VALENTINA PUPO*
CONTRATTAZIONE DI PROSSIMITÀ: INTRODUZIONE DEL
DIRITTO DEL LAVORO “AD AZIENDAM”?
La c.d. manovra economica-bis, il decreto legge 13 agosto 2011, n. 138, convertito nella
legge 14 settembre 2011, n. 148, ha introdotto, tra l’altro, alcune previsioni
in materia di lavoro. Il Titolo III è, infatti, dedicato alle “Misure a sostegno dell’occupazione”.
Fra queste disposizioni, una delle più controverse è quella
di cui all’articolo 8, rubricato come “Sostegno
alla contrattazione collettiva di prossimità”, norma che non ha mancato di suscitare opinioni contrastanti in ambito
politico, nel mondo sindacale ed in dottrina, poiché alle ipotesi più
ottimistiche di coloro i quali vi scorgono un’occasione perché all’azione dello
Stato si affianchino e, per la regolamentazione di alcune importanti materie,
prevalgano le previsioni fissate in intese raggiunte dalle parti sociali al
livello territoriale o aziendale, in modo tale da combinare lavoro e
produttività, di fronte alle sfide dell’economia globale, si contrappongono
quelle meno rosee di coloro i quali, in questa normativa, ravvisano il rischio
che possa condurre ad una progressiva “balcanizzazione” del diritto del lavoro
e quello di un assottigliamento delle tutele. Non meno rilevanti, però, sotto
molteplici aspetti, potrebbero essere i profili di incostituzionalità
eventualmente riscontrabili.
L’art. 8 introduce degli interventi in tema di
contrattazione di secondo livello, che incidono notevolmente sulla
regolamentazione odierna del diritto del lavoro e sull’assetto attuale delle
relazioni industriali in Italia, rivoluzionando i meccanismi organizzativi del
lavoro e della produzione. Esso, infatti, introduce la nozione di “contratto
collettivo di prossimità”, vale a dire il contratto decentrato, sottoscritto,
cioè, a livello aziendale o territoriale. Nulla di nuovo apparentemente. La
contrattazione aziendale ha iniziato ufficialmente il suo cammino in Italia nei
primi anni Sessanta, con la c.d. contrattazione articolata[1].
L’elemento innovativo in realtà è presente ed è costituito
dalla diversa efficacia soggettiva ora riconosciuta ai contratti di prossimità,
nonché dalla possibilità di deroga della disciplina legislativa e del contratto
nazionale ad essi attribuita. Circostanze che conducono, peraltro, ad un
cambiamento significativo nella gerarchia delle fonti nell’ambito del diritto
del lavoro.
A norma del primo comma dell’articolo, i soggetti firmatari
possono essere “associazioni di lavoratori comparativamente più rappresentative
sul piano nazionale o territoriale” o “rappresentanze sindacali operanti in
azienda”[2] e
l’oggetto di tale contrattazione di prossimità è costituito da “specifiche
intese” per le quali la legge fissa contenuti ed obiettivi piuttosto generici e
strumentalizzabili, tendenti a consolidare le tutele per i lavoratori e a
migliorare le finalità economiche dell’impresa. Devono, infatti, essere dirette
“alla maggiore occupazione, alla qualità dei contratti di lavoro, all’adozione
di forme di partecipazione dei lavoratori, all’emersione del lavoro irregolare,
agli incrementi di competitività e di salario, alla gestione delle crisi
aziendali ed occupazionali, agli investimenti e all’avvio di nuove
attività”.
È inoltre previsto che il contenuto delle “specifiche
intese” riguardi l’organizzazione del lavoro e della produzione, con
l’esplicita possibilità di derogare, nella disciplina di un novero molto ampio di
materie, alle disposizioni di legge, nonché alle regolamentazioni contenute nei
contratti collettivi nazionali di lavoro, fatti salvi la Costituzione ed i
vincoli derivanti dalle normative comunitarie e dalle convenzioni
internazionali sul lavoro. Particolarmente vasto l’insieme delle materie sulle
quali le intese possono vertere, che va dalla predisposizione di impianti
audiovisivi e dall’introduzione di nuove tecnologie alle mansioni del
lavoratore, alla qualificazione e all’inquadramento del personale, dai
contratti a termine, a orario ridotto, modulato, flessibile, alla solidarietà
negli appalti ed ai casi di ricorso alla somministrazione di lavoro, dalla
disciplina dell’orario di lavoro, alle modalità di assunzione e disciplina del
rapporto di lavoro, comprese le collaborazioni coordinate e continuative a
progetto e le partite iva, la trasformazione e la conversione dei contratti di
lavoro e le conseguenze del recesso dal rapporto di lavoro, con l’espressa
eccezione, in proposito, del licenziamento discriminatorio, di quello per
concomitanza di matrimonio, di quello della lavoratrice in gravidanza fino alla
fine del periodo di astensione obbligatoria, nonché fino ad un anno di età del
bambino, e del licenziamento per fruizione del congedo parentale.
I contratti stipulati a livello aziendale o territoriale, a
condizione che siano sottoscritti sulla base di un criterio maggioritario dai
summenzionati soggetti, per espressa previsione di legge, avranno efficacia erga omnes nei
confronti di tutti i lavoratori interessati.
L’attribuzione di tale efficacia, assieme alla previsione
della derogabilità delle previsioni legali e del contratto collettivo nazionale
da parte della contrattazione di prossimità, è uno degli aspetti che suscita i
maggiori dubbi di costituzionalità. E di non minore rilevanza è il pregiudizio
che potrebbe scaturire per il principio di eguaglianza, se il sistema
prefigurato dalla legge dovesse essere effettivamente attuato, nonché,
conseguentemente, per l’insieme degli altri principi costituzionali posti a
tutela del lavoro e dei lavoratori.
Il contrasto evidente è con l’art. 39 della Costituzione,
secondo il quale l’efficacia erga omnes – cioè obbligatoria nei confronti di tutti i
lavoratori appartenenti alla categoria, anche se non iscritti ai sindacati
stipulanti – viene riconosciuta ai contratti collettivi di lavoro conclusi dai
sindacati registrati della medesima categoria, rappresentati unitariamente in
proporzione ai loro iscritti, ed aventi uno statuto interno a base democratica,
essendo quest’ultimo l’unico requisito imposto dalla Costituzione ai fini della
registrazione.
Riconoscendo efficacia erga
omnes ai contratti collettivi stipulati in questi
termini la Costituzione vi attribuisce un’efficacia paralegislativa[3],
perché si è assunto come metodo di regolazione dei rapporti intercorrenti tra
lavoratori e datori di lavoro quello della mediazione degli interessi delle
parti collettive e non quello dell’imposizione di scelte di interesse generale
attraverso la legge, conferendo, però, ad essi la stessa efficacia imperativa
di carattere generale che è propria dell’atto legislativo[4],
poiché finalizzati a realizzare l’interesse generale dell’intera categoria,
anche se alla loro stipula si giunge attraverso l’esercizio di un ufficio di
natura privatistica da parte del sindacato registrato[5].
Tale validità erga omnes farebbe emergere un duplice intento garantistico:
da un lato nei confronti dei lavoratori non sindacalizzati, affinché anche ad
essi vengano riconosciuti i miglioramenti contrattuali conseguiti grazie
all’azione sindacale e, dall’altro, nei confronti dello stesso sindacato, che,
nel momento in cui il contratto è efficace per tutti i lavoratori del settore,
conseguirebbe l’obiettivo di evitare l’eventualità di assunzioni di lavoratori
in spregio alle clausole dei contratti collettivi o di pressioni da parte dei
datori di lavoro o, nella peggiore delle ipotesi, di licenziamenti di quei
lavoratori che al sindacato aderiscono[6].
Senonché, com’è noto, al momento i contratti collettivi non hanno l’efficacia
prevista dalla Costituzione, perché l’art. 39 non ha trovato attuazione, non
essendo stata ancora adottata una legge sulla registrazione dei sindacati ed
essendo, d’altra parte, scarsa la propensione di questi ultimi a sottostare a regole
che, in tal caso, imporrebbero loro una maggiore trasparenza e la
sottoposizione a maggiori controlli pubblici, temendo pregiudizi per
l’autonomia e la libertà sindacale. Attualmente, quindi, i contratti collettivi
nazionali di lavoro sono “contratti di diritto comune”, poiché sottoscritti da
organizzazioni sindacali non riconosciute, e dunque hanno natura privatistica
ed efficacia inter partes, vale
a dire tra i soli aderenti alle associazioni stipulanti[7].
Occorre, però ricordare che, nel corso degli anni, vari
sono stati i modi in cui a tale contrattazione è stata attribuita un’efficacia
più estesa, sia sul piano legislativo che su quello ermeneutico[8].
Con la legge delega n. 741/1959 (c.d. legge Vigorelli), ad esempio, si conferiva al Governo il compito
di adottare dei decreti legislativi attraverso i quali recepire il contenuto
dei contratti collettivi nazionali, in modo tale che, attraverso l’inserimento
in un atto avente forza di legge, la loro efficacia si estendesse a tutti gli
appartenenti alla categoria, con l’obiettivo di estendere conseguentemente i
minimi di trattamento economico e normativo a tutti i lavoratori, in ossequio
agli artt. 3 e 36 Cost. L’evidente elusione della Costituzione che in tal modo
si realizzava non andò, però, incontro alla dichiarazione di illegittimità
della Corte costituzionale che, pur riconoscendo che una legge volta a
conseguire il risultato di estendere erga
omnes l’efficacia di un contratto secondo una procedura
diversa da quella prevista dall’art. 39 – che attribuisce, invece, tale
possibilità soltanto ai contratti collettivi nazionali sottoscritti da
sindacati registrati – sarebbe «palesemente illegittima»[9], ha fatto salva la legge n. 741 in virtù del fatto che, non essendo
ancora applicabili le forme e il procedimento previsti dalle norme
costituzionali, la legge n. 741/1959 «assume il significato e compie la
funzione di una legge transitoria, provvisoria e eccezionale, rivolta a
regolare una situazione passata e a tutelare l’interesse pubblico della parità
di trattamento dei lavoratori e dei datori di lavoro»[10]. Proprio per questo motivo è stata invece dichiarata illegittima la
successiva legge n. 1027/1960, poiché, reiterando la delega, finiva col sostituire
inopinatamente a quello costituzionale un diverso sistema, che non poteva più,
quindi, ritenersi legittimo in ragione della sua transitorietà.
Un’altra modalità di estensione dell’efficacia soggettiva
dei contratti collettivi si è avuta in
seguito alla modifica dell’art. 2113 del codice civile, intervenuta per il
tramite della l. n. 533/1973, la quale ha introdotto l’inderogabilità in peius delle
clausole del contratto collettivo da parte di quelle dei contratti individuali
di lavoro, attraverso la previsione dell’invalidità, nella forma
dell’annullabilità, delle rinunce e delle transazioni che abbiano per oggetto
diritti del lavoratori fissati in norme inderogabili di legge e dei contratti
collettivi. Ed in via giurisprudenziale si è fatta anche una diretta
applicazione dell’art. 36 Cost., in combinato disposto con l’art. 2099 c.c.,
che, in mancanza di accordo tra le parti, consente al giudice di determinare la
retribuzione del lavoratore. In tal modo, al fine di garantire livelli
retributivi minimi tali da consentire un’esistenza libera e dignitosa al
lavoratore e alla sua famiglia, secondo il disposto dell’art. 36 Cost., si è
estesa l’efficacia delle clausole economiche dei contratti collettivi a tutti i
lavoratori, anche a quelli non sindacalizzati. Deroghe peggiorative rispetto ai
minimi salariali fissati dalla contrattazione collettiva risulterebbero,
quindi, invalide. Talvolta, inoltre, nella legislazione, l’efficacia soggettiva
dei contratti collettivi è stata estesa incentivandone l’applicazione da parte
dei datori di lavoro, quale condizione per l’accesso degli stessi a determinati
vantaggi, senza con questo determinare una coercizione a loro carico – poiché
ciò risulterebbe problematico dal punto di vista costituzionale, in relazione
all’art. 39, comma 4, Cost. – in quanto la scelta di fruire o meno del
vantaggio rimane libera[11].
Del resto, il rapporto tra le fonti del diritto del lavoro
(legge/contratto collettivo e contratto collettivo/contratto individuale) è
improntato, di regola, alla derogabilità solo in melius delle previsioni della fonte di
rango superiore da parte della fonte di rango inferiore. Di conseguenza, anche
laddove fosse attuato il sistema prefigurato dall’art. 39 Cost., che conferisce
un ampio spazio alla libertà sindacale ed all’autonomia collettiva nella
definizione contrattuale dei rapporti di lavoro – per il tramite dei contratti
collettivi – non si potrebbe non riconoscere l’indispensabilità di previsioni
legali imperative poiché poste a salvaguardia di interessi costituzionalmente
rilevanti, trascendenti quelli delle singole parti contraenti, e che
necessitano, pertanto, di livelli minimi di tutela inderogabili ad opera delle
clausole contrattuali collettive, nonché a salvaguardia di interessi di
politica economica generale[12].
Il disposto legale diverrebbe, perciò, cedevole solo di fronte a trattamenti
migliorativi fissati dai soggetti contraenti, e dunque può affermarsi che le
previsioni legali e quelle contrattuali si trovano in un rapporto di
integrazione[13].
In dottrina è stato sostenuto che la legge deve determinare
le garanzie del rapporto di lavoro in generale, fissando le norme imperative di
ordine pubblico che dovranno in ogni caso prevalere su quelle contrattuali,
alle quali però spetta la disciplina particolare delle condizioni di lavoro,
variabili e differenziate in base alle categorie, ai luoghi, alle situazioni
del mercato, e perciò meglio inquadrabili dall’autonomia sindacale[14].
Anche i rapporti tra
contratto collettivo e contratto individuale sono tendenzialmente regolati
secondo lo schema dell’inderogabilità in peius, in base al disposto dell’art. 2077 c.c. Altra questione è, però, quella del rapporto intercorrente tra contratti
collettivi di diverso livello, nazionali e territoriali (regionali, provinciali,
aziendali), ambito nel quale, in assenza di criteri legislativi che
consentissero di definire eventuali antinomie insorgenti tra i due livelli
contrattuali, ha tentato di fare ordine, nel corso del tempo, l’elaborazione
giurisprudenziale[15].
In merito, si possono distinguere due momenti: un iniziale equilibrio, basato
sul criterio gerarchico, che dava prevalenza alla contrattazione nazionale, con
la sola eccezione di eventuali previsioni che fossero più favorevoli per il
lavoratore[16];
un secondo momento in cui l’orientamento, ribadito anche da pronunciamenti
recenti, è andato nel senso di valorizzare maggiormente la contrattazione
aziendale, ammettendo che essa possa anche prevedere delle deroghe in peius del
contratto collettivo nazionale ad opera di quello a carattere territorialmente
più circoscritto. Superati, infatti, il principio gerarchico, quello di favore
e quello cronologico, si è ritenuto che il rapporto debba essere regolato
secondo il criterio di competenza e di specialità, in ossequio al principio di
autonomia, di modo che la fonte collettiva più prossima agli interessi
disciplinati sia - nei limiti della normativa inderogabile di legge -
prevalente sulle altre consimili, anche se di livello superiore, a condizione
che si rispettino i criteri fondamentali ispiratori di queste ultime, che però
non escludono differenziazioni giustificate da situazioni locali o particolari,
quali una diversa qualità o quantità di lavoro o peculiarità di singoli settori[17].
In tale contesto si inserisce il disposto dell’art. 8 della
manovra, che ha ora esteso l’efficacia soggettiva della contrattazione
collettiva di prossimità ed introdotto le su richiamate amplissime competenze
funzionali, conferendo, altresì, ad essa la possibilità di derogare alle
previsioni del contratto collettivo nazionale ed a quelle legislative, in
merito alle materie di cui al secondo comma.
Il punto cruciale è distinguere le deroghe e gli atti su
cui vanno ad incidere. La possibilità per i contratti aziendali di derogare
alla contrattazione collettiva nazionale è, infatti, già stata prevista anche
dall’Accordo interconfederale stipulato fra le tre maggiori confederazioni
sindacali dei lavoratori (CGIL, CISL, UIL) e la Confindustria il 28 giugno
2011, al quale le stesse parti si sono impegnate a dar corso il 21 settembre.
In esso vengono fissati i criteri per certificare la rappresentatività delle
organizzazioni sindacali ai fini della contrattazione collettiva nazionale di
categoria, ma soprattutto viene più volte sottolineata l’importanza e la centralità
del contratto collettivo nazionale nel garantire la certezza di trattamenti
economici e normativi comuni per i lavoratori del settore, ovunque impiegati
nel territorio nazionale, pur riconoscendo l’esigenza di “promuovere e favorire
lo sviluppo e la diffusione della contrattazione collettiva di secondo
livello”. Ad essa, purché conclusa dalle rappresentanze individuate secondo i
criteri dell’Accordo, viene data efficacia erga
omnes ed anche la possibilità di realizzare
specifiche intese “modificative delle regolamentazioni contenute nei contratti
collettivi nazionali di lavoro”, a condizione di seguire le procedure ed i
limiti fissati dallo stesso contratto collettivo nazionale. In riferimento all’erga omnes, l’intervento legislativo
dell’art. 8 estende l’efficacia derogatoria delle intese, frutto di autonomia
sindacale, previste dall’Accordo, anche agli iscritti ai sindacati non
firmatari, in questo modo, si sostiene, “blindandole” per evitare trattamenti
differenziati per azienda o per area territoriale, in relazione alla diversa
affiliazione sindacale[18].
Ma con ciò eludendo il meccanismo previsto dall’art. 39 Cost., il quale, benché
non attuato, riserva efficacia erga omnes ai contratti collettivi nazionali di lavoro
stipulati da sindacati registrati, anche se vi è chi, muovendo da un argomento
testuale, rileva invece come non si possa ritenere violato l’art. 39 Cost.,
poiché «l’erga omnes
di matrice costituzionale è strutturalmente ed anche letteralmente riferito ai
soli contratti collettivi nazionali»[19]
ed estende l’efficacia del contratto a tutti i lavoratori appartenenti alla
categoria cui il contratto si riferisce, e non a quelli dell’azienda[20]. Nell’Accordo si stabiliscono, inoltre, alcune materie che sarebbe
possibile derogare in situazioni di crisi o nell’ipotesi di investimenti
significativi tesi a favorire lo sviluppo economico e l’occupazione
nell’impresa, come orario ed organizzazione del lavoro. In sostanza viene
mantenuta la preminenza del contratto collettivo nazionale di lavoro, laddove
invece l’art. 8 attribuisce al contratto di prossimità un ampio potere di
deroga, non limitato dal contratto
nazionale né al contratto
nazionale.
L’aspetto che suscita le maggiori perplessità e
preoccupazioni è proprio quello dell’attribuzione ai contratti di secondo
livello della facoltà di deroga, anche in
peius, alle previsioni legislative imperative
della normativa lavoristica, che pare condurre ad una
vera e propria «delegificazione»[21] in relazione ad ambiti particolarmente vasti e variegati, che vanno dalla
regolamentazione degli impianti audiovisivi, all’inquadramento delle mansioni,
alle conseguenze del recesso dal rapporto di lavoro. Disposizioni che, in
quanto imperative, sono poste a salvaguardia di interessi generali,
trascendenti quelli delle singole parti e che esse, nell’esercizio dei loro
poteri autonomi, non possono derogare.
O, almeno, non potrebbero, perché quello che invece la
normativa sembra prefigurare, attraverso il conferimento ai contratti aziendali
o territoriali di efficacia nei confronti di tutti i lavoratori interessati e
della possibilità di deroga che abbraccia un numero così elevato di materie, è
un diritto del lavoro “parcellizzato”, frammentato, elaborato in ciascuna
realtà aziendale e con la forte probabilità di accordi estorti in maniera
ricattatoria dai datori di lavoro, soprattutto nei contesti aziendali più
piccoli. In essi spesso il sindacato non è presente o è rappresentato solo da
pochi delegati nominati, e non è improbabile pensare che, per scongiurare il
pericolo di una chiusura o l’ipotesi di una delocalizzazione, essi potrebbero
sentirsi obbligati a firmare qualunque accordo venga loro proposto[22].
Di conseguenza risulta evidente che in tal modo si vanno a minare le basi del
principio di eguaglianza di cui all’art. 3 Cost., non solo per i lavoratori
della stessa categoria che operino, tuttavia, in aziende diverse, ma
addirittura per le stesse aziende operanti nel medesimo settore, ma con una
diversa dislocazione territoriale.
Non va, infatti, dimenticato che, come più volte messo in
luce anche dalle stesse organizzazioni imprenditoriali, in questo momento
storico sono particolarmente pressanti il dumping
sociale, la competizione globale e la necessità di far fronte alla concorrenza
delle imprese operanti in paesi in cui le tutele del lavoro sono minori, e
tuttavia con tali misure il rischio ulteriore potrebbe essere quello di
accrescere la concorrenza sleale esattamente sull’uso della manodopera[23],
con una rimodulazione delle tutele in ambiti come gli orari di lavoro, le
mansioni o le conseguenze del recesso dal rapporto di lavoro, concordate a
livello aziendale o territoriale.
Senza contare il pregiudizio per la certezza dei diritti se
in ciascun contesto produttivo e lavorativo, in ciascuna realtà territoriale,
si sviluppano differenti modalità di riconoscimento e di esercizio degli
stessi, i quali subirebbero, in tal modo, una “relativizzazione”, uno sviluppo
a geometria variabile connesso ai rapporti di forza presenti in ogni singolo
ambito aziendale. Vi è chi, in proposito, icasticamente ha adoperato
l’espressione di «balcanizzazione del lavoro»[24].
Va ricordato,
altresì, come la stessa giurisprudenza costituzionale abbia sottolineato
l’importanza della regolamentazione legislativa dei rapporti di lavoro,
escludendo che in merito vi sia una riserva contrattuale poiché altrimenti ciò
potrebbe contrastare «con
le norme contenute nell’art. 3, comma 2, nell’art. 35, comma 2 e 3, nell’art.
36, e nell’art. 37 Cost., le quali – al fine di tutelare la dignità personale
del lavoratore ed il lavoro in qualsiasi forma e da chiunque prestato e di
garantire al lavoratore una retribuzione sufficiente ad assicurare una vita
libera e dignitosa – non solo consentono, ma insieme impongono al legislatore
di emanare norme che, direttamente o mediatamente, incidono nel campo dei
rapporti di lavoro»[25].
Se è vero che il diritto del lavoro svolge la sua funzione
a tutela della parte più debole e ricattabile del rapporto, il lavoratore,
contribuendo a riequilibrarne la posizione rispetto al datore e a sanarne
eventuali vizi della volontà attraverso la predisposizione di norme legali
inderogabili – essendo innegabilmente il rapporto di lavoro un rapporto tra
diseguali – non è poi ragionevolmente possibile introdurre come regola la derogabilità di tali
previsioni legislative ad efficacia generale e, per di più, ad opera di una
fonte inferiore, di natura privatistica e ad efficacia soggettivamente
limitata. Ciò potrebbe essere ammissibile in relazione a situazioni eccezionali di emergenza, come infatti è
avvenuto[26],
se solo si pensa alla “flessibilità controllata o contrattata”.
Ma con l’intervento attuato con l’articolo 8 della manovra
l’eventuale eccezione verrebbe trasformata in regola, motivata dall’elemento di eccezionalità individuabile nell’esigenza di adottare dei
provvedimenti per fronteggiare l’emergenza della crisi mondiale.
Si è ritenuto che con queste previsioni si sia voluto
evitare un intervento diretto, in via eteronoma, da
parte del legislatore sul mercato del lavoro e sull’impianto garantistico,
delegando alla responsabilità delle parti sociali il compito di regolamentare
tali importanti materie[27],
per giungere, almeno nelle intenzioni, ad una «valorizzazione della sussidiarietà»[28], che bilanci rimodulazioni delle tutele e dosi aggiuntive di flessibilità
con la tutela della dignità del lavoratore e con il mantenimento e la crescita
dell’occupazione e della produttività dell’azienda[29].
Obiettivi questi che, a parere di alcuni, verrebbero, così, perseguiti in
maniera pragmatica, superando modelli regolatori considerati troppo rigidi,
senza che abbiano concretezza i paventati pregiudizi ai diritti costituzionali
dei lavoratori[30],
poiché i principi costituzionali, quelli delle norme comunitarie e delle
convenzioni internazionali rappresenterebbero il limite insormontabile e
perché, d’altra parte, anche la responsabilità delle organizzazioni sindacali
impedirebbe deroghe fortemente peggiorative delle garanzie maggiormente
significative[31],
come ad esempio in tema di conseguenze del recesso dal rapporto di lavoro.
D’altra parte, c’è chi teme che, con l’attribuzione di tali
considerevoli compiti ai sindacati più rappresentativi sul piano territoriale e
alle rappresentanze aziendali, senza la predisposizione di veri e propri
criteri direttivi in base ai quali i compiti ad essi affidati dovrebbero essere
esercitati, si possano costituire sindacati di comodo, privi in realtà di una
effettiva rappresentatività, ed al solo scopo della conclusione di contratti che
assecondino principalmente le richieste, o le imposizioni, dei datori di
lavoro, con l’ulteriore rischio di una «frammentazione arbitraria del
sistema di rappresentanza»,
tradizionalmente attestato su un orientamento generalista, in grado di portare
avanti gli interessi dell’intero Paese[32].
Ed un ulteriore rischio nel prevedere la derogabilità di
tali e tante materie legislative da parte della contrattazione di prossimità
potrebbe essere insito nel fatto che in periodi di crisi economica ed
occupazionale, come quello attuale, la tendenza dei datori di lavoro non è
certo quella di operare delle concessioni, risultando più complesso per le
rappresentanze sindacali raggiungere intese che migliorino le condizioni di
lavoro. Sicché, anche facendo appello alla loro responsabilità, il pericolo di
contrattazioni al ribasso rimarrebbe, e sarebbe semmai minore in quei contesti
aziendali più grandi, in cui i sindacati sono in grado di svolgere un ruolo
maggiormente influente.
Senza contare che,
per alcune materie, la previsione della derogabilità sembra essere del tutto inconferente, se, come è previsto per tutte le ipotesi di
deroga contemplate, occorre individuare i limiti nel rispetto dei principi
costituzionali e delle normative comunitarie. In tema di orario di lavoro, ad
esempio, sarà alquanto arduo poter derogare ai limiti legali di orari, pause e
riposi settimanali, in quanto vi ostano, oltre alla previsione dell’art. 36
Cost. – che contempla una riserva di legge in tema di definizione della durata
massima della giornata lavorativa, posta a garanzia dei fondamentali principi
costituzionali di tutela della salute e della dignità del lavoratore, oltre a
sancire l’irrinunziabilità del diritto al riposo
settimanale e alle ferie annuali retribuite – anche diverse direttive
comunitarie. Esse stabiliscono che l’organizzazione dell’orario di lavoro non
rappresenta esclusivamente un fattore produttivo, ma altresì uno strumento
indispensabile a salvaguardia della salute e della sicurezza dei lavoratori[33],
non essendo possibile far dipendere l’obiettivo del miglioramento della
sicurezza, dell’igiene e della salute dei lavoratori durante l’esercizio
dell’attività lavorativa esclusivamente da considerazioni di carattere
economico[34]
e dovendosi, nell’organizzare il lavoro secondo un certo ritmo, tenere conto
del principio generale di adeguamento del lavoro all’essere umano[35].
Più problematico è, invece, l’aspetto delle mansioni, per le quali è
attualmente previsto che i contratti collettivi possano introdurre “clausole di
fungibilità” o di “mobilità orizzontale”, nei limiti inderogabili di
equivalenza fissati dall’art. 2103 c.c. e, come hanno stabilito le SS. UU.
della Corte di Cassazione con la sent. n. 25033/2006, valutando di volta in
volta l’equivalenza fra le mansioni nell’ottica della tutela e dello sviluppo
ulteriore della professionalità già acquisita dal lavoratore. L’art. 8
legittima, invece, la definizione convenzionale di equivalenza delle mansioni e
dell’inquadramento da parte della contrattazione di prossimità, anche in deroga
alle previsioni dell’art. 2103, e dunque eventualmente consentendo anche il demansionamento del lavoratore e un inquadramento che
prescinda dai titoli e dall’esperienza.
Ma l’aspetto che ha maggiormente concentrato l’attenzione
ed i timori dei commentatori è quello attinente alla possibilità data alla
contrattazione aziendale di derogare alle disposizioni di legge in tema di
conseguenze risarcitorie o ripristinatorie del
recesso dal rapporto di lavoro: in sostanza, alle regole che attualmente disciplinano
la c.d. tutela reale contro i licenziamenti senza giusta causa, vale a dire
l’art. 18 della legge n. 300/1970 (Statuto dei lavoratori), che attribuisce al
giudice il potere, nei casi di recesso inefficace, nullo ovvero ingiustificato,
di ordinare al datore di lavoro di reintegrare il dipendente nel posto di
lavoro e di corrispondergli una indennità dal giorno del licenziamento a quello
dell'effettiva reintegrazione, e al prestatore di lavoro la facoltà di
richiedere, in luogo della reintegrazione nel posto di lavoro, il pagamento di
una indennità sostitutiva pari a 15 mensilità della retribuzione globale di
fatto. A subire un cambiamento non sarebbero le regole del recesso dal rapporto
di lavoro o la nozione di licenziamento illegittimo, in quanto, ai fini del
licenziamento stesso, per le aziende che impiegano più di quindici dipendenti
continuerà ad essere indispensabile una giusta causa o un giustificato motivo.
Tuttavia, per il perseguimento delle finalità di cui al primo comma dell’art. 8
– tra le quali figura anche la “gestione delle crisi aziendali ed
occupazionali” – i contratti di prossimità potrebbero stabilire, in deroga
all’art. 18, che il lavoratore il cui licenziamento sia stato giudicato
illegittimo abbia il diritto di ottenere solo un risarcimento e non anche la
reintegrazione nel posto di lavoro, come è invece attualmente previsto.
La Corte costituzionale, nella sentenza n.
46/2000, giudicando sull’ammissibilità del referendum proposto per l’abrogazione dell’art. 18, ha riconosciuto
che la disposizione, introducendo dei temperamenti al potere di recesso del
datore di lavoro, rappresenta una manifestazione di progressiva attuazione
della garanzia del diritto del lavoro sancita dalla Costituzione (artt. 4 e 35
ss.), compiuta secondo la discrezionalità che è propria del legislatore
relativamente ai modi ed ai tempi di tale attuazione. Il quesito è stato
giudicato ammissibile in quanto ritenuto non contrastante con i limiti
impliciti al referendum abrogativo,
poiché non inerente ad una “legge a contenuto costituzionalmente necessario”,
cioè a disposizioni la cui eliminazione determinerebbe la soppressione di ogni
tutela per situazioni che tale tutela esigono secondo Costituzione. La Corte
ha, infatti, affermato che la disposizione, pur essendo espressiva di esigenze
riconducibili ai principi costituzionali di tutela del lavoro, non rappresenta «l'unico possibile paradigma
attuativo dei principi medesimi»,
ritenendo di conseguenza che «l'eventuale abrogazione della c.d.
tutela reale avrebbe il solo effetto di espungere uno dei modi per realizzare
la garanzia del diritto al lavoro, che risulta ricondotta, nelle discipline che
attualmente vigono sia per la tutela reale che per quella obbligatoria, al
criterio di fondo della necessaria giustificazione del licenziamento»[36]. Si è sostenuto che, con la previsione
dell’art. 8, il legislatore assegna alle parti sociali un’opportunità, da
considerare nel solco della ri-regolazione e non
della de-regolazione o de-strutturazione del diritto del lavoro, poiché esse
potrebbero individuare dei meccanismi di maggiore flessibilità in uscita per i
lavoratori, senza che ciò necessariamente comporti un pregiudizio nei loro
confronti o una retrocessione nell’area del recesso ad nutum[37]. D’altra parte, però, si ritiene che in
realtà l’art. 8 renderebbe di fatto inefficace l’art. 18 della Statuto dei
lavoratori, finendo col facilitare i licenziamenti, grazie anche all’eventuale
costituzione di sindacati di comodo per la stipulazione delle intese, ed
annullando così le tutele oggi previste[38].
Vi è chi ritiene che si tratti, invece, di un’opportunità di aggiornamento
delle tecniche di protezione legislativa, di un’occasione fornita alle aziende,
e all’intero diritto del lavoro italiano, di superare gli aspetti di maggiore
rigidità ed immobilismo che lo caratterizzano, al fine di favorire
l’occupazione[39];
anche se taluni dubitano che la sostituzione di tale norma possa avere impatti
positivi sui livelli occupazionali e ritengono che gli effetti di un aumento
della flessibilità in uscita possano essere valutati solo da un punto di vista
empirico[40]
e che anzi tale previsione possa avere, per altri versi, l’effetto di
“esasperare” il clima sindacale[41].
Sicuramente un cambiamento
non si può considerare interamente precluso, in quanto nessuna normativa è
immutabile, ma esso dovrebbe intervenire per legge affinché possa avere
un’efficacia generalizzata, altrimenti nelle ipotesi di modifiche a livello
aziendale o territoriale della disciplina relativa alle conseguenze dei
licenziamenti individuali, così come per la disciplina delle mansioni o degli
orari di lavoro, non si può non scorgere il pericolo di uno sviluppo a
geometria variabile dei diritti e delle tutele ed uno «sfasamento localistico
del diritto del lavoro»[42],
fattori indubbiamente deleteri per l’effettività del principio di eguaglianza
di cui all’art. 3 Cost. E a quanti sostengono che la norma non opera una
cancellazione dei diritti, potrebbe replicarsi che, se non altro, essa li rende
fortemente disponibili.
La gravità della crisi economica richiede sicuramente
l’adozione di misure incisive, così come l’appartenenza all’Unione europea
impone la riduzione del debito ed il contenimento della spesa pubblica. Ma vien
da chiedersi se ciò possa avvenire col sacrificio imposto ai lavoratori e alle
tutele da loro acquisite in anni di lotte e di rivendicazioni sindacali; se si
possa davvero, per una Repubblica che tra i suoi connotati fondamentali
annovera quello di essere “fondata sul lavoro”, far rientrare il diritto del
lavoro nell’ambito degli interessi privati e nella disponibilità delle
rappresentanze delle parti che di quegli interessi sono portatrici, senza
arrivare a «rendere accettabile l’idea che la dimensione mercatistica esige rinunce
totali o parziali – in cambio del lavoro che altrimenti non si trova – ai
diritti nel frattempo acquisiti»[43]. Si finirebbe così con l’assimilare quello che
dovrebbe essere un valore, il lavoro, ad una merce, ad un fattore di produzione
fra gli altri, in ossequio alle esigenze produttive dell’impresa ed alle leggi
di mercato, dimenticando le implicazioni in termini di partecipazione
democratica, nonché di commisurazione ed elevazione della dignità dell’uomo che
esso comporta[44].
E soprattutto perché, per andare incontro al superamento di un mercato del
lavoro eccessivamente duale, in cui alcuni lavoratori sono maggiormente
garantiti di altri con tutele inderogabili, si debba operare al ribasso e
ridurre le garanzie di tutti, anziché rimodularle ed estenderle. Sarebbe
opportuno, anche in frangenti di crisi economica,
stabilire per legge livelli minimi di tutela, essenziali ed inderogabili, da
applicarsi a tutti i lavoratori, senza alcuna distinzione, ed investire meglio
le risorse nel campo della loro formazione continua. È senz’altro
indispensabile ridurre gli squilibri commerciali a livello globale, ma
occorrerebbe farlo valorizzando maggiormente la dignità del lavoro, senza
assumere a modello quelle realtà totalmente prive di tutele di tipo sociale per
i lavoratori, abbassando ulteriormente la soglia delle garanzie previste.
Vi è chi ritiene auspicabile che il perimetro dell’azione
statale si riduca, e gli Stati evitino gli sprechi di risorse, valorizzando
maggiormente, nell’ottica della sussidiarietà, il ruolo ed il protagonismo
organizzativo delle parti sociali perché siano assicurati quei diritti che, se
affidati alla sola garanzia della legge e del bilancio statale, potrebbero
essere messi in forte discussione per assenza di risorse indispensabili a
finanziarli[45].
Ma ridurre il perimetro dell’azione statale non può voler dire annullarlo quasi
del tutto delegando alla possibilità di deroga delle parti sociali una tale
vastità di materie, poiché la conseguente “giungla” normativa potrebbe
rischiare di essere dannosa anche per i più forti[46].
Lo Stato, soprattutto nella sua connotazione sociale che
proprio in periodi di crisi economica ha visto il suo più repentino sviluppo[47],
non può eclissarsi in quanto costituisce un elemento indispensabile per il
mercato poiché, attutendo tramite il proprio intervento a protezione dei ceti
più deboli i conflitti sociali che potrebbero sorgere, crea un sostrato sociale
di possibili consumatori ed utenti dei prodotti offerti dal mercato[48].
È fuor di dubbio, però, che tale intervento diventi sempre
più oneroso per gli Stati e che le trasformazioni internazionali, nonché i
vincoli di bilancio ormai fissati dall’Unione europea, e nei limiti dei quali è
imposto agli Stati membri di rientrare, abbiano una forte incidenza sulle
politiche sociali applicate a livello nazionale e costringano gli Stati ad
attuare riduzioni delle coperture precedentemente assicurate[49],
determinando, in tal modo, un più diffuso malcontento sociale e maggiori
incertezze. I cambiamenti che sicuramente i fenomeni di globalizzazione
impongono nelle politiche sociali possono richiedere «elasticità e ricalibratura» delle stesse, in modo tale che, sempre
nell’ottica della giustizia sociale, esse siano rese più efficienti e possa
altresì essere mantenuto quel nucleo fondamentale di tutele che caratterizza il
modello sociale europeo fin dalle sue origini, con l’auspicabile prospettiva
che le richieste dei paesi in via di sviluppo riducano quanto prima le
differenze esistenti sul costo del lavoro[50].
Occorrono, in sostanza,
politiche di welfare coerenti con il
mantenimento del modello inclusivo, pluralista e solidale che caratterizza uno
Stato democratico e sociale, che si occupi di «“raffreddare” il conflitto
sociale», assumendosi la responsabilità di intervenire con dei sistemi di
protezione che sopperiscano alla mancanza di possibilità dei singoli, e svolga
questo compito come uno dei compiti più alti della Politica[51].
* Assegnista
di ricerca in diritto costituzionale presso l’Università degli Studi “Magna
Graecia” di
Catanzaro
[1] l.
mariucci, La
contrattazione collettiva, Bologna, 1985, 54. Come viene ricostruito
dall’Autore, fino a quel momento la contrattazione aziendale fu osteggiata
dagli imprenditori perché avrebbe significato considerare il sindacato come
potere riconosciuto con il quale negoziare in azienda, ma anche dallo stesso
mondo sindacale maggioritario, poiché si temevano frammentazioni della
rappresentanza a livello locale (ivi,
55); g. giugni, Diritto
sindacale, Bari, 2006, 161 ss.
[2] “Ai sensi della normativa di legge e
degli accordi interconfederali vigenti, compreso l’accordo interconfederale del
28 giugno 2011”. L’articolo, quindi, richiama espressamente l’accordo
interconfederale del 28 giugno 2011, nel quale CGIL, CISL, UIL e Confindustria
hanno delineato pattiziamente alcuni criteri per
definire in maniera più certa la rappresentatività delle organizzazioni
sindacali dei lavoratori, tramite meccanismi di certificazione che coinvolgano
l’INPS e il CNEL e facciano riferimento alle deleghe relative ai contributi
sindacali conferiti ai lavoratori e a delle percentuali minime di
rappresentatività. L’Accordo prevede, infatti, che, ai fini della
legittimazione a negoziare, sia necessario che il dato di rappresentatività
così realizzato per ciascuna organizzazione sindacale superi il 5% del totale
dei lavoratori della categoria cui si applica il contratto collettivo nazionale
di lavoro.
[3] Intervista a U. Romagnoli, «Libertà di mandare a casa i lavoratori,
potrà farlo anche il sindacato padano», pubblicato il 6 settembre
2011 sul quotidiano Il Manifesto, p.
2; Id., Dalla cancellazione dell’art. 8
alla ricostruzione del diritto del lavoro, in www.dirittisocialiecittadinanza.org,
pubblicato anche il 25 settembre 2011 sul quotidiano Il Manifesto (L’inquinamento
delle falde del diritto).
[4] g. zagrebelsky, Manuale
di diritto costituzionale, I, Torino, 1987, 247. Anche se riferendosi ai
contratti collettivi del periodo corporativo, icasticamente il Carnelutti li definiva atti ibridi, che «hanno il corpo del
contratto e l’anima della legge» (cfr. f.
carnelutti, Contratto collettivo, in Riv. dir. lav., 1928, I, 184). Il che vale quanto dire che essi
“giuridicamente” hanno efficacia limitata, ma “politicamente” tendono ad avere
efficacia erga omnes.
Al metodo “consensuale” preferito alla normazione autoritativa e unilaterale di fonte pubblica fa riferimento
anche a. d’aloia, Art. 39, in Commentario alla Costituzione, a cura di R. Bifulco,
A. Celotto, M. Olivetti, 811-812.
[5] g.
giugni, Commento all’art. 39,
in Commentario della Costituzione, artt. 35-40, a cura di G. Branca,
Bologna, 1982, 286.
[6] Ibidem,
251.
[7] g.
giugni, Diritto sindacale,
cit., 140 ss. Si rileva come questa inattuazione non
significhi, formalmente, violazione della Costituzione poiché l’art. 39 prevede
una norma autorizzatoria e non obbligante: g. zagrebelsky,
Manuale, cit., 248.
[8] a. d’aloia, Art. 39, cit., 815 ss.; g. zagrebelsky,
Manuale,
cit., 253 ss.
[9]
Corte cost., sent.
n. 106/1962, punto 4 cons. in dir., in Giur. cost., 1962,
1442.
[10]
Corte cost., sent.
n. 106/1962, punto 5 cons. in dir., in Giur. cost., 1962, 1442.
[11] g.
giugni, Diritto sindacale,
cit., 143.
[12] l.
mariucci, La
contrattazione, cit., 372 ss.; g. zagrabelsky, Manuale,
cit., 255 ss.;
[13] Occorre ricordare, però, come
talvolta delle deroghe peggiorative siano espressamente consentite, come ad
esempio nell’ipotesi del divieto di demansionamento
di cui all’art. 2103 c.c., nel testo introdotto dall’art. 13 della l. n.
300/1970. Il divieto di modifica in peius delle mansioni, previsto a tutela della dignità,
anche professionale del lavoratore, non opera: in presenza di esigenze
straordinarie sopravvenute dell’impresa; nel caso della lavoratrice gestante e
fin a sette mesi dopo il parto, a tutela della sua salute (art. 7 d.lgs. n.
151/2001); nel caso di procedure sindacali di riassorbimento dei lavoratori in
esubero (art. 4, co. 11, l. n. 223/1991); nel caso di
sopravvenuta inidoneità fisica del lavoratore ad eseguire le mansioni di
assegnazione per infortunio o malattia (art. 1, co. 7
e art. 4, co. 4 l. n. 68/1999).
[14] c.
mortati, Il lavoro nella
Costituzione, da Il diritto del
lavoro, 1954, poi in Raccolta di
scritti, vol. III, Milano, 1972, 301.
[15] s. sciarra, Contratto collettivo, in Dig. disc. priv., IV, 74.
[16]
Cass civ., sez. lav., 18-01-1978, n. 233, in Giur. it., 1978, I, p. 1017 ss. Questo orientamento rifletteva la
teoria del “mandato discendente”, in base al quale le rappresentanze sindacali
aziendali sono legate da un vincolo di subordinazione gerarchica a quelle
nazionali di categoria, e pertanto tra le rispettive discipline contrattuali
intercorre un’analoga relazione di gerarchia, tale che un contratto aziendale
non può derogare in peius
al contratto nazionale.
[17]
Cass. civ., sez. lav., 12-07-1986, n. 4517, in Foro it., 1987, I, c. 510; Cass. civ., sez. lav., 05-03-1986, n. 1445, ibidem. In entrambe le sentenze viene
precisato che il disposto dell'art. 2077 c.c., che
prescrive il divieto di modifiche in peius, regola unicamente il rapporto tra contratto
collettivo e contratto individuale di lavoro, e non già il rapporto tra
contratti collettivi di diverso livello, i quali, invece, rientrano nella piena
libertà delle parti, essendo tutti espressione dell’autonomia negoziale delle
organizzazioni sindacali, titolari degli stessi poteri indipendentemente dal
livello in cui operano; ne consegue, pertanto, che i contratti collettivi
locali possono apportare anche modifiche peggiorative al trattamento previsto
per i lavoratori da un precedente contratto collettivo nazionale. Più di
recente, si è ribadito che il rapporto vada regolato secondo il principio
di autonomia e, reciprocamente, di competenza, alla stregua del collegamento
funzionale che le associazioni sindacali pongono fra i vari gradi o livelli
della struttura organizzativa e della corrispondente attività (Cass. civ., sez. lav., 26-05-2008, n. 13544, in Orient. giur. lav., 2009, 40).
Di valutazioni alla stregua dell'effettiva volontà delle parti operanti in area
più vicina agli interessi disciplinati si parla in Cass. civ., sez. lav., 19-04-2006, n. 9052 (in Lav. nella giur., 2006, 1015), mentre l’esigenza di
rispettare l’unico limite dei diritti quesiti viene affermata in Cass. civ.,
sez. lav., 13-06-2005, n. 14511 (in Orient. giur. lav. 2005, I,
517) e Cass. civ., sez. lav., n.
18-05-2010, n. 12098 (in Not. giur. lav., n. 1/2011).
[18] r.
de luca tamajo, Crisi economica e relazioni industriali:
prime osservazioni sull’art. 8 del d.l. 13 agosto 2011, in www.cuorecritica.it..
[19] r.
de luca tamajo, Crisi economica e relazioni industriali,
cit.
[20] m.
marazza, Prime
riflessioni tecniche sull’art. 8 della manovra, in www.cuorecritica.it..
[21] m.
marazza, Art.
8 della manovra: prime considerazioni, in www.aidp.it/aidp/allegati/other/3235.pdf .
[22] m.
r. gheido – a. casotti, Manovra bis: interventi in
materia di lavoro, in Diritto e
pratica del lavoro, n. 38/2011, 2230 ss.
[23] m.
rusciano, L’art.
8 è contro la Costituzione, pubblicato l’08/09/2011 su www.eguaglianzaeliberta.it..
[24] t.
treu, Vogliono
balcanizzare il lavoro, pubblicato il 19/08/2011 sul quotidiano Europa in www.europaquotidiano.it.
[25]
Corte cost., sent.
n. 106/1962, punto 3 cons. in dir., in Giur. cost., 1962, 1441.
[26] Per esempio è il caso delle forme di
“flessibilità contrattata” che intervengono nelle ipotesi di ristrutturazione
industriale e riorganizzazione della produzione, in cui ha un ruolo centrale la
l. n. 223/1991, che, in attuazione della normativa europea sui licenziamenti
collettivi, disciplina istituti quali la cassa integrazione guadagni
straordinaria, le riduzioni di personale, prevede gli accordi di demansionamento.
[27] r.
pessi, Art.
8 della manovra d’estate e stabilità reale: molto rumore per nulla, in www.cuorecritica.it ;
r. de luca tamajo, Crisi
economica e relazioni industriali, cit.; m.
martone, Un
passo indietro, in www.cuorecritica.it ; m. marazza, Prime riflessioni tecniche, cit.
[28] m.
magnani, La manovra di ferragosto
e il diritto del lavoro, in www.cuorecritica.it .
[29] a.
vallebona, Stato
sociale e principio di responsabilità, in www.cuorecritica.it , il quale così sintetizza gli
obiettivi perseguiti dall’art. 8: «responsabilità per
l’occupazione e proporzionamento delle tutele»; r.
de luca tamajo, Crisi economica e relazioni industriali,
cit.; m. martone,
Un passo indietro, cit.
[30] m.
tiraboschi, Una riforma equilibrata e coerente, in www.cuorecritica.it .
[31] r.
de luca tamajo, Crisi economica e relazioni industriali,
cit.
[32] t.
treu, Articolo
8, sempre peggio, pubblicato il 07/09/2011 sul quotidiano Europa, in www.europaquotidiano.it
.; l. gallino, Come
abolire il diritto del lavoro, pubblicato il 05/09/2011 sul quotidiano La Repubblica e anche in www.dirittisocialiecittadinanza.org
.
[33] Si vedano le direttive 93/104/CE e la successiva
2003/88/CE, concernenti taluni aspetti dell’organizzazione dell’orario di
lavoro, nonché la direttiva 2000/34/CE, concernente taluni aspetti
dell'organizzazione dell'orario di lavoro, al fine di comprendere i settori e
le attività esclusi dalla direttiva 93/104/CE. Sostanzialmente esse prevedono
le regole minime per tutelare salute e sicurezza dei lavoratori,
stabilendo, per quanto riguarda gli orari, che ogni lavoratore ha diritto a: un
orario di lavoro che non può
superare le 48 ore settimanali (straordinari inclusi); un periodo minimo
di riposo giornaliero di 11 ore consecutive
(su 24h); una pausa dopo 6 ore di
lavoro, durante l’attività lavorativa; un
giorno di riposo (24h) senza interruzione successivo ad ogni
periodo di sette giorni lavorati; almeno quattro settimane di ferie su un anno di lavoro svolto; protezione particolare nel caso
si effettui lavoro notturno.
La direttiva poi stabilisce regole particolari per specifici settori.
[34] Cfr. punto (4) dei consideranda
della direttiva 2003/88/CE.
[35] Cfr. punto (11) dei consideranda della direttiva 2003/88/CE. La
direttiva consente l’applicazione più flessibile di talune disposizioni, in
relazione ai problemi di organizzazione dell’orario di lavoro nell’impresa,
fermo restando il rispetto dei principi della protezione della sicurezza e
della salute del lavoratore (punto 15); permette delle deroghe alle
disposizioni della direttiva stessa da parte degli Stati membri o delle parti
sociali, purché siano previsti per i lavoratori interessati equivalenti periodi
di riposo compensativo (punto 16).
[36]
Corte cost., sent.
n. 46/2000, punto 5 cons. in dir., in Giur. cost., 2000, I, 365 s.
[37] r.
pessi, Art.
8 della manovra, cit.
[38] l.
gallino, Art. 8 del decreto 138/2011 sulla manovra
finanziaria: da cancellare, pubblicato il 15 settembre 2011 sul quotidiano La Repubblica (La minaccia dell’art. 8) e anche in www.dirittisocialiecittadinanza.org; Id., Come abolire, cit.; p. alleva,
La manovra sul lavoro è sovversiva e
incostituzionale, pubblicato il 14 agosto 2011 sul quotidiano Liberazione, anche in www.dirittisocialiecittadinanza.org; intervista a u. romagnoli, «Libertà di mandare a casa…», cit., p.2.
[39] Oltre agli articoli già in
precedenza citati in tal senso, si vedano anche intervista a m. tiraboschi,
«Favorirà l’occupazione, non ci saranno licenziamenti
facili», pubblicata il 05 settembre 2011 sul quotidiano Il Messaggero, p. 3, il quale sostiene, altresì, che occorre
mantenere le finalità di tutela e promozione del lavoratore che possiede tutta
la normativa lavoristica, a partire dallo Statuto dei
lavoratori, ma occorre per questo un aggiornamento delle tecniche di protezione
legislativa, cfr. Id., Scegliere
l’immobilismo è sbagliato, in www.cuorecritica.it; c. dell’aringa, I
licenziamenti non saranno più facili, pubblicato il 06 settembre 2011 sul
quotidiano Il Sole 24 ore, p. 20.
[40] r.
pessi, Art.
8 della manovra, cit.
[41] c.
dell’aringa, Luci ed ombre, in www.cuorecritica.it .
[42] a.
pandolfo – m. faioli,
Lavoro e produttività nell’economia globale.
La contrattazione collettiva decentrata dopo la manovra di ferragosto 2011,
in www.federalismi.it , p. 7.
[43] u.
romagnoli, Dalla cancellazione
dell’art. 8 alla ricostruzione del diritto del lavoro, pubblicato il
25/09/2011 sul quotidiano Il Manifesto,
anche in www.dirittisocialiecittadinanza.org
.
[44] l.
ventura, Introduzione, in L.
Ventura – P. Nicosia – A. Morelli – R. Caridà, Stato e sovranità. Profili essenziali,
Torino, 2010, 7.
[45] m.
martone, Un
passo indietro, cit.
[46] u.
romagnoli, Dalla cancellazione,
cit.
[47] Basti soltanto pensare
alle misure adottate negli Stati Uniti negli anni Trenta, sotto la presidenza
Roosevelt, per avviare un “nuovo corso” nell’economia americana,
successivamente alla devastante crisi del 1929, e ai primi piani di welfare europei, elaborati da Lord Beveridge già nel 1942, in piena II Guerra Mondiale,
nell’Inghilterra conservatrice di Churchill, con l’intento non troppo velato di
contrastare la possibile influenza dell’ideologia socialista sovietica.
[48] l.
ventura, Lo Stato sociale, in Stato e sovranità, cit., 118 ss.
[49] f.
lanchester, Stato sociale,
l’Europa in cerca del suo ombrello, in www.eguaglianzaeliberta.it
[50] Ibidem
[51] Cfr. l.
ventura, Lo Stato sociale, in Stato e sovranità, cit. 120; cfr. anche l. gallino, Il modello sociale,
pilastro dell’unità europea, in www.eguaglianzaeliberta.it
; f. lanchester, Stato sociale, cit.