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Antonio Ruggeri

 

La Corte costituzionale “equilibrista”, tra continuità e innovazione, sul filo dei rapporti con la Corte EDU*

 

Sommario: 1. Le ragioni di una scelta e le basi metodico-teoriche dello studio, con specifico riguardo alla impossibilità di far luogo a sistemazioni dei rapporti interordinamentali d’ispirazione formale-astratta, le norme espressive di diritti fondamentali piuttosto richiedendo, per loro indeclinabile vocazione, di essere sottoposte a confronto (e, se del caso, “bilanciate”) in modo paritario, senza alcuna loro “graduatoria” secondo forma o in ragione della loro provenienza. – 2. L’opzione per il criterio, di natura assiologico-sostanziale, che si volge alla ricerca della norma idonea ad offrire la tutela più “intensa” ai diritti, di cui alle sentt. nn. 317 del 2009 e 113 e 245 del 2011, con l’“intermezzo” però della sent. n. 80 del 2011, nella quale il criterio stesso è stranamente lasciato in ombra. – 3. La pressione esercitata da una giurisprudenza sempre più “aggressiva” della Corte EDU e il tentativo di contenerla posto in essere da Corte cost. nn. 236 e 257 del 2011. – 4. L’eloquente silenzio della più recente giurisprudenza in merito alla soluzione delle antinomie tra CEDU e Costituzione, una sua lettura in bonam partem, i possibili riflessi di ordine processuale. – 5. L’ostinata, generalizzata preclusione fatta ai giudici comuni in ordine all’applicazione diretta della CEDU, i casi in cui essa è non solo possibile ma doverosa, i gravi inconvenienti cui può dar luogo nella pratica giudiziale l’accoglimento del punto di vista della Corte. – 6. Una succinta notazione finale, con riguardo agli equilibri di ordine istituzionale (in ispecie, tra legislatore e giudici) sottesi alla soluzione delle questioni trattate ed alle conseguenze che possono aversene al piano della teoria della Costituzione e nelle pratiche giuridiche poste in essere al servizio dei bisogni elementari dell’uomo, dei suoi diritti, della sua dignità.

 

 

1. Le ragioni di una scelta e le basi metodico-teoriche dello studio, con specifico riguardo alla impossibilità di far luogo a sistemazioni dei rapporti interordinamentali d’ispirazione formale-astratta, le norme espressive di diritti fondamentali richiedendo, per loro indeclinabile vocazione, di essere sottoposte a confronto (e, se del caso, “bilanciate”) in modo paritario, senza alcuna loro “graduatoria” secondo forma o in ragione della loro provenienza

 

Quali i tratti più salienti dei più recenti sviluppi dei rapporti tra Corte EDU e Corte costituzionale?

Questo il quesito che mi viene oggi posto, per rispondere al quale si rende necessario fissare alcune premesse utili ad un proficuo svolgimento dell’analisi.

La prima riguarda il punto di vista, vale a dire l’angolo visuale dal quale si torna a riguardare ai rapporti stessi. Quello da me prescelto è il punto di vista della Consulta; tenterò nondimeno di recuperare il punto di vista anche della Corte di Strasburgo ragionando sulle indicazioni date dalla giurisprudenza costituzionale, che a me pare si pongano comunque come “consequenziali” a precedenti orientamenti delle Corti europee (per ciò che qui specificamente importa, della Corte EDU)[1], senza peraltro trascurare l’influenza che, per la sua parte e in una certa misura, la stessa giurisprudenza nazionale è in grado di esercitare nei riguardi degli ulteriori svolgimenti degli indirizzi delle Corti europee.

Per quanto alla giurisprudenza comune (sia di merito che di legittimità) qui non possa farsi specifico richiamo, mi pare nondimeno opportuno avvertire del rilievo che essa pure, in modo significativo, acquista sotto più aspetti[2]. In disparte infatti la circostanza per cui continuano a farsi vedere taluni casi di “ribellione” alle indicazioni provenienti dalla Consulta[3], a testimoniare il peso che la giurisprudenza comune possiede è sufficiente richiamare alla mente alcuni dati di comune esperienza, a partire da quello per cui sono proprio i giudici comuni, ordinari ed amministrativi, a dar modo alla Corte di definire e senza sosta mettere a punto il proprio magistero costituzionale, delimitando dunque l’area entro cui esso può esercitarsi e ponendo le basi sulle quali esso può poggiare[4].

Un altro dato vorrei poi richiamare, sul quale si è già in altre sedi riflettuto ma in merito al quale mi parrebbe opportuno un supplemento di analisi. Le maggiori novità si sono infatti registrate sul versante dei rapporti della nostra Corte con la Corte di Strasburgo piuttosto che con la Corte di Lussemburgo; ciò che spiega la preferenza qui accordata per l’esplorazione di questo campo di esperienza piuttosto che per l’altro.

La cosa sembra avere una sua ovvia ragione nella circostanza per cui, mentre le questioni di “convenzionalità” sono dallo stesso giudice delle leggi sollecitate in modo pressante ad essergli sottoposte, una volta esperito senza successo il tentativo d’interpretazione conforme, le questioni di “comunitarietà” (se così vogliamo seguitare a chiamarle, con termine pure ormai inadeguato alla realtà istituzionale dell’Unione) sono per norma risolte direttamente dal giudice comune.

Eppure, senza nulla togliere alla bontà di questa spiegazione, essa persuade solo fino ad un certo punto.

In primo luogo, va rilevata l’esiguità dei casi in cui risulti denunziata davanti alla Consulta la violazione di norme dell’Unione non autoapplicative, a fronte dei casi in cui il giudice comune evidentemente trattenga presso di sé la questione di “comunitarietà” risolvendola nelle forme usuali della “non applicazione” della norma interna. In realtà, le norme che la stessa Unione qualifica come “direttive”, al momento della loro confezione, sembrano essere assai più numerose e, dunque, maggiormente ricorrenti dovrebbero essere le antinomie con norme interne portate alla cognizione della Corte. Come si spiega allora l’esito di queste vicende processuali? Solo col fatto che sarebbe stato siglato un tacito patto tra giudici comuni e Corte volto a non far da intralcio – fin dove possibile – all’avanzata della normativa dell’Unione nel territorio della Repubblica e, con essa, dell’integrazione europea[5]?

Possiamo poi discutere circa la interna congruità della tesi fatta propria dal nostro giudice delle leggi, col doppio regime stabilito, rispettivamente, per le norme suscettibili e per quelle insuscettibili di essere portate ad immediata applicazione.

Come si è tentato di mostrare in altri luoghi, a seguito dell’eventuale caducazione della norma legislativa contraria a diritto comunitario (o, come a me piace chiamarlo, “eurounitario”) e in attesa della sua sostituzione con altra e più acconcia norma legislativa, il giudice non potrebbe far altro che desumere (a rime più o meno “obbligate”…) dalla norma di principio di origine esterna la regola valevole per il caso. Ma allora – torno oggi a chiedermi – perché non dovrebbe essergli data ab initio questa facoltà, senza dover per ciò scomodare la Consulta?

Né varrebbe osservare essere ben diversa la tutela offerta all’Unione con la rimozione, una volta per tutte e con effetti generali, della norma che si pone in violazione degli obblighi che ci vengono dall’Unione stessa rispetto alla sua messa da canto dal singolo operatore e limitatamente al caso che gli è sottoposto. Un ragionamento, questo, tuttavia singolare e francamente eccentrico, sol che si consideri che, portato fino ai suoi ultimi, conseguenti svolgimenti, dovrebbe determinare l’abbandono generalizzato dello stesso meccanismo della immediata “non applicazione” delle norme interne incompatibili col diritto sovranazionale, pur laddove dunque quest’ultimo si dimostri idoneo a prendere il posto di quelle, per far posto sempre e comunque al meccanismo dell’annullamento[6].

In secondo luogo (e sul fronte opposto), meritano di essere considerati i casi in cui le stesse norme della CEDU (e, generalizzando, di altre Carte dei diritti[7]) richiedono di essere portate ad immediata applicazione, se non altro in quanto sostanzialmente coincidenti con norme eurounitarie self-executing (ma, su questo e su altri casi dirò meglio più avanti).

Il punto su cui maggiormente mi preme per il momento fermare l’attenzione riguarda una circostanza che seguito a giudicare misteriosa, per la quale non si sono avute questioni di costituzionalità originate dal sospetto superamento dei “controlimiti” da parte della normativa dell’Unione, una normativa dunque che appare sempre, per sistema, immacolata agli occhi dei giudici comuni[8].

La cosa può anche far piacere a chi, come me, è persuaso che l’ulteriore avanzata del processo d’integrazione europea sia un bene indisponibile, forse davvero l’unico nella presente, disgraziata congiuntura internazionale, che possa salvarci. Consiglierei a quanti temono che l’Unione possa far smarrire, se già non l’ha fatto, la nostra identità nazionale (o, meglio, costituzionale), di riflettere su questo dato di cruciale rilievo, senza preorientamento alcuno, politico-ideologico o di dottrina.

In realtà, a me sembra che prospettare – sia pure in casi eccezionali – l’eventuale superamento dei “controlimiti” possa anche tornare utile: non già però, così come stancamente dichiarano la Corte e i suoi benevoli laudatores, allo scopo di sbarrare le porte all’ingresso di norme eurounitarie ritenute incompatibili coi principi fondamentali dell’ordinamento costituzionale[9], bensì allo scopo di estendere anche a tali norme quella “logica” del confronto paritario (e, perciò, del paritario bilanciamento) con gli stessi principi caratterizzanti l’identità costituzionale che a mia opinione in via generale informa le relazioni interordinamentali (anche sul versante dei rapporti con la CEDU), avuto specifico riguardo alle norme che, per il fatto di dare riconoscimento a diritti fondamentali e, in genere, a beni della vita costituzionalmente meritevoli di tutela, sono riportabili sotto la “copertura” accogliente degli artt. 2 e 3 della Carta, nel loro fare “sistema” con gli artt. 10 e 11 e coi principi restanti.

Non posso ora tornare a dire le ragioni in nome delle quali le antinomie tra norme, interne e/o esterne che siano, delle quali sia dimostrata la “copertura” da parte dei principi suddetti non possono essere risolte, per sistema, né in un senso né nell’altro, e cioè a beneficio di questa o quella norma[10]. Come la stessa giurisprudenza costituzionale ha efficacemente rilevato in una sua nota pronunzia, la n. 317 del 2009[11], si tratta sempre e soltanto di stabilire – ed è un riscontro, invero, sommamente spinoso ed incerto – dove si appunta la più “intensa” tutela dei diritti: non – si badi – del singolo diritto evocato in campo ma del “sistema” dei diritti (e, più largamente, degli interessi o beni costituzionalmente protetti)[12]. Come poi far luogo al riconoscimento della fonte (rectius, della norma) che dia la tutela in parola è una questione ad oggi non convenientemente dipanata (ma, su ciò, tornerò anche più avanti)[13].

Il fatto poi che possano darsi circostanze in cui a dover recedere siano le norme di origine esterna, con conseguente attivazione (ma limitatamente a singoli casi) dei “controlimiti[14], non va a mio modo di vedere drammatizzato, quasi che all’esito di una vicenda siffatta l’Italia si trovi obbligata a recedere dall’Unione ovvero che si smarrisca l’identità costituzionale dell’Unione stessa. E ciò, per la medesima ragione per cui l’identità nazionale non si perde ogni qual volta si faccia luogo (ciò che, come si sa, avviene pressoché quotidianamente) ad operazioni di bilanciamento tra principi o valori fondamentali, uno di essi obbligato a recedere, del tutto o in parte, in un caso potendo invece in un altro vedersi affermato.

Tornando alla questione della possibile denunzia della violazione dei “controlimiti”, a me pare essere stata, quella dell’inerzia giudiziale, tutto sommato una culpa felix. Forse, infatti, se la questione fosse stata posta quando i tempi non erano ancora sufficientemente maturi, la Corte avrebbe potuto essere tentata di darne la soluzione in applicazione di quella “logica” di formale fattura, la cui adozione è peraltro patrocinata da molti autori, che induce a qualificare le relazioni interordinamentali ora in termini di separazione delle competenze ed ora in termini di una, sia pure estremamente circoscritta ed eccezionale, ordinazione gerarchica. E, invero, in quale altro modo potrebbero essere sistemati i rapporti medesimi, una volta che si convenga a riguardo del fatto che vi sono norme “superiori” (i principi fondamentali di diritto interno) comunque invalicabili dalle norme sovranazionali, tanto da risultare queste ultime “invalide” in caso della loro inosservanza[15]? Ebbene, proprio questa qualifica dimostra per tabulas che il punto di unificazione delle relazioni tra gli ordinamenti sta nella Costituzione, e solo nella Costituzione, che, pur se unicamente nei suoi principi di base, si pone appunto a fondamento del “sistema” cui le relazioni stesse danno vita.

Ora, così è pure a mio modo di vedere, nel senso che, fissato in ambito interno l’angolo visuale dal quale far luogo alla osservazione delle dinamiche internormative, è pur sempre nella Costituzione il fondamento da cui si tiene il nuovo sistema in progress che si viene maturando in seno alla (e per effetto della) integrazione sovranazionale in corso. Solo che, abbandonando ogni suggestione d’ispirazione formale-astratta, il punctum unionis è nelle norme di valore per antonomasia della Carta, e specificamente nei principi di libertà ed eguaglianza (dalla cui sintesi origina la giustizia), e si rende palese specificamente nei fatti d’interpretazione, in occasione dei quali si ha modo di toccare con mano fin dove si è ormai spinta l’integrazione tra gli ordinamenti. Un’integrazione che rifugge da qualsivoglia ordinazione gerarchica per sistema, in un senso o nell’altro ed a beneficio dell’uno o dell’altro ordinamento, pur non escludendo di doversi portare avanti altresì a mezzo di occasionali bilanciamenti interordinamentali, idonei a risolversi in modo imprevedibile in astratto, in vitro, il loro esito essendo piuttosto determinato in vivo, in ragione delle pretese del caso[16]. Una integrazione che, dunque, attende di essere sollecitata ad ulteriori avanzamenti, oltre che per effetto delle opportune iniziative adottate in sede politico-istituzionale, anche (e in una rilevante misura) per effetto del “dialogo” intergiurisprudenziale, come pure con una certa approssimazione è usualmente chiamato[17].

Per ciò che qui maggiormente preme rimarcare, pur non potendosi fare, in alcun caso o modo, una “graduatoria” tra principi ugualmente fondamentali, si deve tuttavia convenire a riguardo del fatto che il principio dell’apertura al diritto internazionale e sovranazionale, risultante dagli artt. 10 ed 11, è, sì, un principio-fine, gli obiettivi della pace e della giustizia tra le nazioni ponendosi quali indeclinabili e caratterizzanti in modo stabile l’azione politica dello Stato, ma è anche, strutturalmente, un principio-mezzo, siccome servente nei riguardi della coppia assiologica costituita da libertà ed eguaglianza, nella quale poi si specchia e mirabilmente esprime quello che ai miei occhi appare essere un valore autenticamente “supercostituzionale”, la dignità della persona umana[18].

Di qui, la piana conclusione per cui ogni norma, quale che ne sia l’origine, che, in relazione al caso, si dimostri essere maggiormente conducente alla realizzazione dei valori suddetti può, all’esito di un’operazione di bilanciamento che richiede di essere ogni volta rinnovata e verificata, affermarsi a discapito di altra norma meno adeguata alle esigenze del caso stesso.

Per l’aspetto ora considerato (e senza nulla togliere alla specificità degli ordinamenti e dei loro rapporti), nessuna differenza di “grado” può a mia opinione farsi quanto alla condizione in ambito interno delle norme eurounitarie e delle norme convenzionali, avuto specifico riguardo a quelle di esse che possano farsi vanto di godere della “copertura” degli artt. 2 e 3, più e prima ancora che degli artt. 10 e 11. Di contro, dottrina e giurisprudenza corrente assegnano, come si sa, alle une norme rango “paracostituzionale”, siccome ritenute soggette alla osservanza dei soli principi fondamentali (dei “controlimiti”, appunto), ed alle altre rango “subcostituzionale”, essendo obbligate a prestare ossequio a qualsivoglia norma costituzionale. Una sistemazione, questa, che, alle volte, si presta piuttosto ad essere ribaltata su se stessa, sol che si consideri che talune norme dell’Unione potrebbero non disporsi dietro lo scudo protettivo degli artt. 2 e 3 della Carta, diversamente dalle norme convenzionali che, per la materia trattata e per il modo della sua trattazione, sembrano godere di siffatta protezione (senza peraltro escludere quella che, per riconoscimento della stessa giurisprudenza, potrebbe loro venire dallo stesso I c. dell’art. 10, in caso di sostanziale “razionalizzazione”, da parte degli enunciati della Convenzione, di norme di diritto internazionale “generalmente riconosciute”).

Non insisto oltre sul punto, su cui mi è stato dato modo di intrattenermi in altri luoghi. Mi è parso tuttavia opportuno qui prospettare, con ulteriori precisazioni, il frutto di talune riflessioni di ordine metodico-teorico altrove rappresentate e riguardanti le basi sulle quali, a mia opinione, s’impiantano e svolgono le relazioni interordinamentali, dal momento che si tratta quindi di stabilire se (e fino a che punto) risultino rispetto ad esse convergenti gli indirizzi della giurisprudenza costituzionale ovvero da esse, in maggiore o minore misura e con una certa evidenza, si discostino.

Tornando, infatti, alle complessive movenze ed alle più salienti espressioni della giurisprudenza costituzionale, a me pare che il percorso da questa compiuto, nelle ultime tappe che ne hanno scandito l’avanzamento, risulti essere solo in parte e per alcuni versi lineare, mentre appaia per altri versi frammentario e discontinuo, nonché ad oggi gravato da non lievi ed irrisolte aporie di costruzione.

Passo dunque adesso a segnalare qui unicamente i tratti maggiormente espressivi in un senso o nell’altro (specie nel secondo), nello specifico intento di mettere in primo piano i profili di novità riscontrabili nell’ultima giurisprudenza, interrogandomi sulle implicazioni e gli ulteriori sviluppi che potrebbero anche a breve aversene.

 

 

2. L’opzione per il criterio, di natura assiologico-sostanziale, che si volge alla ricerca della norma idonea ad offrire la tutela più “intensa” ai diritti, di cui alle sentt. nn. 317 del 2009 e 113 e 245 del 2011, con l’“intermezzo” però della sent. n. 80 del 2011, nella quale il criterio stesso è stranamente lasciato in ombra

 

Quando sono venute alla luce le famose sentenze “gemelle” del 2007 sulla CEDU, ho ritenuto di poter rinvenire nel corpo di esse una oscillazione vistosa tra una prospettiva d’inquadramento delle relazioni interordinamentali di stampo formale-astratto ed una di stampo assiologico-sostanziale[19]. Mi pare che gli svolgimenti successivi avvalorino questa prima impressione. Persino in un arco temporale ristretto, la Corte ha infatti avuto modo di rimarcare e mettere in evidenza ora più gli uni ed ora gli altri profili riconducibili alle prospettive suddette; alle volte, anzi, le oscillazioni in parola si riscontrano persino all’interno di una stessa pronunzia.

Della sent. n. 317 ho già detto per alcuni aspetti di cruciale rilievo. Vorrei ora solo aggiungere che, per una singolare eterogenesi dei fini, l’obiettivo allora dichiaratamente perseguito di sgravare le norme interne, sia pure – volendo – in casi eccezionali, dell’obbligo di osservanza della Convenzione può rovesciarsi su se stesso e l’arma messa in pugno agli operatori (e, segnatamente, ai giudici) allo scopo di non far valere in talune congiunture il rispetto del diritto di origine esterna può rivoltarsi, a mo’ di boomerang, portando all’esito dell’affermazione della Convenzione persino a discapito della Costituzione.

La Corte a tutt’oggi questo non l’ha dichiarato mai e, con ogni verosimiglianza, non lo farà neppure in seguito, per la elementare ragione che è dalla Costituzione (e solo da essa) che ritiene – come si dirà a momenti, a torto – di trarre la propria legittimazione. Ha però già fatto qualcosa che, prima dell’inaugurazione del filone (che va sempre più ingrossandosi) delle sue pronunzie dedicate alla CEDU, non aveva mai fatto prima, apportando significative e sia pur graduali innovazioni alla sua giurisprudenza pregressa proprio per effetto dei richiami alla Convenzione[20].

Non so quanto le due cose – il riconoscimento apertis verbis del carattere meno avanzato della  Carta costituzionale rispetto alle altre Carte in fatto di salvaguardia dei diritti e la riproposizione del primato della Costituzione, col costo (o col vantaggio?) tuttavia della sua reinterpretazione orientata verso le Carte internazionali[21] – meritino di essere tenute distinte, diciamo meglio nettamente distinte, e quanto (e dove) invece finiscano col confluire l’una nell’altra, facendo in buona sostanza tutt’uno. Quando si dice che la Corte “riscrive” con le sue pronunzie il parametro costituzionale[22], alle volte si enfatizzano ed esasperano i dati della realtà; è tuttavia innegabile che in un siffatto argomentare vi sia un fondo di vero, anzi – ad esser franchi – molto di vero. E la Corte sta mano mano rivedendo, sia pure con aggiustamenti cautamente ed opportunamente fatti a piccoli passi e sempre presentati nel segno della continuità, la sua giurisprudenza sui diritti grazie ad una sensibilità e ad un’apertura verso il diritto e la giurisprudenza di matrice europea ancora fino a poco tempo indietro oggettivamente insussistente.

Ora, a me sembra chiaro come, una volta ambientate le relazioni interordinamentali su un piano sostanziale, alla ricerca della norma in grado di offrire la più “intensa” tutela ai diritti, la ricerca stessa possa risolversi a beneficio di qualsivoglia norma, indipendentemente dalla veste formale di cui è dotata o dalla sua provenienza. D’altro canto, come si sa, è la stessa Convenzione a richiedere di esser fatta valere laddove si dimostri idonea a colmare strutturali carenze dell’ordinamento interno e, perciò, ad appagare nel modo più “intenso” possibile le pretese vantate dai soggetti. Ed è di tutta evidenza – a me pare – che, in tal modo, è la stessa Costituzione, pur laddove appaia meno avanzata della Convenzione sulla via della salvaguardia dei diritti, a realizzarsi appieno, nei suoi valori fondamentali di libertà ed eguaglianza, per il modo con cui, serviti dalla Convenzione stessa, servono per la loro parte, nel singolo caso, la dignità della persona offesa.

Come ho avuto modo più volte di far notare negli ultimi tempi, riconoscendo la propria finitezza ed imperfezione, la Costituzione realizza fino in fondo se stessa, nella sintesi su basi di valore dei suoi principi di cui agli artt. 2 e 3, nel loro fare “sistema” col principio dell’apertura al diritto di origine esterna.

Ora, è singolare che del criterio della tutela più “intensa” non si faccia espressa parola nella sent. n. 80 del 2011, che pure costituisce un’autentica summa dell’indirizzo giurisprudenziale relativo ai rapporti con la CEDU, mentre esso torni prepotentemente alla ribalta nella di poco successiva sent. n. 113 dello stesso anno[23]. Una pronunzia, questa, che sta facendo molto discutere[24], sotto più aspetti, tra i quali mi preme qui di accennare di sfuggita al ruolo di prima grandezza del quale essa sollecita l’esercizio da parte sia del legislatore che dei giudici comuni, già solo per il fatto che la manipolazione del tessuto codicistico operata dalla Corte si è trovata obbligata ad arrestarsi alla mera posizione di un “principio” che, a un tempo, si consegna al legislatore per i suoi opportuni, necessari svolgimenti ed ai giudici che, in attesa della compiuta ricucitura del tessuto stesso, dovranno estrarre dal principio suddetto le regole maggiormente adeguate ai singoli casi.

Sta di fatto che l’impianto di formale fattura sotteso al giudicato è qui senza rimpianti rimosso per far posto ad un impianto di carattere assiologico-sostanziale, nell’intento di offrire la più adeguata tutela ai diritti. Alla certezza del diritto, che si assume in tesi essere servita dal giudicato e che di quest’ultimo dunque costituisce la giustificazione e il fine, sembra sostituirsi la certezza dei diritti, che poi interamente si risolve ed afferma nella loro effettività. Una contrapposizione tra “certezze” che è poi, dal mio punto di vista[25], meramente apparente, non potendosi dare, in alcun caso o modo, alcuna certezza di diritto costituzionale che non faccia tutt’uno con la certezza dei diritti costituzionali, anche di quei diritti – come si vede – che non sono dalla stessa Costituzione in modo adeguato protetti e che pertanto fanno appello ad altre Carte (qui, la CEDU) al fine della loro compiuta protezione ed implementazione nell’esperienza.

Si scopre così che il sistema costituzionale, sistema di valori fondamentali che si tengono a vicenda e che, anzi, si fanno circolarmente rimando, già per la loro compiuta ricognizione al piano dell’interpretazione quale preludio per una parimenti compiuta affermazione al piano dell’applicazione, è per sua natura un sistema plurale, vale a dire un sistema di sistemi, perché “plurale” è la struttura della legge fondamentale della Repubblica che ha – come si è veduto – uno dei suoi pilastri portanti nel principio dell’apertura al diritto di origine esterna, un’apertura che si rende manifesta e realizza alla sola condizione che il diritto stesso si dimostri effettivamente servente, nei singoli casi, i valori di libertà ed eguaglianza e, in ultima istanza, dignità.

Vedo, ancora di recente, una testimonianza di quest’indirizzo (che – com’è chiaro – è di metodo prima ancora che di teoria) a base delle relazioni interordinamentali nei loro concreti svolgimenti, nella sent. n. 245 del 2011, dove il riconoscimento fatto agli stranieri irregolari del diritto di sposarsi trae giustificazione della propria esistenza proprio dal valore “supercostituzionale” della dignità[26], alimentandosi da suggestive indicazioni offerte dalla CEDU (e, perciò, a conti fatti, dalla giurisprudenza di Strasburgo[27]).

 

 

3. La pressione esercitata da una giurisprudenza sempre più “aggressiva” della Corte EDU e il tentativo di contenerla posto in essere da Corte cost. nn. 236 e 257 del 2011

 

La pressione esercitata dalla giurisprudenza convenzionale sul caso definito con la sent. n. 113 è manifesta, riconosciuta dalla stessa pronunzia in parola, sicché non giova su di essa qui ulteriormente indugiare. La stessa giurisprudenza ha poi avuto modo di esprimersi, ancora di recente, in forme particolarmente incisive e vistose, avvalorando in tal modo il crudo giudizio di una fine dottrina che l’ha qualificata come “aggressiva”[28], forme davanti alle quali non di rado la giurisprudenza ha in ambito interno manifestato una deferenza non meramente di facciata[29].

Penso, ad es., ai casi Maggio ed Agrati[30], coi quali si sono in buona sostanza tagliate le gambe alla pratica, in alcune sue espressioni fin troppo disinvolta e spregiudicata, dell’interpretazione autentica a mezzo di leggi che in realtà molte volte dicono l’esatto contrario degli atti “interpretati”[31]. È vero che la Corte di Strasburgo ha posto alcuni “paletti” all’applicazione del punto di diritto da essa vigorosamente enunciato: non tanto – a me pare – laddove ha circoscritto l’applicazione stessa ai soli casi in cui l’interpretazione ope legis interferisca con l’esercizio della giurisdizione[32], quanto laddove ammette il possibile sacrificio dei diritti in presenza di “imperiosi motivi d’interesse pubblico”, in relazione ai quali l’“aggressione” nei confronti degli operatori nazionali si rende manifesta nel momento in cui la Corte sovranazionale parrebbe volersi riservare l’ultima parola in ordine al loro accertamento[33].

La cosa deve far seriamente riflettere, dal momento che, ove la chiave di lettura qui proposta dovesse considerarsi attendibile, si avrebbe a un tempo il rischio della invasione del campo riservato al discrezionale apprezzamento degli organi d’indirizzo politico e la certezza della invasione del campo riservato agli organi giudiziari di diritto interno.

Discorro, con riguardo alla prima evenienza, di un rischio, dal momento che il sindacato sul “fatto”, in ispecie sulla ricorrenza di una congiuntura eccezionale (diciamo pure, di vera e propria emergenza), non è sottratto ai giudici[34], per quanto entro limiti definiti in modo largamente sommario (in ultima istanza, riportabili al canone della ragionevolezza, quale congruità appunto della norma al fatto e di entrambi ai valori).

Discorro poi, quanto alla seconda evenienza, di una certezza, dal momento che – giusta la ricostruzione qui prospettata – si avrebbe una vera e propria ordinazione gerarchica (e non già la mera distinzione funzionale) tra giudici, a scapito di quelli nazionali (comuni e persino costituzionali) ed a beneficio del giudice europeo, anche per ciò che concerne la ricostruzione dei lineamenti di un contesto, quello interno, familiare agli uni più che (o anziché) all’altro. D’altro canto, neppure è consentito accedere a cuor leggero all’ordine di idee secondo cui gli apprezzamenti, in punto di fatto così come di diritto, compiuti dai giudici nazionali sarebbero in tutto sottratti all’ulteriore (e, se del caso, divergente) riscontro da parte del giudice europeo, risultando altrimenti vanificato lo scopo della sua stessa istituzione.

Non è agevole stabilire (o, con maggior cautela, tentare di stabilire) come si possa pervenire ad un equilibrio complessivamente appagante al piano delle relazioni tra le sedi in cui si somministra giustizia, sia comune che “costituzionale” (in larga accezione, siccome riferita sia ai tribunali costituzionali che alle Corti europee, esse pure sempre più marcatamente tendenti a proporsi come giudici materialmente costituzionali[35]). Di una sola cosa sono tuttavia certo; ed è che, così come non si dà alcuna ordinazione gerarchica per sistema tra… sistemi, i conflitti internormativi richiedendo – come si è veduto – di essere ripianati secondo la logica del bilanciamento paritario in ragione del caso, allo stesso modo (e di conseguenza) non può darsi alcuna ordinazione gerarchica tra le Corti, nessuna di esse potendo vantare l’insano proposito ad enunciare “verità” indiscutibili di diritto costituzionale, ad avere insomma il privilegio di poter dire l’ultima parola sulle questioni di diritto costituzionale. Se invece così fosse, per un verso (ed inevitabilmente) si perverrebbe nuovamente a quella sistemazione gerarchica tra ordinamenti che appare ripugnante alla loro natura, specie per ciò che concerne le esperienze riguardanti la salvaguardia dei diritti fondamentali, non potendosi ammettere che si diano enunciati volti a dare il riconoscimento dei diritti stessi sovraordinati ad altri enunciati parimenti espressivi di diritti fondamentali. Per un altro verso, poi, la Corte di vertice si porrebbe – come mi sono sforzato di mostrare in altri luoghi[36] – quale una sorta di potere costituente permanente, riproponendosi in termini ineludibili l’inquietante quesito di Giovenale su chi mai possa controllare i controllori. Alla morsa stringente di questo interrogativo ci si può invece sottrarre (o, quanto meno, è possibile esperire il tentativo di sottrarsi) alla sola condizione – a me pare – che la partita possa aprirsi agli esiti più varî, in ragione del caso, per il modo con cui le norme si combinano in vista del conseguimento della soluzione di volta in volta maggiormente adeguata al caso stesso, idonea a portare il sistema costituzionale – che, come si è venuti dicendo, è sistema di sistemi – alle sue massime realizzazioni, al servizio dell’uomo e dei suoi più pressanti bisogni, della sua dignità.

Ora, forse è proprio nella convinzione (sia pure inconfessata…) che la sorte potrebbe non risultarle benigna che la Consulta ha ritenuto opportuno far luogo ad alcune precisazioni, in merito agli svolgimenti dei suoi rapporti con le Corti europee (e, segnatamente, con la Corte EDU), per quanto essi risultino immersi – per dir così – in un contesto complessivo segnato da attenzione e, talora, vera e propria deferenza nei riguardi di queste ultime.

Due le decisioni recenti in cui essa si rende – a me pare – particolarmente manifesta.

Con specifico riguardo alla retroattività delle leggi, la mina vagante messa in circolo dalla ferma presa di posizione adottata a Strasburgo con la definizione del caso Agrati è ora abilmente  disinnescata da Corte cost. n. 257 del 2011, laddove viene rinvenuta la giustificazione della normativa sub iudice nel fatto che essa si è limitata a recepire un’indicazione della più recente giurisprudenza di legittimità, “nell’esercizio di un potere discrezionale in via di principio spettante al legislatore e nel quale non è dato ravvisare profili di irragionevolezza”. Una spiegazione che tuttavia, perlomeno sul punto e nei termini in cui è formulata, non persuade del tutto, altro essendo la presa di posizione a favore dell’uno o dell’altro orientamento nel tempo manifestato dalla Cassazione ed altra cosa il fatto in sé dell’interferenza nell’amministrazione della giustizia, paventata dal giudice europeo e superabile unicamente, all’esito di un’operazione di bilanciamento, in nome di quegli “imperiosi motivi d’interesse pubblico” che, soli, come si è veduto, possono ad avviso del giudice europeo portare ad una diversa definizione del caso. Dichiarando che “la finalità di superare un conclamato contrasto di giurisprudenza, essendo diretta a perseguire un obiettivo d’indubbio interesse generale qual è la certezza del diritto, è configurabile come ragione idonea a giustificare l’intervento interpretativo del legislatore”[37], la Corte dà, in buona sostanza, ad intendere che leggi d’interpretazione autentica possono pur aversi senza altro limite che non sia quello, usuale, della conformità alla loro natura e della idoneità al raggiungimento dello scopo, che è appunto quello di dare certezze agli operatori[38]. L’unico vero, “imperioso” motivo d’interesse generale è la certezza, dunque.

Nella seconda decisione (di poco anteriore rispetto alla prima), la Corte fa poi luogo ad una raffinata (e, come si vedrà, mascherata) operazione di distinguishing[39], presentando quelle che, in realtà, sono delle vere e proprie novità (e divergenze rispetto all’indirizzo adottato dalla Corte EDU) nel segno della continuità rispetto alla pregressa giurisprudenza: un compito invero non agevole e, alle volte, improbo; ma la consumata abilità nell’uso delle tecniche decisorie e nella spendita delle risorse retorico-argomentative di cui l’organo dispone e di cui ha dato ripetute prove[40] consente all’organo stesso di superare l’ostacolo, pur se talora con un certo affanno. E così, venendo incontro ad una pressante richiesta avanzata dalla più sensibile dottrina[41], della opportunità del cui accoglimento io stesso mi sono più volte dichiarato[42], la Corte ha finalmente (con sent. n. 236 del 2011[43]) dato ad intendere che le indicazioni della giurisprudenza di Strasburgo non sono da prendere per oro colato ma che valgono unicamente per la loro “sostanza”: espressione ambigua, già presente in anteriori pronunzie e però in queste ultime non portata alle sue conseguenti, pratiche applicazioni. Nella decisione ora richiamata, per vero, la Corte non ci dice fino a che punto sia dato all’operatore di diritto interno di discostarsi dagli orientamenti del giudice europeo né a quali condizioni ciò trovi giustificazione: ad es., a mia opinione, quanto meno nel caso in cui non si dia ancora un “diritto vivente” (in ristretta e propria accezione, siccome riferito alla esistenza di un consolidato indirizzo interpretativo in relazione al caso stesso). Anzi, a rigore, la Corte neppure dichiara di allontanarsi dall’orientamento della Corte europea; piuttosto, ne dà una ricostruzione tale da dimostrare (a suo dire…) che la decisione oggi adottata non urta con l’orientamento stesso[44]. Non è tuttavia chi non veda come nella circostanza si dia una ricostruzione dell’indirizzo interpretativo fatto proprio dal giudice europeo risultante da una occulta, abilmente mascherata (e però… scoperta) manipolazione dei dati di cui l’indirizzo stesso si compone[45]. E, invero, il carattere perentorio dell’affermazione di principio, contenuta nella decisione della Corte europea sul caso Scoppola, in favore della retroattività della legge penale maggiormente favorevole è qui temperato e relativizzato nella sua portata a mezzo di una significativa aggiunta rimasta tuttavia estranea all’orizzonte ricostruttivo avuto presente dal giudice di Strasburgo, stabilendosi che in congiunture peculiari la retroattività in mitius possa andare incontro a deroghe o limitazioni[46]. La Consulta, insomma, conferma, sì, il principio ma ne ammette le possibili eccezioni: né più né meno – per fare ora un raffronto con altre esperienze – di ciò che si ha quando la Costituzione, dopo aver enunciato un principio, ne prevede le deroghe, le “rotture”, come sono usualmente chiamate. E qui, a dirla tutta, la Convenzione (rectius, il diritto convenzionale “vivente”) si “rompe”. Né giova a far ritenere diversamente la circostanza per cui, a giudizio della stessa Corte costituzionale, “la deroga all’applicazione della legge sopravvenuta più favorevole al reo dovrebbe ritenersi possibile anche per la giurisprudenza di Strasburgo”[47]: dove l’utilizzo della forma verbale condizionale (non si sa, per vero, se sfuggita alla penna dell’estensore o, di contro, se studiata ed accortamente adoperata) la dice lunga, per un verso, sulla comprensibile cautela manifestata dal giudice delle leggi ma anche, per un altro verso, sulla incertezza ed instabilità della soluzione ricostruttiva proposta, della quale è perciò da mettere in conto l’eventualità che possa (e, anzi, debba) essere rivista per effetto di un divergente orientamento del giudice europeo[48].

La manipolazione dell’orientamento giurisprudenziale (e, di riflesso, del dato convenzionale) non sorprende, ad ogni buon conto, chi ha familiarità con le esperienze della giustizia costituzionale. Quante volte, d’altronde, a base di pronunzie manipolative dell’oggetto del giudizio, nondimeno presentate come lecite (e, anzi, doverose) siccome non lesive della discrezionalità del legislatore, non sta una previa, finemente argomentata, manipolazione del parametro? Ciò che la Corte fa non di rado manipolando… se stessa, ora offrendo l’interpretazione “autentica” (ma, in realtà, correttiva) del proprio pensiero, così come in precedenza rappresentato, ora ancora facendo luogo ad una incisiva selezione dei precedenti, ed ora in altri modi ancora[49].

Insomma, nihil novi sub soli. La novità, nondimeno, sta qui nella coraggiosa (o temeraria?) presa di distanza dalla Corte europea, nei riguardi della quale, sia in precedenza e sia pure in seguito (nella già ricordata sent. n. 245 del 2011, adottata a ridosso della pronunzia, di cui si viene ora dicendo), la Consulta ha mostrato, come si diceva, attenzione e non formale ossequio.

Non è poi inopportuno rilevare che la “tecnica” messa ora in atto dal giudice costituzionale non può che valere, allo stesso modo e nella identica misura, anche per i giudici comuni, al di là ovviamente della circostanza per cui diversa è la portata degli effetti dell’attività posta in essere dall’uno e dagli altri giudici[50]. Per l’aspetto adesso considerato, infatti, non si vede perché mai ciò che è consentito alla Corte non dovrebbe esser consentito ad altri giudici, tanto più che – non si dimentichi – sono proprio questi ultimi ad avere le chiavi, secondo la felice immagine di un’autorevole, non dimenticata dottrina[51], che aprono le porte della Consulta.

Il punto è di cruciale rilievo; e mostra che dall’ultima giurisprudenza costituzionale viene un’ulteriore, significativa sottolineatura del ruolo che i giudici comuni sono chiamati ad esercitare al fine di una equilibrata definizione e ridefinizione, in ragione dei casi, delle relazioni interordinamentali.

Per l’aspetto cui ora specificamente si guarda (e qualora i giudici comuni dovessero raccogliere il messaggio loro inviato dal giudice costituzionale), sarebbero dunque destinati a ridursi i casi di rimessione alla Corte delle questioni di “convenzionalità”, per effetto di un uso vieppiù raffinato delle tecniche interpretative.

L’interpretazione conforme a CEDU da parte dei giudici è – come si sa – dalla Corte sollecitata a diffuso, pressoché generalizzato utilizzo; e, naturalmente, ancora una volta, questo vale per… la Corte stessa; solo che lo strumento viene ad assumere nelle mani di quest’ultima una inusuale, particolarmente densa, coloritura. Il giudizio di “conformità”, per un verso, implica il riconoscimento della stabilità e chiarezza dell’indirizzo interpretativo invalso a Strasburgo; per un altro verso, proprio in presenza di indirizzi che constano di ripetute prese di posizione del giudice europeo, si rende possibile (e, alle volte, pure necessario) attingere alle indicazioni maggiormente rispondenti alle esigenze del caso e, dunque, come si faceva sopra notare, si spiana la via alla selezione dei materiali giurisprudenziali utili ad una soluzione del caso stesso che sia, a un tempo, appagante per i diritti e conciliante tra Carte (e Corti), vale a dire incoraggiante l’ulteriore, proficuo svolgimento del “dialogo” intergiurisprudenziale; infine, per un altro verso ancora, dietro il paravento della “conformità” si consumano i pur parziali scostamenti dalla giurisprudenza europea, che ne facciano nondimeno salva la “sostanza” degli indirizzi.

Si fermi, solo per un momento, l’attenzione sul punto.

L’affermazione da ultimo fatta parrebbe risolversi in un ossimoro; così però, a ben vedere, non è. La Corte infatti rende oggi, opportunamente, più flessibile l’approccio con la giurisprudenza europea e parimenti duttili pertanto gli svolgimenti dei suoi rapporti con la Corte di Strasburgo. L’interpretazione è sempre “conforme”, non però all’intera giurisprudenza europea bensì unicamente alla sua “sostanza”.

Non è facile trasporre questa indicazione di metodo dal diritto vivente al diritto vigente, dal piano dei rapporti tra le Corti a quello dei rapporti tra le Carte. Si ha qui nuovamente conferma del fatto che ragionare delle fonti e dei loro rapporti giova poco alla pratica giuridica ed appare – se posso esprimermi con franchezza – rozzo per l’aspetto teorico-ricostruttivo. Ciò che infatti conta sono le norme, non le fonti; e le norme si colgono ed apprezzano – come si sa – al piano della teoria dell’interpretazione, piuttosto che a quello della teoria delle fonti.

La conclusione è che la ricognizione semantica degli enunciati della CEDU ammette margini di un certo rilievo a beneficio degli operatori di diritto interno, per quanto – si direbbe alla Consulta – non “sostanziali”; come si è tentato di mostrare proprio col riferimento al caso definito dalla sent. n. 236, così in realtà non è.

 

 

4. L’eloquente silenzio della più recente giurisprudenza in merito alla soluzione delle antinomie tra CEDU e Costituzione, una sua lettura in bonam partem, i possibili riflessi di ordine processuale

 

Allo stesso tempo in cui comincia, sia pur cautamente, a distinguersi dalle indicazioni della giurisprudenza europea, la Corte costituzionale, per un verso, tiene ferma – come si diceva – la linea di continuità in ordine al modo con cui si compongono le antinomie tra norme convenzionali e norme interne[52], mentre per un altro verso (e quasi per compenso) evita accuratamente di riproporre talune affermazioni che, portate ai loro ultimi e conseguenti svolgimenti, potrebbero dar luogo a gravi (forse, invero, irrisolvibili) problemi ed a parimenti gravi tensioni di ordine istituzionale.

Mi riferisco ora specificamente al fatto che, dopo le sentenze “gemelle”-bis del 2009 (e, segnatamente, la n. 311), non è più ripetuta neppure per una volta l’affermazione per cui, nella pur remota ipotesi[53] che dovesse essere rilevato l’insanabile contrasto tra CEDU e Costituzione, la Corte si troverebbe obbligata a sanzionare la prima nelle forme usuali, vale a dire con la caducazione della legge di esecuzione “nella parte in cui…”.

Come si vede, la discontinuità nell’indirizzo giurisprudenziale può rendersi palese anche attraverso il “non detto”. Né varrebbe opporre essere quella ora prospettata una lettura forzata, così come invero non di rado si ha ogni qual volta si fa leva non già su affermazioni puntuali, in positivo, bensì su silenzi o su dichiarazioni comunque reticenti. Non può, infatti, considerarsi una mera coincidenza la circostanza per cui in nessuna delle pronunzie successive alle “gemelle”-bis si riproponga, come si diceva, lo schema collaudato della possibile esposizione alla sanzione dell’annullamento delle leggi che danno esecuzione ad obblighi internazionali, a motivo del mancato ossequio da esse prestato alle norme costituzionali in genere.

Se la ipotesi ricostruttiva ora prospettata, sia pure – per doverosa cautela – in termini dubitativi, dovesse risultare attendibile, della qual cosa ovviamente si attende conferma alla prima occasione utile, se ne ha che la Corte potrebbe optare, in vece dell’annullamento suddetto, per la soluzione alternativa di dichiarare la mera inidoneità della norma convenzionale contraria a Costituzione a fungere da fonte interposta, ovverosia ad integrare il parametro di cui al I c. dell’art. 117 cost. La norma stessa, insomma, secondo una proposta da me in più scritti affacciata[54], diverrebbe “irrilevante” per la soluzione del caso: né più né meno di come, ad es., lo è, per la stessa giurisprudenza, una norma interna contraria a diritto eurounitario.

I benefici effetti della soluzione in parola si fanno apprezzare sotto più aspetti ed a più piani di esperienza.

Per un verso, si eviterebbe l’esito inquietante di dover assistere alla caducazione, con la norma acclarata come incostituzionale, della disposizione che la racchiude ed esprime. È infatti un dato di comune acquisizione quello per cui, ogni volta che la Corte fa luogo alla dichiarazione d’illegittimità costituzionale di una norma di legge, cade la norma e cade anche il testo. Non dovrebbe, a mia opinione, esser così, confondendosi in tal modo inammissibilmente l’effetto di annullamento con l’effetto di abrogazione (segnatamente, di abrogazione nominata) e, per ciò stesso, i ruoli rispettivamente giocati dai giudici (sia pure da giudici peculiari, quali sono quelli costituzionali) e dal legislatore. Sta di fatto che le cose stanno ormai così come si sono ora succintamente rappresentate; ed allora l’idea che possa (e, anzi, debba) esser messo da canto un enunciato convenzionale non solo nel significato incostituzionale ma in ogni suo, astrattamente immaginabile e concretamente desunto, significato appare francamente ripugnante.

Per un altro verso (e in conseguenza dell’esito appena descritto), lo scontro con la Corte europea sarebbe di una inusitata durezza, con risvolti imprevedibili per l’ulteriore svolgimento delle relazioni tra le Corti stesse, laddove a seguire la tesi qui nuovamente prospettata esso potrebbe essere almeno in parte attutito, nella consapevolezza che il disposto convenzionale, recessivo in una sua norma e per un caso, potrebbe tornare in un altro caso a farsi interamente valere.

Tutto ciò posto, va nondimeno avvertito che l’ipotesi della dichiarazione d’incostituzionalità di norma convenzionale, già dalla stessa Corte – come si è rammentato – giudicata come remota, riconsiderata oggi alla luce dell’ultima giurisprudenza, appare ancora più eccezionale, praticamente insussistente, vuoi a motivo della connotazione a maglie larghe (o larghissime) della struttura degli enunciati della CEDU (analogamente, del resto, al modo con cui sono fatti molti degli enunciati costituzionali) e vuoi (e soprattutto) a motivo del fatto che, con specifico riguardo al modo con cui la Convenzione si esprime per bocca della sua Corte, dopo la sent. n. 236 del 2011 non si esclude più – come si è veduto – che ci si possa alla bisogna discostare dagli indirizzi interpretativi invalsi a Strasburgo. E quale occasione potrebbe perciò apparire migliore di quella di evitare di dover dichiarare l’incompatibilità rispetto alla Costituzione di una norma convenzionale così come affermatasi nelle sue pratiche applicative invalse a livello europeo?

Altra cosa è poi stabilire se l’accertamento della “irrilevanza” della norma convenzionale al fine della definizione del caso competa in via esclusiva al giudice delle leggi, al quale dunque il giudice comune sarebbe in una congiuntura siffatta tenuto a rivolgersi, ovvero se possa essere – perlomeno in taluni casi – effettuato direttamente da quest’ultimo giudice. Mi pare che la risposta al quesito dipenda dal modo con cui in generale sia impostata la questione concernente l’applicazione diretta della CEDU nelle sedi in cui si somministra la giustizia comune, in merito alla quale tornerò ad intrattenermi, sia pure in modo assai sbrigativo, di qui a breve. Per ciò che posso ora dire, è chiaro che, ammettendosi l’eventualità dell’applicazione diretta, in essa rientra pure il previo accertamento in parola. L’applicazione diretta, insomma, implica il suo contrario, la disapplicazione (o, se si preferisce dire, la “non applicazione”). Di contro, escludendosi in partenza l’una non può che escludersi, per lineare conseguenza, l’altra. Quali infine siano gli equilibri di ordine istituzionale (segnatamente, al piano dei rapporti tra giudici comuni e Corte costituzionale ma con riflessi anche al piano dei rapporti con la Corte europea per un verso, col legislatore per un altro) è cosa evidente, la cui illustrazione non giova all’economia di questo studio ed al corto orizzonte teorico che esso si è posto[55].

È appena il caso poi qui di rilevare, sia pure di sfuggita e rimandando per maggiori svolgimenti argomentativi sul punto ad altre sedi, che la soluzione ora patrocinata sul terreno dei rapporti tra Costituzione e CEDU può pari pari trasporsi altresì al piano dei rapporti col diritto eurounitario. E ciò, oltre che per le ragioni sopra enunciate, altresì per il fatto che, dopo Lisbona, il principio del primato del diritto dell’Unione sul diritto interno (anche costituzionale!) non è più affermato in termini perentori, senza eccezione alcuna[56]. Di contro, è lo stesso trattato vigente (art. 4) che fa obbligo all’Unione di prestare ossequio ai principi di struttura che danno l’identità costituzionale degli Stati membri. In presenza di una norma eurounitaria che porti disprezzo ai “controlimiti”, non è dunque luogo per dichiarare l’illegittimità costituzionale della legge di esecuzione del nuovo trattato “nella parte in cui…”, dal momento che è proprio il trattato stesso a volersi mettere in asse (e, con esso, a mettere in asse l’intero diritto sovranazionale) rispetto ai principi fondamentali di diritto interno. Il trattato, insomma, non vuole il primato del diritto dell’Unione a tutti i costi e non merita perciò di essere sanzionato; merita, di contro, di essere applicato, per il modo con cui il principio enunciato nell’art. 4 fa “sistema” coi principi restanti[57].

 

 

5. L’ostinata, generalizzata preclusione fatta ai giudici comuni in ordine all’applicazione diretta della CEDU, i casi in cui essa è non solo possibile ma doverosa, i gravi inconvenienti cui può dar luogo nella pratica giudiziale l’accoglimento del punto di vista della Corte

 

Per amore di verità, va riconosciuto, anche da parte di chi – come me – non conviene su molte delle conclusioni raggiunte dalla Corte costituzionale, che su poche cose la Corte stessa appare ferma come a riguardo della preclusione fatta ai giudici comuni di fare applicazione diretta della CEDU al posto della necessaria proposizione di questione di legittimità costituzionale[58].

Ora, senza sovraccaricare di indebite attese alcune affermazioni fatte qua e là, così come alcune “non affermazioni”, mi pare tuttavia di poter intravedere nei tratti già evidenziati dell’ultima giurisprudenza i segni (se non di un vero e proprio ribaltamento) di una possibile e sia pur parziale (e, nondimeno, significativa) correzione della giurisprudenza stessa, del suo complessivo aggiustamento insomma.

D’altronde, come si è tentato fin qui di mostrare, la giurisprudenza in parola appare ad oggi attraversata da un moto interno incessante, alla ricerca di un suo ubi consistam che sembra ancora ben lontano dal suo conseguimento e riscontro.

La flessibilizzazione dei rapporti tra le Corti e di queste coi giudici comuni, con la conseguente, accresciuta valorizzazione e responsabilizzazione del ruolo di questi ultimi, spinge, per la sua parte, nella direzione ora indicata.

Non mi prefiguro l’esito, caldeggiato da una sensibile dottrina e dalle punte più avanzate della giurisprudenza comune, di un generalizzato, indistinto accoglimento della tesi favorevole all’applicazione diretta[59]. Si danno tuttavia dei casi in relazione ai quali l’applicazione stessa mi parrebbe obbligata, pianamente discendente da premesse metodico-teoriche indiscutibili, sulle quali la stessa giurisprudenza (invero, con assai dubbia coerenza con se stessa) conviene[60].

Il primo di essi è dato dalla sostanziale coincidenza tra norma convenzionale e norma eurounitaria, segnatamente della Carta di Nizza-Strasburgo, giudicata self-executing[61]. Non si trascuri al riguardo la circostanza che l’ipotesi è espressamente presa in considerazione dalle spiegazioni allegate alla Carta stessa e, soprattutto, che è sempre tale Carta a voler essere intesa, sia pure a discapito dei canoni usuali d’interpretazione[62], conformemente alla CEDU. La “comunitarizzazione” della Convenzione – com’è usualmente chiamata – dovrebbe dunque avere sempre più diffuse applicazioni e, con essa, la tecnica dell’immediato utilizzo della Convenzione stessa nelle esperienze della giustizia comune[63].

Né varrebbe opporre – come invece usualmente si fa – che l’ambito dell’applicazione della Carta dell’Unione appare esser delimitato in ragione delle competenze spettanti all’Unione stessa[64], ove si consideri il processo di crescente e vistosa espansione delle competenze medesime per effetto, oltre che delle innovazioni man mano apportate ai trattati (e con le procedure da questi stabilite), di una giurisprudenza (comunitaria prima e ora) eurounitaria che ha non di rado fatto oggetto d’interpretazione estensiva le previsioni dei trattati stessi[65]. Le quali previsioni, poi, per loro strutturale conformazione e vocazione, si presentano assai duttili ed attraversate da un moto interno incessante, del quale rendono continue testimonianze le pratiche interpretative invalse a Lussemburgo (e, in parte, anche in ambito interno), che è il moto stesso degli interessi, con la loro camaleontica natura, nel cui nome sono state – come si sa – di frequente attratte (in sussidiarietà ovvero per via d’interpretazione) a beneficio dell’Unione porzioni consistenti dei campi materiali tradizionalmente soggetti all’esclusivo dominio degli Stati.

La circostanza poi secondo cui potrebbe esser denunziata davanti al giudice la violazione della sola norma convenzionale (e non pure di quella eurounitaria) nulla toglie alla validità della soluzione ora prospettata. La conoscenza del diritto dell’Unione fa parte del bagaglio culturale di cui il giudice è tenuto a dotarsi[66] e degli impegni cui è istituzionalmente chiamato (il carattere largo del principio iura novit curia, esteso ormai anche al diritto di origine esterna, non si discute); pochi dubbi possono perciò sussistere a riguardo del fatto che, ponendosi una questione che sia, a un tempo, di “convenzionalità” e di “comunitarietà[67], il giudice dovrebbe dar la precedenza alla tecnica della “non applicazione” piuttosto che a quella della denunzia della illegittimità costituzionale della norma interna contraria ad entrambe le Carte europee.

Non m’intrattengo poi su altre evenienze pure prospettabili, quale quella di norma convenzionale idonea a prendere subito il posto di contraria norma legislativa anteriore, che ne risulti perciò tacitamente abrogata[68]. Reputo piuttosto opportuno far riferimento ad altre due ipotesi, sulle quali vorrei sollecitare un supplemento di approfondimento teorico.

La prima si ha per il caso che tra norma interna e norma convenzionale non si dia un vero e proprio contrasto, quanto piuttosto una “graduata” tutela ai diritti, idonea in tesi a risolversi a beneficio della norma di origine esterna[69]. Nel qual caso, non dandosi un’antinomia in senso proprio non sarebbe comunque possibile il ricorso alla Consulta, così come quest’ultimo ugualmente non potrebbe aversi laddove entrambe le norme suddette si considerino (se non proprio conformi) compatibili rispetto alla Costituzione. In altri termini, nella evenienza sopra descritta dovrebbe farsi questione non già della soluzione da dare a un conflitto, in realtà insussistente, bensì della mera individuazione della norma giusta per il caso e che richiede appunto di essere a quest’ultimo applicata.

La seconda ipotesi riguarda poi l’eventualità che faccia difetto una previsione normativa di diritto interno e che pertanto si possa far subito applicazione di previsione convenzionale idonea a colmare il vuoto legislativo[70].

Trovo al riguardo singolare che a ciò si opponga una dottrina che pure con vigore patrocina l’applicazione diretta della Costituzione: quasi che possa darsi, sullo specifico terreno su cui maturano le esperienze cui si fa ora riferimento, una differenza di sostanza o di regime tra la Carta costituzionale e le Carte internazionali (e, tra queste, la CEDU).

La cosa appare poi ancora più singolare se si considera che la stessa Costituzione richiede di esser interpretata e senza sosta aggiornata alla luce delle suggestioni provenienti dalle Carte (e dalle Corti) europee. Secondo una felice intuizione manifestata già da Corte cost. n. 388 del 1999, pur se non adeguatamente esplicitata e portata ad effetto nella posteriore giurisprudenza, Costituzione e Carte internazionali dei diritti “si integrano, completandosi reciprocamente nell’interpretazione”. Una parità di condizioni tra Carte, quella sottesa al punto di diritto ora richiamato, che fa a mia opinione a pugni con la qualifica data della CEDU quale fonte “subcostituzionale[71], mentre s’inscrive armonicamente in quel quadro sistematico aventi basi assiologico-sostanziali che – come si è veduto – ha la sua emblematica espressione nel criterio della ricerca della tutela più “intensa” dei diritti, fissato nella già cit. sent. n. 317 del 2009.

Al di là di come si vedano le cose al piano teorico-ricostruttivo, quel che solo conta nella pratica è che si faccia talora applicazione diretta di norma costituzionale. Il fatto poi che essa sia debitrice di indicazioni venute dalle Corti europee (e, segnatamente, dalla Corte di Strasburgo), come peraltro sempre più di frequente è dato riscontrare, ha rilievo al piano – diciamo così – culturale, dell’analisi teorica appunto; il risultato pratico nondimeno non cambia, e con esso l’effetto di un uso magis ut valeat tanto del diritto di origine esterna quanto del diritto interno (anche costituzionale), nel loro mutuo implicarsi e nello stesso immedesimarsi nei fatti interpretativi.

V’è poi un dato cui è da assegnare uno speciale rilievo, per quanto fin qui non tenuto nel debito conto anche dalla più avvertita e sensibile dottrina; ed è che, non acconsentire all’applicazione diretta della CEDU, pur se limitatamente ad alcuni casi, rischia di tradursi in gravi degenerazioni della pratica giudiziale, in ispecie in talune esasperate soluzioni interpretative che mascherano sotto le candide vesti dell’interpretazione conforme quelle che in realtà sono corpose manipolazioni della sostanza normativa degli atti di diritto interno[72].

Si faccia caso come a quest’esito non si sottragga la stessa Costituzione.

Consapevole del fatto che una certa disposizione convenzionale, nel suo farsi “diritto vivente” per bocca della Corte EDU, possa apparire sospetta di violare la Carta costituzionale e timoroso che, denunziando la violazione stessa al giudice delle leggi, questi possa rilevarla, il giudice comune potrebbe essere non di rado indotto a riconciliare a forza i materiali normativi in campo nel senso sopra indicato. Non è detto, insomma, che l’adattamento interpretativo si abbia riportando l’enunciato di origine esterna “subcostituzionale” al parametro costituzionale; alle volte può aversi anche l’inverso. È un dato, peraltro, di comune esperienza quello per cui l’interpretazione della legge conforme a Costituzione prende talora forma in modo distorto, adeguandosi la Costituzione alla legge, non la legge alla Costituzione[73]. La gerarchia delle fonti, che vede la seconda sovraordinata alla prima, si rovescia su se stessa e cede in tali casi il campo ad una gerarchia culturale che vede la prima prevalere sulla seconda. In realtà, la ricostruzione delle movenze in seno al circolo interpretativo dovrebbe rifuggire da soluzioni comunque trancianti, in un senso o nell’altro, dal momento che mentre la teoria delle fonti, nelle sue più diffuse rappresentazioni, fa uso, a finalità sistematica, di schemi di tipo verticale, ispirati a gerarchia secondo forma, la teoria dell’interpretazione è – come si sa –, per sua indeclinabile vocazione, circolare, risentendone dunque il verso e l’esito del processo ermeneutico, il modo di essere complessivo di essere e di rinnovarsi della “conformità” insomma.

 

 

6. Una succinta notazione finale, con riguardo agli equilibri di ordine istituzionale (in ispecie, tra legislatore e giudici) sottesi alla soluzione delle questioni trattate ed alle conseguenze che possono aversene al piano della teoria della Costituzione e nelle pratiche giuridiche poste in essere al servizio dei bisogni elementari dell’uomo, dei suoi diritti, della sua dignità

 

Dovrebbe, a questo punto, allargarsi il raggio della riflessione a profili che, di necessità, sono qui obbligati a restare nell’ombra, ai quali dunque mi limito solo a fare un cenno rimandando, ancora una volta, ad altri luoghi per la loro adeguata considerazione.

Basti solo pensare a quello che, nel discorso che sono venuto facendo, è il grande “assente”, il legislatore, la cui sfera di competenza e il dominio a questi sulla stessa riservato soggiacciono a forti condizionamenti di vario segno a seconda di come si ambientino e risolvano le questioni che si sono via via trattate.

Si ponga mente solo allo stress cui il potere sovrano per antonomasia è quotidianamente soggetto per effetto di quelle manipolazioni della sostanza normativa racchiusa nei testi di legge, cui si è ancora da ultimo fatto cenno. Chi si interroghi sui riflessi di ordine istituzionale di questa o quella delle soluzioni sopra prospettate non può, di tutta evidenza, fare a meno di guardare anche alla faccia nascosta della luna, se non altro al fine di non ingenerare o alimentare l’erroneo convincimento che i rapporti interordinamentali siano prevalentemente, se non pure esclusivamente, rimessi in ordine alla loro compiuta definizione ed all’opportuno aggiornamento, in ragione dell’evolversi dei contesti, al solo “dialogo” intergiurisprudenziale. Certo, le Corti hanno fatto (e seguitano senza sosta a fare) molto; e credo che nessuno possa, con onestà d’intelletto, negarlo. Vi sono però delle scelte di campo, che segnano il travagliato cammino dell’integrazione sovranazionale, che non possono che essere rimesse alla politica ed ai suoi protagonisti.

Si dà una naturale, necessaria e non altrimenti fungibile, tipizzazione dei ruoli tra legislatore e giudici (più in genere, tra attori politico-istituzionali ed operatori, anche ma non solo aventi funzioni giurisdizionali), che nondimeno non esclude – a certe condizioni ed entro certi limiti – l’intervento “sussidiario”, nell’esercizio di una “supplenza” il più delle volte non gradita, comunque sofferta ed obbligata, dei secondi al primo, di cui rendono emblematica testimonianza i casi di applicazione diretta della Costituzione[74]. Sta, ad ogni buon conto, in siffatta tipizzazione dei ruoli il nucleo di verità racchiuso nel principio della separazione dei poteri, nelle sue plurime espressioni nel corso della storia dell’uomo (specificamente nei paesi occidentali)[75]; ed è – come si sa – un nucleo non riducibile, irrinunciabile, se si ha a cuore di preservare e trasmettere integra anche alle generazioni che verranno l’idea di Costituzione, per come l’abbiamo ereditata dai rivoluzionari di fine settecento e, pur con non secondari aggiustamenti, realizzata specie dopo la tragedia della seconda grande guerra[76].

Ora, il mantenimento dell’equilibrio tra le sedi istituzionali è di vitale rilievo, non solo – come si è venuti dicendo – allo scopo di salvaguardare la forma di governo propria dei singoli ordinamenti ma, di più, allo scopo di tener ferma la forma di Stato e, con essa, un certo modo d’intendere e praticare i rapporti tra comunità governata ed apparato governante: in ultima istanza, per ciò che qui specificamente importa, allo scopo di offrire ai diritti la più “intensa” tutela che, prima ancora che venire dalla pur altamente meritoria opera quotidianamente posta in essere dai giudici, viene da enunciati normativi fermi e chiari nelle indicazioni che danno agli stessi giudici, tracciando il solco lungo il quale può, nel modo più lineare possibile, scorrere una giurisprudenza votata al servizio dell’uomo.

Ecco perché la questione che siamo oggi nuovamente tornati a discutere ha, se ci si pensa, una proiezione ben più ampia di quella che pure è ad essa dalla più sensibile ed accorta dottrina riconosciuta. Ed è così, per la elementare ragione che dalla sua soluzione dipende la messa a punto e la realizzazione, per un verso, dell’idea di Costituzione di cui ci facciamo portatori ed interpreti e, per un altro verso (ed allo stesso tempo), del modo con cui intendiamo e mettiamo in pratica il ruolo cui tutti, studiosi ed operatori, siamo chiamati, con diversi ruoli e responsabilità ma accomunati dal fermo proposito di venire incontro, nel modo più adeguato possibile alle condizioni complessive di contesto, ai bisogni elementari dell’uomo, ai suoi diritti fondamentali, alla sua dignità.



* Testo rielaborato (e corredato di un minimo apparato di richiami bibliografici) di un intervento all’incontro di studio su Rapporti tra Corte di giustizia, Corte europea dei diritti dell’uomo e Corte costituzionale. Qualcosa è cambiato?, organizzato da O. Pollicino e svoltosi presso l’Università “L. Bocconi” di Milano il 15 ottobre 2011, in corso di stampa in Dir. pubbl. comp. eur.

[1] In argomento, in prospettiva comparatistica, v., utilmente, AA.VV., The National Judicial Treatment of the ECHR and EU Laws. A Comparative Constitutional Perspective, a cura di G. Martinico e O. Pollicino, Groningen 2010, e G. Martinico - O. Pollicino, The Impact of the Protection of Human Rights by the European Courts on the Italian Constitutional Court,  in AA.VV., Human Rights Protection in the European Legal Order: the Interaction between the European and the National Courts, a cura di P. Popelier - C. Van De Heyning - P. Van Nuffel, Cambridge 2011, 65 ss.

[2] Una vigorosa sottolineatura del ruolo giocato dai giudici comuni e che, in modo ancora più intenso, sono sollecitati ad ulteriormente esercitare è nella monografia di recente portata a compimento da R. Conti ed edita per i tipi della Aracne, dal titolo assai indicativo, La Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Il ruolo dei giudici, Roma 2011, nonché in molti altri scritti, tra i quali, da ultimo, La scala reale della Corte Costituzionale sulla tutela della CEDU nell’ordinamento interno, in Corr. giur., 9/2011, 1243 ss., dov’è un accurato esame delle più recenti pronunzie della Consulta in fatto di rapporti tra diritto interno e CEDU, cui qui pure si presta attenzione.

[3] Riferimenti, oltre che nella monografia sopra cit. di R. Conti, in I. Carlotto, I giudici comuni e gli obblighi internazionali dopo le sentenze n. 348 e n. 349 del 2007 della Corte costituzionale: un’analisi sul seguito giurisprudenziale (Parte I), in Pol. dir., 1/2010, 41 ss. e, ora, A. Guazzarotti, I diritti fondamentali dopo Lisbona e la confusione del sistema delle fonti, in www.associazionedeicostituzionalisti.it, 3/2011 e F. Liberati, Corte costituzionale e Convenzione europea dei diritti dell’uomo: sostenibilità del modello di controllo accentrato di costituzionalità alla luce della recente giurisprudenza e delle novità in ambito comunitario, in www.federalismi.it, 13/2011.

[4] D’altro canto, è noto il cruciale rilievo esercitato dalla “domanda”, per il modo con cui è posta dall’autorità remittente, al fine della determinazione della “risposta” da parte del giudice costituzionale, che si trova – come si sa – non poche volte obbligato a rigettarla proprio perché essa è mal formulata, malgrado esprima una innegabile esigenza di giustizia costituzionale.

[5] Come si dirà a momenti, anche questa spiegazione regge tuttavia solo fino a un certo punto, se si conviene a riguardo della opportunità di sdrammatizzare gli eventuali conflitti tra le norme dei due ordinamenti, in applicazione della logica dei bilanciamenti secondo i casi e su basi di valore.

[6] È poi pur vero che quest’ultimo, a differenza del meccanismo della “non applicazione”, mette in mora il legislatore, sollecitandolo al rifacimento del tessuto normativo lacerato dalla Corte a motivo della sua acclarata incompatibilità col diritto sovranazionale; una messa in mora, peraltro, che non dispone – come si sa – di efficaci strumenti a suo sostegno, dal momento che avverso le omissioni assolute del legislatore non v’è rimedio che valga.

[7] Le questioni di seguito poste e le soluzioni per esse prospettate, per un verso, appaiono essere non dissimili anche con riguardo a Carte diverse dalla Convenzione (così, ad es., per ciò che concerne la “copertura” di cui tutte godono dagli artt. 2 e 3 cost., ancora prima che dall’art. 117, I c.); per un altro, però, talune indicazioni contenute nel trattato di Lisbona (specie per ciò che concerne l’interpretazione della Carta di Nizza-Strasburgo “orientata” verso la CEDU o la prevista adesione a quest’ultima da parte dell’Unione) rendono non comune il regime della Convenzione stessa rispetto alle altre Carte. A taluna di tali questioni si riserverà un cenno più avanti.

[8] Il dato ha la sua importanza; e, tuttavia, non appare decisivo, sol che si pensi che la stessa Corte, quando ha voluto, ha ridefinito, anche con sostanziali aggiunte, i termini delle questioni che le sono state sottoposte (e – si faccia caso – già in tempi ormai risalenti: ad es., con sent. n. 120 del 1967). Ad ogni buon conto, ha – come si sa – di frequente offerto indicazioni assai eloquenti agli operatori circa il modo “giusto” col quale riformulare la questione, anche in relazione al parametro maggiormente adeguato. Se n’è avuta peraltro testimonianza proprio nel campo di esperienza da noi oggi attraversato, la sent. n. 129 del 2008 avendo lasciato chiaramente intendere che la questione della revisione del processo, ancorché definito con sentenza passata in giudicato, conseguente al sopravvenire di pronunzia della Corte EDU che abbia riscontrato la violazione della Convenzione, avrebbe potuto essere altrimenti risolta qualora diverso fosse stato il parametro evocato; tant’è che un’avveduta dottrina aveva prontamente rilevato il possibile, imminente rovesciamento giurisprudenziale [M. Chiavario, Giudicato e processo “iniquo”: la Corte si pronuncia (ma non è la parola definitiva), in Giur. cost., 2008, 1522 ss.; V. Sciarabba, Il problema dell’intangibilità del giudicato tra Corte di Strasburgo, giudici comuni, Corte costituzionale e… legislatore?, in www.forumcostituzionale.it, e G. Campanelli, La sentenza 129/08 della Corte costituzionale e il valore delle decisioni della Corte europea dei diritti dell’uomo: dalla ragionevole durata alla ragionevole revisione del processo, in Foro it., 2009, I, 622], quindi avutosi con la sent. n. 113 del 2011, della quale si dirà più avanti.

[9] La qual cosa, come dirò a momenti, io pure non escludo ma neppure considero quale l’unico esito possibile, obbligato, della vicenda.

[10] Su questo autentico punctum crucis delle relazioni interordinamentali mi sono intrattenuto più volte: di recente, ad es., nel mio Rapporti tra Corte costituzionale e Corti europee, bilanciamenti interordinamentali e “controlimiti” mobili, a garanzia dei diritti fondamentali, in www.associazionedeicostituzionalisti.it, 1/2011.

[11] … riferita tuttavia ai rapporti con la CEDU e non a quelli con l’Unione; come si viene dicendo, la “logica” posta a base della loro ricostruzione, tuttavia, non è (o, meglio, non dovrebbe essere) diversa.

[12] Ha opportunamente invitato a fermare l’attenzione sul punto E. Lamarque, Gli effetti delle sentenze della Corte di Strasburgo secondo la Corte costituzionale italiana, in Corr. giur., 7/2010, 955 ss., spec. 961.

[13] V., ad ogni buon conto, sin d’ora le indicazioni di vario segno che sono in AA.VV., Corti costituzionali e Corti europee dopo il Trattato di Lisbona, a cura di M. Pedrazza Gorlero, Napoli 2010, nonché in C. Panzera, Un passo alla volta. A proposito della più recente giurisprudenza costituzionale sulla CEDU, in AA.VV., Corte costituzionale e sistema istituzionale, a cura di F. Dal Canto e E. Rossi, Torino 2011, 299 ss., spec. 303 ss., e, pure ivi, A. Randazzo, Alla ricerca della tutela più intensa dei diritti fondamentali, attraverso il “dialogo” tra le Corti, 313 ss.; T. Giovannetti - P. Passaglia, La Corte ed i rapporti tra diritto interno e diritto sovranazionale, in AA.VV., Aggiornamenti in tema di processo costituzionale (2008-2010), a cura di R. Romboli, Torino 2011, spec. 322 ss. Ulteriori indicazioni ancora, volendo, nella mia op. ult. cit.

[14] In realtà, dei “controlimiti” usa discorrere – come si sa – con esclusivo riguardo alle norme dell’Unione, dottrina e giurisprudenza corrente giudicando invece soggette le norme della CEDU all’osservanza di qualsivoglia norma costituzionale. Una differenza di regime che, tuttavia, sullo specifico terreno su cui maturano le esperienze riguardanti la salvaguardia dei diritti fondamentali appare francamente inaccettabile, per le ragioni che si sono già rappresentate altrove e per le ulteriori ragioni che si vengono ora dicendo, tra le quali uno speciale rilievo va, a mia opinione, assegnato alla circostanza per cui le norme della Convenzione, al pari per quest’aspetto delle norme delle altre Carte dei diritti, naturalmente si confrontano proprio con le norme della Carta costituzionale espressive di principi fondamentali. Forse, non sarebbe male prestare una maggiore attenzione a questo dato, di comune esperienza, prima di (o anziché di) riproporre stancamente schemi di formale fattura, quale quello che vede come diversa l’ampiezza del parametro di costituzionalità, rispettivamente, per le norme dell’Unione e per quelle convenzionali.

[15] Come mi sono sforzato di mostrare altrove, singolare poi appare la circostanza per cui la medesima antinomia (tra norma dell’Unione e norma interna), esclusivamente per il mero fatto della diversa connotazione strutturale della fonte sovranazionale (a seconda cioè che essa sia, ovvero non sia, self-executing), richiede di essere diversamente qualificata e sanzionata, ora – come si sa – a mezzo della “non applicazione” dell’atto interno ed ora invece a mezzo del suo annullamento per invalidità: con un utilizzo, come si vede, “a scomparsa” della logica della fonte interposta, quasi che non si debba comunque far capo all’art. 11 allo scopo di giustificare l’una o l’altra misura…

[16] È questa la conclusione cui ho ritenuto di dover pervenire nel mio Rapporti tra Corte costituzionale e Corti europee, cit.

[17] Precisazioni critiche sul punto in G. de Vergottini, Oltre il dialogo tra le Corti. Giudici, diritto straniero, comparazione, Bologna 2010.

Una marcata sottolineatura del “dialogo” tra le Corti europee, qualificato come “regolare” e suscettibile di essere “rafforzato” per effetto della prevista adesione dell’Unione alla CEDU è nella Dichiarazione n. 2 allegata al trattato di Lisbona. In dottrina, a riguardo della “circolare” collaborazione tra le Corti europee inter se e di esse con le Corti nazionali si è scritto – come si sa – molto: in aggiunta alle opere qui citt., vorrei solo richiamare gli efficaci rilievi di A. Tizzano, del quale v., part., Ancora sui rapporti tra Corti europee: principi comunitari e c.d. controlimiti costituzionali, in Dir. Un. Eur., 3/2007, e Principio di effettività e unitarietà. Introduzione, in AA.VV., Diritto comunitario e sistemi nazionali: pluralità delle fonti e unitarietà degli ordinamenti, Atti del convegno SISDIC, Capri 16-18 aprile 2009, Napoli 2010, 559 ss., unitamente a quelli, parimenti incisivi, di A. Cardone, Diritti fondamentali (tutela multilivello dei), in Enc. dir., Ann., IV (2011), 335 ss. Di un’“ermeneutica dialogica”, quale strumento adeguato a dare linfa al “dialogo” tra le Corti, discorre poi V. Scalisi, Interpretazione e teoria delle fonti nel diritto privato europeo, in Riv. dir. civ., 2009, 426 ss. e Ermeneutica dei diritti fondamentali e principio “personalista” in Italia e nell’Unione Europea, in Riv. dir. civ., 2010, 145 ss. Per la mia parte, posso solo aggiungere di essere fermamente convinto (e, anzi, di radicarmi sempre di più in siffatto convincimento) che il futuro della Costituzione e del diritto costituzionale dipenda (se non esclusivamente) in larga misura proprio dalla collaborazione in parola, per il cui proficuo e stabile impianto si richiede un uso sempre più insistito (e, però, allo stesso tempo vigilato) della comparazione giuridica (su di che, con specifico riguardo alle pratiche giurisprudenziali e, ancora più specificamente, a quelle invalse presso le Corti europee, molto importante è oggi G. Repetto, Argomenti comparativi e diritti fondamentali in Europa. Teorie dell’interpretazione e giurisprudenza sovranazionale, Napoli 2011).

[18] Sulle mutue implicazioni di libertà ed eguaglianza una densa riflessione si deve, di recente, a G. Silvestri, Dal potere ai princìpi. Libertà ed eguaglianza nel costituzionalismo contemporaneo, Roma-Bari 2009; lo stesso A. ha felicemente qualificato la dignità come la “bilancia” su cui si dispongono i beni oggetto di ponderazione (Considerazioni sul valore costituzionale della dignità della persona, in www.associazionedeicostituzionalisti.it). Della dignità come valore “supercostituzionale” si discorre già in A. Ruggeri - A. Spadaro, Dignità dell’uomo e giurisprudenza costituzionale (prime notazioni), in Pol. dir., 1991, 343 ss. Di contro, altri (e, tra questi, ora M. Luciani, Positività, metapositività e parapositività dei diritti fondamentali, in Scritti in onore di L. Carlassare. Il diritto costituzionale come regola e limite al potere, III, Dei diritti e dell’eguaglianza, a cura di G. Brunelli - A. Pugiotto - P. Veronesi, Napoli 2009, 1060 ss.) annoverano la dignità tra i valori passibili di bilanciamento.

[19] V., dunque, il mio La CEDU alla ricerca di una nuova identità, tra prospettiva formale-astratta e prospettiva assiologico-sostanziale d’inquadramento sistematico (a prima lettura di Corte cost. nn. 348 e 349 del 2007), in www.forumcostituzionale.it.

[20] Mutatis mutandis, qualcosa di simile è altresì avvenuto sul terreno delle relazioni con l’Unione (e la sua Corte), coi richiami fatti alla Carta di Nizza-Strasburgo (e, prima dell’avvento di questa, omisso medio alla giurisprudenza che si forma a Lussemburgo).

[21] Un’analoga vicenda è già maturata o va maturando anche in altri ordinamenti, tra i quali la Repubblica federale tedesca, laddove si è acconsentito all’assoggettamento della Costituzione a interpretazione völkerrechtsfreundlich, pur qualificandosi la Convenzione quale fonte di rango legislativo: ad es., di recente, in causa 2365/09 del 4 maggio 2011 (e, su di essa, la nota di A. Di Martino, Ancora sulla efficacia della CEDU nel diritto interno: il BverfG e la “detenzione di sicurezza”, in www.dirittocomparati.it, 26 maggio 2011).

[22] La cosa è molte volte ed a vari fini rilevata, ad es. da chi ha fatto oggetto di studio le modifiche tacite della Costituzione per via giurisprudenziale (indicazioni in A. Spadaro, Le motivazioni delle sentenze della Corte come “tecniche” di creazione di norme costituzionali, in Aa.Vv., La motivazione delle decisioni della Corte costituzionale, a mia cura, Torino 1994, 356 ss. e, dello stesso, Dalla Costituzione come “atto” (puntuale nel tempo) alla Costituzione come “processo” (storico). Ovvero della continua  evoluzione del parametro costituzionale attraverso i giudizi di costituzionalità, in Quad. cost., 3/1998, 343 ss., nonché in E. Rossi, Le trasformazioni costituzionali secondo la giurisprudenza della Corte costituzionale, in AA.VV., Le “trasformazioni” costituzionali nell’età della transizione, a cura di A. Spadaro, Torino 2000, 119 ss.).

[23] Su entrambe le decisioni possono, volendo, vedersi le mie note La Corte fa il punto sul rilievo interno della CEDU e della Carta di Nizza-Strasburgo (a prima lettura di Corte cost. n. 80 del 2011), in www.forumcostituzionale.it e Il giudicato all’impatto con la CEDU, dopo la svolta di Corte cost. n. 113 del 2011, ovverosia quando la certezza del diritto è obbligata a cedere il passo alla certezza dei diritti, in www.associazionedeicostituzionalisti.it, 2/2011, nonché in Legisl. pen., 2/2011.

[24] Nelle sedi in cui è apparso il mio scritto per ultimo cit. sono altresì presenti i commenti di G. Canzio, Giudicato “europeo” e giudicato penale italiano: la svolta della Corte costituzionale, e R.E. Kostoris, La revisione del giudicato iniquo e i rapporti tra violazioni convenzionali e regole interne, con l’aggiunta, in Legisl. pen., 2/2011, di M. Chiavario, La Corte costituzionale ha svolto il suo compito: ora tocca ad altri; inoltre, R. Conti, La scala reale della Corte Costituzionale, cit., spec. 1253 ss., e P. Gaeta, Dissoluzione del giudicato ed euristica giudiziale dopo la sentenza Dorigo, in corso di stampa in Giustizia insieme (ma molti altri scritti possono vedersi nelle Riviste specialistiche). Nella dottrina anteriore a riguardo della vessata questione relativa al superamento del giudicato, indicazioni ora in A. Cardone, Diritti fondamentali, cit., 393 ss.

[25] V. nuovamente la mia nota per ultimo cit.

[26] Invita opportunamente a fermare l’attenzione sul punto, ora, anche R. Conti, nella sua op. ult. cit., 1262 ss.

[27] V., in particolare, il caso O’Donoghue e a. contro Regno Unito, definito con sent. 14 dicembre 2010, cui espressamente si richiama la sent. n. 245.

[28] O. Pollicino, in molti scritti, a partire da Corti europee e allargamento dell’Europa: evoluzioni giurisprudenziali e riflessi ordinamentali, in Dir. Un. Eur., 2009, 1 ss., e spec. in La Corte europea dei diritti dell’uomo dopo l’allargamento del Consiglio D’Europa ad Est: forse più di qualcosa è cambiato, in AA.VV., Le scommesse dell’Europa. Diritti, Istituzioni, Politiche, a cura di G. Bronzini - F. Guarriello - V. Piccone,  Roma 2009, 101 ss., e quindi, estesamente, in Allargamento ad est dello spazio giuridico europeo e rapporto tra Corti costituzionali e Corti europee. Verso una teoria generale dell’impatto interordinamentale del diritto sovranazionale?, Milano 2010.

[29] Penso, ad es., alla recente Cass., III sez. civ., 30 settembre 2011, n. 19985, dove si sono riconosciuti effetti assimilabili a quelli propri del giudicato formale ed immediati, anche in corso di causa, alle pronunzie della Corte EDU, le quali, una volta divenute definitive, sono dotate della medesima vis precettiva propria delle norme convenzionali, la cui ricognizione di senso, così come operata a Strasburgo, non può essere messa in discussione dal giudice nazionale.

[30] Su quest’ultimo, le note mia e di M. Massa, dal titolo, rispettivamente, Ieri il giudicato penale, oggi le leggi retroattive d’interpretazione autentica, e domani? (a margine di Corte EDU 7 giugno 2011, Agrati ed altri c. Italia), e Agrati: Corte europea vs. Corte costituzionale sui limiti alla retroattività, entrambe in www.forumcostituzionale.it. Sulla questione si è di recente pronunziata anche la Corte di giustizia, adita in via pregiudiziale (sent. Grande Sezione del 6 settembre 2011, in causa C-108/10, Scattolon, con nota di M. Massa, Dopo Agrati: le leggi interpretative tra disapplicazione e prevalenza sulla CEDU, in corso di stampa in Quad. cost.), per un verso (e in via generale) ammettendo che, in caso di trasferimento d’impresa, la normativa eurounitaria osta a che i lavoratori trasferiti abbiano un peggioramento retributivo per effetto del mancato riconoscimento dell’anzianità maturata presso il cedente; per un altro verso, tuttavia, rimettendosi al giudice del rinvio al fine della verifica se il peggioramento in parola si sia, o no, concretamente verificato. Viene, per tale aspetto, fatto dunque salvo un pur contenuto “margine di apprezzamento” a beneficio del giudice nazionale che la Corte di Strasburgo non ha, a conti fatti, salvaguardato. Quale possa essere l’esito della vicenda, ad oggi in corso, non è chiaro (sul punto, la riflessione di G. Bronzini, Le Corti europee rimettono in gioco i diritti del personale ATA. Un caso “difficile” per la giurisprudenza multilivello, in corso di stampa).

[31] Merita di essere segnalata la recente pronunzia della Cass., Sez. Un., 8 agosto 2011, n. 17076, laddove si fa un singolare ragionamento a giustificazione della perdurante (malgrado la diversa presa di posizione della Corte EDU…) validità delle norme d’interpretazione autentica, sempre che siano davvero… tali, rimanendo dunque entro la cornice della disposizione interpretata. Una validità che troverebbe giustificazione nel fatto che l’art. 70 cost., sotto la cui “copertura” ogni legge, in quanto frutto di legittimo esercizio della funzione legislativa, può essere riportata, può prevalere in sede di bilanciamento nei riguardi di parametri interposti, quale la (legge di esecuzione della) CEDU. Di contro, senza evocare qui la “logica” del bilanciamento, ove il giudice della nomofilachia avesse tenuto in maggior conto il canone sistematico (qui rilevante attraverso il “combinato disposto” degli artt. 70 e 117, I c., senza peraltro trascurare altri enunciati ancora, espressivi di principi fondamentali, evocati in campo dalla “materia” trattata dalla CEDU e dal modo della sua trattazione, siccome relativa ai diritti fondamentali), si sarebbe avveduta della necessità che gli atti di esercizio della funzione legislativa, coi quali cioè si dà corpo nell’esperienza alla norma definitoria della competenza di cui all’art. 70, avrebbero dovuto e sempre dovrebbero, in via di principio, mostrarsi rispettosi degli obblighi di cui è parola nell’art. 117. Un rispetto al quale possono, nondimeno, legittimamente sottrarsi unicamente allo scopo di portare ancora più in alto la tutela dei diritti fondamentali e, in genere, del “sistema” dei beni costituzionalmente protetti: nel qual caso, bene si rende possibile (e, anzi, doveroso) spianare la strada all’applicazione di quella “logica” del bilanciamento, qui improvvidamente evocata in campo dalla Cassazione (in un non dissimile ordine di idee, se ben se n’è inteso il pensiero, anche M. Massa, Dopo Agrati, cit.). Quale ascolto poi l’indirizzo della Cassazione possa, anche a breve, avere presso la Consulta non è dato al momento di stabilire; è, nondimeno, da mettere in conto che possa farsi più lunga la distanza dalle posizioni della Corte EDU, di cui si è avuta, in una certa misura, recente testimonianza, secondo quanto si passa subito a dire nel testo (con specifico riguardo ai conflitti tra Corte costituzionale e Corte EDU, prima però degli ultimi sviluppi giurisprudenziali, v. S. Foà, Un conflitto di interpretazione tra Corte costituzionale e Corte europea dei diritti dell’uomo: leggi di interpretazione autentica e ragioni imperative di interesse generale, in www.federalismi.it, 15/2011, ed ivi riferimenti).

[32] Evenienza, questa, per tabulas ricorrente, dal momento che il legislatore si attiva evidentemente per il fatto che vi sono state (e vi sono) controversie giudiziarie a riguardo dell’atto oggetto d’interpretazione; estremamente raro, dunque, per non dire meramente di scuola, il caso di un atto legislativo praticamente “inutile” per il presente (ed utile solo per l’avvenire), siccome sopravveniente alla definizione in modo irreversibile di ogni lite giudiziaria.

[33] Sul punto, v. la ricostruzione dell’indirizzo della Corte EDU che ne fa, nelle sue conclusioni sul caso Scattolon, l’Avvocato Generale Y. Bot, §§ 132 ss.

[34] Si rammenti la pur problematicamente coerente giurisprudenza a riguardo del sindacato sui presupposti giustificativi dell’adozione dei decreti-legge, giudicato ammissibile sia pure nei soli casi di loro “evidente mancanza”. Una limitazione, questa, della cui opportunità non torno qui a discutere, col bisogno ad essa sotteso di parare la facile critica che potrebbe essere (il più delle volte, però, strumentalmente) mossa alla Corte di voler invadere il campo riservato alla politica, giovandosi di un disposto costituzionale strutturalmente debole ed arrendevole. Sta di fatto, però, che la limitazione stessa, in buona sostanza, si traduce in un controllo di costituzionalità circoscritto ai soli casi di “evidente violazione” del parametro costituzionale. Un privilegio, come si vede, questo accordato agli organi della direzione politica, di assai dubbia rispondenza al modello costituzionale, nei fatti – come si sa – convertitosi in un’autentica “zona franca” della giustizia costituzionale, ove si pongano a raffronto il numero dei decreti-legge (e relative leggi di conversione) varati dal tandem Governo-Parlamento col numero (praticamente inesistente) delle sanzioni loro comminate dal giudice costituzionale in nome del canone della “evidente mancanza”.

[35] Su questa tendenza v., nuovamente, la puntuale analisi che è negli scritti sopra citt. di O. Pollicino, cui adde O. Pollicino - V. Sciarabba, Tratti costituzionali e sovranazionali delle Corti europee: spunti ricostruttivi, in AA.VV., L’integrazione attraverso i diritti. L’Europa dopo Lisbona, a cura di E. Faletti - V. Piccone,
Roma 2010, 125 ss.; v., inoltre, utilmente E. Malfatti, L’“influenza” delle decisioni delle Corti europee sullo sviluppo dei diritti fondamentali (e dei rapporti tra giurisdizioni), in AA.VV., Le garanzie giurisdizionali. Il ruolo delle giurisprudenze nell’evoluzione degli ordinamenti. Scritti degli allievi di Roberto Romboli, a cura di G. Campanelli - F. Dal Canto - E. Malfatti - S. Panizza - P. Passaglia - A. Pertici, Torino 2010, 165 ss.

[36] Tra i quali, Il processo costituzionale come processo, dal punto di vista della teoria della Costituzione e nella prospettiva delle relazioni interordinamentali, in Riv. dir. cost., 2009, 125 ss., spec. 157 ss.

[37] I riferimenti testuali sono tutti tratti dal punto 5.1. del cons. in dir.

[38] … magari, ad uno stesso operatore (e, segnatamente, al giudice della legittimità) che si sia col tempo determinato per opzioni interpretative diverse.

[39] L’eventualità di un vaglio da parte del giudice delle leggi della specificità del caso trattato a Strasburgo era stata prefigurata da un autorevole studioso e componente della Corte, della quale – come si sa – è stato anche Presidente, senza che nondimeno, come si viene dicendo, se ne avesse traccia apprezzabile prima della pronunzia di cui si passa subito a dire nel testo (v., dunque, U. De Siervo, Recenti sviluppi della giurisprudenza della Corte costituzionale in relazione alla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, relaz. all’incontro di studio su Problemi per le Corti nazionali a seguito degli ulteriori sviluppi dell’Unione Europea ed in relazione alla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, in www.cortecostituzionale.it). Per taluni aspetti, della tecnica del distinguishing si è fatto utilizzo anche nella sentenza relativa al matrimonio degli omosessuali (sent. n. 138 del 2010).

[40] … rese manifeste specialmente nella parte motiva delle sue decisioni, il rilievo della quale è diffusamente segnalato in dottrina (per tutti, A. Saitta, Logica e retorica nella motivazione delle decisioni della Corte costituzionale, Milano 1996).

[41] V., per tutti, nuovamente, gli scritti dietro citt. di R. Conti (e, tra questi, part., la sua monografia su La Convenzione europea dei diritti dell’uomo), cui adde M. Bignami, Costituzione, Carta di Nizza, CEDU e legge nazionale: una metodologia operativa per il giudice comune impegnato nella tutela dei diritti fondamentali, in www.associazionedeicostituzionalisti.it, 1/2011.

[42] Ancora da ultimo nella mia nota a Corte cost. n. 113 del 2011, sopra già richiamata.

[43] … e, su di essa, il commento di R. Conti, La scala reale della Corte Costituzionale, cit., spec. 1259 ss.

[44] La questione è, però, assai più complessa di come risulti dal quadro ricostruttivo fattone dalla Consulta, a motivo della mancata presa in considerazione sul punto della Carta di Nizza-Strasburgo (e, segnatamente, di quanto disposto dall’art. 49) e, dunque, in buona sostanza, della giurisprudenza eurounitaria, che avrebbe potuto consigliare un diverso esito della vicenda e che, ad ogni buon conto, potrebbe obbligare la nostra Corte a rivedere l’orientamento ad oggi accolto (sul punto, V. Onida, I diritti fondamentali nel Trattato di Lisbona, in www.astrid-online.it, 12/2011).

[45] … in ispecie, per come i dati in parola hanno costituito oggetto di puntuale sistemazione dalla sentenza della Grande Camera del 17 settembre 2009 (Scoppola c. Italia) e da altre decisioni ancora.

[46] La Corte poi non s’interroga circa la compatibilità delle deroghe e limitazioni in parola con la finalità rieducativa della pena, di cui all’art. 27 cost., che potrebbe considerarsi (con la più sensibile dottrina giuspenalistica: G. de Vero, Limiti di vincolatività in ambito penale degli obblighi comunitari di tutela, in Studi in onore di A. Metro, a cura di C. Russo Ruggeri, II, Milano 2010, spec. 189 s., ed ivi richiamo di un precedente scritto dello stesso a.) gravemente incisa una volta che a soggetti responsabili del medesimo reato dovessero applicarsi pene diverse. È vero che nella circostanza che ha dato modo alla Corte di emettere la pronunzia ora annotata il principio di cui all’art. 27 non era stato evocato in campo; e, tuttavia, la ridefinizione complessiva dei termini della questione non è – come si sa – un fatto raro nelle esperienze di giustizia costituzionale.

[47] Punto 13 del cons. in dir.

[48] Si pone qui l’ardua questione riguardante le condizioni e i limiti del superamento dello stesso giudicato costituzionale per effetto di sopravvenienti e con esso incompatibili pronunzie delle Corti europee (per ciò che qui specificamente importa della Corte di Strasburgo), a riguardo della quale ho già avuto modo di intrattenermi altrove (a partire da Corte costituzionale e Corti europee: il modello, le esperienze, le prospettive, in AA.VV., Corte costituzionale e sistema istituzionale, cit., 190 ss.). Dei conflitti in parola, d’altronde, si è già avuto riscontro, con varietà di forme e parimenti varia intensità, pur se non sempre se ne ha l’aperta denunzia, da noi come altrove. Un caso recente in cui la questione è emersa con clamore si è avuto con riguardo alla legislazione austriaca sulla procreazione medicalmente assistita, fatta oggetto di esplicita censura dalla Corte EDU (S.H. ed a. contro Austria), mentre da noi può essere rammentata, ancora una volta, la nota vicenda Dorigo, in relazione alla quale – come opportunamente fa oggi notare P. Gaeta, Dissoluzione del giudicato, cit. – “la regola processuale legittimamente applicata dai giudici nazionali era … frutto addirittura di un ‘innesto’ operato dalla Corte costituzionale” con sent. n. 254 del 1992: un “meccanismo”, questo, dalla Corte di Strasburgo giudicato in violazione dell’art. 6, § 3, lett. d).

Un caso poi assai noto di conflitto parato sul nascere con la Corte di giustizia si è avuto nel 2005, allorché il Consiglio di Stato si è abilmente ritratto dall’esperire, così come richiestogli, una questione di rinvio pregiudiziale in relazione a norma dell’Unione sospetta d’incompatibilità con norma interna frutto di un’addizione da parte della Corte costituzionale. Altri esempi ancora, riguardanti sia l’una che l’altra Corte, potrebbero essere richiamati nel senso sopra indicato: ad es., la vicenda ATA, cui si è dietro fatto cenno, ha visto la decisione adottata dalla Corte costituzionale con sent. n. 311 del 2009 contraddetta sia dalla sentenza Agrati della Corte EDU che dalla (pur non in tutto coincidente) sentenza Scattolon della Corte di giustizia, le quali poi vanno – come si è veduto – messe a raffronto con la sent. n. 257 del 2011.

[49] Sul particolare rilievo acquistato dalla tecnica dell’autocitazione e sulle sue molteplici forme espressive rimando nuovamente allo studio di A. Saitta, sopra cit. Il decorso del tempo può poi giocare tanto nel senso di rendere disagevole per la Corte sottrarsi al condizionamento esercitato da precedenti convergenti e stringenti, quanto però nel verso opposto di allargare l’arena in cui possono farsi forti selezioni dei casi.

[50] Se, tuttavia, si guarda alla “normatività” dell’attività in parola, non sembra che essa si rinvenga unicamente nelle decisioni del giudice costituzionale (e, segnatamente, in alcune di esse, usualmente etichettate appunto come “normative”) o, ad ogni buon conto, in esse in più intensa misura rispetto a quella rinvenibile nei verdetti dei giudici comuni. Per l’aspetto della loro sostanza, insomma, appare forzato distinguere in modo netto le pronunzie, mettendo da una parte quelle dell’un giudice e dall’altra quelle degli altri. Piuttosto, si tratta di andare a vedere caso per caso se l’intervento, comunque “creativo”, del singolo operatore di giustizia – comune o costituzionale che sia – si mantenga al di qua ovvero si spinga oltre la soglia, pur se approssimativamente segnata, che separa ciò che è frutto d’“interpretazione” (pure in larga accezione) da ciò che è produzione pura e semplice di nuovo diritto.

[51] Il riferimento è, ovviamente, alla nota espressione coniata da P. Calamandrei del giudice comune quale “portiere” della Consulta.

[52] … prevenendosene l’insorgenza, grazie alla tecnica dell’interpretazione conforme, e, laddove ciò si dimostri impossibile, portandosi le antinomie stesse alla cognizione del giudice costituzionale.

[53] Tale dalla stessa Corte considerata (ad es., in sentt. nn. 93 del 2010 e 236 del 2011).

[54] … specie in Corte costituzionale e Corti europee: il modello, le esperienze, le prospettive, cit., 171 ss., e Interpretazione conforme e tutela dei diritti fondamentali, tra internazionalizzazione (ed “europeizzazione”) della Costituzione e costituzionalizzazione del diritto internazionale e del diritto eurounitario, in www.associazionedeicostituzionalisti.it, § 3.

[55] Su ciò, nondimeno, qualche ulteriore spunto nella chiusa di questa riflessione.

[56] Sul punto, le precisazioni che sono in T. Groppi, I diritti fondamentali in Europa e la giurisprudenza “multilivello”, inwww.astrid-online.it

 

, 12/2011.

[57] Nell’ipotesi ora presa in considerazione, è da ritenere che il giudice nazionale possa far luogo alla “non applicazione” della norma dell’Unione a seguito di rinvio alla Corte di giustizia: un rinvio d’interpretazione, ove coltivi la speranza di poter riconciliare per via interpretativa i materiali normativi in campo, conferendo dunque all’atto eurounitario un significato comunque compatibile (se non proprio conforme) rispetto ai principi fondamentali di diritto interno, ovvero un rinvio di validità, per il caso che giudichi impraticabile la soluzione da ultimo indicata e perciò solleciti una dichiarazione del giudice sovranazionale che accerti il contrasto della norma eurounitaria rispetto all’art. 4 del trattato. Allo stesso tempo, la Corte dell’Unione, in vista di poter offrire una risposta congrua e pienamente consapevole alla domanda postagli, non può fare a meno di attingere alla giurisprudenza nazionale (sia comune che costituzionale), se non altro al fine di poter stabilire se la norma di diritto interno sospetta di entrare in rotta di collisione con la norma eurounitaria si ponga, o no, quale principio fondamentale di diritto interno. Nessun giudice, insomma, può determinarsi in sovrana solitudine, senza “dialogare” con l’altro e, per questo tramite, pervenire alla soluzione richiesta dal caso. Anche per quest’aspetto, come si vede, si ha conferma del flusso di incessante trasmissione di dati dall’una all’altra sede giudiziaria, chiamate ad alimentarsi a vicenda in un circolo in seno al quale non v’è né priusposterius ma solo frammenti di materiali bisognosi di integrarsi e di sorreggersi l’un l’altro.

[61] Ma v., sul punto, le precisazioni di V. Sciarabba, La tutela europea dei diritti fondamentali e il giudice italiano, in www.forumcostituzionale.it. È poi da tener presente il caso che la Carta stessa si dimostri in grado di offrire una più “intensa” tutela (art. 53 della Carta e 6 TUE). Una evenienza alquanto problematica da giustificare per l’aspetto teorico, dal momento che, per un verso, la Carta dell’Unione richiede di essere intesa alla luce della CEDU e, per un altro verso, si ammette tuttavia che possa offrire maggiore protezione ai diritti. La qual cosa, a rigore, farebbe pensare ad una doppia e distinta interpretazione della Carta stessa: una prima volta, chiusa in se stessa; una seconda, invece, aperta ed orientata verso la Convenzione. Dopo di che si dovrebbe fare un raffronto tra gli esiti delle interpretazioni in parola, adottando i comportamenti conseguenti all’applicazione del canone della tutela più “intensa”. Ci si avvede, però, subito del carattere artificioso di una soluzione siffatta, laddove l’opzione metodicamente corretta è quella, su cui qui con convinzione s’insiste, della mutua, circolare alimentazione di tutti i materiali normativi (compresi quelli di origine interna) in campo.

Sta di fatto che, laddove – a seguire la lettera delle istruzioni della Carta dell’Unione – i giudici (e gli operatori in genere) dovessero ritenere essere più avanzata la protezione offerta dalla Carta stessa, si troverebbero ad essere sollecitati a rimettere rispetto ad essa in asse, per via d’interpretazione, la Convenzione; il che, poi, in buona sostanza, equivarrebbe ad un nihil obstat a non appiattirsi sulle posizioni assunte dal giudice di Strasburgo (così, quasi testualmente, ora G. Bronzini, La giurisprudenza multilivello dopo Lisbona: alcuni casi “difficili”, relaz. ad un incontro di studio su Le fonti normative e giurisprudenziali del diritto dell’Unione Euro pea, organizzato dal C.S.M., Roma 19 settembre 2011, 5 del paper, con richiamo ad un precedente scritto dello stesso A. apparso in Riv. crit. dir. lav., 4/2009). In una congiuntura siffatta, torna, come si vede, in campo quel criterio selettivo delle norme di natura assiologico-sostanziale al quale qui pure si ritiene di dover assegnare un cruciale rilievo al fine della ricostruzione dei rapporti interordinamentali, specie nel loro farsi “diritto vivente”; allo stesso tempo, come si è venuti dicendo, se ne ha una spinta vigorosa a far luogo a continue reinterpretazioni degli enunciati di questa o quella Carta attingendo alle soluzioni più adeguate alle pretese dei diritti, quali affermatesi in relazione ad altre Carte.