Antonio
Ruggeri
Il
rinvio pregiudiziale alla Corte dell’Unione: risorsa o problema?
(Nota
minima su una questione controversa)
Sommario:
1. I due corni del dilemma e la loro possibile riduzione ad unità. – 2. Il
percorso parabolico del rinvio e i riflessi negativi che potrebbero aversene
per la funzionalità dei giudizi, con specifico riguardo ad eventuali conflitti
tra le Corti europee, laddove chiamate a pronunziarsi sulle medesime questioni,
ed ai modi più adeguati per porvi rimedio (in particolare, l’ipotesi di far
luogo alla previsione di un “rinvio pregiudiziale” dalla Corte EDU alla Corte
di giustizia). – 3. Il “modello” Cilfit, le
sue “graduate” applicazioni (rispettivamente, presso i giudici nazionali e
presso la Corte EDU), il bisogno che sia ulteriormente specificato ed integrato
e reso ancora più saldo attraverso una plurima, complessa e convergente manovra
posta in essere a tutti i livelli istituzionali e presso ogni sede in cui si somministra
giustizia. – 4. L’esigenza che le novità al piano dei meccanismi istituzionali,
specie con la introduzione del rinvio dall’una all’altra Corte europea, siano
accompagnate da corposi ed incisivi interventi al piano giurisprudenziale
fedeli al canone della costante, effettiva cooperazione tra tutti i giudici,
europei e non. – 5. Una breve notazione finale, nell’auspicio che il rinvio sia
risorsa anziché problema o, quanto meno, più l’una che l’altra cosa.
1.
I due corni del dilemma e la loro possibile riduzione ad unità
Confesso
di non saper dare una sicura risposta al quesito evocato nel titolo di questo
mio scritto; e confesso pure che non mi consola affatto il noto pensiero
filosofico secondo cui vi sarebbe più pregio nell’inventare un problema nuovo
piuttosto che nel risolvere un problema già posto da altri. Sono infatti
convinto (ed anzi sempre di più mi radico in questo mio convincimento) che –
come soleva dire il fondatore della Scuola giuridica nella quale mi sono
formato, S. Pugliatti – il diritto o è “scienza
pratica” oppure, semplicemente, non è[1]. Mi
prefiggo, dunque, il limitato obiettivo di tentare di avviare a soluzione il problema,
con una succinta riflessione ad alta voce che aspira unicamente a sollecitare
ulteriori e ben più approfondite riflessioni da parte di chi vi si vorrà
dedicare.
Enuncio
subito la tesi nella quale mi riconosco; ed è che il rinvio può essere sia l’una
che l’altra cosa, a seconda dell’uso che in concreto se ne fa, il risultato
complessivo a conti fatti dipendendo da una sorta di tacito patto (se si vuole,
una vera e propria convenzione costituzionale idonea quindi a convertirsi in
consuetudine) tra la Corte di giustizia e i giudici nazionali (comuni e,
preferibilmente, anche costituzionali), un patto per la cui messa a punto un
ruolo di primo piano è chiamato ad esercitare il giudice dell’Unione, cui è
demandato di dare un orientamento alle pratiche giuridiche di diritto interno.
2.
Il percorso parabolico del rinvio e i riflessi negativi che potrebbero
aversene per la funzionalità dei giudizi, con specifico riguardo ad eventuali
conflitti tra le Corti europee, laddove chiamate a pronunziarsi sulle medesime
questioni, ed ai modi più adeguati per porvi rimedio (in particolare, l’ipotesi
di far luogo alla previsione di un “rinvio pregiudiziale” dalla Corte EDU alla
Corte di giustizia)
Il
rinvio, al pari di altri istituti che connotano la struttura dell’ordinamento
dell’Unione, sembra destinato ad un percorso di tipo parabolico; e, come nelle
vere parabole, la partenza e l’arrivo potrebbero (se non coincidere) presentare
forti, sostanziali assonanze nell’esito, se non pure nelle cause che lo
determinano e nelle motivazioni che lo sorreggono e giustificano.
In
principio, si trattava di sollecitare i giudici nazionali a fare largo utilizzo
dello strumento, prezioso al fine di una uniforme implementazione del diritto (comunitario
prima ed ora) “eurounitario”. La stessa Corte di
giustizia ne ha incoraggiato la diffusa attivazione, al duplice intento di
conseguire lo scopo suddetto e di dar modo a sé stessa di acquisire consensi
crescenti attorno alla propria giurisprudenza, legittimandosi come artefice di
prima grandezza del processo d’integrazione sovranazionale[2].
Rammento al riguardo che le punte più avanzate e sensibili della dottrina
hanno, sin dai primi anni di funzionamento delle Comunità, deprecato, a più
riprese e con varietà di toni ma sostanziale comunanza di idee, la scarsa
attenzione prestata dai giudici nazionali (specie da alcuni) per il diritto
comunitario e, conseguentemente, per lo strumento che, con altri, concorre alla
sua salvaguardia.
Oggi,
però, il rischio è che un uso smodato, comunque non adeguatamente vigilato,
dello strumento stesso possa recare seri problemi di funzionalità per il
giudice dell’Unione[3],
ai quali non si saprebbe poi come far fronte, con gravi implicazioni per le
stesse pratiche applicative in ambito interno[4].
Le
ipotesi di soluzione fin qui affacciate, pur apprezzabili per l’intento che le
anima, presentano tuttavia, per più aspetti, non pochi né lievi inconvenienti.
Si
pensi, ad es., all’idea di dar modo alla Corte di giustizia, con riguardo alle
domande in via pregiudiziale come pure in generale, di far luogo (ad
imitazione, come si sa, di altri giudici, quale la Corte Suprema nordamericana)
ad una severa selezione delle cause sulle quali pronunziarsi[5].
La qual cosa nondimeno farebbe correre il rischio assai grave che la Corte
dell’Unione possa tornare ad essere ugualmente investita della medesima
questione per altra via, in conseguenza di eventuali mancanze agli obblighi
dell’Unione stessa conseguenti a distorte applicazioni del diritto eurounitario[6].
V’è
di più (e, forse, di peggio), dal momento che della questione potrebbe essere,
congiuntamente ovvero alternativamente, investita la Corte EDU, per il caso che
la violazione del diritto eurounitario ridondi, a
giudizio del ricorrente, in violazione della Convenzione (e, segnatamente, del
principio del giusto processo). Una ipotesi, questa,
di cui – come si sa – si è, ancora di recente, avuto riscontro con il caso Ullens
de Schooten e Rezabek c. Belgio[7];
ed una ipotesi che, ad andar bene (si fa per dire, naturalmente…), si traduce
in un sovraccarico di lavoro di un certo rilievo per la Corte di Strasburgo,
vale a dire nel travaso da una Corte europea all’altra di una questione d’interpretazione
sollevata in ambito nazionale, mentre ad andar male può portare a conflitti tra
le stesse Corti europee, laddove chiamate a pronunziarsi sullo stesso caso,
quindi assai problematicamente ripianabili (è chiaro, infatti, che le tensioni
si scaricano pur sempre presso i giudici nazionali che, in congiunture
siffatte, sono davvero messi in croce). Conflitti che poi, per essere come si
deve superati e, ancora meglio, prevenuti, richiederebbero – a me pare[8]
– la previsione (che potrebbe aversi in sede di messa a punto delle clausole di
adesione dell’Unione alla CEDU) di una sorta di “rinvio pregiudiziale” o
com’altro lo si voglia chiamare attivabile da parte della stessa Corte EDU e
presentato alla Corte dell’Unione, in via sussidiaria rispetto ad un rinvio
mancato ad opera dei giudici nazionali[9].
Analoga
soluzione è stata – come si sa – patrocinata da Timmermans,
per la quale si vorrebbe dar modo alla Commissione di investire la Corte di
giustizia di una questione di stretto diritto eurounitario
(e, specificamente, concernente la validità di un atto dell’Unione) che allo
stesso tempo penda davanti alla Corte di Strasburgo e sia stata da questa
dichiarata ricevibile.
La
proposta – come pure è noto – ha suscitato largo interesse; personalmente, non
la giudico di necessità alternativa a quella da me patrocinata, che nondimeno
preferisco per il fatto di rimettere l’iniziativa del “dialogo” alla Corte EDU,
per ciò solo – a me pare – ponendo le basi più salde perché lo stesso possa
svolgersi in modo fecondo[10].
Sta
di fatto che a riguardo della necessaria precedenza di una pronunzia della
Corte dell’Unione su questioni specificamente riguardanti il diritto eurounitario rispetto ad una pronunzia della Corte EDU si
registrano larghi e diffusi consensi, di cui peraltro si ha traccia autorevole
anche nel comunicato congiunto dei due Presidenti delle Corti europee[11].
Come
che sia di ciò, resta il fatto che non può escludersi che la Convenzione venga
ad essere violata anche in modo “interposto”, in conseguenza cioè di una
violazione del diritto dell’Unione (la quale, poi, può naturalmente aversi sia
in caso di utilizzo che di mancato utilizzo del rinvio pregiudiziale). Solo
che, laddove quest’ultima violazione si sia avuta a seguito del (e malgrado il)
ricorso al rinvio da parte dei giudici nazionali, la Corte EDU potrebbe
sentirsi sgravata dell’obbligo di avvalersi del rinvio stesso, a meno che non
lo giudichi necessario per altre ragioni; di contro, nel caso che il rinvio per
mano degli operatori di diritto interno non si sia avuto (come in Ullens), dovrebbe a
ciò provvedere il giudice di Strasburgo. Potrebbe tuttavia non farvi luogo, per
le medesime ragioni in nome delle quali non vi hanno fatto luogo i giudici
nazionali, unicamente al ricorrere delle condizioni che in via generale
giustifichino il mancato interpello della Corte dell’Unione. Mentre, però,
l’omesso ricorso al rinvio da parte del giudice nazionale può dar modo all’una
o all’altra Corte europea di porre rimedio all’errore interpretativo del
giudice stesso, l’inerzia della Corte di Strasburgo potrebbe portare al
radicamento di effetti negativi irreversibili.
3.
Il “modello” Cilfit, le sue “graduate”
applicazioni (rispettivamente, presso i giudici nazionali e presso la Corte
EDU), il bisogno che sia ulteriormente specificato ed integrato e reso ancora
più saldo attraverso una plurima, complessa e convergente manovra posta in
essere a tutti i livelli istituzionali e presso ogni sede in cui si somministra
giustizia
Dalle
notazioni da ultimo svolte se ne trae il consiglio per un’applicazione – come
dire? – “graduata” del modello Cilfit; e, se
per un verso se ne impone un uso comunque rigoroso da parte dei giudici
nazionali, uno ancora più severo e vigilato dovrebbe aversene a Strasburgo, al
fine di evitare possibili fraintendimenti della giurisprudenza eurounitaria da
parte della Corte EDU che reputi di potersene fare, in sovrana solitudine,
interprete “quasi autentico”, senza avvertire il bisogno di interpellare il
giudice di Lussemburgo perché torni a pronunziarsi in modo espresso sul retto
significato del diritto dell’Unione.
Sul
punto, di cruciale rilievo, si richiede un supplemento di attenzione. Perché il
rinvio può – come si viene dicendo – essere una risorsa e non commutarsi
in un problema solo se si riesce a mettere a punto un “modello” dotato,
allo stesso tempo, di strutturale flessibilità, in ragione dell’incomprimibile
varietà dei casi, e però anche della necessaria chiarezza e fermezza di linee e
congrua articolazione di struttura interna, sì da proporsi come un utile
sussidio per la pratica giuridica, quali che siano poi i livelli istituzionali
e le sedi in cui si somministra giustizia.
Sia
chiaro. L’ipotesi che le controversie coinvolgenti i diritti possano in ogni
caso finire davanti alla Corte EDU è inevitabile (ed è, anzi, in astratto
un bene che sia così, sempre che tuttavia si faccia un uso vigilato degli
strumenti di garanzia). Le stesse pronunzie della Corte dell’Unione potrebbero,
di diritto o di traverso, esser causa ovvero oggetto di una questione portata
al giudizio della Corte EDU: già oggi è così, ove si ammetta che una sentenza
emessa in ambito interno che rispetti per filo e per segno un’indicazione
venuta da Lussemburgo possa, proprio per ciò, essere impugnata davanti
alla Corte di Strasburgo, se è vero – com’è vero – che qualunque
violazione della CEDU può giustificare il ricorso al giudizio della Corte
chiamata a farsene garante[12].
Con la prevista, auspicata adesione dell’Unione alla CEDU, poi, l’attacco alle
pronunzie della Corte di giustizia potrebbe aversi alla luce del sole, in modo
diretto.
Invito comunque a non drammatizzare quest’esito, da molti visto come un
autentico terremoto istituzionale; e, tuttavia, mi pare che occorra dar fondo a
tutte le risorse tecnico-argomentative di cui ciascuna Corte dispone, se del
caso col sostegno di nuovi strumenti predisposti in via normativa[13],
al fine di parare – fin dove possibile – il rischio che l’esito stesso si
abbia, quanto meno che si abbia con una insopportabile frequenza.
Il
“modello” Cilfit può essere, a mia opinione,
un’utile base di partenza; l’esperienza ad ogni buon conto insegna che non è
una base sufficientemente solida, secondo quanto conferma il caso Ullens, sopra richiamato[14].
Ora,
l’opera di rinforzo richiede la messa in atto di una plurima, complessa e
convergente manovra posta in essere a ciascun livello istituzionale e presso
tutte le sedi in cui si somministra giustizia. Plurima, in quanto
appunto sollecitata a prendere corpo in ambito nazionale così come
sovranazionale, avvalendosi dello (e traendo profitto dallo) sforzo congiunto
di tutti gli operatori di giustizia (giudici comuni, giudici costituzionali,
Corti europee); complessa, perché posta in essere sia al piano dei
meccanismi istituzionali che a quello delle garanzie sostanziali: insomma, a
quello delle tecniche decisorie ed all’altro della giurisprudenza di merito; convergente,
infine, perché senza la mutua, effettiva cooperazione tra le Corti,
l’obiettivo, comunque arduo da raggiungere, si può star certi che non sarebbe
centrato[15].
4.
L’esigenza che le novità al piano dei meccanismi istituzionali, specie con
la introduzione del rinvio dall’una all’altra Corte europea, siano accompagnate
da corposi ed incisivi interventi al piano giurisprudenziale fedeli al canone
della costante, effettiva cooperazione tra tutti i giudici, europei e non
Dopo
aver fatto cenno a quanto può farsi al piano dei meccanismi (e, segnatamente,
della estensione dell’area di utilizzo del rinvio ai rapporti tra le Corti
europee), vorrei ora particolarmente insistere sul bisogno di lavorare sodo
anche sul fronte sostanziale, la complementarietà dei piani e dei relativi
interventi ponendosi come necessaria in vista del raggiungimento dello scopo,
se non per intero perlomeno in apprezzabile misura. E così, se la Corte di
giustizia, già al presente e più ancora nella prospettiva dell’adesione
dell’Unione alla CEDU, attingerà in accresciuta misura alla giurisprudenza
“convenzionale”[16],
tanto in sede di risposta dietro rinvio pregiudiziale quanto in ogni altra
sede, potrà a buon diritto coltivare la speranza di essere a sua volta con
attenzione ascoltata sia a Strasburgo che in ambito interno.
A
sua volta, la Corte EDU potrà rendere ancora più saldi e persuasivi gli
indirizzi interpretativi che somministra agli altri operatori di giustizia se
farà fedele e costante richiamo alla giurisprudenza eurounitaria, allo stesso
tempo disegnando e preservando spazi consistenti di autodeterminazione a
beneficio dei giudici nazionali: una disponibilità che però è, non di rado, più
dichiarata che praticata, come dimostrano molti segni tratti dalla
giurisprudenza, nuova e vecchia[17].
Non a caso, davanti alla pressione alle volte schiacciante esercitata dal
giudice EDU[18],
comincia a farsi avvertire la reazione del nostro giudice delle leggi, per
quanto rivestita di formali dichiarazioni di rispetto e vero e proprio ossequio
nei riguardi degli indirizzi formatisi a Strasburgo[19].
Anche
per l’aspetto ora specificamente riguardato, il riequilibrio nei rapporti tra
Corte EDU e Corte costituzionale potrebbe essere agevolato da una più intensa
ed accurata coltivazione da parte di quest’ultima del terreno su cui si
impiantano e svolgono i suoi rapporti con la Corte dell’Unione[20].
E invero si fatica a comprendere la ragione che porta la Consulta a non
avvalersi in modo congruo dello strumento del rinvio pregiudiziale, del quale –
come si sa – s’è fatto un uso praticamente insussistente[21]. Quando
pure, infatti, si reputi di doversi tener fermo l’indirizzo fin qui invalso,
sfavorevole – come si sa – al ricorso allo strumento in parola nel procedimento
in via incidentale, un indirizzo nondimeno – come pure è noto – fatto oggetto
di critiche penetranti e di vario segno da parte di non poca, sensibile
dottrina, ebbene perché mai non farvi ricorso nei giudizi restanti
(controversie in via principale e conflitti, sia interorganici
che intersoggettivi[22])?
La
chiusura delle porte della sede in cui opera la Corte costituzionale non
soltanto non dà frutto alcuno e non giova alla Corte stessa, con specifico
riguardo ai casi di possibile interferenza col diritto dell’Unione[23],
ma neppure concorre a quel riequilibrio tra i rapporti delle Corti europee inter
se che, già oggi alquanto problematico e disagevole da realizzare, si porrà
in termini vieppiù complessi e pressanti a seguito dell’adesione dell’Unione
alla CEDU.
Infine,
i giudici comuni sono chiamati ad un impegnativo e sofferto stop and go,
per ciò che concerne l’utilizzo dell’arma del rinvio. Facendovi ricorso in
misura eccessiva, accentuerebbero i problemi segnalati nel titolo dato a questa
riflessione, specie sul versante della funzionalità dei meccanismi processuali;
trattenendosi in misura parimenti eccessiva dall’uso, darebbero ugualmente vita
agli altri problemi sopra indicati. Si impone, insomma, l’adozione di pratiche
complessivamente ispirate a ragionevolezza, al canone del “giusto mezzo”. Ma,
perché ciò davvero si abbia, si richiede un orientamento fermo e chiaro dato
alle pratiche stesse, quale può (e deve) in primo luogo venire – come si faceva
dietro cenno – dalla Corte di giustizia, chiamata dunque a dare le opportune
specificazioni-integrazioni al “modello” Cilfit.
Se
si riuscirà ad innalzare a Lussemburgo un argine più alto e solido di quello ad
oggi riscontrabile entro cui far scorrere gli indirizzi interpretativi che man
mano la stessa Corte di Lussemburgo forma e senza sosta rinnova, contenendone
almeno alcune delle più vistose oscillazioni, si potrà agevolare la ricerca da
parte dei giudici nazionali di quel “giusto mezzo”, di cui si è appena detto.
Allo stesso tempo (e circolarmente), anche tali giudici possono offrire il loro
apporto per l’impianto di pratiche interpretative in ambito sovranazionale
complessivamente soddisfacenti e promettenti ulteriori, fecondi sviluppi delle
relazioni “intergiurisprudenziali”.
5.
Una breve notazione finale, nell’auspicio che il rinvio sia risorsa
anziché problema o, quanto meno, più l’una che l’altra cosa
Concludendo.
Alla stabilizzazione, così come al rinnovamento, degli indirizzi
giurisprudenziali tutti gli operatori di giustizia sono chiamati a dare il loro
fattivo, coraggioso e vigilato allo stesso tempo, concorso. La convergenza
degli indirizzi stessi può essere, congiuntamente, causa ed effetto di un uso
accorto del rinvio: alimentarsi da questo ed a questo offrire indicazioni per
il suo congruo svolgimento, con un moto – come si vede – circolare che da se medesimo si rigenera e ricarica senza sosta. Tutti
possono, insomma, far sì che il rinvio sia risorsa piuttosto (o anziché)
problema o, quanto meno, con maggior cautela, più l’una che l’altra cosa
al piano delle relazioni interordinamentali che
prendono corpo nelle esperienze giudiziali.
[1] V., dunque, del chiaro Maestro, La
giurisprudenza come scienza pratica, in Riv. it.
sc. giur., 1950, 49 ss.
[2] Indicazioni sull’orientamento del giudice
di Lussemburgo, ora, in S. Foà, Giustizia amministrativa e pregiudizialità costituzionale,
comunitaria e internazionale. I confini dell’interpretazione conforme,
Napoli 2011.
[3] La circostanza per cui ad una parte
cospicua (circa il 75%, secondo quanto riferisce A. Tizzano, Les Cours européennes et l’adhésion de l’Union à la CEDH, in Dir. Un. Eur.,
1/2011, 38 s., nonché in Europeanright.eu, § 4) delle
richieste di rinvio non sarebbe dato seguito dal giudice nazionale non toglie
che ugualmente il carico delle questioni che pervengono a Lussemburgo vada
facendosi particolarmente oneroso, sì da divenire col tempo davvero
insopportabile.
[4] Non secondario rilievo è al riguardo da
assegnare al modo con cui si è definita e si va senza sosta mettendo a punto la
nozione di “giurisdizione” ai sensi e per gli effetti del rinvio. La crescita
delle autorità che operano in posizione d’indipendenza e che a vario titolo
garantiscono il rispetto del diritto in senso oggettivo, somigliando in
qualche modo ai giudici (nella loro tradizionale conformazione), pone
gravi problemi di qualificazione, specie a mezzo delle categorie usuali, che
tuttavia esibiscono limiti sempre più evidenti di rendimento. La qual cosa
sollecita la ricerca, anche per l’aspetto ora specificato considerato ed ai
fini ricostruttivi qui interessanti, di soluzioni moderate, ragionevoli,
nondimeno assai ardue da conseguire in modo complessivamente appagante (in
tema, ha avuto occasione, ancora di recente, di tornare a pronunziarsi la Corte
di giustizia, Grande
Sez., 14 giugno 2011, in causa C-196/09).
[5] La selezione, con specifico riguardo alle
esperienze della giustizia costituzionale, può aversi di diritto
ovvero di fatto. Si ha l’una cosa quando il giudice è abilitato a
scegliere le questioni su cui pronunziarsi; si ha l’altra, quando l’obiettivo è
ugualmente (e sia pure in parte) centrato, specie facendo un uso sapiente,
ancorché alle volte forzoso, delle tecniche di giudizio, particolarmente delle
decisioni d’inammissibilità. Questo schema, a mia opinione, resiste anche nella
sua applicazione alle Corti europee che, pur nella loro complessivamente
peculiare connotazione, vanno sempre più marcatamente proponendosi quali giudici
materialmente costituzionali (su questa tendenza, part., O. Pollicino,
in più scritti, tra i quali, di recente, Allargamento ad est dello spazio
giuridico europeo e rapporto tra Corti costituzionali e Corti europee.
Verso una teoria generale dell’impatto interordinamentale
del diritto sovranazionale?,
Milano 2010, e O. Pollicino - V. Sciarabba, Tratti costituzionali e
sovranazionali delle Corti europee: spunti ricostruttivi, in Aa.Vv., L’integrazione
attraverso i diritti. L’Europa dopo Lisbona, a cura di E. Faletti - V.
Piccone, Roma 2010, 125 ss.). Ora, si tratta, appunto, di stabilire se passare,
o no, dall’attuale stato di selezione di fatto a quello di selezione di
diritto.
[6] Qualora la facoltà di scelta dovesse restare
circoscritta alle sole pronunzie in via pregiudiziale, l’esito ora ragionato
nel testo è da mettere certamente in conto; ove, invece, essa sia riconosciuta
per ogni competenza della Corte, è verosimile che, almeno in molti casi, allo
“scarto” fatto della questione sollevata in via pregiudiziale non segua un
ricorso per inadempimento, nel timore che la questione sia nuovamente fatta
cadere e resti senza giudizio. Non è detto però che le cose vadano poi davvero
così: vuoi per il fatto che diversi possono essere nei due casi i soggetti
ricorrenti e diversi comunque i procedimenti e vuoi (e soprattutto) perché il
giudice potrebbe cambiare avviso.
[7] … sul quale può, se si vuole, vedersi la
mia nota dal titolo Rinvio pregiudiziale mancato e (im)possibile
violazione della CEDU (a margine del caso Ullens de Schooten e Rezabek c. Belgio), in Forum
di Quaderni Costituzionali. Altre ipotesi di soluzione volte a
prevenire o, comunque, ripianare i conflitti tra le Corti possono vedersi in A. Tizzano, Les
Cours européennes et l’adhésion de l’Union à la CEDH, cit., § 5.
[8] V., nuovamente, il mio scritto appena
cit.
[9] È da prendere altresì in considerazione
l’ipotesi che l’uno rinvio possa sommarsi all’altro, non già porsi di necessità
come ad esso alternativo. Forse, però, è consigliabile, ove si punti a
preservare l’equilibrio complessivo delle relazioni tra i giudici e il ruolo di
primo piano che gli stessi giudici comuni sono chiamati a giocare nell’ambito
delle relazioni stesse (su di che, sopra tutti, R. Conti, La Convenzione
europea dei diritti dell’uomo. Il ruolo dei giudici, Roma 2011), che, in
prima battuta, siano proprio questi ultimi a determinarsi circa l’opportunità
ovvero la doverosità dell’attivazione dello strumento in parola e solo
successivamente, in seconda battuta appunto, la Corte EDU, colmandosi così una
originaria, strutturale carenza del sistema.
[10] Riserve di vario segno sono, tuttavia, in
generale al riguardo avanzate da non pochi autori [tra gli altri, G. de Vergottini,
Oltre il dialogo tra le Corti. Giudici, diritto straniero, comparazione,
Bologna 2010 e S. Troilo, (Non)
di solo dialogo tra i giudici vivranno i diritti? Considerazioni
(controcorrente?) sui rapporti tra le Corti costituzionali e le Corti europee
nel presente sistema di tutela multilivello dei diritti fondamentali, in Forum
di Quaderni Costituzionali; ma v. le più articolate e diversamente
orientate posizioni di P. Perlingieri, Leale collaborazione tra Corte
costituzionale e Corti europee. Per un unitario sistema ordinamentale,
Quad. della Rass. dir. pubbl. eur.,
Napoli 2008; F. Fontanelli - G. Martinico, Alla ricerca della coerenza: le
tecniche del “dialogo nascosto” fra i giudici nell’ordinamento costituzionale
multilivello, in Riv. trim. dir. pubbl., 2/2008, 351
ss.; M. Bignami,
L’interpretazione del giudice comune nella “morsa” delle Corti sovranazionali,
in Giur. cost.,
1/2008, 595 ss. e, dello stesso, ora, Costituzione, Carta di Nizza, CEDU e
legge nazionale: una metodologia operativa per il giudice comune impegnato
nella tutela dei diritti fondamentali, in Rivista
AIC, 1/2011; V. Sciarabba, Tra fonti e Corti. Diritti e principi
fondamentali in Europa: profili costituzionali e comparati degli sviluppi
sovranazionali, Padova 2008; R.
Caponi, Democrazia, integrazione europea, circuito delle corti costituzionali,
in Riv. it. dir. pubbl. com.,
2010, 387 ss. e, dello stesso, Addio ai “controlimiti”
(Per una tutela della identità nazionale degli Stati membri dell’Unione europea
nella cooperazione tra le corti), in Europeanright.eu; Aa.Vv., Corti
costituzionali e Corti europee dopo il Trattato di Lisbona, a cura di M. Pedrazza Gorlero, Napoli 2010; Aa.Vv., The National Judicial Treatment of the ECHR and EU Laws.
A Comparative Constitutional Perspective, a cura di G. Martinico e O. Pollicino,
Groningen 2010, e G. Martinico
- O. Pollicino, The Impact of the
Protection of Human Rights by the European Courts on the Italian Constitutional
Court, in AA.VV., Human Rights Protection in the European Legal
Order: the Interaction between the European and the National Courts, a cura di P. Popelier - C. Van De Heyning - P. Van Nuffel,
Cambridge 2011, 65 ss. Inoltre,
A. Tizzano, Les
Cours européennes et l’adhésion de l’Union à la CEDH, cit.; O. Pollicino, spec. in Allargamento
ad est dello spazio giuridico europeo, cit., e in molti altri scritti; R. Conti, che sul “dialogo” tra i
giudici si è ripetutamente intrattenuto (di recente, part. in La
Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Il ruolo del giudice, Roma 2011, e, da ultimo, in Il diritto di
proprietà e la CEDU. Agli albori di una nuova proprietà costituzionale. Viaggio
fra Carte e Corti alla ricerca di un nuovo statuto proprietario, in corso
di stampa); G. Repetto,
Argomenti comparativi e diritti fondamentali in Europa. Teorie
dell’interpretazione e giurisprudenza sovranazionale, Napoli 2011; A. Cardone, Diritti fondamentali
(tutela multilivello dei), in Enc. dir., Ann.,
IV (2011), 335 ss. Da ultimo, E. Malfatti
- S. Panizza - R. Romboli, Giustizia costituzionale3, Torino 2011, 345 ss. e G.F. Ferrari, Le libertà. Profili
comparatistici, Torino 2011, spec. 297 ss. Volendo, possono poi vedersi
alcuni miei scritti, tra i quali Corte costituzionale e Corti europee: il
modello, le esperienze, le prospettive, in Aa.Vv., Corte
costituzionale e sistema istituzionale, a cura di F. Dal Canto e E. Rossi, Torino 2011, 149 ss., e Rapporti tra Corte
costituzionale e Corti europee, bilanciamenti interordinamentali
e “controlimiti” mobili, a garanzia dei diritti
fondamentali, in Rivista
AIC, 1/2011.
[11] Può vedersi in Quad. cost., 2/2011,
con una nota di M.E. Gennusa
e S. Ninatti,
Il comunicato congiunto dei Presidenti Costa e Skouris.
La difficile rotta verso una tutela integrata dei diritti, 469 ss.
[12] Si avrebbe, pertanto, uno di quei casi,
ampiamente studiati in letteratura, in cui un atto dell’Unione contrario alla
Convenzione è sanzionato in modo indiretto, attraverso l’atto interno che vi
dia attuazione ovvero lo recepisca.
[13] … e, tra questi, come si diceva, il
rinvio dall’una all’altra Corte europea.
[14] Il fatto che, nella circostanza, la Corte
EDU abbia fatto da scudo alla giurisprudenza eurounitaria, dandovi un
sostanziale avallo, non esclude, ovviamente, che avrebbe potuto determinarsi
diversamente. La qual cosa dimostra che, per l’uno o per l’altro verso, la
Corte di Lussemburgo può trovarsi sul banco degli imputati davanti alla Corte
di Strasburgo.
[15] Su ciò ha particolarmente insistito la
più sensibile dottrina: per tutti, A.
Tizzano, Les Cours
européennes et l’adhésion
de l’Union à la CEDH, cit., spec. §§ 7 e 8 e molti degli altri autori
richiamati in nt. 10.
[16] … oltre che a quella
nazionale, specificamente alle sue punte più avanzate, dalle quali si fa
culturalmente “impressionare” in più rilevante misura; e qui il riferimento è
soprattutto alla giurisprudenza tedesca, francese, spagnola e, per nostra
fortuna, anche italiana, cui – come si sa – si è fatto (e si fa) capo a
Lussemburgo, al momento della corposa elaborazione pretoria dei diritti
fondamentali nella loro dimensione sovranazionale.
[17] Oscillanti e discontinue le vicende della
“dottrina” del margine di apprezzamento, al punto da potersi seriamente
dubitare della loro sostanziale (e non meramente nominale, di facciata) reductio
ad unum.
[18] “Aggressiva” è stata
qualificata la giurisprudenza della Corte EDU nelle sue proiezioni in ambito
interno (ancora O. Pollicino,
negli scritti dietro citt.).
[19] Mi riferisco, part.,
alle sentt. nn. 236, 257 e 303 del 2011,
dove è palese lo scostamento dagli orientamenti della Corte EDU, pur se abilmente
mascherato a mezzo di un uso raffinato della tecnica del distinguishing
(sulla prima delle decisioni ora richiamate, v., spec., la nota di R. Conti, La
scala reale della Corte Costituzionale sulla tutela della CEDU
nell’ordinamento interno, in Corr.
giur., 9/2011, 1243 ss., spec. 1259 ss.; su di essa, nonché sulla seconda,
v., volendo, anche il mio La Corte costituzionale “equilibrista”, tra continuità e innovazione,
sul filo dei rapporti con la Corte EDU,
in Consulta
OnLine 2011
(0.07.2011)
[20] Indicativa di una
effettiva disponibilità al mutuo ascolto potrebbe essere la messa in atto da parte
della Consulta di uno dei punti-cardine del Mangold Urteil
del luglio scorso, specificamente laddove (§ 60) si rileva la preclusione
fatta al Bundesverfassungsgericht di
accertare la non applicabilità del diritto dell’Unione in ambito nazionale
fintantoché non sia stata offerta alla Corte dell’Unione stessa l’opportunità
di pronunziarsi (invita opportunamente a soffermarsi sul punto R. Caponi, Addio
ai “controlimiti”, cit., § IV). E, invero, per
quanto l’ipotesi che i “controlimiti” siano fatti
valere nelle esperienze di giustizia costituzionale si sia fin qui rivelata
meramente astratta, nulla tuttavia esclude che, prima o poi, se ne abbia
riscontro. La opportuna condizione al riguardo posta dal giudice costituzionale
tedesco, che peraltro – come si sa – non è mai stato tenero né con l’Unione né
con la sua Corte (e basti solo rammentare le pignole puntualizzazioni fatte dal
Lissabon Urteil),
potrebbe dunque giovare a riportare sui giusti binari i rapporti tra le due
Corti, all’insegna di quel principio di reciproca cooperazione che – come qui
pure si fa notare – si pone quale autentica Grundnorm
delle relazioni interordinamentali, specie
appunto nelle loro proiezioni al piano del “diritto vivente”.
Altro discorso è, poi, che la
dottrina dei “controlimiti” sia fatta oggetto di
critico ripensamento già nelle sue fondamenta di ordine teorico, prima ancora
che nelle sue possibili applicazioni, secondo quanto mi sono sforzato di fare
in più luoghi di riflessione scientifica (tra i quali, quelli dietro richiamati
in nt. 10).
Senza ora riprendere neppure nei suoi
termini essenziali la complessa e vessata questione, mi limito qui solo a
rinnovare la mia preferenza a favore della tesi secondo cui, giusta la
configurazione teorica di partenza (come si sa, fatta propria dalla Consulta e
dai suoi benevoli laudatores) che vede
comunque dotate le norme dell’Unione di “copertura” in uno dei principi
fondamentali dell’ordinamento (e, segnatamente, nell’art. 11), nessuna
ordinazione gerarchica può per sistema farsi tra i principi stessi,
tale perciò da riflettersi a cascata alle norme che godono della loro
protezione [di contro, un rinnovato favore nei riguardi della comune opinione
favorevole al riconoscimento della categoria teorica dei “controlimiti”
può, da ultimo, vedersi in A. Spadaro, I diritti sociali di fronte
alla crisi (necessità di un nuovo “modello sociale europeo”: più sobrio,
solidale e sostenibile), Relaz. al Convegno su I diritti sociali dopo Lisbona. Il ruolo
delle Corti. Il caso italiano. Il diritto del lavoro fra riforme delle regole e
vincoli di sistema, Reggio Calabria, 5 novembre 2011, in paper, spec. § 10]. Di modo che, con specifico
riguardo alla condizione del diritto eurounitario,
non può a mia opinione dirsi né che esso prevalga né che receda allo scontro
con norme di diritto interno delle quali sia provata – ciò che va, ovviamente,
ogni volta documentato – l’attitudine a dare la prima, diretta e necessaria
specificazione-attuazione ai principi di base dell’ordinamento. Una soluzione,
questa, che ha poi la sua più espressiva testimonianza e conferma al piano
delle vicende relative ai diritti, laddove cioè si abbia a che fare con norme
dell’Unione che possano, per la loro parte, vantare la formidabile tutela
apprestata dal tandem degli artt. 2 e 3 cost.,
prima e più ancora di quella che può loro venire dall’art. 11. Nel qual caso,
le eventuali antinomie tra norme sovranazionali e norme nazionali (anche
costituzionali e persino se espressive di principi fondamentali o, come che
sia, da questi “coperte”) ridondano e si risolvono in un conflitto interno ai
valori costituzionali di “copertura” (e, segnatamente, all’art. 2, nel suo fare
“sistema” con l’art. 3 e coi principi fondamentali restanti), un conflitto non
altrimenti ripianabile – a me pare – che con la “logica” usuale dei
bilanciamenti secondo i casi.
[21] Dopo la pur timida,
circoscritta apertura del 2008, si è praticamente tornati all’antica, indebita
chiusura; e il “dialogo” tra le due Corti, appena avviato, si è subito
nuovamente interrotto.
[22] Non si trascuri il dato, di comune esperienza, per cui le sorti dei
diritti, un tempo demandate al buon funzionamento del solo meccanismo
incidentale, sempre più di frequente oggi si affidano alla via principale, per
effetto delle accresciute opportunità offerte all’autonomia regionale a seguito
della riscrittura del Titolo V, senza peraltro trascurare le altre vie che
ugualmente portano alla Consulta (pertinenti notazioni sul punto, ora, in C. Salazar, Dieci anni dopo la
riforma del Titolo V: il “ruolo” delle fonti regionali, relaz. al Convegno su Il
regionalismo italiano dall’unità alla Costituzione e alla sua riforma,organizzato
dall’ISSiRFA, Roma 20-22 ottobre 2011, in paper; volendo, possono poi vedersi anche i miei Regioni
e diritti fondamentali, in Giur. it., 6/2011, 1461 ss. e Unità-indivisibilità dell’ordinamento, autonomia regionale, tutela dei
diritti fondamentali, in
Consulta
OnLine 2011
(26.04.2011) e in Nuove aut.,
1/2011, 25 ss.).
[23] Non si sottovaluti l’inconveniente che
potrebbe aversi per il caso che il diritto eurounitario
sia trasgredito proprio da una pronunzia del giudice delle leggi, astrattamente
idonea a portare ad un ricorso davanti alla Corte di giustizia (senza,
peraltro, escludere la stessa eventualità, rispetto alla prima non
necessariamente alternativa, che si abbia altresì un ricorso davanti alla Corte
EDU). Con il che verrebbero a determinarsi conflitti tra “giudicati” (in larga
accezione) che non si saprebbe poi come risolvere, a motivo del fatto che
davanti ad essi la teoria costituzionale appare ad oggi incerta ed esitante,
alla affannosa ricerca di un modo complessivamente (e sia pure in parte)
appagante per sistemare armonicamente le tessere di un puzzle che
appare estremamente arduo da comporre (da ultimo se ne tratta, in aggiunta agli
scritti sopra citt., in F. Marone, Il difficile bilanciamento tra principio del contraddittorio
e “tono costituzionale” nella dialettica tra Corte costituzionale e Corte
europea dei diritti dell’uomo, in Rivista
AIC, 4/2011).