cura di P. Costanzo, Torino 1996, 358 ss.

[19] Ma v. lo studio di L. D’Andrea, Prime note in tema di assorbimento nei giudizi di costituzionalità, in AA.VV., Corte costituzionale e Parlamento. Profili problematici e ricostruttivi, a cura di A. Ruggeri e G. Silvestri, Milano 2000, 79 ss., il quale, dopo aver fatto notare come la Corte debba pronunziarsi non soltanto “nei limiti dell’impugnazione”, secondo quanto prescritto dall’art. 27, l. n. 87 del ’53, ma anche su “tutta l’impugnazione” (96), distingue, in particolare, tra un assorbimento “influente” ed uno “innocuo” (104 ss.), traendone rilevanti conseguenze di ordine teorico-ricostruttivo (lo stesso D’A., nondimeno, tiene a precisare – 96 ss. – che l’assorbimento oggetto del suo studio attiene unicamente al merito ed ai casi di leggi la cui invalidità sia dichiarata dalla Corte, non già a quelli chiusi con pronunzia di natura processuale o anche con pronunzia di merito non caducatoria).

[20] Ciò che, invero, la Corte ha fatto (ord. n. 212 del 2002), ma in un caso in cui non era fatto richiamo a norme-parametro contenute nel titolo V, mentre laddove anche queste ultime erano evocate in campo la Corte s’è trattenuta dal decidere pure su profili di stretto diritto processuale, la cui considerazione avrebbe potuto far chiudere subito la partita. Così, nel caso deciso con ord. n. 9 di quest’anno, l’Avvocatura dello Stato aveva sostenuto l’inammissibilità della questione sotto diversi aspetti, tra cui la carenza della rilevanza e il carattere indeterminato e perplesso della questione (similmente, nel caso di cui all’ord. n. n. 235 del 2002); il carattere ipotetico ed astratto della questione, così come la sua carenza di rilevanza, sono poi state eccepite dalla Regione Veneto, in occasione del caso trattato dall’ord. n. 157 del 2002. Ma, la Corte, come si vede, non se n’è fatta cura. Ancora più macroscopica, poi, la carenza esibita dall’ordinanza di rimessione che sta a base del caso deciso con ord. n. 76 del 2002, laddove la “motivazione” in punto di rilevanza è stata posta in essere solo dopo che il giudice a quo aveva sospeso l’ordinanza-ingiunzione avverso la quale era stato avanzato il giudizio di opposizione nel corso del quale era stata sollevata la questione. Ma, per la Corte, ancora una volta la sola cosa che conta è l’innovazione apportata all’art. 117 della Costituzione.

[21] Proprio la legge toscana che, unitamente ad una ligure, ha dato origine al caso risolto con la sent. n. 17, sopra richiamata, era stata censurata dal Governo anche in relazione all’art. 3 cost., ma – per la verità – non solo rispetto ad esso.

[22] V., ora, T. Martines-A. Ruggeri-C. Salazar, Lineamenti di diritto regionale, Milano 2002, 298 ss. e A. Concaro, Corte costituzionale e riforma del Titolo V della Costituzione, cit., 1339 ss. Diversamente, P. Caretti, L’assetto dei rapporti tra competenza legislativa statale e regionale, alla luce del nuovo Titolo V della Costituzione: aspetti problematici, in questa Rivista, 6/2001, 1230 ss.

[23] La gran parte delle questioni rimesse ai giudici che le avevano sollevate coinvolgeva anche parametri esterni al titolo V, quali quelli enunciati negli artt. 3 e 24 (ord. n. 416 del 2001), 2, 18, 42 e 43 (ord. n. 13 del 2002), 18 (ord. n. 14 del 2002), 3 (ord. n. 26 del 2002), 2, 3, 41 e 77 (ord. n. 60 del 2002), 3 e 24 (ord. n.72 del 2002), 3, 4 e 35 (ord. n. 80 del 2002), 3, 5 e 25 (ord. n. 96 del 2002), 3 (ordd. nn. 117 e 162 del 2002), 41 (ord. n. 190 del 2002), 3 e 70 (ord. n. 230 del 2002), 3, 5 e 11 (ord. n. 235 del 2002), 3 e 97 (ord. n. 245 del 2002). Quale, poi, fosse il legame “sistematico” riscontrabile tra i parametri stessi, sia tra di loro che in rapporto a disposti del titolo V, richiederebbe, come sempre, un accertamento caso per caso.

[24] È interessante notare come in uno dei casi ora trattati, di cui all’ord. n. 26 del 2002 sopra cit., l’Avvocatura dello Stato avesse eccepito altresì lo ius superveniens legislativo, senza nondimeno ricevere sul punto alcuna risposta dalla Corte; in un altro caso ancora (ord. n. 96 del 2002, cit.), lo ius superveniens legislativo è prospettato dalla stessa Corte, che tuttavia significativamente aggiunge come “indipendentemente dall’intervenuto mutamento della legislazione statale concernente la materia in oggetto, successivamente alla pronuncia di tutte le ordinanze di rimessione, è entrata in vigore la legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3…”: evidentemente, lo ius superveniens costituzionale, nell’ordine gerarchico fatto proprio dalla Consulta, precede lo stesso ius superveniens legislativo (ma, non si vede proprio quale ne possa essere il fondamento teorico). Nel caso, poi, risolto con ord. n. 60 del 2002, la Regione umbra, intervenuta in giudizio, aveva fatto notare che la norma di legge della cui legittimità il Consiglio di Stato aveva dubitato era stata erroneamente individuata e, comunque, che successivamente alla remissione degli atti alla Corte era entrata in vigore una nuova legge della stessa Regione in materia. Tuttavia, anche questi dati non sono stati tenuti in alcun conto. Invece, l’ord. n. 190 del 2002 rovescia – a quanto pare – l’ordine gerarchico suddetto, dal momento che la restituzione degli atti è motivata proprio con specifico (ed esclusivo) riguardo allo ius superveniens legislativo, non già pure ovvero prioritariamente a quello costituzionale.

[25] Riassuntivamente sul punto, di cruciale rilievo per la teoria non solo della giustizia costituzionale ma della stessa Costituzione, può ora, volendo, vedersi A. Ruggeri-A. Spadaro, Lineamenti di giustizia costituzionale, Torino 2001, 99 ss., spec. 129 ss.

[26] La questione è tornata di particolare attualità proprio dopo la riforma del titolo V, interrogandosi la dottrina circa la sorte di interi settori della legislazione previgente (ad es., in materia di controlli) la cui compatibilità col nuovo quadro costituzionale appaia assai dubbia o – diciamo pure – impossibile (sul punto, v., nuovamente, T. Groppi, La legge costituzionale, cit., nonché il mio La riforma costituzionale, cit.).

[27] … persino su ambiti un tempo ritenuti categoricamente sottratti all’intervento regionale. Si pensi, ad es., al limite della materia processuale o a quello dei rapporti privati e, persino, degli stessi diritti fondamentali, oggi meritevoli di esser funditus riconsiderati: quanto al primo, particolarmente, alla luce della previsione contenuta nell’art. 116, III c.; al secondo, in forza delle formule di cui alle lett. l) ed m), pure di faticosa, reciproca armonizzazione, ed al terzo, ancora una volta, in base alla formula da ultimo richiamata, che parrebbe giustificare una produzione normativa regionale per tutto ciò che non attiene ai “livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali” (se n’è, da ultimo, ampiamente discusso in occasione del Convegno su La definizione del principio unitario negli ordinamenti decentrati, Certosa di Pontignano 10-11 maggio 2002, e del Convegno su Il ‘nuovo’ ordinamento regionale in Italia: confronti europei (Spagna, Germania e Regno Unito), Cosenza 3-4 giugno 2002, ed ivi, part., la relazione di G.U. Rescigno, I diritti civili e sociali fra legislazione esclusiva dello Stato e Regioni). Un primo, cauto approccio alle questioni qui accennate è, ora, in Corte cost. n. 282 del 2002, annotata da B. Caravita, Prime precisazioni della Corte costituzionale sulla potestà legislativa regionale nel nuovo art. 117, in www.federalismi.it.

[28] È chiaro che le novità apportate dalla inversione della tecnica di riparto delle materie tra Stato e Regioni sono assolutamente speculari, alla espansione della sfera di competenze di queste corrispondendo un restringimento della sfera di quello; ma, non si dimentichi che, per ciò che concerne i possibili esiti di una vicenda processuale, le probabilità che una legge regionale, già di per sé valida alla luce del vecchio quadro costituzionale, divenga invalida dopo la riforma sono praticamente assai remote, a differenza di ciò che può dirsi delle leggi statali.

[29] … così come lo è l’amministrazione; anzi, nel caso di quest’ultima, il giudizio sugli atti che ne sono espressione, in quanto assunti come idonei a determinare una lesione o menomazione della sfera di competenza regionale, a stare all’ordine di idee della Corte, dovrebbe essere comunque subordinato all’accertamento degli effetti prodotti dallo ius superveniens costituzionale. Ciò che, invece, non s’è fatto con le sentt. nn. 133, 156 e 196 del 2002. Con la prima, in particolare, è stato annullato, in sede di conflitto di attribuzioni, un decreto ministeriale (peraltro, fa notare la stessa Corte, già di per sé inapplicabile…) lesivo dell’autonomia della Regione siciliana, per violazione del principio di leale cooperazione. La circostanza per cui la lesione stessa avrebbe a maggior ragione potuto essere riscontrata alla luce del nuovo quadro costituzionale lascia assolutamente indifferente la Corte, che non se ne cura: piuttosto, la circostanza stessa ulteriormente avvalora la tesi, qui enunciata, a favore dell’immediato utilizzo (quanto meno in alcuni casi), nel processo costituzionale, del nuovo parametro costituzionale. Né varrebbe opporre che la denunzia qui riguardava non già la lesione di un disposto contenuto nel titolo V bensì di uno appartenente allo statuto, dal momento che – in base alla previsione di cui all’art. 10 della legge di riforma – la Corte non avrebbe dovuto considerarsi sgravata dell’onere di verificare la perdurante identità del parametro espressamente indicato nell’atto di ricorso ovvero della sua alterazione (ovviamente, in melius per la Regione) ad opera dello ius superveniens costituzionale. Nel merito, convengo, poi, che l’alterazione stessa, con ogni probabilità, non v’era; ma, il punto è che la Corte avrebbe quanto meno dovuto interrogarsi al riguardo. La verità è – a me pare – che la Consulta sembra essere tendenzialmente portata a considerare immutato il vecchio contesto, laddove si tratti di giudicare atti statali, sì da poter appunto passare pianamente al merito, e (presuntivamente) mutato invece con riferimento agli atti regionali. Che, però, le cose non stiano affatto così non è dubbio.

[30] Qui, la questione specificamente si intreccia con quella, accesamente discussa, riguardante la ricostruzione del “modello” di rapporti intercorrenti, dopo la riforma, tra leggi statali e leggi regionali. Se, tuttavia, si conviene con la tesi, come si sa già invalsa nell’esperienza formatasi nel vecchio contesto, secondo cui le norme statali si prestano a spiegare effetti nei territori regionali fintantoché non siano progressivamente rimpiazzate dalle norme regionali (così come queste ultime possono essere immediatamente modificate dalle regole statali adottate in svolgimento di nuovi princìpi), nessun ostacolo vi sarebbe alla perdurante applicazione delle leggi statali. Il punto, tuttavia, va oggi rivisto alla luce del modo con cui è complessivamente ricostruito l’intero “modello”. Non nascondo qui la mia preferenza, altrove manifestata, per il mantenimento della “logica” della integrazione delle competenze (e delle fonti che ne sono espressione), tuttavia – come si sa – oggi al centro di controverse valutazioni e divergenti orientamenti (e basti, al riguardo, confrontare i non coincidenti punti di vista di R. Tosi e G. Falcon, così come espressi negli scritti sopra richiamati).

[31] Certo si è, nondimeno, che, in forza della unicità-totalità sistematica del dettato costituzionale e del carattere ugualmente sistematico dell’interpretazione, v’è il rischio assai serio che, da una prospettiva sostanziale di qualificazione del parametro, molte più questioni di quanto a prima vista non sembri debbano considerarsi interessate dallo ius superveniens.

[32] V., ad es., i casi decisi con ordd. nn. 240 e 241 del 2002, pure relativi a leggi regionali.

[33] Ancora oggi una fitta coltre di nebbia avvolge il “seguito” giudiziario (per non dire di quello amministrativo…) delle decisioni di costituzionalità, sia per ciò che si pone specificamente in rapporto al verdetto della Corte (e, dunque, costituisce quello che si potrebbe chiamare il “seguito” in senso proprio) e sia pure per quanto attiene a vicende ad esso estranee, quale appunto potrebbe essere uno ius superveniens (sia anteriore che successivo alla decisione della Corte), ancorché variamente intrecciate con gli esiti del processo costituzionale. Per una prima, encomiabile opera di chiarificazione svolta sul versante giudiziario, v. gli studi di E. Lamarque, Gli effetti della pronuncia interpretativa di rigetto della Corte costituzionale nel giudizio a quo (un’indagine sul “seguito” delle pronunce costituzionali), in Giur. cost., 2000, 685 ss. e Il seguito giudiziario alle decisioni della Corte costituzionale, in AA.VV., Il giudizio sulle leggi e la sua “diffusione”, cit., 200 ss.

[34] … e, però, come si è veduto a proposito delle pronunzie su leggi statali, chiuse, pur laddove avrebbero potuto restare aperte, in conseguenza di una complessiva “riconformazione” del parametro per ius superveniens.

[35] Come si vede, la Corte non cela di nutrire l’intento di spartire le proprie responsabilità con altri o, addirittura (e fin dove possibile…) di addossarle loro per intero: con una tattica “attendista” che può, per il momento (ed in considerazione delle incertezze in generale gravanti in ordine alla transizione dal vecchio al nuovo assetto delle autonomie), dare frutti ma che alla lunga non è, tuttavia, pagante. Che, poi, anche dalla giurisprudenza qui rapidamente annotata si possano cogliere segni idonei ad ulteriormente avvalorare la tendenza alla “diffusione” della giustizia costituzionale è cosa che non può essere ora sottoposta a verifica. D’altro canto, induce a non sovraccaricare di significati un’esperienza giudiziale affatto peculiare la circostanza per cui essa è troppo legata alla transizione in corso per essere piegata a facili (ma, con ogni probabilità, forzate) generalizzazioni.

[36] Senza dubbio efficace, vincente, la “tecnica” di smaltimento dell’arretrato ora elaborata dalla Corte; come si è venuti dicendo, è, però, tutta da verificare la sua rispondenza a canoni di “sistema” previamente fissati e dalla stessa Corte in precedenti occasioni rispettati.