Antonio Ruggeri
Presentazione del Seminario del
Gruppo di Pisa su
Le zone d’ombra della giustizia costituzionale. I giudizi sulle leggi
(Genova, 10 marzo 2006)
S’inaugura oggi un nuovo
modo di riflettere assieme su temi di giustizia costituzionale rispetto ai
precedenti del Gruppo di Pisa, che prende la forma di un seminario in progress: all’incontro di oggi, infatti, dedicato alle “zone d’ombra” della
giustizia costituzionale con riguardo ai giudizi sulle leggi, seguirà quello
del 13 ottobre prossimo, che si terrà a Modena, relativamente agli altri
giudizi.
La ragione è presto
chiarita: l’estensione del campo oggetto di studio, con la complessità degli
ordini tematici allo stesso facenti capo e la varietà
dei profili bisognosi di essere riguardati, ha imposto questa soluzione. In una
stagione caratterizzata da innumeri manifestazioni celebrative del primo mezzo
secolo di vita della Corte costituzionale in Italia, il Gruppo di Pisa ha
ritenuto di dover avviare al proprio interno un confronto a largo raggio e,
quanto più possibile, approfondito sugli elementi di debolezza o, come che sia,
d’inadeguatezza del nostro sistema di giustizia costituzionale, così come
resisi palesi attraverso la maturazione di esperienze
processuali ormai nondimeno sufficientemente definite nelle loro linee portanti
e maggiormente espressive.
“Zone d’ombra”, s’è
detto, e non pure “zone franche”, secondo un’etichetta, come si sa, da anni circolante e particolarmente diffusa. L’una espressione, infatti, non nega ma anzi al suo interno
comprende la seconda, allo stesso tempo superandola: volendosi, cioè, riferire
anche ai casi in cui il giudizio della Corte ha ugualmente modo di spiegarsi,
pur lasciando per l’uno o per l’altro aspetto comunque insoddisfatte o, come
che sia, non pienamente appagate talune aspettative di giustizia costituzionale
(per una loro densa, esigente accezione).
Forse, ciascuno dei
“tipi” di giudizio sulle leggi avrebbe meritato una sede a se stante e, di
sicuro, un approfondimento di analisi maggiore di
quello che qui, a motivo del ristretto lasso temporale a disposizione, potrà
aversi. La consapevolezza, tuttavia, delle mutue implicazioni che si hanno tra
l’una e l’altra sede o modalità di giudizio ha portato
alla scelta che s’è fatta, sopra succintamente indicata, volta a non separare
ciò che è di per sé unito e, pertanto, meritevole di unitaria considerazione
(ancora meglio avrebbe poi potuto farsi trattando in un solo incontro tutti i
giudizi, sulle leggi e non, in ragione dei rimandi che gli uni e gli altri si
fanno, pur nella loro irripetibile, specifica conformazione; ma, s’è pensato
che porre un ragionevole lasso di tempo tra l’una e l’altra occasione di
riflessione avrebbe potuto per molti aspetti giovare alla maturazione di
quest’ultima e ad una serena valutazione dei suoi esiti ricostruttivi).
D’altronde, delle
ricadute che, a seconda del modo con cui prendono
corpo talune esperienze processuali, possono aversi su altre esperienze alle
prime contigue si è avuta tangibile conferma dalla “svolta” segnata dalla
riforma del titolo V che – come è stato, ancora da ultimo, rilevato nella
Conferenza stampa del Presidente A. Marini (e già in molti altri commenti) –
ha, almeno al presente, “convertito” la Corte da giudice dei diritti, per il tramite della soluzione di controversie
sorte in occasione dell’applicazione giudiziale di leggi sospette
d’incostituzionalità, in arbitro dei
conflitti (anche, e in primo luogo, legislativi) tra Stato e Regioni. Nella
Conferenza suddetta si manifesta l’avviso che si tratta di un momentaneo
squilibrio, dovuto all’assestamento richiesto dalla corposa innovazione
costituzionale del 2001; è, tuttavia, da temere che la opacità
del quadro costituzionale ridisegnato dalla riforma e, forse più ancora, la
mobilità degli elementi che lo compongono, che esibiscono un’accresciuta
disponibilità a farsi variamente “impressionare” dall’esperienza, possano
portare la tendenza in atto ad ulteriormente consolidarsi, sì da rendersene
quindi assai problematico lo sradicamento dal terreno su cui alligna e cresce
il diritto costituzionale vivente.
Sta di fatto che, oggi
più di ieri, discorrere dei giudizi proposti in via d’eccezione in modo
separato da quelli in via d’azione (e, naturalmente, viceversa) sarebbe
palesemente parziale e complessivamente forzato, a motivo di quella ricaduta di effetti di talune vicende processuali, di cui si diceva,
da una parte e dall’altra, per il rilievo ad esse secondo occasione conferito
dalla giurisprudenza costituzionale.
Di sicuro, oggi pure si
tornerà a discutere di questioni attorno alle quali la dottrina da tempo s’interroga, con varietà di orientamenti
manifestati e di soluzioni proposte, nei quali non soltanto si rispecchiano –
com’è naturale che sia – le personali opzioni e tendenze metodico-teoriche
di ciascuno studioso ma si rendono, almeno in parte, palesi le molteplici
sfaccettature esibite dalle singole esperienze di giustizia costituzionale
verso ciascuna delle quali, in maggiore o minore misura, si fa attrarre
l’attenzione da parte dei commentatori.
La circostanza, ad es., secondo cui le pronunzie d’inammissibilità (manifesta e
non) siano col tempo cresciute non esclusivamente (e, forse, neppure
principalmente) si deve – come, invece, è ancora da ultimo, segnalato dal
discorso alla stampa del Presidente Marini – alla mancata o, come che sia, ad
una insufficiente conoscenza dei meccanismi processuali da parte delle autorità
remittenti, che dunque, per l’uno o per l’altro
verso, “sbagliano” a rivolgersi alla Corte, laddove potrebbero da sole chiudere
la partita. Certo, gli sbagli (o gli abbagli…), alle
volte anche clamorosi, ci sono; ma non è, appunto, questa la sola evenienza
possibile, ove si consideri che in non pochi casi l’adozione di una pronunzia in limine litis
si deve, in realtà, ad una precisa opzione di
merito maturata presso la Consulta, che avrebbe potuto, volendo, rivestirsi
di forme diverse, restando nondimeno invariato il “bilanciamento” degli
interessi in campo. Ed è ormai provato che una stessa
soluzione viene non di rado ad esser sorretta e – come dire? – veicolata da tecniche decisorie diverse (persino
contrapposte), non già (e non sempre) in ragione dei casi, obiettivamente considerati, vale a dire per gli elementi
normativi e fattuali che li connotano e che
presentano l’attitudine a farsi rivedere con caratteri immutati nel corso del
tempo, esprimendo pertanto una naturale vocazione alla loro “universalizzazione”, bensì secondo occasione, vale a dire in ragione di congiunturali interessi (anche
di “contesto” politico) davanti ai quali la Consulta non riesce a restare
insensibile.
Altre volte, poi,
l’inammissibilità evidenzia una carenza del sistema,
quale che ne sia la causa, che obbliga il giudice costituzionale alla resa.
Qui occorre distinguere,
dal momento che la carenza stessa può essere di ordine
positivo, richiedendo pertanto di essere colmata ad opera di una nuova
“razionalizzazione” normativa (quali che ne siano il piano al quale essa può
aversi e le forme di cui ha bisogno di rivestirsi: costituzionali, legislative,
regolamentari, ecc.), ma potrebbe pure essere di origine giurisprudenziale,
essendo dunque sufficiente a rimuoverla l’impianto di un nuovo “diritto
vivente”, alla cui formazione giudici comuni e Corte sono, con tipicità di
ruoli, chiamati a concorrere. Una rimozione che, in questo secondo caso,
potrebbe risultare ancora più gravosa e difficoltosa
che nel primo, sol che si consideri che alle volte è meno disagevole innovare
ad un diritto scritto, peraltro sottoposto a non infrequenti mutamenti,
piuttosto che ad un diritto non scritto, specie se consuetudinario, quale
quello riscontrabile sul piano dell’interpretazione-applicazione delle regole
sul processo, la gran parte delle quali – al di là di alcune perduranti
oscillazioni – appare ormai talmente radicata nell’esperienza da essere appunto
praticamente irremovibile.
Pur godendo
di larghi e convinti consensi, per il considerevole apporto dato alla
crescita e diffusione dei principi-valori fondanti l’ordine repubblicano, il
nostro sistema di giustizia costituzionale presenta, praticamente in ogni sua
parte, accanto a molte luci non poche né poco estese “zone d’ombra”: alcune
sono considerate tali per pressoché unanime riconoscimento (anche qui si è,
dunque, in presenza di una consuetudine culturale, idonea peraltro, per la sua
parte, ad alimentare il “diritto vivente”); altre invece sono – come si sa –
assai discusse, già a riguardo della loro stessa esistenza ovvero dei rimedi
prospettabili al fine di far riflettere al loro interno almeno un po’ della
luce restante.
Nulla, ovviamente, posso
ora dire a riguardo sia delle une che delle altre; è sufficiente, tuttavia, il
riscontro del dato in sé a dare un senso al nostro
incontro di oggi ed a quello che gli farà seguito. Quel che è certo è che si
vorrebbe una giustizia costituzionale ancora più ferma (o meno oscillante…),
penetrante persino negli angoli più reconditi dell’ordinamento e
dell’esperienza costituzionale, e – soprattutto – giusta.
Per questa ragione, molti
di noi auspicano un ancora più esteso riconoscimento della qualità di giudice a quo rispetto a quello avutosi ad opera di una sensibile (ma, forse, pure poco coraggiosa)
giurisprudenza, cui nondimeno va il merito di aver dilatato gli spazi,
oggettivamente angusti, segnati dalla formula dell’art. 23, l. n. 87 del ’53
(tra le figure al riguardo maggiormente discusse le autorità amministrative
indipendenti o, quanto meno, alcune di esse che, per
funzioni e posizione, parrebbero risultare assai contigue alle autorità
propriamente giurisdizionali). Un allargamento che, forse, di necessità passa
attraverso un’approfondita revisione teorica delle
nozioni di “giudice” e di “giudizio”, rispetto a talune loro particolarmente
accreditate ma ormai troppo risalenti e complessivamente invecchiate
configurazioni: una revisione per la quale la stessa giurisprudenza, pur con
alcune non rimosse incertezze ed esitazioni, ha offerto spunti interessanti,
che meriterebbero di essere opportunamente ripresi e coltivati. Non è,
nondimeno, chi non veda come l’ampliamento della
cerchia degli organi abilitati a rivolgersi alla Corte richieda di esser fatto
con molta prudenza ed accortezza, dovendosi pur sempre, scrupolosamente
salvaguardare il bene indisponibile della funzionalità dei meccanismi
processuali, venendo meno la quale la stessa rigidità della Costituzione
finirebbe col trovarsi sotto stress,
fino ad esser gravemente, irreparabilmente pregiudicata.
La questione, che torna a
riproporsi in più luoghi ed occasioni, è assai
complessa e, per un certo verso, parrebbe avvolgersi in se stessa: chiudendo le
porte di accesso alla Corte ad alcune autorità si metterebbe a rischio la
rigidità, alcune leggi riuscendo in tal modo a sottrarsi al sindacato della
Corte (o, comunque, rendendosi lo svolgimento di quest’ultimo assai
disagevole); aprendo però le porte stesse in modo non oculato, la rigidità
verserebbe, nuovamente, in pericolo, per il sovraffollamento delle istanze
pervenibili alla Consulta, con evidente pregiudizio – come s’è detto – per la
funzionalità dell’organo giudicante.
Allo stesso modo, sono da tempo patrocinati un moderato allargamento ed un
sensibile svecchiamento della dinamica processuale, con particolare riguardo ai
giudizi sulle leggi (per gli altri giudizi, come si sa, si sono registrate
talune apprezzabili, ancorché incompiute, novità), specie attraverso la
estensione del contraddittorio (essa pure, naturalmente, subordinata a rigorose
condizioni e sottoposta a strette verifiche nei singoli casi). Si fanno, poi,
ad oggi attendere alcune novità, anch’esse da tempo
sollecitate a formarsi ma fin qui rimaste non attuate, riguardanti i “termini”
delle questioni: forse, in maggior misura l’oggetto rispetto al parametro,
perdurando talune chiusure della giurisprudenza francamente inspiegabili e,
comunque, oggi più di ieri con maggiori difficoltà argomentabili (ad es., in
merito al mancato riconoscimento del “valore di legge” di certi tipi di
regolamento e, in genere, di talune fonti di autonomia, malgrado la riforma del
titolo V abbia ad esse conferito esplicito, peculiare rilievo: penso, ora,
soprattutto ai regolamenti “delegati” dallo Stato alle Regioni, a norma del VI
c. dell’art. 117). È inoltre da verificare in che modo taluni
“tipi” di oggetto possano interagire sulle modalità di giudizio: questione che
si fa particolarmente complessa in relazione a quelle leggi (o atti ad esse
equiparati) che, per ragioni varie (di natura o di tempo o, più in genere, di
contesto), possono considerarsi soggette ad uno scrutinio stretto di
costituzionalità, persino tale da portare al ribaltamento della presunzione di
validità giudicata idonea ad assistere le leggi (ma: gli atti giuridici in
genere). La qual cosa può, a mia opinione, esser predicata con riguardo a leggi
eccezionali e di emergenza e, forse pure, a leggi che
in genere si discostino dallo standard per esse stabilito dalla Carta e
che ne identifica lo statuto teorico (ad es., le leggi personali, ove si
consideri l’attributo della generalità quale carattere naturale,
ancorché non necessario, degli atti produttivi di norme). Ciò che, poi,
in ragione delle mutue implicazioni che si intrattengono
tra oggetto e parametro, testimonia come possa farsi un “uso” complessivamente
diverso, ora più ed ora meno intenso e penetrante, sia dell’oggetto che del
parametro e, per ciò pure, delle tecniche con cui l’uno è posto al confronto
dell’altro e giudicato (a partire dalla tecnica della ragionevolezza, per una
sua particolarmente densa, assiologicamente connotata accezione: tecnica –
checché se ne dica da parte di taluno – idonea ad essere declinata al plurale
ed a manifestarsi pertanto in forme diverse in ragione dei casi, non già dunque
a farsi rivedere nel tempo con costanza di caratteri).
La questione dei
“termini” è figlia di altre e più generali questioni, dalle notevoli ascendenze
ed implicazioni teoriche, alle quali non mi è qui
consentito neppure accennare. È tuttavia chiaro il legame di immediata
derivazione che si intrattiene tra l’una e le altre, come pure tra queste
ultime inter se. E non posso qui trattenermi dal
rilevare che la rigidità e fermezza di alcune prese di
posizione del giudice delle leggi avrebbero forse potuto essere, almeno in
parte, ammorbidite qualora la prospettiva metodica e gli schemi d’inquadramento
adottati fossero stati sensibilmente diversi.
Faccio solo un esempio al
riguardo, al fine di dare un minimo di concretezza al discorso ora svolto. Se
la Corte avesse fatto propria la proposta ricostruttiva che vuole
obiettivamente circoscritti l’oggetto del giudizio e la cerchia dei diretti
destinatari delle pronunzie della Corte, in applicazione di una prospettiva relativistica di sistemazione delle
esperienze di giustizia costituzionale nella quale da tempo
mi riconosco, la questione dell’estensione del contraddittorio, nei giudizi in
via d’eccezione come pure in quelli in via principale, avrebbe potuto esser in
larga misura sdrammatizzata, una volta assodato che solo alcuni soggetti (e non
altri) sono direttamente e specificamente riguardati dal caso
pendente davanti alla Corte (e, perciò, dai suoi possibili esiti), siccome
ricadenti nella medesima situazione
normativa – come a me piace chiamarla – in cui stanno attore e convenuto.
Di rovescio, stabilito che il verdetto della Consulta può toccare nella medesima misura e nel medesimo tempo altri soggetti
(magari assai numerosi e persino tutti
coloro che compongono una stessa categoria di persone)
oltre le “parti” in causa (ad es., laddove sia impugnata per iniziativa di una
o più Regioni una legge-quadro statale), diventa arduo chiudere le porte di
accesso al giudizio anche ad essi (alle altre Regioni, dunque; ma, con
l’estensione dell’area materiale degli interventi regionali e con la
sovrapposizione delle competenze “trasversali” dello Stato, l’ipotesi che i
“conflitti legislativi” tocchino altresì soggetti diversi da Stato e Regioni è
da mettere seriamente in conto, malgrado le resistenze al riguardo, come si sa,
manifestate in giurisprudenza).
È interessante notare
come alcune questioni, quale quella, cui si è appena accennato, dell’apertura
del contraddittorio a terzi, pur diversificandosi
nelle loro peculiari forme espressive a seconda dei “tipi” di giudizio di
costituzionalità, abbiano una base comune, a motivo del carattere
teorico-generale delle radici dalle quali si tengono ed alimentano. Ed è
altresì interessante notare come talune innovazioni fatte o progettate in
rapporto al quadro originario (e mi riferisco ora sia alla riforma del titolo V
che alla “controriforma”, come a me piace chiamarla, posta in
essere a fine anno scorso, sulla quale pende, come si sa, un’iniziativa
referendaria dall’esito – checché se ne dica da parte di alcuni inguaribili
ottimisti – nient’affatto scontato), anziché colmare talune iniziali carenze,
abbiano addirittura finito con l’accrescerle o, come che sia, col rimarcarle.
La vicenda suona, per
certi aspetti, persino paradossale. La conoscenza via via
maturata di taluni difetti dei meccanismi di giustizia costituzionale, ignorati
ed imprevedibili al tempo della confezione di questi ultimi, avrebbe dovuto
portare a sia pur parziali aggiustamenti degli ingranaggi stessi, non già al
loro ulteriore logoramento.
Non intendo ora, per
deliberato proposito, soffermarmi sulla “riforma della riforma” sub iudice, in
merito alla quale non conosco una sola voce che si sia espressa senza sollevare
pur parziali ma penetranti e argomentate riserve o critiche a riguardo di
questa o quella sua parte o previsione. Per ciò che qui specificamente
interessa, è diffusamente paventato, come si sa, il rischio che la Consulta e i
suoi giudizi possano risultarne eccessivamente, irragionevolmente
caricati di valenza politica, a motivo della nuova composizione della Corte,
dell’ancòra più confusa spartizione di materie e
funzioni tra Stato e Regioni, nonché del modo contorto con cui è stato pensato
e del modo largamente approssimativo e farraginoso con cui è stato
ristrutturato il procedimento legislativo in ambito statale, di cui una sola
cosa si sa con assoluta, incrollabile certezza: che, appunto, cresceranno le
occasioni di conflitto tra le Camere, con effetti ad oggi imprevedibili,
sicuramente comunque dannosi. Né a parare l’alea della loro “giurisdizionalizzazione” (che, nondimeno, se ammessa e
riscontrata in forme eccessive, recherebbe non poco nocumento alla funzionalità
della Corte) soccorre il disposto di cui al nuovo ultimo comma dell’art. 70,
che vuole in ogni sede
insindacabili le soluzioni date sul punto della competenza, siccome
probabilmente affetto da incostituzionalità (in rapporto al principio
fondamentale della supremazia della Costituzione: un autentico prius logico ed
assiologico dell’ordinamento costituzionale delle fonti).
Restando, dunque, al
diritto costituzionale in atto vigente, è singolare che l’intento coltivato
dall’autore della riforma del 2001 e volto ad una sensibile valorizzazione
dell’autonomia su basi territoriali (specie di quella regionale), anche nelle
sue proiezioni processuali, si sia rivoltato contro se stesso, perlomeno in
talune realizzazioni ad oggi avutesi per il tramite delle esperienze di
giustizia costituzionale.
Certo,
le novità non
sono mancate; ed alcune di esse hanno avuto fiato attraverso la bocca della
Consulta. E, tuttavia, la vicenda, riguardata nel suo complesso, sembra
svolgersi e prendere forma sotto il segno di una soffocante continuità, tanto
più insopportabile quanto più abilmente mascherata e, in buona sostanza,
deviante dal solco costituzionale: con l’aggravante che, volendo il nuovo
quadro costituzionale portare ancora più in alto rispetto al passato la
condizione delle autonomie, lo scarto tra le ambizioni del modello e le sue
esigue, deludenti realizzazioni appare maggiormente vistoso
e, con esso, vieppiù evidenti talune non rimosse carenze negli ingranaggi della
giustizia costituzionale.
La circostanza, ad es., che poco sia, in buona sostanza, cambiato in ordine alla
effettiva spartizione dei campi materiali (quanto pesa la potestà “residuale” e
quale ne è la capacità di distinguersi, in “orizzontale” ed in “verticale”,
dalle potestà restanti?) e nulla sia cambiato sul fronte dei vizi delle leggi,
rispettivamente, denunziabili da Stato e Regioni ovvero in ordine alla
partecipazione dei terzi (magari di altri enti territoriali…) alla dinamica
processuale: ebbene, tutto questo (ed altro ancora), oggi più di ieri, sembra
negativamente contrassegnare le esperienze processuali in parola, proprio in ragione del fatto che la
riforma ha mirato ad ulteriormente promuovere la condizione delle autonomie
(che, poi, quest’intento si sia mal tradotto sul piano della formulazione degli
enunciati, che a sua volta denunzia al proprio interno non poche discordanze,
incertezze, oscurità di dettato, è un altro discorso, che s’è già fatto in
molte sedi e che non può tuttavia essere qui nuovamente ripreso).
Quel che importa notare è
che, in tal modo, la forbice tra il piano delle previsioni costituzionali di ordine sostantivo ed il piano delle esperienze
processuali, già visibilmente aperta nel dettato originario della Carta, si
allarga ulteriormente con la riforma del 2001, mostrando la complessiva
inadeguatezza delle seconde a stare al passo delle prime ed anzi ad allinearsi
ad esse, assecondandone il verso, pur nei limiti obiettivi di rendimento dei
meccanismi processuali in atto esistenti.
Di più non posso ora dire
ed anzi mi scuso per aver sottratto fin troppo tempo alla discussione. Chiudo
esprimendo, unitamente ai ringraziamenti particolarmente sentiti, non di
circostanza, agli amici e colleghi genovesi per lo sforzo prodotto
nell’organizzazione del seminario e per la calorosa ospitalità riservataci, non
già l’auspicio ma la certezza che anche questo nostro incontro sarà animato e
ricco di indicazioni, al pari degli altri che l’hanno
preceduto. Ne dà sicura garanzia la provata esperienza dei relatori, di cui è
nota la sensibilità per i temi della giustizia costituzionale ed il contributo
già ripetutamente dato alla soluzione di talune tra le più aggrovigliate
questioni ad essi afferenti, nonché la serietà e
l’impegno nella ricerca già dimostrati dai giovani studiosi cui è stato rivolto
l’invito a svolgere alcuni mirati interventi su profili di cruciale rilievo,
dei quali sono sicuro che ugualmente, in ragguardevole misura, si gioverà il
nostro dibattito.