VALENTINA PUPO *
L’ABROGAZIONE DEL DECRETO LEGISLATIVO
CHE VIETA LE ASSOCIAZIONI DI CARATTERE MILITARE
Sommario:
Premessa – 1. Breve ricostruzione della vicenda politica – 2. Il divieto costituzionale
delle associazioni “paramilitari”: origine ed attuazione – 3. Il d.lgs. 43/1948
quale legge costituzionalmente necessaria (o obbligatoria) – 4. La possibile
chiamata in causa della Corte costituzionale. Riflessioni conclusive.
1. Premessa. - Nelle ultime settimane è sorta una
polemica tra esponenti del Governo e parlamentari dell’opposizione,
relativamente alla controversa abrogazione del decreto legislativo 14 febbraio
1948, n.43, intitolato “Divieto delle
associazioni di carattere militare”, intervenuta con l’entrata in vigore
del decreto legislativo 15 marzo 2010, n. 66. I toni accesi che lo scontro
politico ha assunto su questo tema non si sono sviluppati tanto, come è normale
che accada nella dialettica parlamentare, durante l’iter di approvazione del decreto, quanto nell’imminenza della sua
entrata in vigore, in conseguenza della forse “fortuita” individuazione degli
effetti positivi, dal punto di vista penale, che l’abrogazione del reato
avrebbe potuto apportare ad alcuni politici e attivisti di un partito di
maggioranza, rinviati a giudizio esattamente ex d.lgs. n. 43/1948.
La ricostruzione della
vicenda può, però, essere utile anche per degli spunti di riflessione su alcuni
principi costituzionali, come la libertà di associazione ed i connessi limiti,
di cui all’art.18 Cost., sul tema delle leggi costituzionalmente necessarie,
nonché, nell’ipotesi – allo stato ancora lontana pur se non improbabile – di
una chiamata in causa della Corte costituzionale in merito a tale disposizione
abrogativa, sull’atteggiamento da essa tenuto in relazione alle c.d. norme
penali più favorevoli abrogatrici[1].
Ma veniamo brevemente ai
fatti.
2. Breve ricostruzione
della vicenda politica . - Il 9 ottobre 2010 è entrato in vigore il decreto legislativo
15 marzo 2010, n. 66, recante il “Codice
dell'ordinamento militare”, riformato alla luce della legge delega per la “semplificazione ed il riassetto normativo”
(c.d. taglia-leggi) del 28 novembre 2005, n. 246, così come modificata dalla
legge 18 giugno 2009, n. 69. La legge n. 246/2005, all’art. 14, comma 14,
indica principi e criteri direttivi ai quali il Governo dovrà attenersi
nell’attuare una “semplificazione della legislazione” statale, individuando le
disposizioni antecedenti il 1° gennaio 1970, anche se successivamente
modificate, la cui permanenza in vigore è ritenuta indispensabile, e al comma
14 quater delega il Governo ad adottare decreti
legislativi recanti l’abrogazione espressa di disposizioni, anche posteriori al
1° gennaio 1970, che siano state oggetto di abrogazione tacita o implicita,
oppure che abbiano esaurito la loro funzione, siano prive di effettivo
contenuto normativo o siano comunque obsolete.
In
attuazione di tale legge, il 1° dicembre 2009 è stato emanato il decreto
legislativo n. 179, con il quale si è provveduto ad individuare una serie di
leggi anteriori al 1970 che occorre mantenere in vigore perché indispensabili.
Tutte
queste precisazioni appaiono opportune in considerazione delle polemiche
sopraccennate sul decreto legislativo n. 66/2010, alle quali, peraltro, è stata
prestata una scarsa attenzione da parte dei media
in conseguenza della centralità assunta successivamente da ben altre notizie di
attualità politica.
Il
motivo del contendere lo si può rinvenire in una delle migliaia di disposizioni
che compongono il suddetto provvedimento. L’art. 2268, infatti, rubricato “abrogazione espressa di norme primarie”,
compie ben 1085 abrogazioni. Tra di esse, al comma 297, quella che interessa il
decreto legislativo 14 febbraio 1948, n. 43, che vieta le «associazioni di carattere militare,
le quali perseguono, anche indirettamente, scopi politici», stabilendo delle
pene detentive particolarmente consistenti per i promotori, i costitutori, gli
organizzatori o i dirigenti di associazioni di tal fatta (reclusione da uno a
dieci anni), e più lievi, invece, per i partecipanti (reclusione fino a
diciotto mesi).
L’eliminazione
di questo reato ha fatto sì che venisse attribuito al decreto l’appellativo di
“lodo-Lega” o di “legge ad Legam”[2].
La ragione sta nel fatto che co-proponenti del
summenzionato “Codice dell’ordinamento
militare” sono il Ministero delle Difesa, com’è ovvio, ed il Ministero della
Semplificazione Normativa, al vertice del quale, dal maggio del 2008, anno
della sua istituzione, vi è uno dei massimi esponenti del partito della Lega
Nord.
E
proprio alcuni parlamentari di tale partito, tra cui lo stesso Ministro, un
membro del Parlamento europeo[3],
nonché altri 36 tra dirigenti e militanti risultavano sotto processo a Verona,
originariamente con le imputazioni, in concorso, di attentato contro l’integrità, l’indipendenza e l’unità dello Stato
(ex art. 241 c.p.), attentato contro la Costituzione dello Stato
(ex art. 283 c.p.), associazione antinazionale (ex art. 271 c.p.), costituzione di associazioni di carattere militare che perseguono,
anche indirettamente, scopi politici (ex
art.1, d.lgs. n. 43/1948).
Le imputazioni erano legate
alla costituzione, nel 1996, dell’associazione nota con il nome di “Guardia
Nazionale Padana”, i cui aderenti erano soprannominati “camicie verdi” per via
delle divise adottate[4].
Degli iniziali quattro capi di imputazione ne era rimasto uno soltanto, in
conseguenza dell’intervenuta sentenza di proscioglimento degli imputati per i
reati di cui agli artt. 241, 283 e 271 c.p., in seguito alla dichiarazione di
incostituzionalità del reato di associazione antinazionale (art. 271 c.p.),
pronunciata dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 243 del
2001, ed alle modifiche al codice penale in materia di reati di opinione,
apportate dalla legge 24 febbraio 2006, n. 85, che ha ristretto le fattispecie
di cui agli artt. 241 e 283 del codice penale al solo compimento di “atti violenti, diretti ed idonei”,
rispettivamente, a menomare l’unità dello
Stato e a mutare la Costituzione.
Le posizioni dei
parlamentari, inoltre, sono state stralciate con la pronuncia, nei loro
confronti, di sentenze di “non luogo a procedere per difetto di condizioni di
procedibilità”, emesse in seguito alle dichiarazioni di inammissibilità, da
parte della Consulta, dei ricorsi per conflitto di attribuzione tra poteri dello
Stato presentati dal GUP del Tribunale di Verona ai fini dell’accertamento del
corretto uso, ad opera delle Camere, del potere di decidere sulla sussistenza
dei presupposti di applicabilità dell’insindacabilità parlamentare ex art. 68, comma 1, Cost.[5].
Il processo a carico
degli altri 36 rinviati a giudizio, dopo le numerose sospensioni subite,
avrebbe dovuto aprirsi il 1° ottobre 2010 per il capo di imputazione residuo.
In udienza, però, i difensori di alcuni imputati, sollevando un’eccezione
preliminare, hanno fatto rilevare che, dal 9 ottobre, con l’entrata in vigore
del nuovo “Codice dell’ordinamento
militare”, il reato che punisce la costituzione di associazioni
paramilitari con scopi, anche indirettamente, politici sarebbe stato abolito,
ed il Tribunale di Verona non ha potuto far altro che aggiornare il processo al
19 novembre.
Questa “fortuita”
circostanza ha fatto sì che l’attenzione dei media e delle opposizioni si concentrasse sull’abrogazione del
d.lgs. n. 43/1948, alle cui conseguenze nessuno sembrava aver fatto caso. E
forse neanche al suo inserimento nelle centinaia di abrogazioni espresse
compiute dal d.lgs. n. 66/2010.
Tant’è che il Ministero
della Difesa ha subito comunicato che si era, in realtà, trattato di un “mero
errore materiale”, occorso nella redazione del decreto, e si sarebbe provveduto
ad emendarlo con la pubblicazione di una rettifica sulla Gazzetta Ufficiale,
prima della sua entrata in vigore[6],
in base a quanto previsto dall’art.15 del D.P.R. 14 marzo 1986, n. 217[7].
Peraltro, vi era anche un’incoerenza logico-giuridica in tale abrogazione, se
si considera che il d.lgs. n. 43/1948, in quanto norma che è indispensabile
rimanga in vigore, era stato espressamente fatto salvo dal d.lgs. n. 179/2009
dall’altrimenti automatica abrogazione prevista dalla su richiamata normativa
“taglia-leggi” per tutte le fonti legislative anteriori al 1° gennaio 1970.
La procedura è stata
tempestivamente avviata dall’Ufficio legislativo del Ministero della Difesa e
condivisa dalla Presidenza del Consiglio, ma è stata poi interrotta per
l’esplicito diniego opposto dall’Ufficio legislativo del Ministero per la
semplificazione normativa, fondato sul rilievo che in realtà non si trattava di
rettificare un errore materiale, bensì di modificare sostanzialmente un testo
sul quale vi era già stata l’approvazione dei Ministeri concertanti, del
Consiglio dei Ministri e l’acquisizione dei pareri del Consiglio di Stato e
delle competenti commissioni parlamentari[8].
Il suddetto decreto legislativo, tuttavia, era già stato oggetto di rettifica
durante i mesi di vacatio
ed esattamente in merito all’indicazione di disposizioni da abrogare[9].
Il decreto legislativo n.
66/2010, il 9 ottobre, è dunque entrato in vigore senza essere stato
rettificato sul punto, con l’ovvio riflesso dell’abolitio criminis sul processo in corso a
Verona, per effetto dell’applicazione del principio della retroattività della legge penale più favorevole (ex art. 2, comma 2, c.p. , nonché art.
25, comma 2, Cost.).
Il partito dell’Italia
dei Valori ha presentato un’interrogazione parlamentare, in relazione a tali
vicende, nel corso del question time del 13
ottobre 2010, ottenendo che il Ministro per la Semplificazione Normativa
rispondesse in merito all’inserimento del d.lgs. n. 43/1948 tra quelli oggetto
di espressa abrogazione, in merito all’opposizione alla rettifica da parte del
Ministero stesso ed in merito alla consapevolezza, da parte del Governo, delle
ripercussioni che l’abrogazione avrebbe avuto sul citato processo in corso a
Verona[10].
La risposta del ministro
è stata articolata fondamentalmente su tre argomentazioni, e, tra l’altro,
alcune sono state smentite dai fatti, altre sono criticabili nel merito.
Si sostiene che la norma
è stata inclusa nell’elenco di leggi da abrogare dall’apposita commissione
tecnica, istituita durante il precedente Governo con decreto del Ministro della
Difesa del 29 novembre 2007, confermata per intero dal Governo attuale con i
decreti del Ministro della difesa del 3 dicembre 2008 e del 28 gennaio 2010, ed
incaricata di elaborare gli schemi del testo per il riassetto delle norme di
interesse dell’amministrazione della difesa; inoltre, che a seguito
dell’approvazione definitiva del Consiglio dei Ministri e della pubblicazione
sulla Gazzetta Ufficiale, il Governo non avrebbe potuto operare una rettifica
sulla stessa Gazzetta Ufficiale al fine di evitare l’abrogazione del d.lgs. n.
43/1948 poiché, si sostiene, non si sarebbe trattato della correzione di un
mero errore materiale, bensì di una modifica sostanziale di un testo
legislativo, sul quale erano già stati acquisiti i pareri del Consiglio di
Stato e delle commissioni parlamentari, senza che nulla venisse eccepito.
Oltre a ciò, viene anche
affermato che l’abrogazione del d.lgs. n. 43/1948 non ha determinato un vuoto
normativo poiché non si pone in contrasto con l’art.18, comma 2, Cost., in
quanto tale disposizione sarebbe già «autosufficiente e
immediatamente precettiva, di per sé idonea a
radicare l’illiceità di qualsiasi organizzazione di carattere militare con
scopo politico» e per di
più il d.lgs. n. 43/1948 sarebbe un «provvedimento che ha avuto
scarsissima applicazione nell’arco della storia costituzionale»[11].
Il 15 ottobre
2010 il Consigliere di Stato, nonché presidente delle Commissione tecnica che
ha elaborato gli schemi per il Codice dell’ordinamento militare, Vito Poli, ha
inviato una lettera al Ministro della semplificazione e all’On.le
Donadi, nella quale precisa, in contrasto con quanto
affermato dal Ministro, che «nessun componente del comitato scientifico ha proposto (o
inserito nel relativo elenco) l’abrogazione del d.lgs. n. 43/1948» e che tale
previsione è, in realtà, «un evidente errore materiale»[12],
a causa della sua incoerenza logico-giuridica con ciò che lo stesso legislatore
delegato aveva stabilito appena pochi mesi prima con il d.lgs. n. 179/2009, in
cui si faceva salvo il decreto n. 43 in quanto disposizione indispensabile,
seppur precedente al 1970. Secondo quanto riportato nella lettera, ciò avrebbe
giustificato l’utilizzo di una rettifica in Gazzetta Ufficiale, come proposto
anche dal Ministero della Difesa.
Tra l’altro
viene ricordata anche la giurisprudenza della Corte costituzionale e della
Corte di Cassazione, concordi nel sostenere la praticabilità della procedura di
rettifica in circostanze del genere[13].
La Suprema Corte, in particolare, precisa che «la norma il cui testo sia stato
rettificato non è una norma sostitutiva, modificativa o anche soltanto
interpretativa di quella originaria, ma è questa stessa norma, emendata
dell’errore materiale occorso non nel momento della sua formazione, ma in
quello successivo della pubblicazione»[14].
Quanto
all’ulteriore argomentazione prospettata dal Ministro, è senz’altro vero che il
solo articolo 18, 2° comma, Cost., sancisce già di per sé l’illiceità di
qualsiasi organizzazione di carattere militare con scopo politico, a tutela di
valori fondamentali come la democrazia, l’ordine pubblico, la sicurezza dello
Stato e dei suoi cittadini, ma contenuto ulteriore del decreto legislativo n.
43/1948 è la previsione della “sanzione” penale per i soggetti che promuovono,
costituiscono, organizzano, dirigono o partecipano ad associazioni di tal fatta[15].
Inoltre, l’affermazione secondo la quale l’abrogazione del d.lgs. n. 43/1948
non desterebbe preoccupazioni in quanto norma che ha avuto una scarsissima
applicazione nel corso della storia costituzionale[16]
“parrebbe” essere smentita perlomeno dalla pendenza del su citato processo di
Verona, nel quale un capo di imputazione è relativo esattamente alla violazione
del divieto di costituzione di associazioni di carattere militare, con scopi
anche indirettamente politici, previsto dal decreto n. 43/1948[17].
Di fronte
alle accuse di aver mentito al Parlamento mosse dall’opposizione ed alla
ventilata ipotesi di una mozione di sfiducia individuale nei suoi confronti, il
Ministro ha inviato una lettera al Presidente della Camera, nella quale
ribadisce le proprie dichiarazioni e si dice pronto a dimettersi spontaneamente
se venisse dimostrato che le sue affermazioni non corrispondono a verità[18].
In attesa
degli sviluppi politici, è forse opportuno considerare gli altri aspetti ai
quali questa vicenda consente di far riferimento.
3. Il divieto
costituzionale delle associazioni “paramilitari”: origine ed attuazione - L’abrogato decreto legislativo n.
43/1948, recante il “divieto di
associazioni di carattere militare” dava attuazione al principio di cui al
2° comma dell’art.18 Cost., che, com’è noto, dice espressamente che “sono proibite le associazioni segrete e
quelle che perseguono, anche indirettamente, scopi politici mediante
organizzazioni di carattere militare”.
Tale
previsione si ritiene rappresenti una eccezione al principio generale fissato
dal primo comma dell’art. 18, in base al quale sono gli scopi dell’associazione
a determinarne l’illiceità, laddove si tratti di fini vietati ai singoli dalla
legge penale, e non la struttura organizzativa adottata[19].
Eccezione, perché in questo caso si riscontra una presunzione assoluta di
pericolosità delle associazioni segrete e paramilitari[20],
legata non tanto allo scopo, anche indirettamente, politico – il quale non è
sicuramente illecito e assoggettabile a controlli ideologici – ma
all’organizzazione predisposta, suscettibile di essere indirizzata al
compimento di atti violenti o comunque illeciti, e dunque contrastanti con la
nozione procedurale di democrazia
fatta propria dalla Costituzione[21].
Il limite
della segretezza è finalizzato a salvaguardare «l’esigenza della
pubblicità»,
fondamentale in un regime democratico[22]
e si spiega alla luce dell’ampiezza della libertà di associazione riconosciuta
dal 1° comma dell’art.18 Cost., che la subordina soltanto al perseguimento di “fini che non sono vietati ai singoli dalla legge
penale” e dunque impone, perlomeno, che siano note esistenza e finalità
perseguite dall’associazione[23],
lasciando la più ampia libertà di organizzazione in relazione al fine
prescelto, anche perché, altrimenti, come si rileva, in assenza del generale principio
di libertà di organizzazione, non si spiegherebbero gli espliciti divieti di
costituire organizzazioni segrete e militari: intanto si giustificano le
specifiche deroghe in quanto vi sia il principio[24].
Si ritiene, inoltre, che anche tale limite abbia una ratio di carattere politico, non
avendo altrimenti senso la previsione del divieto di segretezza, poiché
sicuramente le comuni associazioni a delinquere non agiscono pubblicamente[25].
Il divieto di
costituire associazioni paramilitari con fini, anche indirettamente, politici
si collega all’esigenza, imposta tra l’altro dall’art. 49 Cost., che la
dialettica politica sia improntata al massimo rispetto del “metodo
democratico”, senza che si adoperino armi, si ricorra alla violenza o
all’inquadramento in gerarchie militari[26],
al fine di evitare, com’è stato autorevolmente sostenuto, «che la lotta politica si giovi,
anziché della pacifica discussione, dell’uso di mezzi violenti, così da
determinare un’atmosfera di intimidazione e di paura» e che «la
semplice esistenza o le azioni, sia pure solamente dimostrative, di
un’organizzazione a tipo militare, possano creare una suggestione di timore nei
cittadini, capace di compromettere il regolare svolgimento delle libere
istituzioni»[27].
Con
l’avverbio “indirettamente” ci si potrebbe riferire o all’azione di
organizzazioni che perseguono scopi che, pur non essendo strettamente politici,
hanno tuttavia l’obiettivo di incidere sull’opinione pubblica, sulle
istituzioni statali e sul corpo sociale nel suo complesso, in merito a
particolari problemi, oppure ad associazioni aventi veri e propri scopi
politici, perseguiti, però, ricorrendo indirettamente e strumentalmente ad
organizzazioni di carattere militare, come, ad esempio, nelle ipotesi di
associazioni sportive, combattentistiche, contigue a movimenti eversivi[28].
Il fatto che
i costituenti abbiano sentito l’esigenza di fissare espressamente in
Costituzione i limiti di tale delicata libertà è stato considerato un indice
del carattere non omogeneo della società politica italiana nel periodo storico
in cui è stata redatta la Carta fondamentale: tale mancanza di omogeneità ha
influito necessariamente sulla elaborazione, da parte di tutte le forze politiche
in campo, di un patto costituzionale che tendesse a fornire delle garanzie
in particolar modo alle minoranze e fosse tale da assicurare condizioni minime
di sviluppo della dialettica democratica, soprattutto per ciò che attiene ai
metodi di lotta politica[29].
La Costituzione dunque fornisce una garanzia rispetto allo stesso legislatore
ed alla legge che, in quanto atto politico di una maggioranza di turno, in
assenza di rigidi limiti costituzionali, potrebbe anche conculcare i diritti di
quelle forze che costituiscono una minoranza in un dato momento storico.
Venendo alla
formulazione del divieto di associazioni di carattere militare, in Assemblea
costituente, o meglio nella Prima Sottocommissione che si occupò, tra l’altro,
dei principi dei rapporti civili, il relatore Basso individuò le associazioni a carattere militare, sostenendo
che dovessero intendersi «quelle organizzazioni in cui lo spirito
dell’individuo viene sottoposto ad una disciplina militare e all’associato si
impone di rinunciare alla propria libertà individuale per mettersi
completamente a disposizione dei fini dell’associazione»[30],
non dovendosi guardare semplicemente all’uniforme, ma alla presenza
nell’associazione di una disciplina militare a servizio di finalità di parte.
Pertanto l’On.le Basso non considerava fondate le
preoccupazione espresse, nella stessa seduta, dai commissari Moro e La Pira, i
quali ritenevano dovesse specificarsi che non si intendevano vietate quelle
organizzazioni giovanili, quali ad esempio i Boys Scouts, che avessero un carattere
militare puramente esterno e formale, bensì soltanto quelle associazioni che
perseguivano un addestramento militare e fossero pronte ad impugnare le armi.
Sicché l’On.le Moro propose la formula, condivisa
all’unanimità dalla Sottocommissione, per cui “Non sono consentite le associazioni che perseguono fini politici
mediante un’organizzazione militare”, con la precisazione che al futuro
legislatore dovesse esser chiaro che essa non riguardava le organizzazioni che
adottassero soltanto la forma
militare, ma non fossero tali sostanzialmente[31].
Successivamente,
nell’ambito del Comitato di redazione (c.d. Comitato
dei diciotto) che ebbe il compito di coordinare i testi del Progetto di
Costituzione stilati dalle varie sottocommissioni, si notò che un’associazione
difficilmente avrebbe ammesso di perseguire scopi politici con organizzazione
militare, sicché si modificò l’art. 18, 2° comma, con la previsione della
rilevanza anche di un indiretto
perseguimento di scopi politici.
La
disposizione risultante presenta sicuramente una struttura normativa completa e
tale da renderla immediatamente efficace senza il bisogno che vengano precisate
ulteriori modalità applicative, e ciò sia nei confronti del legislatore che dei
singoli soggetti e degli organi chiamati a darvi attuazione[32].
In particolare, la proibizione di perseguire finalità politiche con
organizzazioni di carattere militare trova fondamento nell’esigenza di fare in
modo che «nello Stato non si crei un altro Stato» poiché spetta unicamente al detentore del “monopolio
legale dell’uso della forza”, lo Stato appunto, la possibilità perseguire fini
politici con l’eventuale impiego di «mezzi coercitivi»[33],
e dunque non possono ammettersi associazioni con struttura militare che
realizzino un modello organizzativo gerarchico simile a quello statale, in
grado di infondere un analogo sentimento di timore, derivante dal potenziale
uso della forza, ma con finalità politiche antidemocratiche perseguite con la
lotta violenta[34].
Si
rivelavano, però, senz’altro coerenti con il dettato costituzionale le
previsioni di cui al d.lgs. 14 febbraio 1948, n. 43 che, oltre a sancire quali
fossero le pene stabilite per gli appartenenti o i promotori delle associazioni
vietate, delineavano anche le caratteristiche delle “associazioni di carattere militare”, le quali, ai sensi
dell’art.1, comma 4, del decreto, ricorrerebbero quando vi sia un “inquadramento degli associati in corpi,
reparti o nuclei, con disciplina ed ordinamento gerarchico interno analoghi a
quelli militari, con l’eventuale adozione di gradi o uniformi, e con organizzazione
atta anche all’impiego collettivo in azioni di violenza e di minaccia”.
Il fondamento
politico di questa disposizione speciale non è stato rinvenuto tanto
nell’esigenza di contrastare manifestazioni di violenza già di per sé
sanzionate penalmente, quanto piuttosto in quella di rimuovere attività che
fossero idonee ad influenzare e pregiudicare notevolmente la formazione
democratica delle convinzioni politiche dei cittadini, pur non essendo
riconducibili a violazioni delle comuni norme penali[35].
Se è vero che
rappresenta un elemento cardine dei sistemi democratici l’alternanza dei
partiti al potere, garantita dal libero ed autonomo convincimento dell’opinione
pubblica, allora non è importante soltanto che si rimuovano, a norma del 2°
comma dell’art. 3 Cost., quegli ostacoli di ordine economico e sociale che
costituiscono un impedimento all’effettiva eguaglianza dei cittadini ed alla
loro piena partecipazione, tra l’altro, all’organizzazione politica del Paese,
ma anche che si eviti ogni possibile causa che valga a sostituire «alla
suggestione delle idee quella della forza»[36].
La sola
esistenza di un’organizzazione che adotti una disciplina ed un addestramento
militare, anche finalizzato alla violenza, si può considerare motivo di
turbamento dell’ordine pubblico e dei rapporti fra forze politiche e pregiudica
doppiamente il metodo democratico sia rispetto agli aderenti
all’organizzazione, i quali sarebbero passivamente assoggettati alle
imposizioni provenienti dai livelli più alti della gerarchia, sia rispetto ai
cittadini, dato l’effetto intimidatorio e suggestionante che tali formazioni
possono indurre, in particolare all’indirizzo di gruppi sociali meno preparati
e dotati di senso critico[37].
Si è rilevato
come tali previsioni non intendessero evitare esclusivamente il concreto
ricorso alla violenza, ma anche un suo impiego potenziale e antecedente
all’eventuale compimento di reati, considerato che anche un’associazione
militare potrebbe non utilizzare, almeno in un primo momento, mezzi violenti, ma
limitarsi a propagandare i propri fini politici, rappresentando ugualmente una
forma di interferenza nell’esercizio di funzioni politiche e del libero
confronto di idee[38].
Quanto alle
ulteriori disposizioni del decreto, l’art. 2 si riferiva al divieto per le “associazioni dipendenti o collegate con
partiti politici o aventi anche indirettamente fini politici di dotare di
uniformi o di divise i propri aderenti”,
con la sola eccezione delle “associazioni
od organizzazioni costituite a fine sportivo” e degli “istituti di carattere culturale ed educativo”, mentre l’art. 3
attribuiva al Ministro dell’Interno “il
potere di vietare, limitatamente a determinati periodi di tempo, l’uso in
pubblico di uniformi e divise da parte di associazioni od organizzazioni di qualsiasi
natura”, configurando, in quest’ultimo caso, una previsione che avrebbe
potuto dare adito a restrizioni di diritti e libertà garantiti dalla
Costituzione, forse davvero ai limiti della legittimità costituzionale, in
quanto indirizzata agli aderenti a qualsiasi tipo di ente.
Tali
previsioni sono apparse poco coerenti con la ratio che informa l’art.18 Cost.
ed alla quale si ricollegano le previsioni dell’art. 1 del decreto. Infatti, la
sola adozione di divise in un’organizzazione non la connota necessariamente
come organizzazione militare, valendo più come elemento indiziario che come
prova della sua esistenza[39].
È certamente vero che l’impiego di uniformi crea, per certi versi, una
sensazione di “sicurezza” in chi le veste essendo inquadrato nell’organizzazione,
ma, per converso, provoca indubbiamente anche una sensazione di “insicurezza”
ed una sorta di pressione morale sui cittadini che le vedono indosso a soggetti
in alcun modo collegati con il detentore del “monopolio legale dell’uso della
forza”[40].
Oggetto di
critiche è stata anche la disposizione di cui al 2° comma dell’art. 2 del
decreto, la quale, nel sancire un’eccezione al divieto di dotarsi di uniformi a
favore delle istituzioni sportive, culturali o educative, poteva rappresentare
in realtà una possibile via per eludere il divieto fissato in via generale:
infatti, o si doveva intendere l’esenzione come riferita ad organizzazioni
culturali, ricreative o sportive, pur se collegate ad associazioni politiche,
altrimenti prevedere tale deroga non avrebbe avuto senso e sarebbe stato per
certi versi superfluo, considerato che le organizzazioni a cui la norma
sembrava doversi riferire (Boys Scouts, Esercito
della Salvezza) non presentavano certamente natura politica[41].
Va, peraltro, ricordato che, in merito a tali due
ultimi articoli del decreto n. 43, nel 1976 la Corte costituzionale, con sentenza numero 26,
aveva già avuto modo di pronunciarsi in un giudizio in via principale promosso
dalla provincia autonoma di Bolzano, ritenendo rilevante, ai fini della
dichiarazione di infondatezza della questione di legittimità relativa all’art.
2, il fatto che l’associazione di tiratori tirolesi denominata “Schützen” non avesse scopi, neanche indirettamente
politici, e rispetto all’art. 3 mettendo in luce che, contro l’eventuale
provvedimento restrittivo del Ministro dell’Interno che vieti temporaneamente
l’uso di uniformi agli aderenti a qualsiasi tipo di associazione, «non mancano
nell’ordinamento i normali mezzi di garanzia amministrativa e giurisdizionale»[42].
Tale decreto è stato nel complesso considerato
favorevolmente, soprattutto in quanto ritenuto un mezzo “provvisorio”
finalizzato a garantire, nell’immediatezza della sua entrata in vigore, il
sereno ed imparziale svolgimento delle incerte elezioni del 1948, contro
possibili estremismi, e, nel lungo periodo, come una fonte da integrare
nell’ambito della costruenda
democrazia italiana, nella quale doveva essere sanata la lacerazione dei rapporti
tra forze sociali, prima causa della formazione di gruppi paramilitari con
scopi politici[43].
4. Il d.lgs. 43/1948 quale legge costituzionalmente
necessaria (o obbligatoria). - Venendo alla natura della legge e all’opportunità della sua
abrogazione, ci si potrebbe chiedere se quella che è stata abrogata non sia in
realtà una legge costituzionalmente necessaria (o obbligatoria).
La
distinzione tra legge a contenuto costituzionalmente vincolato e leggi
costituzionalmente necessarie, com’è noto, è stata progressivamente delineata
dalla giurisprudenza della Corte costituzionale, vertente in particolar modo
sul tema dell’ammissibilità del referendum
abrogativo, anche se, come si rileva, nel tempo la Corte è giunta a
sovrapporre le due categorie[44].
Volendo schematizzare
le originarie definizioni giurisprudenziali, sono a “contenuto
costituzionalmente vincolato” quelle disposizioni «il cui nucleo normativo non possa
venire alterato o privato di efficacia senza che ne risultino lesi i
corrispondenti specifici disposti della Costituzione stessa (o di altre leggi
costituzionali)» (Corte
costituzionale, sent. n. 16/1978)
e dunque si configurano come disposizioni che predispongono l’unica disciplina attuativa conforme
Costituzione, la quale non potrebbe venire meno senza che ciò lasci prive di
effetti le disposizioni costituzionali corrispondenti. Da qui
l’inammissibilità, secondo la Corte, del referendum
abrogativo proposto su disposizioni del genere.
Per “leggi
costituzionalmente obbligatorie o necessarie” dovrebbero intendersi, invece, «tutte
le leggi ordinarie comunque costitutive o attuative di istituti, di organi, di
principi, stabiliti o previsti dalla Costituzione», che realizzano, però, «una fra le tante soluzioni
astrattamente possibili per attuare la Costituzione» (Corte
costituzionale, sent. n. 16/1978),
configurando, dunque, delle discipline che non possono mancare, ma la cui
definizione è rimessa alle scelte discrezionali del legislatore circa i
contenuti che esse debbano assumere, e sulle quali dapprima la Corte ammetteva
il referendum abrogativo, mentre, più di recente, sembra avere invertito la
tendenza.
Ora,
l’interrogativo è se sia necessaria, in quanto imposta dai divieti sanciti dal
2° comma dell’art. 18 Cost., la previsione di una normativa che vada a colpire
penalmente promotori, organizzatori, aderenti ad associazioni paramilitari, e
se tali disposti siano coerenti con il complessivo disegno costituzionale in
tema di diritti fondamentali degli individui, che la Costituzione riconosce
possano svolgersi nell’ambito di una pluralità di formazioni sociali, o se non
siano piuttosto maggiormente conformi altri tipi di sanzioni, purché una
disciplina sanzionatoria non difetti completamente.
La questione
potrebbe essere ben più ampia, e se ne può qui solo accennare, riguardando
l’evoluzione della legislazione italiana in materia di limiti alla libertà di
associazione.
Se profondi
cambiamenti si sono, infatti, avuti dal punto di vista ideologico, a partire
dall’epoca liberale, attraverso quella fascista, fino ai nostri giorni, in cui
la libertà di associazione è riconosciuta come una delle libertà fondamentali
tramite le quali si esplica la personalità di ciascun individuo, concretamente,
dal punto di vista della legislazione, viene riscontrato il costante ricorso
alla tecnica repressiva, e dunque ai divieti penali, come accade, ad esempio,
proprio nelle ipotesi delle associazioni proibite dall’art. 18, 2° comma, Cost.[45].
Esse potrebbero essere suscettibili di alterare beni giuridici come l’ordine
pubblico ed il sicuro e democratico svolgimento della dialettica politica, e
perciò sono proibite, ma la disposizione costituzionale si limita soltanto a
prevedere un divieto, non stabilisce alcun tipo di sanzione, né per gli
aderenti, né per l’associazione, non essendo questo un compito spettante ad una
Carta costituzionale, bensì alla discrezionalità del legislatore.
I limiti
penalistici fissati nella legislazione ordinaria nei riguardi delle
associazioni politiche anticostituzionali, però, sono stati frequentemente
considerati dalla dottrina contrastanti con un ordinamento realmente democratico[46].
Vi è stato, infatti, chi ha ritenuto che configurare in termini di illecito
penale l’associazionismo politico, come è avvenuto fin dall’epoca prefascista,
rappresenti in realtà un criterio alquanto «discutibile»[47].
Dovrebbe piuttosto riconoscersi una sostanziale coincidenza tra la formula
costituzionale e la definizione penalistica di associazione per delinquere, nel
senso che «l’ordinamento democratico non conosce – in linea di massima –
associazioni sovversive, ma solo associazioni a delinquere», e dunque si potrebbe anche
evitare di attribuire un carattere criminoso alle associazioni vietate dal 2°
comma dell’articolo 18, limitando le sanzioni penali a chi ha promosso
l’associazione o miri ad una sua ricostituzione successiva allo scioglimento ad
opera dell’autorità[48].
D’altra parte potrebbe anche ritenersi che il fiorire di una
legislazione penale in tema di associazioni illecite vada, per converso, a
rafforzare la libertà di associazione nel senso di eliminare il rischio di
pesanti intromissioni da parte degli organi di polizia nella vita di tali
organizzazioni, tramite il potere amministrativo di scioglimento, che a lungo
ha rappresentato un deterrente contro forze politiche e sociali contrapposte a
quelle dominanti[49].
Spetta, dunque, al potere giudiziario il compito di dichiarare l’illiceità di
un’associazione in presenza delle fattispecie penali delineate in via
legislativa, laddove le sole ipotesi di scioglimento attualmente previste, per
le associazioni neofasciste e per quelle segrete, conseguono comunque ad una
condanna penale[50],
mentre non sono previsti procedimenti di scioglimento, né per le associazioni
paramilitari vietate, né per le comuni associazioni a delinquere.
Come viene rilevato, però, ciò non toglie che i divieti stabiliti
dall’art.18, 2° comma, Cost. possano trovare attuazione anche in via
amministrativa, tramite misure sanzionatorie non penali, pur essendo innegabile
che le sanzioni effettivamente più deterrenti siano specialmente le rigorose
sanzioni penali e disciplinari nei confronti di dirigenti, organizzatori o
aderenti, laddove lo scioglimento avrebbe, invece, un carattere soltanto
educativo nei confronti dell’opinione pubblica[51].
Anche in riferimento alle sole associazioni segrete, secondo alcuni,
il carattere di per sé lecito del fine politico può consentire che la sanzione
del divieto costituzionale sia circoscritta semplicemente allo scioglimento
dell’associazione, senza il ricorso a misure di carattere penale, sebbene la
norma costituzionale lasci aperto anche il ricorso a queste ultime, che
potrebbero essere adottate nel caso in cui lo richieda la necessità di tutelare
interessi ulteriori rispetto all’esercizio in forme democratiche e manifeste
della libertà di associarsi[52].
In sostanza, è vero che la Costituzione, all’art. 18, 2° comma, si
limita soltanto a “proibire”, oltre a quelle segrete, le associazioni
paramilitari che perseguono, anche indirettamente scopi politici, e non
stabilisce espressamente che esse debbano essere “punite”, non adottando,
dunque, una terminologia tale da imporre un intervento legislativo attuativo di
stampo penalistico, come accade, invece, nell’ipotesi dell’art. 13, 4° comma,
Cost. a proposito delle violenze fisiche e morali nei confronti delle persone
soggette a restrizione di libertà. È vero, di conseguenza, che il contenuto
della legge attuativa non è costituzionalmente vincolato alla configurazione di
tali comportamenti come fattispecie criminose e, purché sia sempre presente una
disciplina in merito, è anche possibile che il legislatore discrezionalmente
decida di predisporre, nei confronti di promotori, organizzatori o aderenti,
delle sanzioni amministrative o comunque sanzioni penali di minore entità, ad
esempio trasformando le pene detentive previste in pene pecuniarie, così come è
avvenuto, con la l. n. 85/2006, per la ridefinizione del Codice Penale in
materia di reati di opinione, seguendo gli orientamenti garantisti prospettati
in dottrina. È altrettanto vero, però, che il d.lgs. n. 66/2010 abroga
espressamente il decreto che sanzionava penalmente coloro i quali promuovono,
organizzano, dirigono o aderiscono ad associazioni paramilitari, ma non lo
sostituisce con disposizioni di diverso tenore, facendo così mancare sul punto
una disciplina costituzionalmente necessaria a salvaguardia di valori e libertà
costituzionali. È, pertanto, ancora vietato costituire associazioni siffatte –
le quali dunque, per l’espresso disposto dell’art. 18 Cost., non godono di
tutela costituzionale – ma, allo stato, non vi è alcun parametro per sanzionarle
e per colpirne promotori, organizzatori ed aderenti, ed, in sostanza, per
concretizzare una reazione dell’ordinamento di fronte a comportamenti che la
Costituzione connota in termini negativi, contro i quali sembra indispensabile
«un livello minimo di tutela legislativa»[53].
Il tema della configurazione di trattamenti sanzionatori rispetto a
condotte suscettibili di rappresentare tentativi di eversione è delicato anche
in considerazione del fatto che esso va bilanciato con la tangenziale, e non
meno importante, esigenza di non pregiudicare una libertà importante come
quella di manifestazione del pensiero[54].
Il nostro ordinamento non appartiene alle «democrazie che si difendono»[55], nel
senso che «i valori democratici, più che intimamente condivisi, devono essere
rispettati dal punto di vista dei comportamenti esterni e del concreto modus operandi»[56], e
per tale ragione non sono dettate disposizioni che tendano a reprimere le
manifestazioni di proprie opinioni anche in totale dissenso rispetto ai valori
istituzionali. E questo, “paradossalmente”, rappresenta proprio un’attuazione
di quei valori, in quanto viene riconosciuta la più ampia libertà di
manifestazione del pensiero, perfino profondamente ostile nei confronti delle
istituzioni e dei fondamenti del sistema, poiché «ogni critica al regime repubblicano si traduce nell’esercizio di un
diritto repubblicano»[57].
La rinuncia
alla censura di manifestazioni di idee contrastanti con i propri principi
fondamentali non significa che l’ordinamento abbia anche abdicato alla
necessità di difendersi da pericolosi tentativi sovversivi o eversivi
provenienti dall’interno dell’apparato ed all’apparenza legali[58].
La
Costituzione non impedisce la propaganda politica, anche perché prevede invece
espressamente il diritto di associarsi liberamente in partiti, ma pone soltanto
il limite del “metodo democratico”, sicché sono ammesse anche aspre
manifestazioni di dissenso politico, purché non trasmodino in azioni violente
di sopraffazione[59],
del tutto antidemocratiche e tese esclusivamente al rovesciamento del sistema
politico-costituzionale[60]
ed in quanto tali in grado di integrare una violazione del dovere di fedeltà
alla Repubblica, imposto a tutti i cittadini dall’art. 54, 1° comma, Cost.[61].
Vengono, pertanto, sanzionate soltanto le eventuali successive traduzioni in
pratica dei contenuti della propaganda, in ipotesi anche eversivi o, come nel
caso del partito della Lega Nord, dichiaratamente – almeno in una certa fase
dell’attività di tale compagine politica – di stampo “secessionista”, quando
esse siano propugnate valendosi di associazioni di carattere militare (come la
c.d. “Guardia Nazionale Padana”)[62]:
la Costituzione attribuisce un disvalore a tali associazioni non tanto perché
probabilmente idonee a compiere atti violenti – i quali, tra l’altro, sarebbero
già sanzionati penalmente – quanto per il fatto che l’inquadramento in
gerarchie militari, con il conseguente armamentario simbolico ed intimidatorio,
può consentire di propagandare in modo più incisivo – anche se non
necessariamente più convincente – certe idee, compromettendo il democratico
processo di formazione delle opinioni politiche dei cittadini[63].
Abrogare il
reato previsto dal decreto n. 43/1948 poteva aver senso in un’ottica di globale
ed organica ridefinizione, in chiave più liberal-democratica, dei modelli
sanzionatori dell’associazionismo politico anticostituzionale e, dunque, se la
sua abolizione fosse stata, in realtà, una depenalizzazione, compensata,
quindi, dalla previsione di misure sanzionatorie alternative, determinate
discrezionalmente dal legislatore, ma immancabili perché costituzionalmente
necessarie in quanto attuative di «scelte permanenti e preminenti della
Costituzione»[64],
pur se non comportanti obblighi di penalizzazione.
Valutazioni
legislative contingenti, che portano a provvedimenti estemporanei del genere,
invece, rischiano di avvalorare l’impressione che si tratti di interventi
condotti da un legislatore «accecato» dall’impellente necessità politica di «bloccare iniziative giudiziarie
sgradite»[65].
5. La possibile
chiamata in causa della Corte costituzionale. Riflessioni conclusive. - Come in precedenza ricordato, il
processo in corso a Verona nei confronti dei 36 militanti della Lega Nord,
promotori ed aderenti all’associazione denominata Guardia Nazionale Padana, per il reato previsto dal d.lgs. n.
43/1948, si è aperto il 1° ottobre scorso ed ha subito un rinvio al 19
novembre. In tale data, come preannunciato già nell’immediatezza del rinvio[66],
il P.M. ha presentato un’eccezione di incostituzionalità, denunciando un
“eccesso di delega” da parte del Governo nella predisposizione del d.lgs. n.
66/2010, avendo esso violato i principi e i criteri direttivi indicati nella legge
delega, non essendo in essa presente alcuno collegato alle associazioni che
perseguono fini politici, valendosi di organizzazioni militari[67].
Se dovesse essere emessa un’ordinanza di rimessione dal giudice di
Verona, la questione passerebbe alla valutazione della Corte costituzionale.
Per ora si può, quindi, ragionare soltanto in via del tutto ipotetica,
considerando, però, alcuni orientamenti seguiti dalla giurisprudenza
costituzionale, che, peraltro, sono sottoposti a critica in dottrina.
Infatti, laddove il d.lgs. 66/2010, nella parte in cui, all’art. 2268,
comma 297, prevede l’abrogazione espressa del d.lgs. 43/1948 e del reato in
esso contemplato, divenisse oggetto di una questione di legittimità
costituzionale, la Corte si troverebbe a doversi confrontare con una norma penale più favorevole abrogatrice[68]
e sospettata di incostituzionalità. Una norma, dunque, che nell’abolire
totalmente un reato previsto da una preesistente disposizione, impone al
giudice di non punire più l’autore di un determinato fatto, in conseguenza
dell’applicazione del principio di retroattività della lex mitior (art. 2, comma 2°, c.p.)[69].
L’atteggiamento della Corte sul tema delle norme penali più favorevoli che producono un’abolitio criminis si può distinguere rispetto a
quello da essa tenuto su questioni attinenti alle c.d. norme penali di favore[70].
In merito a queste ultime, infatti, è riscontrabile un progressivo
superamento, da parte della Consulta, dell’originaria, anche se “ondivaga”[71],
tendenza a non ammettere il proprio sindacato di legittimità, ritenendo
irrilevanti le relative questioni[72],
ora opinando nel senso che il principio di irretroattività della legge penale
impedirebbe al giudice di applicare l’eventuale pronuncia di illegittimità nel
giudizio principale – il quale dovrebbe comunque essere deciso in base alla
norma di favore illegittima – ora nel senso che i problemi di applicazione
della legge al caso concreto, nonché della retroattività delle sentenze di
accoglimento, concernendo l’interpretazione della legge, sono di competenza del
giudice a quo[73].
In seguito alla sentenza n.
108/1981, il self-restraint della Corte è stato invece fondato
sulla considerazione che il principio di legalità, di cui all’art. 25, 2°
comma, Cost., avrebbe impedito al giudice costituzionale di interferire nelle
scelte discrezionali del legislatore in tema di politica criminale,
determinando, per effetto della sola sentenza di annullamento della disciplina
più favorevole, la reviviscenza della previgente fattispecie più severa, senza
che ci fosse alcun intervento legislativo[74].
Il mutamento di indirizzo giurisprudenziale si è verificato a partire
dalla sent. n.
148/1983, nella quale, nonostante la questione sia stata rigettata, la
Corte ha delineato alcuni motivi a sostegno dell’ammissibilità e della
rilevanza delle questioni di legittimità costituzionale sulle norme penali di
favore[75].
Ciò in quanto il principio costituzionale di irretroattività della legge penale
già impedisce gli effetti in malam partem, nei confronti
degli imputati del giudizio a quo, della dichiarazione di illegittimità di
norme penali di favore, sicché essi verrebbero sempre giudicati con la legge
più mite e perciò va ammesso lo scrutinio di costituzionalità su tale specie di
norme, determinandosi altrimenti delle ingiustificabili “zone franche”,
nell’ambito delle quali la legislazione ordinaria sfuggirebbe ad ogni controllo[76].
Né può affermarsi che dalla sentenza della Corte con cui si rimuove la
disposizione più favorevole, ma incostituzionale, derivi l’effetto in malam partem, perché esso discende, invece, dall’“automatica riespansione” della disposizione legislativa generale o comune
ai casi oggetto di deroga; riespansione che si
verificherebbe anche nell’ipotesi di annullamento di una fattispecie
derogatoria più grave, senza che ciò manifesti un intervento creativo della
Corte[77].
Tutto ciò, però, in quanto si considerino norme caratterizzate da un
rapporto di “specialità sincronica” (cfr. sent. n. 324/2008,
punto 3.10 rit. in fatto), cioè che siano contemporaneamente presenti
nell’ordinamento giuridico in un dato momento, perché solo esse sono
qualificabili come “norme penali di favore”[78].
L’indirizzo delineato dalla Corte a partire dalla sentenza del 1983 è
divenuto stabile nel tempo tanto da potersi ormai riscontrare «una vera e
propria summa»[79]
di pronunce successive con esso concordanti.
Diverso, come
si accennava, l’orientamento della Corte rispetto alle leggi penali più
favorevoli abrogatrici di preesistenti fattispecie di
reato, in merito alle quali essa ritiene precluso il proprio sindacato in
quanto andrebbe altrimenti ad invadere il monopolio del legislatore sulle
scelte di politica criminale, poiché in tali casi «la richiesta di sindacato
in malam partem
mirerebbe non già a far riespandere la portata di una
norma tuttora presente nell'ordinamento, quanto piuttosto a ripristinare la
norma abrogata, espressiva di scelte di criminalizzazione non più attuali» (sent. n. 394/2006,
punto 6.1 cons. in dir.).
Ed è questa
una prospettiva criticata in dottrina perché lascia nell’ordinamento “zone
franche”, cioè ambiti di legislazione ordinaria non soggetti alla supremazia
della Costituzione e allo scrutinio di costituzionalità, anche laddove si
pongano «in frontale
contrasto» con parametri costituzionali[80].
È vero che
una disciplina penale sopravvenuta e più favorevole si applica retroattivamente
a soggetti che hanno commesso il fatto nel vigore di quella più severa perché
lo impone la ratio
di eguaglianza di cui all’art. 3 Cost., essendo irragionevole punire oggi
qualcuno per il solo fatto che la sua condotta è più risalente nel tempo,
laddove chiunque altro, in seguito all’entrata in vigore delle legge abrogatrice, non andrebbe incontro ad alcuna conseguenza
poiché è mutata la valutazione dell’antisocialità della condotta[81].
Ma, come
puntualizza la stessa Corte costituzionale, il principio di eguaglianza fonda e
limita allo stesso tempo la portata della retroattività in mitius, sia nel senso che il
legislatore può apportarvi deroghe oggettivamente ragionevoli, sia nel senso
che la disciplina più favorevole deve di per sé essere costituzionalmente
legittima perché possa essere estesa “a ritroso”[82],
sicché, laddove venisse annullata, la norma penale di favore sarebbe
inapplicabile a fatti pregressi «ostando a una soluzione
differente il disposto dell’art. 30, comma III, l. 87/1953, che fa divieto di
applicare le norme dichiarate illegittime dal giorno successivo alla
pubblicazione della decisione di incostituzionalità»[83].
Proprio
quest’ultimo punto è importante ai nostri fini. Se è vero, infatti, che spetta
al legislatore la determinazione del disvalore da attribuire ad un fatto, delle
condotte da sanzionare penalmente e dei limiti edittali di pena, non si può
considerare a priori
illegittima una scelta di abolire un reato, laddove non siano presenti obblighi
di penalizzazione; ma ciò non può sicuramente voler dire che la legge penale
più favorevole, che dovrebbe applicarsi retroattivamente, non possa essere
illegittima[84].
Ed in effetti potrebbero darsi vizi derivanti dalla non valida emanazione della
disciplina, dipendenti da svariate cause, sia di carattere sostanziale, nelle
ipotesi di violazioni di valori espressi da norme costituzionali, sia di
carattere formale, se attinenti, invece, alla regolarità del procedimento che
ha introdotto l’atto legislativo[85],
come, ad esempio un vizio scaturente da un eccesso o difetto di delega.
In queste ipotesi, dunque, le richiamate opinioni dottrinali
concordano nel sostenere che il rispetto per la discrezionalità del
legislatore, che può considerare non più attuali certe scelta punitive, nonché
per il corrispondente principio della riserva di legge di cui all’art. 25, 2°
comma, Cost., non dovrebbe precludere il sindacato di costituzionalità che
accerti e dichiari eventuali vizi.
Si puntualizza, infatti, come fondamentale sia, in realtà, la
prospettiva sostanziale, e non tanto l’aspetto formale della risposta punitiva
da parte dello Stato: è vero che la Corte non può compiere scelte politiche,
individuando, tra una pluralità di soluzioni costituzionalmente possibili,
quella da adottare – questa scelta rappresenterebbe un’interferenza nella
discrezionalità del legislatore, e vi si opporrebbe, peraltro, anche la
disposizione dell’art. 28, l. n. 87/1953 – ma non si può addurre la stessa
motivazione, anche per quanto attiene alle norme penali più favorevoli, se la
discrezionalità legislative è stata esercitata contra constitutionem[86].
Ciò vale sicuramente per gli espressi obblighi di penalizzazione
presenti in Costituzione – di cui il più evidente è quello sancito al 4°comma
dell’art. 13 Cost. – che evidenziano scelte permanenti dell’ordinamento
«refrattari(e) ad ogni diversa scelta
contingente del legislatore»[87]
che conducesse all’abolizione di una normativa attuativa di quelle scelte: se
ciò avvenisse, la Corte potrebbe dichiarare l’illegittimità delle disposizione
abrogativa senza con questo compiere un’autonoma scelta di criminalizzazione,
violando la riserva di legge in materia penale, bensì facendo soltanto
rispettare la norma costituzionale[88].
Ma lo stesso dovrebbe valere, come si accennava, allorché norme penali più
favorevoli violino eventualmente altre disposizioni costituzionali contenenti
limiti formali o sostanziali[89].
Nel caso qui
in esame non sussiste, all’art. 18, 2° comma, Cost., uno specifico obbligo di
penalizzazione simile a quello di cui all’art. 13, 4° comma Cost., e tuttavia
non si può negare che sicuramente la norma manifesti una scelta permanente
della Costituzione nel senso di evitare che il dibattito politico sia condotto
con metodi violenti e determinanti soggezione nei cittadini, o comunque
potenzialmente tali. Nell’ipotesi in cui dovesse accadere quanto proibito dal
disposto costituzionale, è opportuno che il sistema preveda un’adeguata soluzione,
non necessariamente nel senso di criminalizzare pesantemente quelle condotte,
ma quanto meno riconducendovi una disciplina sanzionatoria, pur se di diverso
tenore.
La totale
abrogazione – ad opera del d.lgs. n. 66/2010 – del decreto n. 43/1948, recante
il divieto di associazioni paramilitari, sembrerebbe aver lasciato
completamente sguarnito di tutela un importante interesse delineato dalla
Costituzione e posto a garanzia di diritti fondamentali come la libertà di
associazione, in generale, e di quella di associazione politica, in
particolare, cardini di una democrazia pluralista e partecipativa[90].
Peraltro,
come è stato rilevato nell’eccezione di incostituzionalità, nel decreto potrebbe
anche individuarsi un vizio formale di eccesso di delega, e, dunque, una
violazione indiretta della Costituzione – nello specifico dell’art. 76 – per
violazione di “norma interposta”[91],
se si considera che l’art. 14 della legge delega 28 novembre 2005, n. 246, come
modificata dalla l. 18 giugno 2009, n. 69, indica tra i principi e criteri
direttivi che il Governo avrebbe dovuto osservare quelli di «c) identificazione delle disposizioni la cui
abrogazione comporterebbe lesione dei diritti costituzionali» e «f) garanzia della coerenza giuridica, logica e sistematica della
normativa».
Il primo
punto richiamato avrebbe potuto considerarsi rispettato in conseguenza
dell’adozione del d.lgs. n. 179/2009, il quale escludeva espressamente
l’abolizione del d.lgs. n. 43/1948, in quanto disposizione indispensabile, ma
risulta, invece, violato all’esito dell’espressa abrogazione successivamente
dettata dall’art. 2268, comma 297, del d.lgs. n. 66/2010, abrogazione che ha,
di riflesso, determinato il contrasto col criterio direttivo di cui alla
lettera f), lasciando emergere una
palese ed irrazionale contraddizione tra il disposto del d.lgs. n. 179/2009 e
quanto previsto, a distanza di pochi mesi, dal d.lgs. n. 66/2010.
Un’eventuale
chiamata in causa della Corte costituzionale su una questione avente ad oggetto
la disposizione abrogatrice contenuta nel decreto n.
66 potrebbe rappresentare una di quelle occasioni, auspicate in dottrina, in
cui la Corte eventualmente possa rivedere la propria posizione di self-restraint in
materia di “norme penali più favorevoli abrogatrici”,
andando, così, a colmare quelle “zone franche” sottratte al controllo del
giudice costituzionale in base all’ «inaccettabile» assunto per il quale « la
legge penale che disponesse un trattamento meno severo sfuggirebbe per sempre
al sindacato di legittimità costituzionale»[92].
Tuttavia non
può farsi a meno di ricordare che quello delineato è semplicemente un auspicio,
essendo, invece, gli orientamenti consolidati della giurisprudenza
costituzionale in questa materia, allo stato, decisamente “refrattari” a
ritenere ammissibili questioni poste su norme penali più favorevoli che
dispongono un’abolitio criminis, per
non conculcare la discrezionalità del legislatore.
* Facoltà di Giurisprudenza,
Università degli Studi Magna Græcia di Catanzaro.
[1] Cfr., ex multis, G. MARINUCCI, Il controllo di legittimità costituzionale
delle norme penali: diminuiscono (ma non abbastanza) le «zone franche», in Giur. cost., 2006, 4161; M. D’AMICO, Ai confini (nazionali e sovranazionali) del “favor rei”. Relazione introduttiva, in Ai confini del “favor rei”. Il falso in bilancio davanti alle Corti
costituzionale e di giustizia, a cura di R. Bin, G. Brunelli,
A. Pugiotto, P. Veronesi, Torino, 2005, 12 ss; l’espressione è adoperata anche dalla
Corte costituzionale nella sent. n. 51/1985.
[2]
Si vedano, a titolo di esempio, alcune notizie Ansa (1° ottobre 2010, ore 14:26
“Lega Nord:Camicie verdi; processo di
Verona rinviato ad ottobre. Potrebbe finire in un nulla di fatto per il nuovo
codice militare”; 5 ottobre 2010, ore 19:09 “Lega: in vigore il lodo camicie verdi. La norma del codice militare
estingue il processo ai militanti del Carroccio”); un articolo a firma di
Marco Travaglio su «Il
Fatto Quotidiano» del 2 ottobre 2010, da considerare al netto di alcune
imprecisioni (“Lodo Lega: la banda armata
non è più reato”); Corriere.it, sez. regioni, del 04 ottobre 2010 (“Legge salva Lega, stop al processo. La procura ricorre alla Consulta”);
ma anche il quotidiano «La
Stampa» del 21 ottobre 2010, pag. 3, (“Il
leghista nega, Di Pietro contro Calderoli: aiuta le guardie padane”); il
quotidiano «L’Unità» del
21 ottobre 2010, pag. 6-7 (“Lodo padano:
la menzogna di Calderoli che salva i suoi”); La Repubblica.it,
sez. politica del 20 e del 21 ottobre 2010 (“L’Idv denuncia:“Calderoli si dimetta, ha abolito un reato per
salvare 36 leghisti”; “Decreto ‘salva Lega’, Calderoli si difende: dimostrate
che ho mentito e mi dimetto”); il Messaggero.it,
sez. politica, del 20 ottobre 2010 (“L’Idv chiede le dimissioni di Calderoli: leggi ad personam, come
Berlusconi”).
[3] Per la precisione si tratta dei deputati
Mario Borghezio, Umberto Bossi, Enrico Cavaliere, Giacomo Chiappori,
Giancarlo Pagliarini, Luigino Vascon,
Roberto Maroni, Roberto Calderoli, dei senatori Vito Gnutti
e Francesco Speroni e dell’eurodeputato Gianpaolo Gobbo, al quale il Parlamento
europeo ha negato l’immunità parlamentare in relazione ai fatti in oggetto.
[4] Come può leggersi nella sentenza della
Corte costituzionale n. 223 del 2009, nel ricorso con il quale il GUP di Verona
ha sollevato il conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato in merito alla
ricorrenza dei presupposti di applicabilità dell’insindacabilità dei
parlamentari ex art.68, comma 1,
Cost., la GNP (Guardia Nazionale Padana) era un’associazione «organizzata secondo precise regole di
ammissione e reclutamento degli aderenti e di inquadramento in gruppi
territoriali gerarchicamente organizzati, con l’individuazione di responsabili
tenuti a seguire rigorosamente le direttive del “capo” e a riferire periodicamente
sull’attività compiuta in esecuzione di tali direttive», contigua al movimento
politico della Lega Nord e con l’obiettivo di attuare le finalità politiche di
secessione e creazione di nuove entità statuali, con strutture organizzate in
modo gerarchico per un eventuale impiego in azioni collettive di violenza e
minaccia, e con l’aggravante del possesso di armi, munizioni ed esplosivo.
[5] Le pronunce della Corte costituzionale alle quali si fa riferimento sono la sent. n. 267/2005 e l’ord. n. 102/2007
, relative alla delibera di insindacabilità del Senato del 31 Gennaio 2001, e la sent. n. 223/2009, relativa alla delibera di insindacabilità della Camera del 2 Maggio 2007.[6] Si vedano le dichiarazioni del
consigliere del Ministero della Difesa, Pierfrancesco Gamba (ad esempio, su “Il
Sole 24 Ore” del 03 ottobre 2010, pag. 14), il quale ha sostenuto che «il
dicastero ha chiesto l’autorizzazione ad operare una rettifica da pubblicare
sulla Gazzetta ufficiale e togliere questa norma da quelle che verranno abrogate». Si considerino, inoltre,
l’interrogazione a risposta scritta proposta nella seduta della Camera del 4
ottobre 2010 n. 377 dai deputati Turco, Beltrandi, Bernardini, Farina Coscioni, Mecacci, Zamparutti per chiedere
conto dei motivi dell’abrogazione del d.lgs. 43/1948 ed il resoconto sommario
della seduta n. 156 del 6 ottobre 2010 della Commissione difesa del Senato, in
cui il senatore Del Vecchio richiede informazioni circa l’intenzione del
Ministero della Difesa di proporre la rettifica del d.lgs. 66/2010 nella parte
in cui prevede l’abrogazione del divieto di associazioni di carattere militare
con fini, anche indirettamente, politici.
[7] Il citato art. 15 del regolamento di
esecuzione (D.P.R. 14 marzo 1986, n. 217) del Testo Unico sulla promulgazione
delle leggi, sulla emanazione dei decreti del Presidente della Repubblica e
sulle pubblicazioni ufficiali della Repubblica italiana (D.P.R. 28 dicembre
1985, n.1092) riguarda esattamente gli “Errori occorsi nella promulgazione
delle leggi e dei decreti del Presidente delle Repubblica” e ne consente la
correzione nell’ipotesi in cui il testo normativo promulgato o emanato dal
Presidente della Repubblica sia difforme dal testo effettivamente approvato dal
Parlamento o dal Consiglio dei Ministri e tale difformità influisca sul
contenuto normativo dell’atto.
[8] Si veda il comunicato stampa del
Ministero della Difesa del 22 ottobre 2010 (www.difesa.it)
[9] Comunicati della Presidenza del
Consiglio del 1 giugno 2010 (rettifica, Gazzetta Ufficiale n. 126) e del 7
settembre 2010 (seconda rettifica, Gazzetta
Ufficiale n. 209).
[10] Si veda l’interrogazione presentata
al Ministro per la semplificazione normativa dai deputati dell’I.d.V. Donadi, Di Stanislao, Favia, Evangelisti e Borghesi “Conseguenze dell’abrogazione del decreto legislativo n. 43 del 1948 in
materia di associazioni di carattere militare con scopi politici-3-01271”,
Resoconti di assemblea, all. B, seduta 12/10/2010 (https://www.camera.it)
.
[11] Dichiarazioni del Ministro per la
semplificazione normativa durante lo svolgimento delle interrogazioni a
risposta immediata del 13 ottobre 2010, il
cui testo è reperibile sul sito della Camera dei Deputati (www.camera.it/dati/leg16/lavori/stenografici/sed382/SINTERO.pdf).
[12] Si veda la lettera del Consigliere
di Stato Vito Poli, reperibile, ad esempio, sul sito www.antoniodipietro.com.
[13] Nella sentenza n. 154/1994
la Corte costituzionale riconosce che la rettifica di un atto legislativo già
pubblicato, compiuta in base al disposto dell’art. 15 del regolamento di
esecuzione (D.P.R. 14 marzo 1986, n. 217) del Testo Unico sulla promulgazione
delle leggi, sulla emanazione dei decreti del Presidente della Repubblica e
sulle pubblicazioni ufficiali della Repubblica italiana (D.P.R. 28 dicembre
1985, n.1092), rappresenta lo strumento predisposto dall’ordinamento per far
fronte ad errori intervenuti nella comunicazione o nella pubblicazione degli
atti normativi, pur se non può mai dare luogo ad atti qualificabili come leggi
o atti aventi valore di legge, tali da radicare la competenza della stessa
Corte costituzionale a sindacare in merito ad essi (punto 2 cons. in dir.). La
Corte sottolinea, altresì, che, di fronte all’uso sempre più frequente degli
avvisi di rettifica e alle incertezze che talvolta può generare, l’esigenza di
tutelare il bene giuridico della certezza del diritto da presunte irregolarità
o illegittimità può essere soddisfatta davanti ai giudici comuni di volta in
volta competenti ed il sindacato della Corte potrebbe radicarsi in quanto
attivato dai titolari del potere legislativo, nelle ipotesi suscettibili di
configurare un conflitto di attribuzione (punto 2 cons. in dir.). Cfr. anche L.
CASSETTI, La rettifica degli atti
normativi e la “certezza del diritto” in materia ambientale, in Riv. giur. ambiente,
1995, 3-4, 0464 ss. Analogamente, la Consulta, nella sentenza n. 20/2006,
riconosce che «la rettifica […] è legittima in quanto consentita dell’art. 15 del
D.P.R. 14 marzo 1986, n. 217, senza che rilevi se si sia trattato di un errore
materiale o di un originario fraintendimento del legislatore» (punto 2, cons. in dir.). Anche la
Corte di Cassazione, sez. II civ., nella sentenza del 28 maggio 1997 n. 4711,
precisa che l’attività di “rettifica” finalizzata alla correzione degli errori
materiali contenuti nell’atto normativo inviato per la pubblicazione in G.U. è
compresa tra quelle di competenza della Presidenza del Consiglio dei Ministri e
si conclude con un atto “che indichi con esattezza quale sia la parte erronea
del testo promulgato o emanato e quale sia il testo che debba essere ad essa
sostituito” (art. 15, D.P.R. n. 217/1986).
[14] Sent. Cass. Civ., sez. II, 28 maggio
1997, n. 4711, in cui si sottolinea come la “rettifica” di un atto legislativo
già pubblicato esula dalle ipotesi di ius superveniens, per cui la norma rettificata può essere
applicata in un giudizio non ancora definito, senza che costituiscano un
impedimento le preclusioni correlate allo stato o grado del processo in cui sia
intervenuta la rettifica, bensì soltanto il giudicato interno eventualmente
formatosi, per inerzia o acquiescenza, in punto di inapplicabilità alla
fattispecie di tale norma.
[15] Secondo C. MORTATI, Legittimità ed opportunità della legge
sulle paramilitari, in Raccolta di
scritti, III, Milano, 1972, 31-32, la sola entrata in vigore della
Costituzione ha reso operante il divieto di cui all’art. 18, determinando la
competenza degli organi preposti alla tutela dell’ordine pubblico a disporre lo
scioglimento delle associazioni vietate, con la garanzia, contro ogni tipo di
arbitrio dell’amministrazione, dei controlli giudiziari ed amministrativi.
Ragion per cui il successivo d.lgs. n. 43/1948 si limita a sancire nell’art. 1
le sanzioni penali per appartenenti e promotori dell’associazione, considerando
implicitamente esistente la facoltà di scioglimento dell’associazione.
[16] Cfr. supra, nota 11.
[17] Le incongruenze tra le affermazioni
del Ministro e quelle del Consigliere Poli, nonché le dichiarazioni del
Ministero della Difesa, hanno condotto alcuni deputati dell’opposizione,
precisamente del partito dell’Italia dei Valori, a contestare al Ministro il
fatto di aver affermato il falso davanti al Parlamento e a ventilare dapprima
l’ipotesi di una mozione di sfiducia individuale nei suoi confronti e,
successivamente, a concretizzare una mozione con la quale si richiede al Governo
la revoca delle deleghe al Ministro per la semplificazione normativa (nello
specifico le funzioni di coordinamento, di indirizzo, di promozione di
iniziative, anche normative, di vigilanza e verifica, indicate all'articolo 2, comma
1, lettera a), b), c), d), e), f) e g), nonché all'articolo 3, comma 1, lettera
a) e c) del decreto del Presidente del Consiglio dei ministri 13 giugno 2008).
Il testo della mozione 1/00475, presentato l’8
novembre 2010 e discusso nelle sedute del 22, 23 e 24 novembre 2010, è
reperibile sul sito della Camera dei Deputati (www.camera.it/_dati/leg16/
lavori/stenografici/sed399/AINTERO.pdf , p.48).
[18] Si veda la lettera del
Ministro della semplificazione normativa Calderoli al Presidente della Camera
del 21 ottobre 2010 nel comunicato stampa del Ministero per la semplificazione
normativa, ma il cui testo è sostanzialmente riprodotto nell’intervento del
Ministro alla Camera, il 22 novembre 2010, in sede di discussione della mozione
presentata dall’Italia dei Valori (p. 131 ss. dei resoconti stenografici della
seduta 399, in www.camera.it/_dati /leg16/lavori/stenografici
/sed399/SINTERO.pdf, in cui è riportato
tutto il testo della discussione svoltasi, p. 118 ss.). Confronta anche
Corriere della Sera del 22 ottobre 2010, pag. 10 (“Norma «salva
leghisti» Donadi (Idv): «Un
ricatto, Calderoli ha detto il falso» I militanti: la norma depenalizza i gruppi
militari e paramilitari. Per i dipietristi è un modo
per prosciogliere i 36 militanti leghisti della Guardia Padana rinviati a
giudizio a Verona”).
[19] Cfr. P. PETTA, Reati associativi e libertà di associazione, in AA.VV., Il delitto politico dalla fine
dell’Ottocento ai giorni nostri, Roma, 1984, 201.
[20] Cfr. P. PETTA, Reati associativi, cit., 201; U. DE SIERVO, La libertà di associazione, in Trattato
di diritto amministrativo, diretto da G. Santaniello, Padova, 1990, XII,
205; G. BRUNELLI, Struttura e limiti del
diritto di associazione politica, Milano, 1991, 186 ss. e 212.
[21] Cfr. G. BRUNELLI, Struttura e limiti, cit., 186 ss.
[22] Cfr. C. MORTATI, Istituzioni di diritto pubblico, II,
Padova 1976, 1162; T. MARTINES, Diritto
costituzionale, XII edizione interamente riveduta da G. Silvestri, Giuffré, Milano 2010, 561. Come rileva il Mortati, la
segretezza può forse spiegarsi in quei sistemi nei quali le libertà
fondamentali sono conculcate, ma non ha ragion d’essere in regimi che alla loro
base ne pongano invece il pieno riconoscimento e la piena tutela, potendo in
questo caso la segretezza sottendere un «fine illecito» o comunque una
mancanza di senso di responsabilità nell’azione dei cittadini di uno stato
popolare (ivi, 1163), mentre il Martines sottolinea che anche laddove una associazione non
sia segreta non si potrebbe tuttavia «escludere che la sua attività si
svolga (in tutto o in parte) in segreto e sia organizzata e diretta da capi che
non siano quelli conosciuti» (ivi,
561).
[23] Cfr. P. CARETTI, I diritti fondamentali. Libertà e diritti
sociali, II ed., Torino, 2005, 382.
[24] Cfr. A. PACE, Commento all’art. 18, in Commentario
della Costituzione, artt. 13-20, a cura di G. Branca, Bologna, 1983, 214.
Condivide espressamente tale opinione G. BRUNELLI, Struttura e limiti, cit. 167. Anche V. CRISAFULLI, In tema di libertà di associazione, in Giur. cost., 1962, 744, ritiene che la
libertà di determinazione delle strutture organizzative delle associazioni sia
in modo univoco, seppure implicito, garantita dall’art. 18, 2° comma, Cost.
[25] Cfr. A. PACE, Commento all’art. 18, cit., 219. Contrario, invece,
all’applicazione in via interpretativa anche alle associazioni segrete della
condizione che l’art. 18 Cost. prevede solo in relazione alle associazioni
paramilitari, cioè il perseguimento di fini, pur indirettamente, politici U. DE
SIERVO, Associazione (libertà di), in
Dig. disc. pubbl., I, 1987, 495.
[26] Cfr. G. DE FRANCESCO, Associazioni segrete e militari nel diritto
penale, in Dig. disc. pen., I,
Torino, 1987, 317; T. MARTINES, Diritto
costituzionale, cit., 561; P. CARETTI, I
diritti fondamentali, cit., 382; per P. PETTA, Le associazioni anticostituzionali nell’ordinamento italiano, in Giur. cost., 1973, 744, sia il divieto di
associazioni segrete che la proibizione di organizzazioni di carattere militare
sono direttamente collegati alla prescrizione del “metodo democratico” di cui
all’art. 49 Cost., concretizzandosi tale imperativo in «forme
di lotta politica che sono incompatibili con l’azione occulta e sotterranea
delle società segrete: il sistema democratico si fonda infatti sulla pubblicità
dei dibattiti, sul libero confronto e libero scambio di idee». Ai sostenitori del carattere
necessariamente politico delle due previsioni limitative si contrappone chi
ritiene non del tutto convincente tale interpretazione dell’art. 18, 2° comma,
Cost., v. G. DE FRANCESCO, Associazioni
segrete e militari, cit., 319. L’A. rileva come che un’associazione
militare o segreta potrebbe anche rivolgersi a scopi diversi da quelli
politici: si pensi ad un’organizzazione militare, con struttura fortemente
gerarchizzata, che non persegua, però, scopi politici quanto piuttosto l’obiettivo
di dare un migliore addestramento sportivo ai propri membri, pur se si rileva
che storicamente è talvolta accaduto che tale addestramento sportivo sia stato
“piegato” anche al perseguimento di svolte politiche autoritarie. Dunque, se è
vero che gli scopi politici possono ricorrere con la stessa frequenza tanto
nelle associazioni segrete che in quelle militari, non si comprende il motivo
per il quale nella disposizione costituzionale essi siano espressamente
indicati solamente per le associazioni militari; d’altra parte, anche se si
ammettesse che il divieto di costituire associazioni segrete o militari si
prospetta solo in presenza di finalità di natura politica, l’art. 18 eccederebbe nello specificare che ai
fine del limite debbano ricorrere scopi politici, potendo bastare la
proibizione delle «associazioni segrete e militari tout court, senza richiedere
espressamente la presenza di uno scopo che risultava già insito nella stessa ratio della
prescrizione limitatrice».
[27] C. MORTATI, Istituzioni, cit., 1163 s.
[28] P. PETTA, Le associazioni anticostituzionali, cit., 740 s. Il riferimento
dell’A. è ai collegamenti che certi movimenti eversivi, di matrice
pangermanista, avevano con associazioni folkloristiche, sportive,
combattentistiche, ecc. per il perseguimento delle proprie finalità. Per V.
SICA, Le associazioni nella Costituzione
italiana, Napoli, 1957, 32, perseguono scopi politici quelle associazioni
che tendono ad influire o a determinare la politica nazionale o, ancora,
l’indirizzo politico del Governo.
[29] Cfr. G. BRUNELLI, Struttura e limiti, cit., 180 ss. Può
essere indicativo dei timori delle minoranze, ed in particolare degli esponenti
del Partito comunista, circa possibili limitazioni indirizzate verso tale
compagine politica, a lungo perseguitata negli anni della dittatura fascista,
il dibattito sviluppatosi nell’ambito della Prima Sottocommissione a proposito
della proposta del relatore La Pira di formulare il primo comma del futuro
art.18 Cost. nel senso di garantire la libertà di associazione per fini che non
contrastino con le leggi penali “e con le
libertà garantite dalla presente dichiarazione”. L’altro relatore, l’On. le
Basso, si dichiarò contrario a tale aggiunta in quanto tra le libertà garantite
dalla Costituzione è presente il diritto di proprietà, ma poiché il partito
socialista ed il partito comunista hanno tra i loro obiettivi quello di ridurla
o addirittura di vietarla, introducendo quell’inciso potrebbe in futuro
profilarsi il rischio che venga vietato a tali associazioni di riunirsi per un
contrasto con le libertà garantite dalla Costituzione. In più, nella stessa
seduta, l’On. le Marchesi, dichiarandosi contrario all’inciso proposto dall’On.
le La Pira, sottolinea come esso potrebbe prestarsi a molti abusi se si
considera che le libertà fissate dalla Costituzione sono proprie di un
ordinamento costituito, ma non si può escludere né impedire che altri
ordinamenti possano costituirsi: Prima sottocommissione, Resoconto sommario
della seduta del 25 settembre 1946, Pres. Tupini, p.
120 ss., in banchedati.camera.it/AssembleaCostituente/..
[30] BASSO, Prima Sottocommissione,
Resoconto sommario della seduta del 25 settembre 1946, Pres. Tupini, p. 126, in banchedati.camera.it/AssembleaCostituente/.
[31] MORO, Prima Sottocommissione, Resoconto
sommario della seduta del 25 settembre 1946, Pres. Tupini,
p. 127, in banchedati.camera.it/AssembleaCostituente/.
[32] Cfr. C. MORTATI, Legittimità ed opportunità, cit., 30 s.
[33] Cfr. A. PACE, Commento all’art. 18, cit., 220. Allo Stato quale detentore del
“monopolio legale dell’uso della forza” si riferisce L. VENTURA, La sovranità. Teorie giuridiche, in Stato e sovranità. Profili essenziali,
di L. Ventura, P. Nicosia, A. Morelli, R. Caridà,
Torino, 2010, 50 s., che ricostruisce una delle due accezioni di sovranità
statale identificandola con la supremazia dell’ordinamento statale e
dell’apparato autoritario da esso istituito sia rispetto ai singoli sia
rispetto agli ordinamenti minori, in quanto detentore del monopolio legale
dell’uso della forza, in grado di esprimere i comandi e di farli rispettare,
ricorrendo concretamente all’impiego della forza o alla mera eventualità di un
ricorso ad essa. La locuzione in oggetto, invece, la si deve a G.U. RESCIGNO, Corso di diritto pubblico, 1984, 1 ss.
[34] G. DE FRANCESCO, Associazioni segrete e militari, cit.,
317.
[35] Cfr. C. MORTATI, Legittimità ed opportunità, cit., 33.
L’A. rinviene il fondamento storico della tendenze legislative, diffuse in
tutta Europa fin dai primi del Novecento, indirizzate a contrastare le forme di
estremismo politico violento nella mobilitazione, successiva alla Prima Guerra
Mondiale, di grandi masse, esasperate dai contrasti sociali e strumentalizzate
dall’estremismo di destra e di sinistra, attraverso l’addestramento all’uso di
armi a fini di lotta politica.
[36] C. MORTATI, Legittimità ed opportunità, cit., 33.
[37] Cfr. P. PETTA, Le associazioni anticostituzionali, cit., 741; C. MORTATI, Legittimità ed opportunità, cit., 34; A.
PACE, Commento all’art. 18, cit.,
221.
[38] Cfr. C. MORTATI, Legittimità ed opportunità, cit., 34; G.
DE FRANCESCO, Associazioni segrete e
militari, cit., 317 e, dello stesso Autore, I reati di associazione politica. Storia, costituzione e sistema
nell’analisi strutturale della fattispecie, Milano, 1985, 163 s.; U. DE
SIERVO, Associazione (libertà di),
cit., 494; P. CARETTI, I diritti
fondamentali, cit., 384.
[39] Cfr. C. MORTATI, Legittimità ed opportunità, cit., 36.
[40] Cfr. C. MORTATI, Legittimità ed opportunità, cit., 36.
L’A. ricorda come anche nella legislazione straniera numerosi siano le leggi
che dispongono dei divieti di indossare divise o uniformi, e richiama l’esempio
delle c.d. “blouse laws”
anglosassoni; A. PACE, Commento all’art.
18 , cit., 221; U. DE SIERVO, Associazione
(libertà di), cit., 494; P. PETTA, Le
associazioni anticostituzionali, cit., 741.
[41] Cfr. C. MORTATI, Legittimità ed opportunità, cit., 36; P.
PETTA, Le associazioni anticostituzionali,
cit., 742.
[42] Cfr. Corte costituzionale, sent.
26/1976, punto 3 cons. in dir.; P. RIDOLA, Divieto
delle associazioni di carattere militare e competenza legislative della
provincia di Bolzano, in Giur. cost., 1976,
I, 181; M. RUOTOLO, Le libertà di
riunione e di associazione, in I
diritti costituzionali, a cura di P. Ridola e R. Nania, Torino, 2006, vol. II, II ed., 717.
[43] Cfr. C. MORTATI, Legittimità ed opportunità, cit., 37. Su
tale legge si esprime in termini più critici P. PETTA, Le associazioni anticostituzionali, cit., 743, per il quale dalla
lettera della Costituzione sembrerebbe potersi evincere che sarebbe più
corretto perseguire il partito che si serve di un’organizzazione militare e non
tanto quest’ultima in quanto tale.
[44] Cfr., da ultimo, in dottrina, A.
PERTICI, Il giudice delle leggi e il
giudizio di ammissibilità del referendum abrogativo, Torino, 2010, 160 ss.; ma anche A. RUGGERI - A.
SPADARO, Lineamenti di giustizia
costituzionale, IV ed., Torino, 2009, 288 ss.; E. MALFATTI, S. PANIZZA, R.
ROMBOLI, Giustizia costituzionale, II
ed., Torino, 2007, 266 ss; A. PERTICI, Il
giudizio di ammissibilità del referendum abrogativo, in Aggiornamenti
in tema di processo costituzionale (2005-2007), a cura di R. Romboli, Torino, 2008, 399 ss.
[45] Cfr. G. BRUNELLI, Struttura e limiti, cit., 154 et passim. Oltre
al d.lgs. 43/1948 sulle paramilitari, le organizzazioni fasciste, la cui
ricostituzione è vietata dalla XII disp. fin., sono
punite in base alla l. 3 dicembre 1947, n. 1546, così come modificata dalla l.
20 giugno 1952, n. 645, e le associazioni segrete in base alla legge 25 gennaio
1982, n. 17.
[46] Cfr. G. BRUNELLI, Struttura e limiti, cit., 206, la quale
ricostruisce brevemente alcune proposte della dottrina penalistica di riforma
dei reati associativi in termini maggiormente consoni al dettato costituzionale.
[47] P. PETTA, Le associazioni anticostituzionali, cit., 747.
[48] Cfr. P. PETTA, Le associazioni anticostituzionali, cit., 748.
[49] Cfr. U. DE SIERVO, Associazione (libertà di), cit., 498; A.
PACE, Commento all’art. 18, cit.,
232.
[50] Cfr. U. DE SIERVO, Associazione (libertà di), cit., 498. Il
procedimento di scioglimento delle associazioni neofasciste, in base alla l. 20
giugno 1952, n. 645 (c.d. “legge Scelba”), che ha
ridefinito la fattispecie già delineata dalla l. 3 dicembre 1947, n.1546, e che
è stata successivamente modificata dalla l. 22 maggio 1975, n.152 (c.d. “legge
Reale”), prevede lo scioglimento, in seguito all’accertamento giudiziario del
reato di ricostituzione del disciolto partito fascista, tramite un
provvedimento del Ministro dell’Interno, adottato sentito il Consiglio dei
Ministri, anche se la condanna non sia definitiva o, in ipotesi di urgenza,
attraverso un decreto legge; le associazioni segrete, invece, in base alla
legge 25 gennaio 1982, n. 17, sono sciolte con provvedimento del Presidente del
Consiglio, emesso previa deliberazione del Consiglio dei Ministri, in seguito
ad una sentenza definitiva di condanna e, in caso di urgenza, nell’ambito del
procedimento penale, può svolgersi uno specifico procedimento giurisdizionale
su iniziativa del Procuratore della Repubblica, anche su istanza del Governo.
[51] Cfr. U. DE SIERVO, Associazione (libertà di), cit.,
497-498; G. BRUNELLI, Struttura e limiti,
cit., 213.
[52] Cfr. G. DE FRANCESCO, Associazioni segrete e militari, cit.,
321-322. In dottrina è stata prospettata anche l’ipotesi di un procedimento
unitario di scioglimento a livello nazionale, circoscritto alle sole ipotesi
delle associazioni vietate dell’art. 18, 2° comma, Cost. e dalla XII disp. fin. Cost., ed affidato alla Corte costituzionale,
sulla scia di quanto avviene in Germania per i partiti antidemocratici: cfr.
sul punto P. PETTA, Le associazioni
anticostituzionali, cit., 748; G. BRUNELLI, Struttura e limiti, cit., 248, che .
[53] Cfr., anche se sul diverso tema
dell’ammissibilità del referendum
abrogativo, A. PERTICI, Il giudice delle
leggi, cit. 162 ss. e l’ulteriore dottrina ivi richiamata; Id., Il
giudizio di ammissibilità del referendum abrogativo, cit., 413. L’A. osserva la tutela minima richiesta non
è rappresentata da una disciplina in particolare, sostanzialmente imposta dal
testo costituzionale, ma dalla presenza di una qualsiasi disciplina, per
ipotesi anche incostituzionale (ivi,
163). Sul punto, nello stesso senso, M. LUCIANI, sub art. 75. La formazione delle leggi. Il referendum abrogativo, in
Commentario della Costituzione, fondato da G. Branca e continuato da A. Pizzorusso, Zanichelli-Il Foro
italiano, Bologna-Roma, 361. La locuzione citata,
invece, è tratta dalla sentenza della Corte costituzionale
n. 45/2005, punto 6 cons. in dir., relativa all’inammissibilità del
referendum abrogativo sulla l. n. 40 del 2004.
[54] Cfr. L. VENTURA, La fedeltà alla Repubblica, Milano,
1984, 114, il quale, nell’esaminare il dovere di cui all’art. 54, 1° comma,
Cost., osserva come la presenza di tale disposto rafforzi la legittimità della
previsione di fattispecie di reato, come quelle attinenti al vilipendio,
all’apologia, all’istigazione, che potrebbero risultare al limite della libertà
di manifestazione del pensiero, ma che esulano da essa nel momento in cui si
configurano «come mezzi di disgregazione dell’ordinamento costituzionale
democratico».
[55] Cfr. L. VENTURA, La fedeltà alla Repubblica, cit., 1-3;
A. CERRI, Libertà di manifestazione del
pensiero, propaganda, istigazione ad agire, in Giur. cost., 1969, 1178 ss., che rilevano come proprio tale mancanza
sia espressione delle liberaldemocrazie. Come si
nota, la nostra Costituzione non istituisce, dunque, «una
forma di democrazia protetta», cfr. M. RUOTOLO, Le libertà di riunione
e di associazione, in I diritti
costituzionali, a cura di P. Ridola e R. Nania, cit., 701.
[56]T.F.GIUPPONI, La
sicurezza e le sue “dimensioni” costituzionali, p. 5, in www.forumcostituzionale.it,
e ora anche in Diritti umani. Teorie,
analisi, applicazioni, a cura di S. Vida,
Bologna, 2008.
[57] Cfr. A. MORELLI, Il dovere di fedeltà alla Repubblica, in
I doveri costituzionali: la prospettiva
del giudice delle leggi, Atti del Convegno del “Gruppo di Pisa” di Acqui Terme-Alessandria, 9-10
giugno 2006, a cura di R. Balduzzi, M. Cavino, E.
Grosso, J. Luther, Torino, 2007, 180. L’A. adopera
l’espressione “paradosso del «doppio vincolo costituzionale»” nel ricostruire
l’ambiguità del dovere di fedeltà alla Repubblica, che imporrebbe «un
sentimento di adesione ai valori costituzionali, per definizione ingovernabile,
ponendo il cittadino in una situazione di paradossale conflittualità interiore» (ivi, 177).
[58] Cfr. M. MANETTI, Associazioni di carattere militare, insindacabilità
parlamentare e difesa della Costituzione, in Giur. cost., 2009, 4, 2575. Sarebbero specificazioni del generale
dovere di fedeltà alla Repubblica di cui all’art. 54, 1° comma, Cost., quelle
disposizioni penali che «vietano comportamenti materiali e violenti volti a sovvertire
l’ordinamento repubblicano» (sul punto A. MORELLI, Il dovere
di fedeltà, cit., 186). Trovano fondamento nell’art. 54 Cost. anche i
delitti contro la personalità dello Stato, sebbene frutto di disposizioni
emanate da un sistema politico non democratico, ma adattabili, rebus sic stantibus,
a garantire la fedeltà all’attuale Stato democratico delineato dalla
Costituzione repubblicana, e, più in generale, a qualunque tipo di ordinamento
costituzionale, a qualunque Stato,
per ipotesi anche non democratico: cfr. sul punto L. VENTURA, La fedeltà alla Repubblica, cit., 102
ss, 118 ss.
[59] Cfr. G. BRUNELLI, Struttura e limiti, cit., 196.
[60] Cfr. L. VENTURA, La fedeltà alla Repubblica, cit., 2 ss.
[61] Cfr. L. VENTURA, La fedeltà alla Repubblica, cit., 104
ss. L’A. puntualizza, tuttavia, come costituisca un’evidente difficoltà il
fatto di doversi riferire a fattispecie penali elaborate in relazione ad una
forma di Stato e di Governo del tutto diverse da quelle configurate
dall’attuale Costituzione, difficoltà che poteva essere superata se il
legislatore democratico avesse ridefinito il sistema delle leggi penali alla
luce dei valori costituzionali e dei nuovi rapporti tra cittadini ed
istituzioni determinati dalla Carta fondamentale (ivi, 102), pur essendo vero che la Costituzione «ha conferito in generale nuova
legittimità a tutto l’ordinamento» (ivi,
103), potendosi dunque «riadattare» tali norme a tutela dello Stato in sé, anche se venisse meno la sua natura democratica,
poiché concretizzano «in senso negativo il dovere di fedeltà alla
Repubblica» (ivi, 103 e 105).
[62] Cfr. M. MANETTI, Associazioni di carattere militare, cit.
2573. La Giunta per le autorizzazioni della Camera dei deputati ha ritenuto che
l’associazione Camicie Verdi altro non fosse che un “servizio d’ordine”, simile
a quelli predisposti dai partiti in occasione di comizi e manifestazioni in
piazza e dunque non rappresentanti, in quanto tali, un attacco all’integrità
dello Stato. La Corte costituzionale, invece, nella sent. 223/2009, non ha
minimizzato il fenomeno, e condivide l’inquadramento di tale organizzazione tra
le associazioni militari aventi scopi politici.
[63] Cfr. C. MORTATI, Legittimità ed opportunità, cit., 33; A.
PACE, Problematica delle libertà
costituzionali, Parte speciale, II ed., Padova, 1992, 370; M. MANETTI, Associazioni di carattere militare, cit.
2573.
[64] G. MARINUCCI, Il controllo di legittimità costituzionale delle norme penali,
cit., 4166.
[65] M. MANETTI, Associazioni di carattere militare, cit. 2575. L’intervento
legislativo al quale l’Autrice imputa questa tendenza è quello operato con l.
85/2006, recante le “Modifiche al codice
penale in materia di reati di opinione”.
[66] Si vedano le dichiarazioni,
riportate dalla stampa il 04 ottobre 2010, del Procuratore di Verona Mario
Giulio Schinaia, che manifestava, successivamente al
rinvio, l’intenzione della Procura di sollevare un’eccezione di
incostituzionalità (su www.corrieredelveneto.corriere.it, “Legge salva Lega, stop al processo. La
procura ricorre alla Consulta”; www.larena.it, “Gruppi a struttura militare, divieto cancellato per errore”), ma
anche del consigliere del Ministro della Difesa, sen. Pierfrancesco Gamba,
riportate in un lancio Ansa del 04 ottobre 2010.
[67] Si veda il virgolettato riportato
nell’edizione on-line del quotidiano “L’Arena”,
relativo ad alcuni stralci dell’istanza presentata il 19 novembre 2010 dal
procuratore aggiunto Angela Barbaglio.
[68] Cfr. supra nota 1.
[69] Cfr. G. MARINUCCI, Il controllo di legittimità costituzionale
delle norme penali: diminuiscono (ma non abbastanza) le «zone franche», cit., 4161; G. MARINUCCI – E.
DOLCINI, Manuale di diritto penale. Parte
generale, II ed., Milano, 2006, 76-77.
[70] Secondo la definizione che la Corte
costituzionale stessa delinea, sono quelle norme “speciali” che «sottraggano determinati
gruppi di soggetti o di condotte alla sfera applicativa di una norma comune o
comunque più generale, accordando loro un trattamento più benevolo (sentenza n. 148 del
1983): e ciò a prescindere dall'istituto o dal mezzo tecnico tramite il
quale tale trattamento si realizza (previsione di una scriminante, di una causa
di non punibilità, di una causa di estinzione del reato o della pena, di una
circostanza attenuante o di una figura autonoma di reato punita in modo più
mite)»: cfr. la sent.
394/2006, 6.1 cons. in dir. Cfr. anche G. VASSALLI, Giurisprudenza costituzionale e diritto penale sostanziale, in
AA.VV., Corte costituzionale e processo
costituzionale nell’esperienza della rivista “Giurisprudenza costituzionale”
per il cinquantesimo anniversario, a cura di A. Pace, Milano, 2006, 1049 s.
[71] A. LOLLO, Norme penali di favore e zone d’ombra della giustizia costituzionale,
in www.federalismi.it
(30 giugno 2009), 3 ss.
[72] A tal proposito si adopera
l’espressione “difetto relativo” di rilevanza, che si avrebbe quando la
decisione della Corte non potrebbe avere alcuna incidenza sul processo
principale, pur non difettando incidentalità e attualità della q.l.c., mentre il “difetto assoluto” di rilevanza si
presenterebbe quando il giudizio è astratto e, quindi, è del tutto mancante
l’incidentalità oppure la q.l.c. non è più attuale
per essere stata la norma già applicata nel giudizio a quo: cfr. A. RUGGERI – A. SPADARO, Lineamenti, cit., 188.
[73] Cfr. M. BRANCA, Norme penali di favore: dall’irrilevanza al rifiuto della
sentenza-legge, in Giur. cost., 1981, I, 914; A. LOLLO, Norme penali di favore e zone d’ombra della
giustizia costituzionale, cit., 3.
[74] Cfr. G. VASSALLI, Giurisprudenza costituzionale e diritto
penale sostanziale, cit., 1050; M. BRANCA, Norme penali di favore, cit., 915 ss.
[75] In base alla sent. n.148/1983,
punto 3 cons. in dir., in primo luogo, l’accoglimento di questioni su tali
norme «verrebbe ad
incidere sulle formule di proscioglimento o, quanto meno, sui dispositivi delle
sentenze penali», e dunque sulla ratio decidendi delle pronunce; secondariamente, anche le
norme penali di favore fanno parte del sistema e dunque la Corte non può
affrontare il problema di come vadano risolte le situazioni conseguenti
all’annullamento di esse, attenendo ciò all’interpretazione di norme diverse da
quelle caducate e dunque rientrando in un’attività
spettante al singolo giudice del caso concreto; in terzo luogo, non si può
escludere la pregiudizialità di questioni su tali norme perché non è detto che
il giudizio della Corte si concluda con una sentenza di rigetto o di
accoglimento “secche”, potendo anche darsi sentenze in grado di influire sul
processo panale in corso, come le interpretative di rigetto nei sensi di cui
alla motivazione o quelle correttive delle premesse esegetiche su cui si
fondava l’ordinanza di rimessione. Difatti (sent. n. 394/2006,
punto 6.1 cons. in dir.) sarebbe altrimenti “incongruo” ammettere che il
legislatore è tenuto a rispettare i precetti costituzionali se introduce
trattamenti penali più severi e può, invece, violarli se ne derivi un
trattamento più favorevole.
[76] Cfr. sent. n. 148/1983,
punto 3 cons. in dir.
[77] Cfr. sent. n. 394/2006,
punto 6.1 cons. in dir. Per un’accurata e sintetica trattazione sul punto, cfr.
A. LOLLO, Norme penali di favore e zone
d’ombra della giustizia costituzionale, cit., 1 ss.; sulla sent. n. 394/2006,
oltre al già citato commento di G. MARINUCCI, Il controllo di legittimità costituzionale delle norme penali:
diminuiscono (ma non abbastanza) le «zone franche»,
cit., 4160 ss., cfr. anche i commenti di V. MANES, Illegittime le “norme penali di favore” in materia di falsità nelle
competizioni elettorali. Nota a Corte cost. n. 394/2006, in www.forumcostituzionale.it;
G. DE MARTINO, Brevi osservazioni in tema
di norme penali di favore e di reati strumentali, in Giur. cost., 2006, 6, 4170 ss.; I. PELLIZZONE, Il fondamento costituzionale del principio di retroattività delle norme
penali in bonam partem: due decisioni dall’impostazione divergente,
in www.forum
costituzionale.it.
A proposito della “riespansione” di previgenti
disposizioni generali cui la legge incostituzionale pretendeva di derogare, v.
A. FRANCO, Considerazioni sulla
dichiarazione di incostituzionalità di disposizioni espressamente abrogatrici, in Giur. cost., 1974,
3436 ss.
[78] «(…) rimanendo escluso che detta
qualificazione possa esser fatta discendere dal raffronto tra una norma vigente
ed una norma anteriore, sostituita dalla prima con effetti di restringimento
dell’area di rilevanza penale o di mitigazione della risposta punitiva»: cfr. sent. n.394/2006,
punto 6.1 cons. in dir.
[79] A. LOLLO, Norme penali di favore e zone d’ombra della giustizia costituzionale,
cit., 5. Cfr. le pronunce nn. 826/1988; 167-194/1993; 62/1994; 14/1996; 161/2004; 392-394/2006; 126-127/2007; 324/2008 e A.
RUGGERI – A. SPADARO, Lineamenti,
cit., 191, per le indicazioni giurisprudenziali.
[80] G. MARINUCCI, Il controllo di legittimità costituzionale delle norme penali,
cit., 4161 e 4163 ss.; cfr. anche A. LOLLO, Norme
penali di favore e zone d’ombra della giustizia costituzionale, cit., 2 e
17 ss.; V. ONIDA, Retroattività e
controllo di costituzionalità della legge penale sopravvenuta più favorevole,
in Ai confini del “favor rei”. Il falso in bilancio davanti alle Corti
costituzionale e di giustizia, a cura di R. Bin, G. Brunelli,
A. Pugiotto, P. Veronesi, Torino, 2005, 285 ss.
[81] Cfr. sent. n. 394/2006;
V. ONIDA, Retroattività e controllo di
costituzionalità, cit., 286; G. MARINUCCI, Il controllo di legittimità costituzionale delle norme penali,
cit., 4162-4163; A. LOLLO, Norme penali
di favore e zone d’ombra della giustizia costituzionale, cit., 8-9; I.
PELLIZZONE, Il fondamento costituzionale
del principio di retroattività, cit., 2-3.
[82] Cfr. sent. n. 394/2006;
V. ONIDA, Retroattività e controllo di
costituzionalità, cit., 286 e G. MARINUCCI, Il controllo di legittimità costituzionale delle norme penali,
cit., 4162-4163, per i quali alla luce del principio di retroattività della lex mitior si
possono spiegare anche le deroghe rappresentate da leggi eccezionali o
temporanee, che sono “ultrattive” in quanto si
continuano ad applicare pure dopo la loro abrogazione poiché la ratio della loro emanazione è legata all’esigenza di
fronteggiare particolari situazioni di fatto.
[83] A. LOLLO, Norme penali di favore e zone d’ombra della giustizia costituzionale,
cit., 9. Cfr. anche V. ONIDA, Retroattività
e controllo di costituzionalità, cit., 286-287, per il quale, se la legge
sopravvenuta più favorevole fosse annullata sarebbe «irrazionale» applicarla ancora ai fatti avvenuti
mentre essa era ancora in vigore e ancor più a quelli accaduti precedentemente,
nel vigore della legge più severa.
[84] Cfr. V. ONIDA, Retroattività e controllo di costituzionalità, cit., 287.
[85] Cfr. sent. n. 394/2006,
punto 6.4 cons. in dir.; V. ONIDA, Retroattività
e controllo di costituzionalità, cit., 288; A. LOLLO, Norme penali di favore e zone d’ombra della giustizia costituzionale,
cit., 9-10; G. MARINUCCI, Il controllo di
legittimità costituzionale delle norme penali, cit., 4163.
[86] Cfr. A. LOLLO, Norme penali di favore e zone d’ombra della giustizia costituzionale,
cit., 18. E ciò indipendentemente dai possibili esiti di pronunce ablatorie del genere, sia che esse conducano alla
reviviscenza della disciplina più sfavorevole abrogata che alla riespansione di una disciplina comune o più generale.
[87] G. MARINUCCI, Il controllo di legittimità costituzionale delle norme penali,
cit., 4164.
[88] Cfr. G. MARINUCCI, Il controllo di legittimità costituzionale
delle norme penali, cit., 4164; G. MARINUCCI- E. DOLCINI, Corso di diritto penale, III ed.,
Milano, 2001, 85. Gli AA. precisano che «…la
Costituzione, configurando quell’obbligo, ha infatti eccezionalmente compiuto
le valutazioni politico-criminali di regola riservate alla discrezionalità del
legislatore ordinario. Spetta in ogni caso al legislatore dare attuazione
all’obbligo costituzionale di tutela penale; una volta che lo abbia attuato, il
vincolo costituzionale gli preclude di abolire la scelta incriminatrice» (ivi, 506). Cfr. anche A. LOLLO, Norme
penali di favore e zone d’ombra della giustizia costituzionale, cit., 13 e
18. Prospetta ulteriori esempi di obblighi costituzionali di tutela penale,
oltre al già citato contributo di G. Marinucci, anche
G. VASSALLI, Giurisprudenza
costituzionale e diritto penale sostanziale, cit. 1064-1065.
[89] Cfr. V. ONIDA, Retroattività e controllo di costituzionalità, cit., 287-288; A.
LOLLO, Norme penali di favore e zone
d’ombra della giustizia costituzionale, cit., 18-19.
[90] In merito ai caratteri dello Stato
italiano, così come configurati dalla vigente costituzione, v., per tutti, T.
MARTINES, Diritto costituzionale, XII
ed., cit., 193 ss.
[91] Cfr. sul punto A. RUGGERI – A.
SPADARO, Lineamenti, cit., 70 e 75
ss; E. MALFATTI, S. PANIZZA, R. ROMBOLI, Giustizia
costituzionale, cit., 87 ss.
[92] A. LOLLO, Norme penali di favore e zone d’ombra della giustizia costituzionale,
cit., 19. Cfr. anche V. ONIDA, Retroattività
e controllo di costituzionalità, cit., 288; G. MARINUCCI, Il controllo di legittimità costituzionale
delle norme penali, cit., 4163-4164.