Antonio Ruggeri
La Corte
costituzionale “equilibrista”, tra continuità e innovazione, sul filo dei
rapporti con la Corte EDU*
Sommario: 1. Le ragioni di una scelta e le
basi metodico-teoriche dello studio, con specifico
riguardo alla impossibilità di far luogo a sistemazioni dei rapporti interordinamentali d’ispirazione formale-astratta,
le norme espressive di diritti fondamentali piuttosto richiedendo, per loro
indeclinabile vocazione, di essere sottoposte a confronto (e, se del caso,
“bilanciate”) in modo paritario, senza alcuna loro “graduatoria” secondo forma
o in ragione della loro provenienza. – 2. L’opzione per il criterio, di natura assiologico-sostanziale, che si volge alla ricerca della
norma idonea ad offrire la tutela più “intensa” ai diritti, di cui alle sentt. nn.
317 del 2009 e 113 e 245 del 2011,
con l’“intermezzo” però della sent. n. 80 del
2011, nella quale il criterio stesso è stranamente lasciato in ombra. – 3.
La pressione esercitata da una giurisprudenza sempre più “aggressiva” della
Corte EDU e il tentativo di contenerla posto in essere da Corte cost. nn.
236 e 257
del 2011. – 4. L’eloquente silenzio della più recente giurisprudenza in
merito alla soluzione delle antinomie tra CEDU e Costituzione, una sua lettura in
bonam partem, i
possibili riflessi di ordine processuale. – 5. L’ostinata, generalizzata
preclusione fatta ai giudici comuni in ordine all’applicazione diretta della
CEDU, i casi in cui essa è non solo possibile ma doverosa, i gravi inconvenienti
cui può dar luogo nella pratica giudiziale l’accoglimento del punto di vista
della Corte. – 6. Una succinta notazione finale, con riguardo agli equilibri di
ordine istituzionale (in ispecie, tra legislatore e
giudici) sottesi alla soluzione delle questioni trattate ed alle conseguenze
che possono aversene al piano della teoria della Costituzione e nelle pratiche
giuridiche poste in essere al servizio dei bisogni elementari dell’uomo, dei
suoi diritti, della sua dignità.
1. Le ragioni
di una scelta e le basi metodico-teoriche dello
studio, con specifico riguardo alla impossibilità di far luogo a sistemazioni
dei rapporti interordinamentali d’ispirazione formale-astratta, le norme espressive di diritti
fondamentali richiedendo, per loro indeclinabile vocazione, di essere
sottoposte a confronto (e, se del caso, “bilanciate”) in modo paritario, senza
alcuna loro “graduatoria” secondo forma o in ragione della loro provenienza
Quali i tratti più
salienti dei più recenti sviluppi dei rapporti tra Corte EDU e Corte
costituzionale?
Questo
il quesito che mi viene oggi posto, per rispondere al quale si rende necessario
fissare alcune premesse utili ad un proficuo svolgimento dell’analisi.
La
prima riguarda il punto di vista, vale a dire l’angolo visuale dal quale
si torna a riguardare ai rapporti stessi. Quello da me prescelto è il punto di
vista della Consulta; tenterò nondimeno di recuperare il punto di vista anche
della Corte di Strasburgo ragionando sulle indicazioni date dalla
giurisprudenza costituzionale, che a me pare si pongano comunque come
“consequenziali” a precedenti orientamenti delle Corti europee (per ciò che qui
specificamente importa, della Corte EDU)[1],
senza peraltro trascurare l’influenza che, per la sua parte e in una certa
misura, la stessa giurisprudenza nazionale è in grado di esercitare nei
riguardi degli ulteriori svolgimenti degli indirizzi delle Corti europee.
Per
quanto alla giurisprudenza comune (sia di merito che di legittimità) qui non
possa farsi specifico richiamo, mi pare nondimeno opportuno avvertire del
rilievo che essa pure, in modo significativo, acquista sotto più aspetti[2].
In disparte infatti la circostanza per cui continuano a farsi vedere taluni
casi di “ribellione” alle indicazioni provenienti dalla Consulta[3],
a testimoniare il peso che la giurisprudenza comune possiede è sufficiente
richiamare alla mente alcuni dati di comune esperienza, a partire da quello per
cui sono proprio i giudici comuni, ordinari ed amministrativi, a dar modo alla
Corte di definire e senza sosta mettere a punto il proprio magistero
costituzionale, delimitando dunque l’area entro cui esso può esercitarsi e
ponendo le basi sulle quali esso può poggiare[4].
Un
altro dato vorrei poi richiamare, sul quale si è già in altre sedi riflettuto
ma in merito al quale mi parrebbe opportuno un supplemento di analisi. Le
maggiori novità si sono infatti registrate sul versante dei rapporti della
nostra Corte con la Corte di Strasburgo piuttosto che con la Corte di
Lussemburgo; ciò che spiega la preferenza qui accordata per l’esplorazione di
questo campo di esperienza piuttosto che per l’altro.
La
cosa sembra avere una sua ovvia ragione nella circostanza per cui, mentre le
questioni di “convenzionalità” sono dallo stesso giudice delle leggi
sollecitate in modo pressante ad essergli sottoposte, una volta esperito senza
successo il tentativo d’interpretazione conforme, le questioni di “comunitarietà” (se così vogliamo seguitare a chiamarle, con
termine pure ormai inadeguato alla realtà istituzionale dell’Unione) sono per
norma risolte direttamente dal giudice comune.
Eppure,
senza nulla togliere alla bontà di questa spiegazione, essa persuade solo fino
ad un certo punto.
In
primo luogo, va rilevata l’esiguità dei casi in cui risulti denunziata davanti
alla Consulta la violazione di norme dell’Unione non autoapplicative,
a fronte dei casi in cui il giudice comune evidentemente trattenga presso di sé
la questione di “comunitarietà” risolvendola nelle
forme usuali della “non applicazione” della norma interna. In realtà, le norme
che la stessa Unione qualifica come “direttive”, al momento della loro
confezione, sembrano essere assai più numerose e, dunque, maggiormente
ricorrenti dovrebbero essere le antinomie con norme interne portate alla
cognizione della Corte. Come si spiega allora l’esito di queste vicende
processuali? Solo col fatto che sarebbe stato siglato un tacito patto tra
giudici comuni e Corte volto a non far da intralcio – fin dove possibile –
all’avanzata della normativa dell’Unione nel territorio della Repubblica e, con
essa, dell’integrazione europea[5]?
Possiamo
poi discutere circa la interna congruità della tesi fatta propria dal nostro
giudice delle leggi, col doppio regime stabilito, rispettivamente, per le norme
suscettibili e per quelle insuscettibili di essere portate ad immediata
applicazione.
Come
si è tentato di mostrare in altri luoghi, a seguito dell’eventuale caducazione della norma legislativa contraria a diritto
comunitario (o, come a me piace chiamarlo, “eurounitario”) e in attesa della
sua sostituzione con altra e più acconcia norma legislativa, il giudice non
potrebbe far altro che desumere (a rime più o meno “obbligate”…) dalla norma di
principio di origine esterna la regola valevole per il caso. Ma allora – torno
oggi a chiedermi – perché non dovrebbe essergli data ab
initio questa facoltà, senza dover per ciò
scomodare la Consulta?
Né
varrebbe osservare essere ben diversa la tutela offerta all’Unione con la
rimozione, una volta per tutte e con effetti generali, della norma che si pone
in violazione degli obblighi che ci vengono dall’Unione stessa rispetto alla
sua messa da canto dal singolo operatore e limitatamente al caso che gli è
sottoposto. Un ragionamento, questo, tuttavia singolare e francamente
eccentrico, sol che si consideri che, portato fino ai suoi ultimi, conseguenti
svolgimenti, dovrebbe determinare l’abbandono generalizzato dello stesso
meccanismo della immediata “non applicazione” delle norme interne incompatibili
col diritto sovranazionale, pur laddove dunque quest’ultimo si dimostri idoneo
a prendere il posto di quelle, per far posto sempre e comunque al meccanismo
dell’annullamento[6].
In
secondo luogo (e sul fronte opposto), meritano di essere considerati i casi in
cui le stesse norme della CEDU (e, generalizzando, di altre Carte dei diritti[7])
richiedono di essere portate ad immediata applicazione, se non altro in quanto
sostanzialmente coincidenti con norme eurounitarie self-executing (ma, su questo e su altri casi dirò
meglio più avanti).
Il
punto su cui maggiormente mi preme per il momento fermare l’attenzione riguarda
una circostanza che seguito a giudicare misteriosa, per la quale non si sono
avute questioni di costituzionalità originate dal sospetto superamento dei “controlimiti” da parte della normativa dell’Unione, una
normativa dunque che appare sempre, per sistema, immacolata agli
occhi dei giudici comuni[8].
La
cosa può anche far piacere a chi, come me, è persuaso che l’ulteriore avanzata
del processo d’integrazione europea sia un bene indisponibile, forse davvero
l’unico nella presente, disgraziata congiuntura internazionale, che possa
salvarci. Consiglierei a quanti temono che l’Unione possa far smarrire, se già
non l’ha fatto, la nostra identità nazionale (o, meglio, costituzionale), di
riflettere su questo dato di cruciale rilievo, senza preorientamento
alcuno, politico-ideologico o di dottrina.
In
realtà, a me sembra che prospettare – sia pure in casi eccezionali –
l’eventuale superamento dei “controlimiti” possa
anche tornare utile: non già però, così come stancamente dichiarano la Corte e
i suoi benevoli laudatores, allo scopo di
sbarrare le porte all’ingresso di norme eurounitarie
ritenute incompatibili coi principi fondamentali dell’ordinamento
costituzionale[9],
bensì allo scopo di estendere anche a tali norme quella “logica” del confronto
paritario (e, perciò, del paritario bilanciamento) con gli stessi principi
caratterizzanti l’identità costituzionale che a mia opinione in via generale
informa le relazioni interordinamentali (anche sul
versante dei rapporti con la CEDU), avuto specifico riguardo alle norme che,
per il fatto di dare riconoscimento a diritti fondamentali e, in genere, a beni
della vita costituzionalmente meritevoli di tutela, sono riportabili sotto la
“copertura” accogliente degli artt. 2 e 3 della Carta, nel loro fare “sistema”
con gli artt. 10 e 11 e coi principi restanti.
Non
posso ora tornare a dire le ragioni in nome delle quali le antinomie tra norme,
interne e/o esterne che siano, delle quali sia dimostrata la “copertura” da
parte dei principi suddetti non possono essere risolte, per sistema, né
in un senso né nell’altro, e cioè a beneficio di questa o quella norma[10].
Come la stessa giurisprudenza costituzionale ha efficacemente rilevato in una
sua nota pronunzia, la n. 317 del 2009[11],
si tratta sempre e soltanto di stabilire – ed è un riscontro, invero,
sommamente spinoso ed incerto – dove si appunta la più “intensa” tutela dei
diritti: non – si badi – del singolo diritto evocato in campo ma del “sistema”
dei diritti (e, più largamente, degli interessi o beni costituzionalmente
protetti)[12].
Come poi far luogo al riconoscimento della fonte (rectius,
della norma) che dia la tutela in parola è una questione ad oggi non convenientemente
dipanata (ma, su ciò, tornerò anche più avanti)[13].
Il
fatto poi che possano darsi circostanze in cui a dover recedere siano le norme
di origine esterna, con conseguente attivazione (ma limitatamente a singoli
casi) dei “controlimiti”[14],
non va a mio modo di vedere drammatizzato, quasi che all’esito di una vicenda
siffatta l’Italia si trovi obbligata a recedere dall’Unione ovvero che si
smarrisca l’identità costituzionale dell’Unione stessa. E ciò, per la medesima
ragione per cui l’identità nazionale non si perde ogni qual volta si faccia
luogo (ciò che, come si sa, avviene pressoché quotidianamente) ad operazioni di
bilanciamento tra principi o valori fondamentali, uno di essi obbligato a
recedere, del tutto o in parte, in un caso potendo invece in un altro vedersi
affermato.
Tornando
alla questione della possibile denunzia della violazione dei “controlimiti”, a me pare essere stata, quella dell’inerzia
giudiziale, tutto sommato una culpa felix.
Forse, infatti, se la questione fosse stata posta quando i tempi non erano
ancora sufficientemente maturi, la Corte avrebbe potuto essere tentata di darne
la soluzione in applicazione di quella “logica” di formale fattura, la cui
adozione è peraltro patrocinata da molti autori, che induce a qualificare le relazioni
interordinamentali ora in termini di separazione
delle competenze ed ora in termini di una, sia pure estremamente
circoscritta ed eccezionale, ordinazione gerarchica. E, invero, in quale
altro modo potrebbero essere sistemati i rapporti medesimi, una volta che si
convenga a riguardo del fatto che vi sono norme “superiori” (i principi
fondamentali di diritto interno) comunque invalicabili dalle norme
sovranazionali, tanto da risultare queste ultime “invalide” in caso della loro
inosservanza[15]?
Ebbene, proprio questa qualifica dimostra per tabulas
che il punto di unificazione delle relazioni tra gli ordinamenti sta nella
Costituzione, e solo nella Costituzione, che, pur se unicamente nei suoi
principi di base, si pone appunto a fondamento del “sistema” cui le relazioni
stesse danno vita.
Ora,
così è pure a mio modo di vedere, nel senso che, fissato in ambito interno
l’angolo visuale dal quale far luogo alla osservazione delle dinamiche
internormative, è pur sempre nella Costituzione il fondamento da cui si tiene
il nuovo sistema in progress che si viene maturando in seno alla (e per
effetto della) integrazione sovranazionale in corso. Solo che, abbandonando
ogni suggestione d’ispirazione formale-astratta, il punctum unionis è
nelle norme di valore per antonomasia della Carta, e specificamente nei
principi di libertà ed eguaglianza (dalla cui sintesi origina la giustizia), e
si rende palese specificamente nei fatti d’interpretazione, in occasione dei
quali si ha modo di toccare con mano fin dove si è ormai spinta l’integrazione
tra gli ordinamenti. Un’integrazione che rifugge da qualsivoglia
ordinazione gerarchica per sistema, in un senso o nell’altro ed a
beneficio dell’uno o dell’altro ordinamento, pur non escludendo di doversi
portare avanti altresì a mezzo di occasionali bilanciamenti interordinamentali,
idonei a risolversi in modo imprevedibile in astratto, in vitro, il loro
esito essendo piuttosto determinato in vivo, in ragione delle pretese
del caso[16].
Una integrazione che, dunque, attende di essere sollecitata ad ulteriori
avanzamenti, oltre che per effetto delle opportune iniziative adottate in sede
politico-istituzionale, anche (e in una rilevante misura) per effetto del
“dialogo” intergiurisprudenziale, come pure con una certa approssimazione è
usualmente chiamato[17].
Per
ciò che qui maggiormente preme rimarcare, pur non potendosi fare, in alcun caso
o modo, una “graduatoria” tra principi ugualmente fondamentali, si deve
tuttavia convenire a riguardo del fatto che il principio dell’apertura al
diritto internazionale e sovranazionale, risultante dagli artt. 10 ed 11, è,
sì, un principio-fine, gli obiettivi della pace e della giustizia tra le
nazioni ponendosi quali indeclinabili e caratterizzanti in modo stabile
l’azione politica dello Stato, ma è anche, strutturalmente, un principio-mezzo,
siccome servente nei riguardi della coppia assiologica
costituita da libertà ed eguaglianza, nella quale poi si specchia e
mirabilmente esprime quello che ai miei occhi appare essere un valore
autenticamente “supercostituzionale”, la dignità della persona umana[18].
Di
qui, la piana conclusione per cui ogni norma, quale che ne sia l’origine,
che, in relazione al caso, si dimostri essere maggiormente conducente
alla realizzazione dei valori suddetti può, all’esito di un’operazione di
bilanciamento che richiede di essere ogni volta rinnovata e verificata,
affermarsi a discapito di altra norma meno adeguata alle esigenze del caso
stesso.
Per
l’aspetto ora considerato (e senza nulla togliere alla specificità degli
ordinamenti e dei loro rapporti), nessuna differenza di “grado” può a mia
opinione farsi quanto alla condizione in ambito interno delle norme eurounitarie e delle norme convenzionali, avuto specifico
riguardo a quelle di esse che possano farsi vanto di godere della “copertura”
degli artt. 2 e 3, più e prima ancora che degli artt. 10 e 11. Di contro,
dottrina e giurisprudenza corrente assegnano, come si sa, alle une norme rango
“paracostituzionale”, siccome ritenute soggette alla osservanza dei soli principi
fondamentali (dei “controlimiti”, appunto), ed alle
altre rango “subcostituzionale”, essendo obbligate a
prestare ossequio a qualsivoglia norma costituzionale. Una sistemazione,
questa, che, alle volte, si presta piuttosto ad essere ribaltata su se stessa,
sol che si consideri che talune norme dell’Unione potrebbero non disporsi
dietro lo scudo protettivo degli artt. 2 e 3 della Carta, diversamente dalle
norme convenzionali che, per la materia trattata e per il modo della sua
trattazione, sembrano godere di siffatta protezione (senza peraltro escludere
quella che, per riconoscimento della stessa giurisprudenza, potrebbe loro
venire dallo stesso I c. dell’art. 10, in caso di sostanziale
“razionalizzazione”, da parte degli enunciati della Convenzione, di norme di
diritto internazionale “generalmente riconosciute”).
Non
insisto oltre sul punto, su cui mi è stato dato modo di intrattenermi in altri
luoghi. Mi è parso tuttavia opportuno qui prospettare, con ulteriori
precisazioni, il frutto di talune riflessioni di ordine metodico-teorico
altrove rappresentate e riguardanti le basi sulle quali, a mia opinione,
s’impiantano e svolgono le relazioni interordinamentali,
dal momento che si tratta quindi di stabilire se (e fino a che punto) risultino
rispetto ad esse convergenti gli indirizzi della giurisprudenza costituzionale
ovvero da esse, in maggiore o minore misura e con una certa evidenza, si
discostino.
Tornando,
infatti, alle complessive movenze ed alle più salienti espressioni della
giurisprudenza costituzionale, a me pare che il percorso da questa compiuto,
nelle ultime tappe che ne hanno scandito l’avanzamento, risulti essere solo in
parte e per alcuni versi lineare, mentre appaia per altri versi frammentario e
discontinuo, nonché ad oggi gravato da non lievi ed irrisolte aporie di
costruzione.
Passo
dunque adesso a segnalare qui unicamente i tratti maggiormente espressivi in un
senso o nell’altro (specie nel secondo), nello specifico intento di mettere in
primo piano i profili di novità riscontrabili nell’ultima giurisprudenza,
interrogandomi sulle implicazioni e gli ulteriori sviluppi che potrebbero anche
a breve aversene.
2. L’opzione
per il criterio, di natura assiologico-sostanziale,
che si volge alla ricerca della norma idonea ad offrire la tutela più “intensa”
ai diritti, di cui alle sentt. nn.
317 del 2009 e 113 e 245 del 2011,
con l’“intermezzo” però della sent. n. 80 del 2011,
nella quale il criterio stesso è stranamente lasciato in ombra
Quando
sono venute alla luce le famose sentenze “gemelle” del 2007 sulla CEDU, ho
ritenuto di poter rinvenire nel corpo di esse una oscillazione vistosa tra una
prospettiva d’inquadramento delle relazioni interordinamentali
di stampo formale-astratto ed una di stampo assiologico-sostanziale[19].
Mi pare che gli svolgimenti successivi avvalorino questa prima impressione.
Persino in un arco temporale ristretto, la Corte ha infatti avuto modo di
rimarcare e mettere in evidenza ora più gli uni ed ora gli altri profili
riconducibili alle prospettive suddette; alle volte, anzi, le oscillazioni in
parola si riscontrano persino all’interno di una stessa pronunzia.
Della sent. n. 317 ho
già detto per alcuni aspetti di cruciale rilievo. Vorrei ora solo aggiungere
che, per una singolare eterogenesi dei fini, l’obiettivo allora dichiaratamente
perseguito di sgravare le norme interne, sia pure – volendo – in casi
eccezionali, dell’obbligo di osservanza della Convenzione può rovesciarsi su se
stesso e l’arma messa in pugno agli operatori (e, segnatamente, ai giudici)
allo scopo di non far valere in talune congiunture il rispetto del diritto di
origine esterna può rivoltarsi, a mo’ di boomerang, portando all’esito
dell’affermazione della Convenzione persino a discapito della Costituzione.
La
Corte a tutt’oggi questo non l’ha dichiarato mai e, con ogni verosimiglianza,
non lo farà neppure in seguito, per la elementare ragione che è dalla
Costituzione (e solo da essa) che ritiene – come si dirà a momenti, a
torto – di trarre la propria legittimazione. Ha però già fatto qualcosa che,
prima dell’inaugurazione del filone (che va sempre più ingrossandosi) delle sue
pronunzie dedicate alla CEDU, non aveva mai fatto prima, apportando
significative e sia pur graduali innovazioni alla sua giurisprudenza pregressa
proprio per effetto dei richiami alla Convenzione[20].
Non so
quanto le due cose – il riconoscimento apertis
verbis del carattere meno avanzato della Carta costituzionale rispetto alle altre
Carte in fatto di salvaguardia dei diritti e la riproposizione del primato
della Costituzione, col costo (o col vantaggio?) tuttavia della sua
reinterpretazione orientata verso le Carte internazionali[21]
– meritino di essere tenute distinte, diciamo meglio nettamente distinte,
e quanto (e dove) invece finiscano col confluire l’una nell’altra, facendo in
buona sostanza tutt’uno. Quando si dice che la Corte “riscrive” con le sue
pronunzie il parametro costituzionale[22],
alle volte si enfatizzano ed esasperano i dati della realtà; è tuttavia
innegabile che in un siffatto argomentare vi sia un fondo di vero, anzi – ad
esser franchi – molto di vero. E la Corte sta mano mano
rivedendo, sia pure con aggiustamenti cautamente ed opportunamente fatti a
piccoli passi e sempre presentati nel segno della continuità, la sua
giurisprudenza sui diritti grazie ad una sensibilità e ad un’apertura verso il
diritto e la giurisprudenza di matrice europea ancora fino a poco tempo
indietro oggettivamente insussistente.
Ora, a
me sembra chiaro come, una volta ambientate le relazioni interordinamentali
su un piano sostanziale, alla ricerca della norma in grado di offrire la più
“intensa” tutela ai diritti, la ricerca stessa possa risolversi a beneficio di
qualsivoglia norma, indipendentemente dalla veste formale di cui è dotata o
dalla sua provenienza. D’altro canto, come si sa, è la stessa Convenzione a
richiedere di esser fatta valere laddove si dimostri idonea a colmare
strutturali carenze dell’ordinamento interno e, perciò, ad appagare nel modo
più “intenso” possibile le pretese vantate dai soggetti. Ed è di tutta evidenza
– a me pare – che, in tal modo, è la stessa Costituzione, pur laddove appaia
meno avanzata della Convenzione sulla via della salvaguardia dei diritti, a
realizzarsi appieno, nei suoi valori fondamentali di libertà ed eguaglianza,
per il modo con cui, serviti dalla Convenzione stessa, servono per la loro
parte, nel singolo caso, la dignità della persona offesa.
Come
ho avuto modo più volte di far notare negli ultimi tempi, riconoscendo la
propria finitezza ed imperfezione, la Costituzione realizza fino in fondo se
stessa, nella sintesi su basi di valore dei suoi principi di cui agli artt.
2 e 3, nel loro fare “sistema” col principio dell’apertura al diritto di
origine esterna.
Ora, è
singolare che del criterio della tutela più “intensa” non si faccia espressa
parola nella sent.
n. 80 del 2011, che pure costituisce un’autentica summa dell’indirizzo
giurisprudenziale relativo ai rapporti con la CEDU, mentre esso torni
prepotentemente alla ribalta nella di poco successiva sent. n. 113
dello stesso anno[23].
Una pronunzia, questa, che sta facendo molto discutere[24],
sotto più aspetti, tra i quali mi preme qui di accennare di sfuggita al ruolo
di prima grandezza del quale essa sollecita l’esercizio da parte sia del
legislatore che dei giudici comuni, già solo per il fatto che la manipolazione
del tessuto codicistico operata dalla Corte si è
trovata obbligata ad arrestarsi alla mera posizione di un “principio” che, a un
tempo, si consegna al legislatore per i suoi opportuni, necessari svolgimenti
ed ai giudici che, in attesa della compiuta ricucitura del tessuto stesso,
dovranno estrarre dal principio suddetto le regole maggiormente adeguate ai
singoli casi.
Sta di
fatto che l’impianto di formale fattura sotteso al giudicato è qui senza
rimpianti rimosso per far posto ad un impianto di carattere assiologico-sostanziale,
nell’intento di offrire la più adeguata tutela ai diritti. Alla certezza del
diritto, che si assume in tesi essere servita dal giudicato e che di
quest’ultimo dunque costituisce la giustificazione e il fine, sembra sostituirsi
la certezza dei diritti, che poi interamente si risolve ed afferma nella
loro effettività. Una contrapposizione tra “certezze” che è poi, dal mio punto
di vista[25],
meramente apparente, non potendosi dare, in alcun caso o modo, alcuna certezza
di diritto costituzionale che non faccia tutt’uno con la certezza dei
diritti costituzionali, anche di quei diritti – come si vede – che non sono
dalla stessa Costituzione in modo adeguato protetti e che pertanto fanno
appello ad altre Carte (qui, la CEDU) al fine della loro compiuta protezione ed
implementazione nell’esperienza.
Si
scopre così che il sistema costituzionale, sistema di valori fondamentali che
si tengono a vicenda e che, anzi, si fanno circolarmente rimando, già per la
loro compiuta ricognizione al piano dell’interpretazione quale preludio per una
parimenti compiuta affermazione al piano dell’applicazione, è per sua natura un
sistema plurale, vale a dire un sistema di sistemi, perché
“plurale” è la struttura della legge fondamentale della Repubblica che ha –
come si è veduto – uno dei suoi pilastri portanti nel principio dell’apertura
al diritto di origine esterna, un’apertura che si rende manifesta e realizza
alla sola condizione che il diritto stesso si dimostri effettivamente servente,
nei singoli casi, i valori di libertà ed eguaglianza e, in ultima istanza,
dignità.
Vedo,
ancora di recente, una testimonianza di quest’indirizzo (che – com’è chiaro – è
di metodo prima ancora che di teoria) a base delle relazioni interordinamentali nei loro concreti svolgimenti, nella sent. n. 245 del
2011, dove il riconoscimento fatto agli stranieri irregolari del diritto di
sposarsi trae giustificazione della propria esistenza proprio dal valore
“supercostituzionale” della dignità[26],
alimentandosi da suggestive indicazioni offerte dalla CEDU (e, perciò, a conti
fatti, dalla giurisprudenza di Strasburgo[27]).
3. La
pressione esercitata da una giurisprudenza sempre più “aggressiva” della Corte
EDU e il tentativo di contenerla posto in essere da Corte cost. nn.
236 e 257
del 2011
La
pressione esercitata dalla giurisprudenza convenzionale sul caso definito con
la sent. n. 113
è manifesta, riconosciuta dalla stessa pronunzia in parola, sicché non giova su
di essa qui ulteriormente indugiare. La stessa giurisprudenza ha poi avuto modo
di esprimersi, ancora di recente, in forme particolarmente incisive e vistose,
avvalorando in tal modo il crudo giudizio di una fine dottrina che l’ha
qualificata come “aggressiva”[28],
forme davanti alle quali non di rado la giurisprudenza ha in ambito interno
manifestato una deferenza non meramente di facciata[29].
Penso,
ad es., ai casi Maggio ed Agrati[30],
coi quali si sono in buona sostanza tagliate le gambe alla pratica, in alcune
sue espressioni fin troppo disinvolta e spregiudicata, dell’interpretazione
autentica a mezzo di leggi che in realtà molte volte dicono l’esatto contrario
degli atti “interpretati”[31].
È vero che la Corte di Strasburgo ha posto alcuni “paletti” all’applicazione
del punto di diritto da essa vigorosamente enunciato: non tanto – a me pare –
laddove ha circoscritto l’applicazione stessa ai soli casi in cui
l’interpretazione ope legis
interferisca con l’esercizio della giurisdizione[32],
quanto laddove ammette il possibile sacrificio dei diritti in presenza di
“imperiosi motivi d’interesse pubblico”, in relazione ai quali l’“aggressione”
nei confronti degli operatori nazionali si rende manifesta nel momento in cui
la Corte sovranazionale parrebbe volersi riservare l’ultima parola in ordine al
loro accertamento[33].
La
cosa deve far seriamente riflettere, dal momento che, ove la chiave di lettura
qui proposta dovesse considerarsi attendibile, si avrebbe a un tempo il rischio
della invasione del campo riservato al discrezionale apprezzamento degli organi
d’indirizzo politico e la certezza della invasione del campo riservato
agli organi giudiziari di diritto interno.
Discorro,
con riguardo alla prima evenienza, di un rischio, dal momento che il sindacato
sul “fatto”, in ispecie sulla ricorrenza di una
congiuntura eccezionale (diciamo pure, di vera e propria emergenza), non è
sottratto ai giudici[34],
per quanto entro limiti definiti in modo largamente sommario (in ultima
istanza, riportabili al canone della ragionevolezza, quale congruità appunto
della norma al fatto e di entrambi ai valori).
Discorro
poi, quanto alla seconda evenienza, di una certezza, dal momento che –
giusta la ricostruzione qui prospettata – si avrebbe una vera e propria ordinazione
gerarchica (e non già la mera distinzione funzionale) tra giudici, a
scapito di quelli nazionali (comuni e persino costituzionali) ed a beneficio
del giudice europeo, anche per ciò che concerne la ricostruzione dei lineamenti
di un contesto, quello interno, familiare agli uni più che (o anziché)
all’altro. D’altro canto, neppure è consentito accedere a cuor leggero
all’ordine di idee secondo cui gli apprezzamenti, in punto di fatto così come
di diritto, compiuti dai giudici nazionali sarebbero in tutto sottratti
all’ulteriore (e, se del caso, divergente) riscontro da parte del giudice
europeo, risultando altrimenti vanificato lo scopo della sua stessa
istituzione.
Non è
agevole stabilire (o, con maggior cautela, tentare di stabilire) come si
possa pervenire ad un equilibrio complessivamente appagante al piano delle
relazioni tra le sedi in cui si somministra giustizia, sia comune che
“costituzionale” (in larga accezione, siccome riferita sia ai tribunali
costituzionali che alle Corti europee, esse pure sempre più marcatamente
tendenti a proporsi come giudici materialmente costituzionali[35]).
Di una sola cosa sono tuttavia certo; ed è che, così come non si dà alcuna
ordinazione gerarchica per sistema tra… sistemi,
i conflitti internormativi richiedendo – come si è veduto – di essere ripianati
secondo la logica del bilanciamento paritario in ragione del caso, allo stesso
modo (e di conseguenza) non può darsi alcuna ordinazione gerarchica tra le
Corti, nessuna di esse potendo vantare l’insano proposito ad enunciare “verità”
indiscutibili di diritto costituzionale, ad avere insomma il privilegio di
poter dire l’ultima parola sulle questioni di diritto costituzionale. Se invece
così fosse, per un verso (ed inevitabilmente) si perverrebbe nuovamente a
quella sistemazione gerarchica tra ordinamenti che appare ripugnante alla loro
natura, specie per ciò che concerne le esperienze riguardanti la salvaguardia
dei diritti fondamentali, non potendosi ammettere che si diano enunciati volti
a dare il riconoscimento dei diritti stessi sovraordinati
ad altri enunciati parimenti espressivi di diritti fondamentali. Per un altro
verso, poi, la Corte di vertice si porrebbe – come mi sono sforzato di mostrare
in altri luoghi[36]
– quale una sorta di potere costituente permanente, riproponendosi in
termini ineludibili l’inquietante quesito di Giovenale su chi mai possa
controllare i controllori. Alla morsa stringente di questo interrogativo ci si
può invece sottrarre (o, quanto meno, è possibile esperire il tentativo di
sottrarsi) alla sola condizione – a me pare – che la partita possa aprirsi agli
esiti più varî, in ragione del caso, per il modo con cui le norme si combinano
in vista del conseguimento della soluzione di volta in volta maggiormente
adeguata al caso stesso, idonea a portare il sistema costituzionale – che, come
si è venuti dicendo, è sistema di sistemi – alle sue massime
realizzazioni, al servizio dell’uomo e dei suoi più pressanti bisogni, della
sua dignità.
Ora,
forse è proprio nella convinzione (sia pure inconfessata…)
che la sorte potrebbe non risultarle benigna che la Consulta ha ritenuto
opportuno far luogo ad alcune precisazioni, in merito agli svolgimenti dei suoi
rapporti con le Corti europee (e, segnatamente, con la Corte EDU), per quanto
essi risultino immersi – per dir così – in un contesto complessivo segnato da
attenzione e, talora, vera e propria deferenza nei riguardi di queste ultime.
Due le
decisioni recenti in cui essa si rende – a me pare – particolarmente manifesta.
Con
specifico riguardo alla retroattività delle leggi, la mina vagante messa in
circolo dalla ferma presa di posizione adottata a Strasburgo con la definizione
del caso Agrati è ora abilmente disinnescata da Corte cost. n. 257 del 2011,
laddove viene rinvenuta la giustificazione della normativa sub iudice nel fatto che essa si è limitata a recepire
un’indicazione della più recente giurisprudenza di legittimità, “nell’esercizio
di un potere discrezionale in via di principio spettante al legislatore e nel
quale non è dato ravvisare profili di irragionevolezza”. Una spiegazione che
tuttavia, perlomeno sul punto e nei termini in cui è formulata, non persuade
del tutto, altro essendo la presa di posizione a favore dell’uno o dell’altro
orientamento nel tempo manifestato dalla Cassazione ed altra cosa il fatto in
sé dell’interferenza nell’amministrazione della giustizia, paventata dal
giudice europeo e superabile unicamente, all’esito di un’operazione di
bilanciamento, in nome di quegli “imperiosi motivi d’interesse pubblico” che,
soli, come si è veduto, possono ad avviso del giudice europeo portare ad una
diversa definizione del caso. Dichiarando che “la finalità di superare un
conclamato contrasto di giurisprudenza, essendo diretta a perseguire un
obiettivo d’indubbio interesse generale qual è la certezza del diritto, è
configurabile come ragione idonea a giustificare l’intervento interpretativo
del legislatore”[37],
la Corte dà, in buona sostanza, ad intendere che leggi d’interpretazione autentica
possono pur aversi senza altro limite che non sia quello, usuale, della
conformità alla loro natura e della idoneità al raggiungimento dello scopo, che
è appunto quello di dare certezze agli operatori[38].
L’unico vero, “imperioso” motivo d’interesse generale è la certezza, dunque.
Nella
seconda decisione (di poco anteriore rispetto alla prima), la Corte fa poi
luogo ad una raffinata (e, come si vedrà, mascherata) operazione di distinguishing[39],
presentando quelle che, in realtà, sono delle vere e proprie novità (e
divergenze rispetto all’indirizzo adottato dalla Corte EDU) nel segno della
continuità rispetto alla pregressa giurisprudenza: un compito invero non
agevole e, alle volte, improbo; ma la consumata abilità nell’uso delle tecniche
decisorie e nella spendita delle risorse retorico-argomentative di cui l’organo dispone e di cui ha
dato ripetute prove[40]
consente all’organo stesso di superare l’ostacolo, pur se talora con un certo
affanno. E così, venendo incontro ad una pressante richiesta avanzata dalla più
sensibile dottrina[41],
della opportunità del cui accoglimento io stesso mi sono più volte dichiarato[42],
la Corte ha finalmente (con sent. n. 236 del
2011[43])
dato ad intendere che le indicazioni della giurisprudenza di Strasburgo non
sono da prendere per oro colato ma che valgono unicamente per la loro
“sostanza”: espressione ambigua, già presente in anteriori pronunzie e però in
queste ultime non portata alle sue conseguenti, pratiche applicazioni. Nella
decisione ora richiamata, per vero, la Corte non ci dice fino a che punto sia
dato all’operatore di diritto interno di discostarsi dagli orientamenti del
giudice europeo né a quali condizioni ciò trovi giustificazione: ad es., a mia opinione,
quanto meno nel caso in cui non si dia ancora un “diritto vivente” (in
ristretta e propria accezione, siccome riferito alla esistenza di un
consolidato indirizzo interpretativo in relazione al caso stesso). Anzi, a
rigore, la Corte neppure dichiara di allontanarsi dall’orientamento della Corte
europea; piuttosto, ne dà una ricostruzione tale da dimostrare (a suo dire…) che la decisione oggi adottata non urta con
l’orientamento stesso[44].
Non è tuttavia chi non veda come nella circostanza si dia una ricostruzione
dell’indirizzo interpretativo fatto proprio dal giudice europeo risultante da
una occulta, abilmente mascherata (e però… scoperta)
manipolazione dei dati di cui l’indirizzo stesso si compone[45].
E, invero, il carattere perentorio dell’affermazione di principio, contenuta
nella decisione della Corte europea sul caso Scoppola, in favore della
retroattività della legge penale maggiormente favorevole è qui temperato e
relativizzato nella sua portata a mezzo di una significativa aggiunta rimasta
tuttavia estranea all’orizzonte ricostruttivo avuto presente dal giudice di
Strasburgo, stabilendosi che in congiunture peculiari la retroattività in mitius possa andare incontro a deroghe o limitazioni[46].
La Consulta, insomma, conferma, sì, il principio ma ne ammette le possibili
eccezioni: né più né meno – per fare ora un raffronto con altre esperienze – di
ciò che si ha quando la Costituzione, dopo aver enunciato un principio, ne
prevede le deroghe, le “rotture”, come sono usualmente chiamate. E qui, a dirla
tutta, la Convenzione (rectius, il diritto convenzionale “vivente”)
si “rompe”. Né giova a far ritenere diversamente la circostanza per
cui, a giudizio della stessa Corte costituzionale, “la deroga all’applicazione
della legge sopravvenuta più favorevole al reo dovrebbe ritenersi
possibile anche per la giurisprudenza di Strasburgo”[47]:
dove l’utilizzo della forma verbale condizionale (non si sa, per vero, se
sfuggita alla penna dell’estensore o, di contro, se studiata ed accortamente
adoperata) la dice lunga, per un verso, sulla comprensibile cautela manifestata
dal giudice delle leggi ma anche, per un altro verso, sulla incertezza ed
instabilità della soluzione ricostruttiva proposta, della quale è perciò da
mettere in conto l’eventualità che possa (e, anzi, debba) essere rivista per
effetto di un divergente orientamento del giudice europeo[48].
La
manipolazione dell’orientamento giurisprudenziale (e, di riflesso, del dato
convenzionale) non sorprende, ad ogni buon conto, chi ha familiarità con le
esperienze della giustizia costituzionale. Quante volte, d’altronde, a base di
pronunzie manipolative dell’oggetto del giudizio, nondimeno presentate come
lecite (e, anzi, doverose) siccome non lesive della discrezionalità del legislatore,
non sta una previa, finemente argomentata, manipolazione del parametro? Ciò che
la Corte fa non di rado manipolando… se stessa,
ora offrendo l’interpretazione “autentica” (ma, in realtà, correttiva) del
proprio pensiero, così come in precedenza rappresentato, ora ancora facendo
luogo ad una incisiva selezione dei precedenti, ed ora in altri modi ancora[49].
Insomma,
nihil novi sub soli. La novità,
nondimeno, sta qui nella coraggiosa (o temeraria?) presa di distanza dalla
Corte europea, nei riguardi della quale, sia in precedenza e sia pure in
seguito (nella già ricordata sent. n. 245 del 2011,
adottata a ridosso della pronunzia, di cui si viene ora dicendo), la Consulta
ha mostrato, come si diceva, attenzione e non formale ossequio.
Non è
poi inopportuno rilevare che la “tecnica” messa ora in atto dal giudice
costituzionale non può che valere, allo stesso modo e nella identica misura,
anche per i giudici comuni, al di là ovviamente della circostanza per cui
diversa è la portata degli effetti dell’attività posta in essere dall’uno e
dagli altri giudici[50].
Per l’aspetto adesso considerato, infatti, non si vede perché mai ciò che è
consentito alla Corte non dovrebbe esser consentito ad altri giudici, tanto più
che – non si dimentichi – sono proprio questi ultimi ad avere le chiavi,
secondo la felice immagine di un’autorevole, non dimenticata dottrina[51],
che aprono le porte della Consulta.
Il
punto è di cruciale rilievo; e mostra che dall’ultima giurisprudenza
costituzionale viene un’ulteriore, significativa sottolineatura del ruolo che i
giudici comuni sono chiamati ad esercitare al fine di una equilibrata
definizione e ridefinizione, in ragione dei casi, delle relazioni interordinamentali.
Per l’aspetto
cui ora specificamente si guarda (e qualora i giudici comuni dovessero
raccogliere il messaggio loro inviato dal giudice costituzionale), sarebbero
dunque destinati a ridursi i casi di rimessione alla Corte delle questioni di
“convenzionalità”, per effetto di un uso vieppiù
raffinato delle tecniche interpretative.
L’interpretazione
conforme a CEDU da parte dei giudici è – come si sa – dalla Corte sollecitata a
diffuso, pressoché generalizzato utilizzo; e, naturalmente, ancora una volta,
questo vale per… la Corte stessa; solo che lo
strumento viene ad assumere nelle mani di quest’ultima una inusuale,
particolarmente densa, coloritura. Il giudizio di “conformità”, per un verso,
implica il riconoscimento della stabilità e chiarezza dell’indirizzo interpretativo
invalso a Strasburgo; per un altro verso, proprio in presenza di indirizzi che
constano di ripetute prese di posizione del giudice europeo, si rende possibile
(e, alle volte, pure necessario) attingere alle indicazioni maggiormente
rispondenti alle esigenze del caso e, dunque, come si faceva sopra notare, si
spiana la via alla selezione dei materiali giurisprudenziali utili ad una
soluzione del caso stesso che sia, a un tempo, appagante per i diritti e
conciliante tra Carte (e Corti), vale a dire incoraggiante l’ulteriore,
proficuo svolgimento del “dialogo” intergiurisprudenziale; infine, per un altro
verso ancora, dietro il paravento della “conformità” si consumano i pur
parziali scostamenti dalla giurisprudenza europea, che ne facciano nondimeno salva
la “sostanza” degli indirizzi.
Si
fermi, solo per un momento, l’attenzione sul punto.
L’affermazione
da ultimo fatta parrebbe risolversi in un ossimoro; così però, a ben vedere,
non è. La Corte infatti rende oggi, opportunamente, più flessibile l’approccio
con la giurisprudenza europea e parimenti duttili pertanto gli svolgimenti dei
suoi rapporti con la Corte di Strasburgo. L’interpretazione è sempre
“conforme”, non però all’intera giurisprudenza europea bensì unicamente
alla sua “sostanza”.
Non è
facile trasporre questa indicazione di metodo dal diritto vivente al diritto
vigente, dal piano dei rapporti tra le Corti a quello dei rapporti tra le
Carte. Si ha qui nuovamente conferma del fatto che ragionare delle fonti
e dei loro rapporti giova poco alla pratica giuridica ed appare – se posso
esprimermi con franchezza – rozzo per l’aspetto teorico-ricostruttivo. Ciò che
infatti conta sono le norme, non le fonti; e le norme si colgono
ed apprezzano – come si sa – al piano della teoria dell’interpretazione,
piuttosto che a quello della teoria delle fonti.
La conclusione è
che la ricognizione semantica degli enunciati della CEDU ammette margini di un
certo rilievo a beneficio degli operatori di diritto interno, per quanto – si
direbbe alla Consulta – non “sostanziali”; come si è tentato di mostrare
proprio col riferimento al caso definito dalla sent. n. 236,
così in realtà non è.
4. L’eloquente
silenzio della più recente giurisprudenza in merito alla soluzione delle
antinomie tra CEDU e Costituzione, una sua lettura in bonam
partem, i possibili riflessi di ordine processuale
Allo stesso tempo
in cui comincia, sia pur cautamente, a distinguersi dalle indicazioni della
giurisprudenza europea, la Corte costituzionale, per un verso, tiene ferma –
come si diceva – la linea di continuità in ordine al modo con cui si compongono
le antinomie tra norme convenzionali e norme interne[52],
mentre per un altro verso (e quasi per compenso) evita accuratamente di
riproporre talune affermazioni che, portate ai loro ultimi e conseguenti
svolgimenti, potrebbero dar luogo a gravi (forse, invero, irrisolvibili)
problemi ed a parimenti gravi tensioni di ordine istituzionale.
Mi riferisco ora
specificamente al fatto che, dopo le sentenze “gemelle”-bis del 2009 (e,
segnatamente, la n.
311), non è più ripetuta neppure per una volta l’affermazione per cui,
nella pur remota ipotesi[53]
che dovesse essere rilevato l’insanabile contrasto tra CEDU e Costituzione, la
Corte si troverebbe obbligata a sanzionare la prima nelle forme usuali, vale a
dire con la caducazione della legge di esecuzione “nella
parte in cui…”.
Come si vede, la
discontinuità nell’indirizzo giurisprudenziale può rendersi palese anche
attraverso il “non detto”. Né varrebbe opporre essere quella ora prospettata
una lettura forzata, così come invero non di rado si ha ogni qual volta si fa
leva non già su affermazioni puntuali, in positivo, bensì su silenzi o su
dichiarazioni comunque reticenti. Non può, infatti, considerarsi una mera
coincidenza la circostanza per cui in nessuna delle pronunzie successive alle
“gemelle”-bis si riproponga, come si diceva, lo schema collaudato della
possibile esposizione alla sanzione dell’annullamento delle leggi che danno
esecuzione ad obblighi internazionali, a motivo del mancato ossequio da esse
prestato alle norme costituzionali in genere.
Se la ipotesi
ricostruttiva ora prospettata, sia pure – per doverosa cautela – in termini
dubitativi, dovesse risultare attendibile, della qual cosa ovviamente si
attende conferma alla prima occasione utile, se ne ha che la Corte potrebbe
optare, in vece dell’annullamento suddetto, per la soluzione alternativa di
dichiarare la mera inidoneità della norma convenzionale contraria a
Costituzione a fungere da fonte interposta, ovverosia ad integrare il parametro
di cui al I c. dell’art. 117 cost. La norma stessa, insomma, secondo una
proposta da me in più scritti affacciata[54],
diverrebbe “irrilevante” per la soluzione del caso: né più né meno di
come, ad es., lo è, per la stessa giurisprudenza, una norma interna contraria a
diritto eurounitario.
I benefici effetti
della soluzione in parola si fanno apprezzare sotto più aspetti ed a più piani
di esperienza.
Per un verso, si
eviterebbe l’esito inquietante di dover assistere alla caducazione,
con la norma acclarata come incostituzionale,
della disposizione che la racchiude ed esprime. È infatti un dato di
comune acquisizione quello per cui, ogni volta che la Corte fa luogo alla
dichiarazione d’illegittimità costituzionale di una norma di legge, cade la
norma e cade anche il testo. Non dovrebbe, a mia opinione, esser così,
confondendosi in tal modo inammissibilmente l’effetto
di annullamento con l’effetto di abrogazione (segnatamente, di abrogazione
nominata) e, per ciò stesso, i ruoli rispettivamente giocati dai giudici (sia
pure da giudici peculiari, quali sono quelli costituzionali) e dal legislatore.
Sta di fatto che le cose stanno ormai così come si sono ora succintamente
rappresentate; ed allora l’idea che possa (e, anzi, debba) esser messo da canto
un enunciato convenzionale non solo nel significato incostituzionale ma in ogni
suo, astrattamente immaginabile e concretamente desunto, significato appare
francamente ripugnante.
Per un altro verso
(e in conseguenza dell’esito appena descritto), lo scontro con la Corte europea
sarebbe di una inusitata durezza, con risvolti imprevedibili per l’ulteriore
svolgimento delle relazioni tra le Corti stesse, laddove a seguire la tesi qui
nuovamente prospettata esso potrebbe essere almeno in parte attutito, nella
consapevolezza che il disposto convenzionale, recessivo in una sua norma e per
un caso, potrebbe tornare in un altro caso a farsi interamente valere.
Tutto ciò posto,
va nondimeno avvertito che l’ipotesi della dichiarazione d’incostituzionalità
di norma convenzionale, già dalla stessa Corte – come si è rammentato –
giudicata come remota, riconsiderata oggi alla luce dell’ultima giurisprudenza,
appare ancora più eccezionale, praticamente insussistente, vuoi a motivo della
connotazione a maglie larghe (o larghissime) della struttura degli enunciati
della CEDU (analogamente, del resto, al modo con cui sono fatti molti degli
enunciati costituzionali) e vuoi (e soprattutto) a motivo del fatto che, con
specifico riguardo al modo con cui la Convenzione si esprime per bocca della
sua Corte, dopo la sent. n. 236 del
2011 non si esclude più – come si è veduto – che ci si possa alla bisogna
discostare dagli indirizzi interpretativi invalsi a Strasburgo. E quale
occasione potrebbe perciò apparire migliore di quella di evitare di dover
dichiarare l’incompatibilità rispetto alla Costituzione di una norma
convenzionale così come affermatasi nelle sue pratiche applicative invalse a
livello europeo?
Altra cosa è poi
stabilire se l’accertamento della “irrilevanza” della norma convenzionale al
fine della definizione del caso competa in via esclusiva al giudice delle
leggi, al quale dunque il giudice comune sarebbe in una congiuntura siffatta
tenuto a rivolgersi, ovvero se possa essere – perlomeno in taluni casi –
effettuato direttamente da quest’ultimo giudice. Mi pare che la risposta al
quesito dipenda dal modo con cui in generale sia impostata la questione
concernente l’applicazione diretta della CEDU nelle sedi in cui si somministra
la giustizia comune, in merito alla quale tornerò ad intrattenermi, sia pure in
modo assai sbrigativo, di qui a breve. Per ciò che posso ora dire, è chiaro
che, ammettendosi l’eventualità dell’applicazione diretta, in essa rientra pure
il previo accertamento in parola. L’applicazione diretta, insomma, implica il
suo contrario, la disapplicazione (o, se si preferisce dire, la “non
applicazione”). Di contro, escludendosi in partenza l’una non può che
escludersi, per lineare conseguenza, l’altra. Quali infine siano gli equilibri
di ordine istituzionale (segnatamente, al piano dei rapporti tra giudici comuni
e Corte costituzionale ma con riflessi anche al piano dei rapporti con la Corte
europea per un verso, col legislatore per un altro) è cosa evidente, la cui
illustrazione non giova all’economia di questo studio ed al corto orizzonte
teorico che esso si è posto[55].
È appena il caso
poi qui di rilevare, sia pure di sfuggita e rimandando per maggiori svolgimenti
argomentativi sul punto ad altre sedi, che la soluzione ora patrocinata sul
terreno dei rapporti tra Costituzione e CEDU può pari pari
trasporsi altresì al piano dei rapporti col diritto eurounitario. E ciò, oltre
che per le ragioni sopra enunciate, altresì per il fatto che, dopo Lisbona, il
principio del primato del diritto dell’Unione sul diritto interno (anche
costituzionale!) non è più affermato in termini perentori, senza eccezione
alcuna[56].
Di contro, è lo stesso trattato vigente (art. 4) che fa obbligo all’Unione di
prestare ossequio ai principi di struttura che danno l’identità costituzionale
degli Stati membri. In presenza di una norma eurounitaria
che porti disprezzo ai “controlimiti”, non è dunque
luogo per dichiarare l’illegittimità costituzionale della legge di esecuzione
del nuovo trattato “nella parte in cui…”, dal
momento che è proprio il trattato stesso a volersi mettere in asse (e, con
esso, a mettere in asse l’intero diritto sovranazionale) rispetto ai principi
fondamentali di diritto interno. Il trattato, insomma, non vuole il primato del
diritto dell’Unione a tutti i costi e non merita perciò di essere
sanzionato; merita, di contro, di essere applicato, per il modo con cui il
principio enunciato nell’art. 4 fa “sistema” coi principi restanti[57].
5. L’ostinata,
generalizzata preclusione fatta ai giudici comuni in ordine all’applicazione
diretta della CEDU, i casi in cui essa è non solo possibile ma doverosa, i
gravi inconvenienti cui può dar luogo nella pratica giudiziale l’accoglimento
del punto di vista della Corte
Per amore di
verità, va riconosciuto, anche da parte di chi – come me – non conviene su
molte delle conclusioni raggiunte dalla Corte costituzionale, che su poche cose
la Corte stessa appare ferma come a riguardo della preclusione fatta ai giudici
comuni di fare applicazione diretta della CEDU al posto della necessaria
proposizione di questione di legittimità costituzionale[58].
Ora, senza
sovraccaricare di indebite attese alcune affermazioni fatte qua e là, così come
alcune “non affermazioni”, mi pare tuttavia di poter intravedere nei tratti già
evidenziati dell’ultima giurisprudenza i segni (se non di un vero e proprio
ribaltamento) di una possibile e sia pur parziale (e, nondimeno, significativa)
correzione della giurisprudenza stessa, del suo complessivo aggiustamento
insomma.
D’altronde, come
si è tentato fin qui di mostrare, la giurisprudenza in parola appare ad oggi
attraversata da un moto interno incessante, alla ricerca di un suo ubi consistam che
sembra ancora ben lontano dal suo conseguimento e riscontro.
La flessibilizzazione dei rapporti tra le Corti e di queste
coi giudici comuni, con la conseguente, accresciuta valorizzazione e
responsabilizzazione del ruolo di questi ultimi, spinge, per la sua parte,
nella direzione ora indicata.
Non mi prefiguro
l’esito, caldeggiato da una sensibile dottrina e dalle punte più avanzate della
giurisprudenza comune, di un generalizzato, indistinto accoglimento della tesi
favorevole all’applicazione diretta[59].
Si danno tuttavia dei casi in relazione ai quali l’applicazione stessa mi
parrebbe obbligata, pianamente discendente da premesse metodico-teoriche
indiscutibili, sulle quali la stessa giurisprudenza (invero, con assai dubbia
coerenza con se stessa) conviene[60].
Il primo di essi è
dato dalla sostanziale coincidenza tra norma convenzionale e norma eurounitaria, segnatamente della Carta di Nizza-Strasburgo, giudicata self-executing[61].
Non si trascuri al riguardo la circostanza che l’ipotesi è espressamente presa
in considerazione dalle spiegazioni allegate alla Carta stessa e, soprattutto,
che è sempre tale Carta a voler essere intesa, sia pure a discapito dei canoni
usuali d’interpretazione[62],
conformemente alla CEDU. La “comunitarizzazione”
della Convenzione – com’è usualmente chiamata – dovrebbe dunque avere sempre
più diffuse applicazioni e, con essa, la tecnica dell’immediato utilizzo della
Convenzione stessa nelle esperienze della giustizia comune[63].
Né varrebbe
opporre – come invece usualmente si fa – che l’ambito dell’applicazione della
Carta dell’Unione appare esser delimitato in ragione delle competenze spettanti
all’Unione stessa[64],
ove si consideri il processo di crescente e vistosa espansione delle competenze
medesime per effetto, oltre che delle innovazioni man mano apportate ai
trattati (e con le procedure da questi stabilite), di una giurisprudenza
(comunitaria prima e ora) eurounitaria che ha non di
rado fatto oggetto d’interpretazione estensiva le previsioni dei trattati
stessi[65].
Le quali previsioni, poi, per loro strutturale conformazione e vocazione, si
presentano assai duttili ed attraversate da un moto interno incessante, del
quale rendono continue testimonianze le pratiche interpretative invalse a
Lussemburgo (e, in parte, anche in ambito interno), che è il moto stesso degli
interessi, con la loro camaleontica natura, nel cui nome sono state – come si
sa – di frequente attratte (in sussidiarietà ovvero per via d’interpretazione)
a beneficio dell’Unione porzioni consistenti dei campi materiali
tradizionalmente soggetti all’esclusivo dominio degli Stati.
La circostanza poi
secondo cui potrebbe esser denunziata davanti al giudice la violazione della
sola norma convenzionale (e non pure di quella eurounitaria)
nulla toglie alla validità della soluzione ora prospettata. La conoscenza del
diritto dell’Unione fa parte del bagaglio culturale di cui il giudice è tenuto
a dotarsi[66]
e degli impegni cui è istituzionalmente chiamato (il carattere largo del
principio iura novit
curia, esteso ormai anche al diritto di origine esterna, non si discute);
pochi dubbi possono perciò sussistere a riguardo del fatto che, ponendosi una
questione che sia, a un tempo, di “convenzionalità” e di “comunitarietà”[67],
il giudice dovrebbe dar la precedenza alla tecnica della “non applicazione”
piuttosto che a quella della denunzia della illegittimità costituzionale della
norma interna contraria ad entrambe le Carte europee.
Non m’intrattengo
poi su altre evenienze pure prospettabili, quale quella di norma convenzionale
idonea a prendere subito il posto di contraria norma legislativa anteriore, che
ne risulti perciò tacitamente abrogata[68].
Reputo piuttosto opportuno far riferimento ad altre due ipotesi, sulle quali
vorrei sollecitare un supplemento di approfondimento teorico.
La prima si ha per
il caso che tra norma interna e norma convenzionale non si dia un vero e
proprio contrasto, quanto piuttosto una “graduata” tutela ai diritti, idonea in
tesi a risolversi a beneficio della norma di origine esterna[69].
Nel qual caso, non dandosi un’antinomia in senso proprio non sarebbe comunque
possibile il ricorso alla Consulta, così come quest’ultimo ugualmente non
potrebbe aversi laddove entrambe le norme suddette si considerino (se non
proprio conformi) compatibili rispetto alla Costituzione. In altri termini,
nella evenienza sopra descritta dovrebbe farsi questione non già della
soluzione da dare a un conflitto, in realtà insussistente, bensì della mera
individuazione della norma giusta per il caso e che richiede appunto di essere
a quest’ultimo applicata.
La seconda ipotesi
riguarda poi l’eventualità che faccia difetto una previsione normativa di diritto
interno e che pertanto si possa far subito applicazione di previsione
convenzionale idonea a colmare il vuoto legislativo[70].
Trovo al riguardo
singolare che a ciò si opponga una dottrina che pure con vigore patrocina
l’applicazione diretta della Costituzione: quasi che possa darsi, sullo
specifico terreno su cui maturano le esperienze cui si fa ora riferimento, una
differenza di sostanza o di regime tra la Carta costituzionale e le Carte
internazionali (e, tra queste, la CEDU).
La cosa appare poi
ancora più singolare se si considera che la stessa Costituzione richiede di
esser interpretata e senza sosta aggiornata alla luce delle suggestioni
provenienti dalle Carte (e dalle Corti) europee. Secondo una felice intuizione
manifestata già da Corte cost. n. 388
del 1999, pur se non adeguatamente esplicitata e portata ad effetto nella
posteriore giurisprudenza, Costituzione e Carte internazionali dei diritti “si
integrano, completandosi reciprocamente nell’interpretazione”. Una parità di
condizioni tra Carte, quella sottesa al punto di diritto ora richiamato, che fa
a mia opinione a pugni con la qualifica data della CEDU quale fonte “subcostituzionale”[71],
mentre s’inscrive armonicamente in quel quadro sistematico aventi basi assiologico-sostanziali che – come si è veduto – ha la sua
emblematica espressione nel criterio della ricerca della tutela più “intensa”
dei diritti, fissato nella già cit. sent. n. 317 del
2009.
Al di là di come
si vedano le cose al piano teorico-ricostruttivo, quel che solo conta nella
pratica è che si faccia talora applicazione diretta di norma costituzionale. Il
fatto poi che essa sia debitrice di indicazioni venute dalle Corti europee (e,
segnatamente, dalla Corte di Strasburgo), come peraltro sempre più di frequente
è dato riscontrare, ha rilievo al piano – diciamo così – culturale,
dell’analisi teorica appunto; il risultato pratico nondimeno non cambia, e con
esso l’effetto di un uso magis ut valeat tanto del diritto
di origine esterna quanto del diritto interno (anche costituzionale), nel loro
mutuo implicarsi e nello stesso immedesimarsi nei fatti interpretativi.
V’è poi un dato
cui è da assegnare uno speciale rilievo, per quanto fin qui non tenuto nel
debito conto anche dalla più avvertita e sensibile dottrina; ed è che, non
acconsentire all’applicazione diretta della CEDU, pur se limitatamente ad
alcuni casi, rischia di tradursi in gravi degenerazioni della pratica
giudiziale, in ispecie in talune esasperate soluzioni
interpretative che mascherano sotto le candide vesti dell’interpretazione
conforme quelle che in realtà sono corpose manipolazioni della sostanza
normativa degli atti di diritto interno[72].
Si faccia caso
come a quest’esito non si sottragga la stessa Costituzione.
Consapevole del
fatto che una certa disposizione convenzionale, nel suo farsi “diritto vivente”
per bocca della Corte EDU, possa apparire sospetta di violare la Carta
costituzionale e timoroso che, denunziando la violazione stessa al giudice
delle leggi, questi possa rilevarla, il giudice comune potrebbe essere non di
rado indotto a riconciliare a forza i materiali normativi in campo nel senso
sopra indicato. Non è detto, insomma, che l’adattamento interpretativo si abbia
riportando l’enunciato di origine esterna “subcostituzionale”
al parametro costituzionale; alle volte può aversi anche l’inverso. È un dato,
peraltro, di comune esperienza quello per cui l’interpretazione della legge
conforme a Costituzione prende talora forma in modo distorto, adeguandosi la
Costituzione alla legge, non la legge alla Costituzione[73].
La gerarchia delle fonti, che vede la seconda sovraordinata
alla prima, si rovescia su se stessa e cede in tali casi il campo ad una gerarchia
culturale che vede la prima prevalere sulla seconda. In realtà, la
ricostruzione delle movenze in seno al circolo interpretativo dovrebbe
rifuggire da soluzioni comunque trancianti, in un senso o nell’altro, dal
momento che mentre la teoria delle fonti, nelle sue più diffuse
rappresentazioni, fa uso, a finalità sistematica, di schemi di tipo verticale,
ispirati a gerarchia secondo forma, la teoria dell’interpretazione è – come si
sa –, per sua indeclinabile vocazione, circolare, risentendone dunque il verso
e l’esito del processo ermeneutico, il modo di essere complessivo di essere e
di rinnovarsi della “conformità” insomma.
6. Una succinta
notazione finale, con riguardo agli equilibri di ordine istituzionale (in ispecie, tra legislatore e giudici) sottesi alla soluzione
delle questioni trattate ed alle conseguenze che possono aversene al piano
della teoria della Costituzione e nelle pratiche giuridiche poste in essere al
servizio dei bisogni elementari dell’uomo, dei suoi diritti, della sua dignità
Dovrebbe, a questo
punto, allargarsi il raggio della riflessione a profili che, di necessità, sono
qui obbligati a restare nell’ombra, ai quali dunque mi limito solo a fare un
cenno rimandando, ancora una volta, ad altri luoghi per la loro adeguata
considerazione.
Basti solo pensare
a quello che, nel discorso che sono venuto facendo, è il grande “assente”, il
legislatore, la cui sfera di competenza e il dominio a questi sulla stessa
riservato soggiacciono a forti condizionamenti di vario segno a seconda di come
si ambientino e risolvano le questioni che si sono via via
trattate.
Si ponga mente
solo allo stress cui il potere sovrano per antonomasia è quotidianamente
soggetto per effetto di quelle manipolazioni della sostanza normativa racchiusa
nei testi di legge, cui si è ancora da ultimo fatto cenno. Chi si interroghi
sui riflessi di ordine istituzionale di questa o quella delle soluzioni sopra
prospettate non può, di tutta evidenza, fare a meno di guardare anche alla
faccia nascosta della luna, se non altro al fine di non ingenerare o alimentare
l’erroneo convincimento che i rapporti interordinamentali
siano prevalentemente, se non pure esclusivamente, rimessi in ordine alla loro
compiuta definizione ed all’opportuno aggiornamento, in ragione dell’evolversi
dei contesti, al solo “dialogo” intergiurisprudenziale. Certo, le Corti hanno
fatto (e seguitano senza sosta a fare) molto; e credo che nessuno possa, con
onestà d’intelletto, negarlo. Vi sono però delle scelte di campo, che segnano
il travagliato cammino dell’integrazione sovranazionale, che non possono che
essere rimesse alla politica ed ai suoi protagonisti.
Si dà una
naturale, necessaria e non altrimenti fungibile, tipizzazione dei ruoli tra
legislatore e giudici (più in genere, tra attori politico-istituzionali ed
operatori, anche ma non solo aventi funzioni giurisdizionali), che nondimeno
non esclude – a certe condizioni ed entro certi limiti – l’intervento
“sussidiario”, nell’esercizio di una “supplenza” il più delle volte non
gradita, comunque sofferta ed obbligata, dei secondi al primo, di cui rendono
emblematica testimonianza i casi di applicazione diretta della Costituzione[74].
Sta, ad ogni buon conto, in siffatta tipizzazione dei ruoli il nucleo di verità
racchiuso nel principio della separazione dei poteri, nelle sue plurime
espressioni nel corso della storia dell’uomo (specificamente nei paesi
occidentali)[75];
ed è – come si sa – un nucleo non riducibile, irrinunciabile, se si ha a cuore
di preservare e trasmettere integra anche alle generazioni che verranno l’idea
di Costituzione, per come l’abbiamo ereditata dai rivoluzionari di fine
settecento e, pur con non secondari aggiustamenti, realizzata specie dopo la
tragedia della seconda grande guerra[76].
Ora, il
mantenimento dell’equilibrio tra le sedi istituzionali è di vitale rilievo, non
solo – come si è venuti dicendo – allo scopo di salvaguardare la forma di
governo propria dei singoli ordinamenti ma, di più, allo scopo di tener ferma
la forma di Stato e, con essa, un certo modo d’intendere e praticare i rapporti
tra comunità governata ed apparato governante: in ultima istanza, per ciò che
qui specificamente importa, allo scopo di offrire ai diritti la più “intensa”
tutela che, prima ancora che venire dalla pur altamente meritoria opera
quotidianamente posta in essere dai giudici, viene da enunciati normativi fermi
e chiari nelle indicazioni che danno agli stessi giudici, tracciando il solco
lungo il quale può, nel modo più lineare possibile, scorrere una giurisprudenza
votata al servizio dell’uomo.
Ecco perché la
questione che siamo oggi nuovamente tornati a discutere ha, se ci si pensa, una
proiezione ben più ampia di quella che pure è ad essa dalla più sensibile ed
accorta dottrina riconosciuta. Ed è così, per la elementare ragione che dalla
sua soluzione dipende la messa a punto e la realizzazione, per un verso,
dell’idea di Costituzione di cui ci facciamo portatori ed interpreti e, per un
altro verso (ed allo stesso tempo), del modo con cui intendiamo e mettiamo in
pratica il ruolo cui tutti, studiosi ed operatori, siamo chiamati, con diversi
ruoli e responsabilità ma accomunati dal fermo proposito di venire incontro,
nel modo più adeguato possibile alle condizioni complessive di contesto, ai
bisogni elementari dell’uomo, ai suoi diritti fondamentali, alla sua dignità.
* Testo rielaborato (e corredato di un
minimo apparato di richiami bibliografici) di un intervento all’incontro di
studio su Rapporti tra Corte di
giustizia, Corte europea dei diritti dell’uomo e Corte costituzionale. Qualcosa
è cambiato?, organizzato da O. Pollicino e svoltosi presso l’Università “L. Bocconi” di
Milano il 15 ottobre 2011, in corso di stampa in Dir. pubbl. comp. eur.
[1] In argomento, in prospettiva comparatistica, v., utilmente,
AA.VV., The National Judicial Treatment
of the ECHR and EU Laws. A Comparative Constitutional Perspective, a cura di G. Martinico
e O. Pollicino, Groningen 2010, e G. Martinico - O.
Pollicino,
The Impact of the Protection of Human
Rights by the European Courts on the Italian Constitutional Court, in
AA.VV., Human Rights Protection in the
European Legal Order: the Interaction between the European and the National
Courts, a cura di P. Popelier - C. Van De Heyning - P.
Van Nuffel, Cambridge 2011, 65 ss.
[2] Una vigorosa sottolineatura del
ruolo giocato dai giudici comuni e che, in modo ancora più intenso, sono
sollecitati ad ulteriormente esercitare è nella monografia di recente portata a
compimento da R. Conti ed edita
per i tipi della Aracne, dal titolo assai indicativo,
La Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Il ruolo dei giudici, Roma
2011, nonché in molti altri scritti, tra i quali, da ultimo, La scala reale della Corte
Costituzionale sulla tutela della CEDU nell’ordinamento interno, in Corr. giur.,
9/2011, 1243 ss., dov’è un accurato esame delle più recenti pronunzie della
Consulta in fatto di rapporti tra diritto interno e CEDU, cui qui pure si
presta attenzione.
[3] Riferimenti, oltre che nella
monografia sopra cit. di R. Conti,
in I. Carlotto,
I giudici comuni e gli obblighi
internazionali dopo le sentenze n. 348 e n. 349 del 2007 della Corte
costituzionale: un’analisi sul seguito giurisprudenziale (Parte I), in Pol.
dir.,
1/2010, 41 ss. e, ora, A. Guazzarotti, I
diritti fondamentali dopo Lisbona e la confusione del sistema delle fonti,
in www.associazionedeicostituzionalisti.it,
3/2011 e F. Liberati, Corte costituzionale e Convenzione europea
dei diritti dell’uomo: sostenibilità del modello di controllo accentrato di
costituzionalità alla luce della recente giurisprudenza e delle novità in
ambito comunitario, in www.federalismi.it,
13/2011.
[4] D’altro canto, è noto il cruciale
rilievo esercitato dalla “domanda”, per il modo con cui è posta dall’autorità
remittente, al fine della determinazione della “risposta” da parte del giudice
costituzionale, che si trova – come si sa – non poche volte obbligato a
rigettarla proprio perché essa è mal formulata, malgrado esprima una innegabile
esigenza di giustizia costituzionale.
[5] Come si dirà a momenti, anche questa
spiegazione regge tuttavia solo fino a un certo punto, se si conviene a
riguardo della opportunità di sdrammatizzare gli eventuali conflitti tra le
norme dei due ordinamenti, in applicazione della logica dei bilanciamenti
secondo i casi e su basi di valore.
[6] È poi pur vero che quest’ultimo, a
differenza del meccanismo della “non applicazione”, mette in mora il
legislatore, sollecitandolo al rifacimento del tessuto normativo lacerato dalla
Corte a motivo della sua acclarata incompatibilità
col diritto sovranazionale; una messa in mora, peraltro, che non dispone – come
si sa – di efficaci strumenti a suo sostegno, dal momento che avverso le omissioni
assolute del legislatore non v’è rimedio che valga.
[7] Le questioni di seguito poste e le
soluzioni per esse prospettate, per un verso, appaiono essere non dissimili
anche con riguardo a Carte diverse dalla Convenzione (così, ad es., per ciò che
concerne la “copertura” di cui tutte godono dagli artt. 2 e 3 cost., ancora
prima che dall’art. 117, I c.); per un altro, però, talune indicazioni
contenute nel trattato di Lisbona (specie per ciò che concerne
l’interpretazione della Carta di Nizza-Strasburgo “orientata”
verso la CEDU o la prevista adesione a quest’ultima da parte dell’Unione)
rendono non comune il regime della Convenzione stessa rispetto alle altre
Carte. A taluna di tali questioni si riserverà un cenno più avanti.
[8] Il dato ha la sua importanza; e,
tuttavia, non appare decisivo, sol che si pensi che la stessa Corte, quando ha
voluto, ha ridefinito, anche con sostanziali aggiunte, i termini delle
questioni che le sono state sottoposte (e – si faccia caso – già in tempi ormai
risalenti: ad es., con sent. n. 120 del
1967). Ad ogni buon conto, ha – come si sa – di frequente offerto
indicazioni assai eloquenti agli operatori circa il modo “giusto” col quale
riformulare la questione, anche in relazione al parametro maggiormente
adeguato. Se n’è avuta peraltro testimonianza proprio nel campo di esperienza
da noi oggi attraversato, la sent. n. 129 del
2008 avendo lasciato chiaramente intendere che la questione della revisione
del processo, ancorché definito con sentenza passata in giudicato, conseguente
al sopravvenire di pronunzia della Corte EDU che abbia riscontrato la
violazione della Convenzione, avrebbe potuto essere altrimenti risolta qualora
diverso fosse stato il parametro evocato; tant’è che un’avveduta dottrina aveva
prontamente rilevato il possibile, imminente rovesciamento giurisprudenziale
[M. Chiavario, Giudicato
e processo “iniquo”: la Corte si pronuncia (ma non è la parola definitiva),
in Giur. cost., 2008, 1522 ss.; V. Sciarabba, Il problema dell’intangibilità del
giudicato tra Corte di Strasburgo, giudici comuni, Corte costituzionale e… legislatore?, in www.forumcostituzionale.it, e G. Campanelli, La sentenza 129/08 della Corte costituzionale e il valore delle decisioni
della Corte europea dei diritti dell’uomo: dalla ragionevole durata alla
ragionevole revisione del processo, in Foro
it.,
2009, I, 622], quindi avutosi con la sent. n. 113 del
2011, della quale si dirà più avanti.
[9] La qual cosa, come dirò a momenti,
io pure non escludo ma neppure considero quale l’unico esito possibile,
obbligato, della vicenda.
[10] Su questo autentico punctum crucis delle relazioni interordinamentali mi sono intrattenuto più volte: di
recente, ad es., nel mio Rapporti tra Corte costituzionale e Corti europee,
bilanciamenti interordinamentali e “controlimiti” mobili, a garanzia dei diritti fondamentali,
in www.associazionedeicostituzionalisti.it,
1/2011.
[11] … riferita tuttavia ai rapporti con
la CEDU e non a quelli con l’Unione; come si viene dicendo, la “logica” posta a
base della loro ricostruzione, tuttavia, non è (o, meglio, non dovrebbe
essere) diversa.
[12] Ha opportunamente invitato a fermare
l’attenzione sul punto E. Lamarque,
Gli effetti delle sentenze della Corte di
Strasburgo secondo la Corte costituzionale italiana, in Corr. giur., 7/2010, 955 ss., spec. 961.
[13] V., ad ogni buon conto, sin d’ora le
indicazioni di vario segno che sono in AA.VV., Corti costituzionali e Corti
europee dopo il Trattato di Lisbona, a cura di M. Pedrazza
Gorlero, Napoli 2010, nonché in C. Panzera, Un
passo alla volta. A proposito della più recente giurisprudenza costituzionale
sulla CEDU, in AA.VV., Corte costituzionale e sistema istituzionale,
a cura di F. Dal Canto e E. Rossi, Torino 2011, 299
ss., spec. 303 ss., e, pure ivi, A. Randazzo, Alla ricerca della
tutela più intensa dei diritti fondamentali, attraverso il “dialogo” tra le
Corti, 313 ss.; T. Giovannetti
- P. Passaglia,
La Corte ed i rapporti tra diritto interno e diritto sovranazionale, in
AA.VV., Aggiornamenti in tema di processo costituzionale (2008-2010), a
cura di R. Romboli, Torino 2011, spec. 322 ss. Ulteriori
indicazioni ancora, volendo, nella mia op. ult.
cit.
[14] In realtà, dei “controlimiti”
usa discorrere – come si sa – con esclusivo riguardo alle norme dell’Unione,
dottrina e giurisprudenza corrente giudicando invece soggette le norme della
CEDU all’osservanza di qualsivoglia norma costituzionale. Una differenza di
regime che, tuttavia, sullo specifico terreno su cui maturano le esperienze
riguardanti la salvaguardia dei diritti fondamentali appare francamente
inaccettabile, per le ragioni che si sono già rappresentate altrove e per le
ulteriori ragioni che si vengono ora dicendo, tra le quali uno speciale rilievo
va, a mia opinione, assegnato alla circostanza per cui le norme della
Convenzione, al pari per quest’aspetto delle norme delle altre Carte dei
diritti, naturalmente si confrontano proprio con le norme della Carta
costituzionale espressive di principi fondamentali. Forse, non sarebbe male
prestare una maggiore attenzione a questo dato, di comune esperienza, prima di
(o anziché di) riproporre stancamente schemi di formale fattura, quale quello che
vede come diversa l’ampiezza del parametro di costituzionalità,
rispettivamente, per le norme dell’Unione e per quelle convenzionali.
[15] Come mi sono sforzato di mostrare
altrove, singolare poi appare la circostanza per cui la medesima antinomia (tra
norma dell’Unione e norma interna), esclusivamente per il mero fatto della
diversa connotazione strutturale della fonte sovranazionale (a seconda cioè che
essa sia, ovvero non sia, self-executing),
richiede di essere diversamente qualificata e sanzionata, ora – come si sa – a
mezzo della “non applicazione” dell’atto interno ed ora invece a mezzo del suo
annullamento per invalidità: con un utilizzo, come si vede, “a scomparsa” della
logica della fonte interposta, quasi che non si debba comunque far capo all’art.
11 allo scopo di giustificare l’una o l’altra misura…
[16] È questa la conclusione cui ho
ritenuto di dover pervenire nel mio Rapporti tra Corte costituzionale e
Corti europee, cit.
[17] Precisazioni critiche sul punto in
G. de Vergottini,
Oltre il dialogo tra le Corti. Giudici, diritto straniero, comparazione,
Bologna 2010.
Una marcata
sottolineatura del “dialogo” tra le Corti europee, qualificato come “regolare”
e suscettibile di essere “rafforzato” per effetto della prevista adesione
dell’Unione alla CEDU è nella Dichiarazione n. 2 allegata al trattato di
Lisbona. In dottrina, a riguardo della “circolare” collaborazione tra le Corti
europee inter se e di esse con le Corti
nazionali si è scritto – come si sa – molto: in aggiunta alle opere qui citt., vorrei solo richiamare gli efficaci rilievi di A. Tizzano, del
quale v., part., Ancora sui rapporti tra Corti europee: principi comunitari
e c.d. controlimiti costituzionali, in Dir.
Un. Eur., 3/2007, e Principio di effettività e unitarietà. Introduzione,
in AA.VV., Diritto comunitario e sistemi nazionali: pluralità delle fonti e
unitarietà degli ordinamenti, Atti del convegno SISDIC, Capri 16-18 aprile
2009, Napoli 2010, 559 ss., unitamente a quelli, parimenti incisivi, di A. Cardone, Diritti fondamentali (tutela multilivello dei), in Enc. dir., Ann., IV (2011), 335 ss. Di un’“ermeneutica dialogica”,
quale strumento adeguato a dare linfa al “dialogo” tra le Corti, discorre poi
V. Scalisi,
Interpretazione e teoria delle fonti nel diritto privato europeo, in Riv. dir. civ., 2009, 426 ss. e Ermeneutica
dei diritti fondamentali e principio “personalista” in Italia e nell’Unione
Europea, in Riv. dir. civ., 2010,
145 ss. Per la mia parte, posso solo aggiungere di essere fermamente convinto
(e, anzi, di radicarmi sempre di più in siffatto convincimento) che il futuro
della Costituzione e del diritto costituzionale dipenda (se non esclusivamente)
in larga misura proprio dalla collaborazione in parola, per il cui proficuo e
stabile impianto si richiede un uso sempre più insistito (e, però, allo stesso
tempo vigilato) della comparazione giuridica (su di che, con specifico riguardo
alle pratiche giurisprudenziali e, ancora più specificamente, a quelle invalse
presso le Corti europee, molto importante è oggi G. Repetto, Argomenti comparativi
e diritti fondamentali in Europa. Teorie dell’interpretazione e giurisprudenza
sovranazionale, Napoli 2011).
[18] Sulle mutue implicazioni di libertà
ed eguaglianza una densa riflessione si deve, di recente, a G. Silvestri, Dal potere ai princìpi. Libertà ed eguaglianza
nel costituzionalismo contemporaneo, Roma-Bari 2009; lo stesso A. ha felicemente
qualificato la dignità come la “bilancia” su cui si dispongono i beni oggetto
di ponderazione (Considerazioni sul valore costituzionale della dignità
della persona, in www.associazionedeicostituzionalisti.it).
Della dignità come valore “supercostituzionale” si discorre già in A. Ruggeri - A. Spadaro, Dignità dell’uomo e giurisprudenza costituzionale (prime notazioni),
in Pol. dir., 1991, 343 ss. Di
contro, altri (e, tra questi, ora M. Luciani, Positività, metapositività
e parapositività dei diritti fondamentali, in Scritti in onore di L. Carlassare. Il diritto costituzionale come regola e
limite al potere, III, Dei diritti e dell’eguaglianza, a cura di G. Brunelli
- A. Pugiotto - P. Veronesi, Napoli 2009, 1060
ss.) annoverano la dignità tra i valori passibili di bilanciamento.
[19] V., dunque, il mio La CEDU alla ricerca
di una nuova identità, tra prospettiva formale-astratta
e prospettiva assiologico-sostanziale d’inquadramento
sistematico (a prima lettura di Corte cost. nn. 348 e
349 del 2007), in www.forumcostituzionale.it.
[20] Mutatis
mutandis, qualcosa di simile è altresì avvenuto
sul terreno delle relazioni con l’Unione (e la sua Corte), coi richiami fatti
alla Carta di Nizza-Strasburgo (e, prima dell’avvento
di questa, omisso medio alla
giurisprudenza che si forma a Lussemburgo).
[21] Un’analoga vicenda è già maturata o
va maturando anche in altri ordinamenti, tra i quali la Repubblica federale
tedesca, laddove si è acconsentito all’assoggettamento
della Costituzione a interpretazione völkerrechtsfreundlich,
pur qualificandosi la Convenzione quale fonte di rango legislativo: ad es., di
recente, in causa 2365/09 del 4 maggio 2011 (e, su di essa, la nota di A. Di Martino, Ancora sulla efficacia
della CEDU nel diritto interno: il BverfG e la
“detenzione di sicurezza”, in www.dirittocomparati.it,
26 maggio 2011).
[22] La cosa è molte volte ed a vari fini
rilevata, ad es. da chi ha fatto oggetto di studio le modifiche tacite della
Costituzione per via giurisprudenziale (indicazioni in A. Spadaro, Le motivazioni delle
sentenze della Corte come “tecniche” di creazione di norme costituzionali,
in Aa.Vv., La motivazione
delle decisioni della Corte costituzionale, a mia cura, Torino 1994, 356
ss. e, dello stesso, Dalla Costituzione come “atto” (puntuale nel tempo)
alla Costituzione come “processo” (storico). Ovvero della continua evoluzione
del parametro costituzionale attraverso i giudizi di costituzionalità, in Quad.
cost., 3/1998, 343 ss., nonché in E. Rossi,
Le trasformazioni costituzionali secondo la giurisprudenza della Corte
costituzionale, in AA.VV., Le
“trasformazioni” costituzionali nell’età della transizione, a cura di A. Spadaro, Torino 2000, 119 ss.).
[23] Su entrambe le decisioni possono,
volendo, vedersi le mie note La Corte fa il punto sul rilievo interno
della CEDU e della Carta di Nizza-Strasburgo (a prima
lettura di Corte cost. n. 80 del 2011), in www.forumcostituzionale.it e Il
giudicato all’impatto con la CEDU, dopo la svolta di Corte cost. n. 113 del
2011, ovverosia quando la certezza del diritto è obbligata a cedere il passo alla certezza dei diritti, in www.associazionedeicostituzionalisti.it,
2/2011, nonché in Legisl. pen., 2/2011.
[24] Nelle sedi in cui è apparso il mio
scritto per ultimo cit. sono altresì presenti i commenti di G. Canzio, Giudicato
“europeo” e giudicato penale italiano: la svolta della Corte costituzionale, e R.E. Kostoris, La revisione del giudicato iniquo e i
rapporti tra violazioni convenzionali e regole interne, con l’aggiunta, in Legisl. pen.,
2/2011, di M. Chiavario,
La Corte costituzionale ha svolto il suo
compito: ora tocca ad altri; inoltre, R. Conti,
La scala reale della Corte
Costituzionale, cit., spec. 1253 ss., e P. Gaeta, Dissoluzione del giudicato ed euristica giudiziale dopo la sentenza
Dorigo, in corso di stampa in Giustizia
insieme (ma molti altri scritti possono vedersi nelle Riviste
specialistiche). Nella dottrina anteriore a riguardo della vessata questione
relativa al superamento del giudicato, indicazioni ora in A. Cardone, Diritti fondamentali, cit., 393 ss.
[25] V. nuovamente la mia nota per ultimo
cit.
[26] Invita opportunamente a fermare
l’attenzione sul punto, ora, anche R. Conti,
nella sua op. ult. cit., 1262 ss.
[27] V., in particolare, il caso O’Donoghue e a. contro Regno Unito, definito con sent. 14
dicembre 2010, cui espressamente si richiama la sent. n. 245.
[28] O. Pollicino, in molti scritti, a
partire da Corti europee e allargamento dell’Europa: evoluzioni
giurisprudenziali e riflessi ordinamentali, in Dir. Un. Eur., 2009,
1 ss., e spec. in La Corte europea dei diritti dell’uomo dopo l’allargamento
del Consiglio D’Europa ad Est: forse più di qualcosa è cambiato, in AA.VV.,
Le scommesse dell’Europa. Diritti, Istituzioni, Politiche, a cura di G.
Bronzini - F. Guarriello - V. Piccone, Roma
2009, 101 ss., e quindi, estesamente, in Allargamento ad est dello spazio
giuridico europeo e rapporto tra Corti costituzionali e Corti europee.
Verso una teoria generale dell’impatto interordinamentale
del diritto sovranazionale?, Milano 2010.
[29] Penso, ad es., alla recente Cass.,
III sez. civ., 30 settembre 2011, n. 19985, dove si sono riconosciuti effetti
assimilabili a quelli propri del giudicato formale ed immediati, anche in corso
di causa, alle pronunzie della Corte EDU, le quali, una volta divenute
definitive, sono dotate della medesima vis precettiva
propria delle norme convenzionali, la cui ricognizione di senso, così come
operata a Strasburgo, non può essere messa in discussione dal giudice
nazionale.
[30] Su quest’ultimo, le note mia e di M. Massa, dal titolo, rispettivamente, Ieri
il giudicato penale, oggi le leggi retroattive d’interpretazione autentica, e
domani? (a margine di Corte EDU 7 giugno 2011, Agrati
ed altri c. Italia), e Agrati: Corte
europea vs. Corte costituzionale sui limiti alla retroattività,
entrambe in www.forumcostituzionale.it.
Sulla questione si è di recente pronunziata anche la Corte di giustizia, adita
in via pregiudiziale (sent. Grande Sezione del 6 settembre 2011, in causa
C-108/10, Scattolon, con nota di M. Massa, Dopo Agrati:
le leggi interpretative tra disapplicazione e prevalenza sulla CEDU, in
corso di stampa in Quad. cost.), per un verso (e in via generale)
ammettendo che, in caso di trasferimento d’impresa, la normativa eurounitaria osta a che i lavoratori trasferiti abbiano un
peggioramento retributivo per effetto del mancato riconoscimento dell’anzianità
maturata presso il cedente; per un altro verso, tuttavia, rimettendosi al
giudice del rinvio al fine della verifica se il peggioramento in parola si sia,
o no, concretamente verificato. Viene, per tale aspetto, fatto dunque salvo un
pur contenuto “margine di apprezzamento” a beneficio del giudice nazionale che
la Corte di Strasburgo non ha, a conti fatti, salvaguardato. Quale possa essere
l’esito della vicenda, ad oggi in corso, non è chiaro (sul punto, la
riflessione di G. Bronzini, Le Corti europee rimettono in gioco i
diritti del personale ATA. Un caso “difficile” per la giurisprudenza
multilivello, in corso di stampa).
[31] Merita di essere segnalata la recente pronunzia
della Cass., Sez. Un., 8 agosto 2011, n. 17076, laddove si fa un singolare
ragionamento a giustificazione della perdurante (malgrado la diversa presa di
posizione della Corte EDU…) validità delle norme
d’interpretazione autentica, sempre che siano davvero…
tali, rimanendo dunque entro la cornice della disposizione interpretata.
Una validità che troverebbe giustificazione nel fatto che l’art. 70 cost.,
sotto la cui “copertura” ogni legge, in quanto frutto di legittimo esercizio
della funzione legislativa, può essere riportata, può prevalere in sede di
bilanciamento nei riguardi di parametri interposti, quale la (legge di
esecuzione della) CEDU. Di contro, senza evocare qui la “logica” del
bilanciamento, ove il giudice della nomofilachia
avesse tenuto in maggior conto il canone sistematico (qui rilevante
attraverso il “combinato disposto” degli artt. 70 e 117, I c., senza peraltro
trascurare altri enunciati ancora, espressivi di principi fondamentali, evocati
in campo dalla “materia” trattata dalla CEDU e dal modo della sua trattazione,
siccome relativa ai diritti fondamentali), si sarebbe avveduta della necessità
che gli atti di esercizio della funzione legislativa, coi quali cioè si dà
corpo nell’esperienza alla norma definitoria della
competenza di cui all’art. 70, avrebbero dovuto e sempre dovrebbero, in via
di principio, mostrarsi rispettosi degli obblighi di cui è parola nell’art.
117. Un rispetto al quale possono, nondimeno, legittimamente sottrarsi
unicamente allo scopo di portare ancora più in alto la tutela dei diritti
fondamentali e, in genere, del “sistema” dei beni costituzionalmente protetti:
nel qual caso, bene si rende possibile (e, anzi, doveroso) spianare la strada
all’applicazione di quella “logica” del bilanciamento, qui improvvidamente
evocata in campo dalla Cassazione (in un non dissimile ordine di idee, se ben
se n’è inteso il pensiero, anche M. Massa,
Dopo Agrati, cit.). Quale ascolto poi l’indirizzo della Cassazione possa, anche a
breve, avere presso la Consulta non è dato al momento di stabilire; è,
nondimeno, da mettere in conto che possa farsi più lunga la distanza dalle
posizioni della Corte EDU, di cui si è avuta, in una certa misura, recente
testimonianza, secondo quanto si passa subito a dire nel testo (con specifico
riguardo ai conflitti tra Corte costituzionale e Corte EDU, prima però degli
ultimi sviluppi giurisprudenziali, v. S. Foà, Un conflitto di interpretazione tra Corte costituzionale e Corte
europea dei diritti dell’uomo: leggi di interpretazione autentica e ragioni
imperative di interesse generale, in www.federalismi.it,
15/2011, ed ivi riferimenti).
[32] Evenienza, questa, per tabulas ricorrente, dal momento che il legislatore si attiva
evidentemente per il fatto che vi sono state (e vi sono) controversie
giudiziarie a riguardo dell’atto oggetto d’interpretazione; estremamente raro,
dunque, per non dire meramente di scuola, il caso di un atto legislativo
praticamente “inutile” per il presente (ed utile solo per l’avvenire), siccome
sopravveniente alla definizione in modo irreversibile di ogni lite giudiziaria.
[33] Sul punto, v. la ricostruzione
dell’indirizzo della Corte EDU che ne fa, nelle sue conclusioni sul caso Scattolon, l’Avvocato Generale Y. Bot, §§ 132
ss.
[34] Si rammenti la pur problematicamente
coerente giurisprudenza a riguardo del sindacato sui presupposti giustificativi
dell’adozione dei decreti-legge, giudicato ammissibile sia pure nei soli casi
di loro “evidente mancanza”. Una limitazione, questa, della cui opportunità non
torno qui a discutere, col bisogno ad essa sotteso di parare la facile critica
che potrebbe essere (il più delle volte, però, strumentalmente) mossa alla
Corte di voler invadere il campo riservato alla politica, giovandosi di un
disposto costituzionale strutturalmente debole ed arrendevole. Sta di fatto,
però, che la limitazione stessa, in buona sostanza, si traduce in un controllo
di costituzionalità circoscritto ai soli casi di “evidente violazione” del
parametro costituzionale. Un privilegio, come si vede, questo accordato agli
organi della direzione politica, di assai dubbia rispondenza al modello
costituzionale, nei fatti – come si sa – convertitosi in un’autentica “zona
franca” della giustizia costituzionale, ove si pongano a raffronto il numero
dei decreti-legge (e relative leggi di conversione) varati dal tandem
Governo-Parlamento col numero (praticamente inesistente) delle sanzioni loro
comminate dal giudice costituzionale in nome del canone della “evidente
mancanza”.
[35] Su questa tendenza v., nuovamente,
la puntuale analisi che è negli scritti sopra citt.
di O. Pollicino, cui adde O. Pollicino - V.
Sciarabba,
Tratti costituzionali e sovranazionali delle Corti europee: spunti
ricostruttivi, in AA.VV., L’integrazione attraverso i diritti. L’Europa
dopo Lisbona, a cura di E.
Faletti - V. Piccone,
Roma 2010, 125 ss.; v., inoltre, utilmente E. Malfatti, L’“influenza” delle decisioni delle Corti
europee sullo sviluppo dei diritti fondamentali (e dei rapporti tra
giurisdizioni), in AA.VV., Le garanzie giurisdizionali. Il ruolo delle
giurisprudenze nell’evoluzione degli ordinamenti. Scritti degli allievi
di Roberto Romboli, a cura di G. Campanelli - F.
Dal Canto - E. Malfatti - S. Panizza - P. Passaglia - A. Pertici, Torino
2010, 165 ss.
[36] Tra i quali, Il processo
costituzionale come processo, dal punto di vista della teoria della
Costituzione e nella prospettiva delle relazioni interordinamentali,
in Riv. dir. cost., 2009, 125 ss.,
spec. 157 ss.
[37] I riferimenti testuali sono tutti
tratti dal punto 5.1. del cons. in dir.
[38] … magari, ad uno stesso operatore
(e, segnatamente, al giudice della legittimità) che si sia col tempo
determinato per opzioni interpretative diverse.
[39] L’eventualità di un vaglio da parte del
giudice delle leggi della specificità del caso trattato a Strasburgo era stata
prefigurata da un autorevole studioso e componente della Corte, della quale –
come si sa – è stato anche Presidente, senza che nondimeno, come si viene
dicendo, se ne avesse traccia apprezzabile prima della pronunzia di cui si
passa subito a dire nel testo (v., dunque, U. De
Siervo,
Recenti sviluppi della giurisprudenza della Corte costituzionale in relazione
alla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, relaz.
all’incontro di studio su Problemi
per le Corti nazionali a seguito degli ulteriori sviluppi dell’Unione Europea
ed in relazione alla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, in www.cortecostituzionale.it). Per
taluni aspetti, della tecnica del distinguishing si è fatto utilizzo anche nella sentenza
relativa al matrimonio degli omosessuali (sent. n. 138 del
2010).
[40] … rese manifeste specialmente nella
parte motiva delle sue decisioni, il rilievo della quale è diffusamente
segnalato in dottrina (per tutti, A. Saitta,
Logica e retorica nella motivazione delle decisioni della Corte costituzionale,
Milano 1996).
[41] V., per tutti, nuovamente, gli
scritti dietro citt. di R. Conti (e, tra questi, part., la sua monografia su La
Convenzione europea dei diritti dell’uomo), cui adde
M. Bignami, Costituzione,
Carta di Nizza, CEDU e legge nazionale: una metodologia operativa per il
giudice comune impegnato nella tutela dei diritti fondamentali, in www.associazionedeicostituzionalisti.it,
1/2011.
[42] Ancora da ultimo nella mia nota a
Corte cost. n.
113 del 2011, sopra già richiamata.
[43] … e, su di essa, il commento di R. Conti, La scala reale della
Corte Costituzionale, cit., spec. 1259 ss.
[44] La questione è, però, assai più
complessa di come risulti dal quadro ricostruttivo fattone dalla Consulta, a
motivo della mancata presa in considerazione sul punto della Carta di Nizza-Strasburgo (e, segnatamente, di quanto disposto
dall’art. 49) e, dunque, in buona sostanza, della giurisprudenza eurounitaria, che avrebbe potuto consigliare un diverso
esito della vicenda e che, ad ogni buon conto, potrebbe obbligare la nostra
Corte a rivedere l’orientamento ad oggi accolto (sul punto, V. Onida, I diritti fondamentali nel Trattato di
Lisbona, in www.astrid-online.it,
12/2011).
[45] … in ispecie,
per come i dati in parola hanno costituito oggetto di puntuale sistemazione
dalla sentenza della Grande Camera del 17 settembre 2009 (Scoppola c. Italia)
e da altre decisioni ancora.
[46] La Corte poi non s’interroga circa
la compatibilità delle deroghe e limitazioni in parola con la finalità
rieducativa della pena, di cui all’art. 27 cost., che potrebbe considerarsi
(con la più sensibile dottrina giuspenalistica: G. de Vero, Limiti di vincolatività in ambito penale degli obblighi comunitari di
tutela, in Studi in onore di A. Metro, a cura di C. Russo Ruggeri,
II, Milano 2010, spec. 189 s., ed ivi richiamo di un precedente scritto
dello stesso a.) gravemente incisa una volta che a soggetti responsabili del
medesimo reato dovessero applicarsi pene diverse. È vero che nella circostanza
che ha dato modo alla Corte di emettere la pronunzia ora annotata il principio
di cui all’art. 27 non era stato evocato in campo; e, tuttavia, la
ridefinizione complessiva dei termini della questione non è – come si sa – un
fatto raro nelle esperienze di giustizia costituzionale.
[47] Punto 13 del cons. in dir.
[48] Si pone qui l’ardua questione
riguardante le condizioni e i limiti del superamento dello stesso giudicato
costituzionale per effetto di sopravvenienti e con esso incompatibili pronunzie
delle Corti europee (per ciò che qui specificamente importa della Corte di
Strasburgo), a riguardo della quale ho già avuto modo di intrattenermi altrove
(a partire da Corte costituzionale e Corti europee: il modello, le esperienze, le
prospettive, in AA.VV., Corte
costituzionale e sistema istituzionale, cit., 190 ss.). Dei conflitti in
parola, d’altronde, si è già avuto riscontro, con varietà di forme e parimenti
varia intensità, pur se non sempre se ne ha l’aperta denunzia, da noi come
altrove. Un caso recente in cui la questione è emersa con clamore si è avuto
con riguardo alla legislazione austriaca sulla procreazione medicalmente
assistita, fatta oggetto di esplicita censura dalla Corte EDU (S.H. ed a. contro Austria), mentre da noi
può essere rammentata, ancora una volta, la nota vicenda Dorigo,
in relazione alla quale – come opportunamente fa oggi notare P. Gaeta, Dissoluzione del giudicato, cit. – “la regola processuale
legittimamente applicata dai giudici nazionali era … frutto addirittura di un
‘innesto’ operato dalla Corte costituzionale” con sent. n. 254 del
1992: un “meccanismo”, questo, dalla Corte di Strasburgo giudicato in
violazione dell’art. 6, § 3, lett. d).
Un caso poi assai noto di conflitto parato sul nascere con la Corte di
giustizia si è avuto nel 2005, allorché il Consiglio di Stato si è abilmente
ritratto dall’esperire, così come richiestogli, una questione di rinvio
pregiudiziale in relazione a norma dell’Unione sospetta d’incompatibilità con
norma interna frutto di un’addizione da parte della Corte costituzionale. Altri
esempi ancora, riguardanti sia l’una che l’altra Corte, potrebbero essere
richiamati nel senso sopra indicato: ad es., la vicenda ATA, cui si è dietro
fatto cenno, ha visto la decisione adottata dalla Corte costituzionale con sent. n. 311 del
2009 contraddetta sia dalla sentenza Agrati della Corte EDU che dalla (pur non in tutto
coincidente) sentenza Scattolon della
Corte di giustizia, le quali poi vanno – come si è veduto – messe a raffronto
con la sent. n.
257 del 2011.
[49] Sul particolare rilievo acquistato
dalla tecnica dell’autocitazione e sulle sue molteplici forme espressive
rimando nuovamente allo studio di A. Saitta, sopra cit. Il decorso del tempo può poi
giocare tanto nel senso di rendere disagevole per la Corte sottrarsi al
condizionamento esercitato da precedenti convergenti e stringenti, quanto però
nel verso opposto di allargare l’arena in cui possono farsi forti selezioni dei
casi.
[50] Se, tuttavia, si guarda alla “normatività” dell’attività in parola, non sembra che essa
si rinvenga unicamente nelle decisioni del giudice costituzionale (e,
segnatamente, in alcune di esse, usualmente etichettate appunto come
“normative”) o, ad ogni buon conto, in esse in più intensa misura rispetto a
quella rinvenibile nei verdetti dei giudici comuni. Per l’aspetto della loro
sostanza, insomma, appare forzato distinguere in modo netto le pronunzie,
mettendo da una parte quelle dell’un giudice e dall’altra quelle degli altri.
Piuttosto, si tratta di andare a vedere caso per caso se l’intervento, comunque
“creativo”, del singolo operatore di giustizia – comune o costituzionale che
sia – si mantenga al di qua ovvero si spinga oltre la soglia, pur se
approssimativamente segnata, che separa ciò che è frutto d’“interpretazione”
(pure in larga accezione) da ciò che è produzione pura e semplice di nuovo
diritto.
[51] Il riferimento è, ovviamente, alla
nota espressione coniata da P. Calamandrei del
giudice comune quale “portiere” della Consulta.
[52] … prevenendosene l’insorgenza, grazie
alla tecnica dell’interpretazione conforme, e, laddove ciò si dimostri
impossibile, portandosi le antinomie stesse alla cognizione del giudice
costituzionale.
[53] Tale dalla stessa Corte considerata
(ad es., in sentt.
nn. 93 del 2010 e 236 del 2011).
[54] … specie in Corte costituzionale e Corti
europee: il modello, le esperienze, le prospettive, cit., 171 ss., e Interpretazione conforme e tutela dei
diritti fondamentali, tra internazionalizzazione (ed “europeizzazione”) della
Costituzione e costituzionalizzazione del diritto
internazionale e del diritto eurounitario, in www.associazionedeicostituzionalisti.it,
§ 3.
[55] Su ciò, nondimeno, qualche ulteriore
spunto nella chiusa di questa riflessione.
[56] Sul punto, le precisazioni che sono in T. Groppi, I diritti fondamentali in Europa e la giurisprudenza “multilivello”, inwww.astrid-online.it