FRANCO PIZZETTI

La ricerca del giusto equilibrio tra uniformità e differenza: il problematico rapporto tra il progetto originario della Costituzione del 1948 e il progetto ispiratore della riforma costituzionale del 2001.

(Relazione al corso SPISA, 6 MAGGIO 2002)

 

1. La riforma del titolo V della parte II della Costituzione e i suoi riflessi sull'ordinamento costituzionale italiano.

Secondo un numero crescente di commentatori della riforma del titolo V della Costituzione, la riserva di competenza statale in materia di previsione della determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali, così come il ruolo che questa competenza potrebbe e dovrebbe concretamente svolgere, costituisce il punto centrale rispetto ai rapporti tra Stato, regioni e sistema delle autonomie locali nel contesto del nuovo ordinamento costituzionale italiano.

Di più: proprio la riserva alla Stato di questa competenza costituirebbe il ponte di collegamento fra la tutela dei valori legato al perseguimento dell'eguaglianza sostanziale dei cittadini, che costituisce l'aspetto essenziale della Costituzione del 1948 e il limite del valore della differenziazione delle comunità territoriali substatuali che sta invece a fondamento del nuovo titolo V.

Tuttavia, il tema del rapporto tra la riforma del titolo V e il sistema costituzionale complessivo non può essere adeguatamente affrontato muovendo soltanto dall'ottica della determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni.

Infatti, il mutamento prodotto dalla riforma, sia per la sua stessa dimensione quantitativa, sia, soprattutto, per la sua dimensione qualitativa, incide molto profondamente su tutto il sistema costituzionale Di conseguenza i problemi che questa innovazione costituzionale costringe ad affrontare si estendono inevitabilmente fino a toccare direttamente tutto l'impianto costituzionale cosicché essi non possono certamente essere presi in considerazione e risolti solo sulla base dell'interpretazione di singole disposizioni o dell'incidenza che le nuove singole norme hanno sui rapporti tra Stato, regioni e enti territoriali subregionali.

 

 

1.1. I mutamenti relativi al sistema delle fonti.

L'incidenza delle innovazioni contenute nel nuovo titolo V tocca innanzitutto immediatamente, e profondamente, il ruolo e la posizione del legislatore statale e di quelli regionali, nonché il potere regolamentare, sia dello Stato che delle regioni e degli enti territoriali.

Prima della riforma il sistema costituzionale italiano era caratterizzato innanzitutto dal fatto che il legislatore statale aveva competenza generale, e di conseguenza anche il potere regolamentare, proprio in quanto connesso all'esecuzione delle leggi, spettava innanzitutto e prevalentemente allo Stato.

Dopo la riforma, invece, il sistema costituzionale italiano è caratterizzato dal fatto che la competenza legislativa residuale (e dunque, in questo senso, anche la competenza legislativa a carattere generale) spetta ai legislatori regionali. Ne consegue che anche il potere regolamentare regionale, il cui ambito di competenza è legato alla competenza del legislatore regionale, assume, per ciò stesso, un ruolo quantitativamente e qualitativamente enormemente più ampio.

1.1.2 I mutamenti relativi al "posto" delle leggi statali e regionali: dalla "riserva di legge" alla "riserva di potestà legislativa".

Per rendersi conto della portata dell'innovazione intervenuta nel rapporto tra potere legislativo dello Stato e potere legislativo delle regioni, basta tener conto del fatto che il primo comma dell'art.117 della Costituzione recita ora: "la potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle Regioni nel rispetto della Costituzione, nonché dei vincoli derivanti dall'ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali".

I vincoli e i limiti indicati dalla nuova norma costituzionale si rivolgono, infatti, esplicitamente alla "potestà legislativa" e non alla "fonte legge", e men che mai alla legge statale o a quella regionale considerate nella loro specificità di fonti normative individuate, tipizzate e distinte.

E' dunque necessario prendere atto che ora, in virtù del nuovo testo dell'art.117, la stessa "riserva di legge", tradizionalmente intesa essenzialmente e prevalentemente come riserva di legge statale, è diventata in realtà in primo luogo "riserva di potestà legislativa". Il che comporta anche assumere come dato fermo che questo istituto, diventato ora riserva di potestà e non più di fonte, si rivolge, per sua stessa natura, sia alla legge statale che a quella legge regionale, a seconda dell'ambito di competenza dell'uno o dell'altro legislatore. Ne consegue che, secondo questa nuova prospettiva, devono essere ora tipizzate non le diverse modalità che caratterizzano le riserve di legge, ma piuttosto le diverse gradazioni della riserva di potestà legislativa previste dalle norme costituzionali, fermo restando che tali tipizzazioni possono riguardare, di volta in volta e a seconda di quale sia il legislatore specificamente competente, tanto la legge statale quanto quelle regionali.

Dunque, anche laddove la competenza legislativa è esplicitamente riservata dalla Costituzione alla legge statale, specificamente e nominativamente richiamata, non si dovrà più dire semplicemente che si è in presenza di una riserva di legge statale, ma si dovrà piuttosto che la norma costituzionale da un lato contiene una riserva di potestà legislativa e dall'altro pone specificamente posta in capo al legislatore statale la competenza all'esercizio di tale potestà.

La stessa cosa, ovviamente, dovrà essere detta per i casi, quali quello contenuto nel primo comma dell'art.122 in materia di legge elettorale regionale, la norma costituzionale da un lato fonda una esplicita riserva di potestà legislativa e dall'altro ripartisce l'esercizio di tale potestà fra il legislatore statale, competente a disciplinare solo i principi fondamentali e la durata in carica degli organi elettivi, e il legislatore regionale, competente ad esercitare tale potestà nel rispetto di tali vincoli. Anche in questo caso infatti si dovrà parlare di riserva di potestà legislativa e della connessa ripartizione fra legislatore statale e legislatore regionale della competenza ad esercitarla.

Infine, ogni qual volta la norma costituzionale contiene soltanto la riserva di potestà legislativa senza specificare esplicitamente da quale legislatore essa debba essere esercitata si dovrà ricorre all'applicazione della ripartizione contenuta nell'art.117 secondo, terzo e quarto comma, per definire a quale dei legislatori, e nell'ambito di quale delle competenze ad essi attribuite, ne spetti l'esercizio.

 

 

1.1.3 I mutamenti relativi al "posto" dei regolamenti statali, regionali e degli enti territoriali

Considerazioni non meno significative devono essere fatte per quanto riguarda le innovazioni introdotte rispetto al potere regolamentare e alla sua allocazione in capo ai diversi soggetti che, secondo il nuovo art.114 Cost., compongono ora la Repubblica .

In un sistema come quello attuale, il mantenimento del principio parallelismo fra titolarità del potere legislativo e titolarità del potere regolamentare, riaffermato e persino rafforzato ora dall'art.117 sesto comma Cost. nella parte in cui esplicitamente specifica che il potere regolamentare dello Stato riguarda solo le materie di sua competenza legislativa esclusiva, conduce a modificare profondamente anche il ruolo tradizionale di fatto svolto dal potere regolamentare statale rispetto a quello delle regioni.

Va infatti tenuto conto che, come si è già accennato, proprio in virtù del riaffermato parallelismo fra titolarietà del potere legislativo e titolarietà del potere regolamentare, la differenza "quantitiva" dell'ambito di competenza attribuito ora al legislatore statale rispetto a quello assegnato al legislatore regionale si riflette immediatamente anche sull'ambito di competenza del potere regolamentare statale e di quello regionale.

La conseguenza è che in seguito alla riforma costituzionale il potere regolamentare delle regioni è diventato un potere quantitativamente molto più esteso di quanto accadeva in precedenza ed è, dunque, inevitabilmente destinato a svolgere un ruolo anche "qualitativamente" diverso da quello svolto (o non svolto) in passato.

A questo cambiamento di ruolo del regolamento statale e di quello regionale, strettamente legato al mutamento dell'ambito di competenza della legge statale e di quella regionale, vanno poi aggiunte le conseguenze che, tanto rispetto al potere regolamentare dello Stato quanto rispetto a quello delle regioni, derivano dal contenuto nel nuovo art. 117, sesto comma. Come è noto, infatti, questa disposizione stabilisce che gli enti territoriali hanno un potere regolamentare costituzionalmente garantito (e quindi in un certo senso loro "proprio") nelle materie e negli ambiti per i quali sono loro attribuite funzioni amministrative.

Comunque interpretata e qualunque sia il modo col quale essa troverà concretamente attuazione, questa norma è destinata a determinare una compressione inevitabile dell'ambito del potere regolamentare sia statale che regionale.

La garanzia costituzionale dell'esistenza di un potere regolamentare degli enti territoriali subregionali si traduce infatti in un vincolo che, esattamente come fa l'art.118 Cost. sul versante del rapporto tra legislazione e amministrazione, rompe anche sul piano del rapporto fra legge e regolamento quello stretto parallelismo che la precedente normativa costituzionale, sia pure nel quadro e con i limiti del rispetto di quanto stabilito dall'art.5 Cost., rendeva ancora possibile.

In virtù di questa norma, dunque, il principio della coincidenza fra potere legislativo e potere regolamentare, pur esplicitamente ribadito anche dalla attuale normativa, si limita ora a regolare i rapporti fra regolamento statale e regolamento regionale e fra i loro rispettivi ambiti di competenza. Esso ha perso però la capacità di assicurare anche che l'ambito di competenza dei regolamenti statali e di quelli sia sempre e in ogni caso non solo potenzialmente ma anche concretamente coincidente con quello dei rispettivi legislatori e delle loro leggi. Infatti, sia pure in una misura da definire di volta in volta sulla base del contenuto concreto delle singole leggi statali o regionali attributive di competenze agli enti territoriali, il potere regolamentare statale o regionale potrà trovarsi a dover cedere spazio e ruolo al potere regolamentare locale, fino anche all'eventuale perdita di ogni competenza nella attuazione della legge.

Tenendo conto di quanto previsto dall'art.118 primo comma, sia con riguardo alla competenza generale e residuale in materia di esercizio di funzioni amministrative attribuita in via di principio ai comuni, sia con riferimento all'indicazione del principio di sussidiarietà come principio regolatore della distribuzione delle competenze amministrative fra i diversi soggetti di cui all'art.114 Cost., si deve riconoscere dunque che il nuovo sistema costituzionale determina, almeno potenzialmente, anche una forte riallocazione del potere regolamentare a favore dei comuni, delle provincie e delle città metropolitane rispetto a quanto accadeva nel sistema precedente.

La conseguenza ultima di tutto questo è la necessità di prendere atto che alla luce delle innovazioni introdotte è tutto il sistema delle fonti subcostituzionali e dei loro reciproci rapporti che deve essere ripensato e rimesso in asse col nuovo sistema.

 

1.2. I mutamenti relativi al sistema amministrativo

Allo stesso modo, le innovazioni che la riforma contiene in ordine all'esercizio delle funzioni amministrative e alla dislocazione del potere di dare esecuzione alle leggi da parte dei diversi apparati amministrativi e delle loro articolazioni territoriali è di portata tale da imporre di rivedere a fondo il ruolo dell'amministrazione dello Stato e dunque, se si vuole, lo stesso significato del potere esecutivo inteso, così come tradizionalmente avveniva finora, come il potere tipicamente proprio del governo.

Non vi è dubbio, infatti, che altro è operare in un sistema nel quale, come accadeva in quello precedente, l'amministrazione statale si pone come amministrazione a carattere generale, e quella regionale e locale sono configurate come amministrazioni a competenze specificamente enumerate e determinate dalla Costituzione, dalle leggi statali e, solo in misura limitata, anche dalle leggi regionali, altro è operare in un sistema nel quale, come accade in quello attuale, le funzioni amministrative sono, in linea di principio e per esplicita previsione costituzionale, attribuite ai Comuni e possono essere dalle leggi statali e regionali assegnate agli altri livelli di governo solo quando lo richiedano esigenze di carattere unitario, e comunque nel rispetto dei principi di sussidiarietà, differenziazione e adeguatezza.

Anche su questo piano, infatti, le innovazioni sono tali da costringere a ripensare il significato stesso di amministrazione, almeno per quanto riguarda quegli aspetti che tradizionalmente hanno legato insieme il concetto di amministrazione intesa come organizzazione finalizzata a dare esecuzione alle leggi e il concetto di potere esecutivo considerato come uno dei poteri classici dello Stato.

A stretto rigore, e per quanto "ideologica" possa essere ed apparire questa affermazione, il primo comma dell'art.118, se "preso sul serio", impone oggi di affermare che il potere esecutivo inteso come potere di dare esecuzione alle leggi spetta, almeno per quanto riguarda l'attività specifica della pubblica amministrazione, prima di tutto e in primo luogo, ai comuni.

Non solo: "prendere sul serio" il primo comma dell'art.118 significa anche affermare che nel nuovo sistema costituzionale le leggi statali e regionali devono sempre essere accompagnate da una "clausola di individuazione dei livelli amministrativi competenti a dare esecuzione alla legge", pena il radicarsi della funzione in capo ai comuni, proprio in virtù della clausola implicita e residuale contenuta appunto nel primo comma dell'art.118 Cost..

Il che, peraltro, non contraddice affatto la corretta affermazione per cui il nuovo art.118, specialmente se considerato nella sua globalità, apre la via a un'amministrazione "integrata" fra i diversi livelli di governo territoriali, e molto ricca di flessibilità e di adattamento alle diverse situazioni. Flessibilità ed adattamento che potrà essere tanto maggiore quanto maggiore sarà la capacità di applicare nel modo migliore e più coerente possibile i criteri di sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza che costituiscono le grandi linee direttrici a cui deve ispirarsi una amministrazione policentrica ed efficacemente adatta alle esigenze del sistema complessivo.

2. La difficile armonizzazione fra la Costituzione del 1948 e la riforma costituzionale del 2001.

Le riflessioni sinora esposte non sono tuttavia sufficienti a rendere pienamente ragione del mutamento intervenuto. Per quanto rilevanti esse siano, e per quanta attenzione debba essere loro dedicata per dare piena e coerente attuazione alla riforma, la portata innovatrice del mutamento costituzionale a cui è stato sottoposto il nostro ordinamento sembra andare molto al di là di quanto fin qui richiamato.

2.1. Le tradizionali caratteristiche della nostra Carta costituzionale del 1948

Come è ben noto, la Costituzione italiana appartiene senza ombra di dubbio alle Costituzioni "lunghe" che hanno caratterizzato soprattutto la seconda metà del novecento. Appartiene cioè alle Carte costituzionali che non si limitano a definire l'organizzazione e la dislocazione dei poteri e a indicare i diritti civili riconosciuti costituzionalmente agli individui, ma si estendono a regolare i diritti sociali accanto a quelli civili e a disciplinare tanto i diritti quanto i doveri dei cittadini in un quadro di trasformazione della intera società sostanzialmente unitario.

2.1.2 Il progetto costituzionale come progetto "forte" di trasformazione della società italiana.

La Costituzione italiana, come e più di altre Costituzione coeve , si caratterizza anche per il fatto di delineare un progetto "forte" di cambiamento della società.

Diretta conseguenza, quest'ultima, della necessità che la Assemblea costituente ha avuto di definire un equilibrio costituzionale capace di consentire alle forze e ai partiti che stipularono il patto costituzionale di raggiungere due obiettivi fondamentali. Il primo, di potersi riconoscere in un progetto condiviso e in una certa misura comune; il secondo, di poter trovare proprio nella condivisione del progetto costituzionale anche la garanzia che chiunque avesse vinto nella competizione per il potere non avrebbe comunque né potuto imporre ad ogni costo il proprio sistema di valori, né revocare in dubbio il sistema di valori su cui poggia la Costituzione.

Infine, ed è questo un aspetto non meno importante, il progetto costituzionale ha fin dall'inizio consentito a tutti di identificarsi in una prospettiva di cambiamento profondo della società, tale da poter far dire, secondo la bellissima formula di Calamandrei, che in luogo di una rivoluzione mancata (e, cioè, "rinunciata") la Costituzione conteneva comunque una rivoluzione promessa.

Tutto questo è talmente noto da costituire ormai una collocazione storica, giuridica e valoriale della nostra Costituzione del 1948 così generalmente accettata da non aver bisogno di soverchi approfondimenti e dimostrazioni.

 

2.1.3. Il progetto costituzionale come progetto "unitario" di trasformazione della società italiana

Vale la pena, però, richiamare l'attenzione anche su un ulteriore aspetto del progetto costituzionale, sul qual finora la riflessione si è soffermata meno.

La Costituzione approvata il 27 dicembre 1947 ed entrata in vigore il 1 gennaio del 1948 conteneva un progetto di cambiamento di tutta la società italiana che si rivolgeva a tutti i cittadini italiani, indipendentemente da dove fossero territorialmente dislocati.

Era, cioè, una Costituzione pensata e redatta in una prospettiva fortemente unitaria e collocata in un'ottica di innovazione e mutamento dell'intero Paese, indipendentemente da ogni distinzione e differenza territoriale.

Al di là del valore profondo del riconoscimento delle autonomie locali contenuto nell'art.5, per il resto tutti i principi contenuti nei primi dodici articoli della Costituzione, così come tutte le norme relative ai diritti civili e sociali erano state pensate, soprattutto nelle loro parti e nei loro aspetti più innovativi, come finalizzate a garantire quell'eguaglianza formale e sostanziale che secondo l'art.3 deve essere il risultato della rimozione delle differenze legate alle condizioni economiche e sociali, indipendentemente da ogni connotazione o radicamento territoriale che le potesse eventualmente caratterizzare o giustificare.

L'attenzione data in talune disposizioni costituzionali al territorio, e in particolare la rilevanza attribuita a suo tempo dal terzo comma dell'art.119 alla valorizzazione del Mezzogiorno e delle isole, non è sufficiente a mitigare quello che ha costituito un aspetto essenziale della prospettiva originale della Costituzione: il volere, cioè, offrire un sistema di valori, di regole, di diritti e, soprattutto, di obbiettivi che riguardasse la società italiana unitariamente intesa.

Si può anzi dire che proprio il riferimento al Mezzogiorno e alle Isole, così come formulato nel vecchio testo dell'art.119, costituiva la migliore conferma del fatto che alle differenze territoriali si guardava per rimuoverle e per superarle, soprattutto quando esse, per le loro caratteristiche, si ponessero come un ostacolo a quel raggiungimento dell'eguaglianza sostanziale dei cittadini che caratterizza tutta la prima parte della Costituzione e specialmente la parte relativa ai diritti sociali.

 

2.1.4 Il ruolo della legge e dell'amministrazione statale come un ruolo coerente con il progetto "forte e unitario" di cambiamento della società italiana.

Il ruolo assegnato alla legge statale e lo spazio riservato alla amministrazione dello Stato nel sistema precedente alla riforma del titolo V era perfettamente coerente con questa impostazione.

Di fatto il ruolo sostanzialmente marginale riconosciuto alle regioni, e la pressoché totale dipendenza dei comuni e delle provincie dalle leggi generali della Repubblica, era la conseguenza di questa impostazione e ne costituiva in qualche modo il riflesso.

Malgrado la portata rilevante dell'art.5 della Costituzione, infatti, tutto il sistema costituzionale precedente alla riforma del titolo V era sostanzialmente in asse con una prospettiva orientata a garantire soprattutto l'eguaglianza; ad assegnare alla Repubblica (che in quel contesto era sostanzialmente lo Stato) un forte e incisivo compito di trasformazione e cambiamento di tutta la società.

Alle regioni e alle autonomie locali, pure riconosciute e garantite nel quadro di un sistema di valori attento anche alle ragioni dell'autonomia delle comunità locali, veniva riservato un ruolo che non potesse comunque impedire in alcun modo il raggiungimento di obiettivi che postulavano innanzitutto un forte indirizzo unitario e una capacità di intervento coerente su tutto il territorio nazionale.

Si può dire agevolmente, dunque, che il sistema costituzionale italiano, così come disegnato dalla Costituzione del 1948, aveva nel ruolo assegnato al legislatore e all'amministrazione statale il riflesso puntuale di un'impostazione tutta orientata a privilegiare le ragioni dell'eguaglianza su quelle della differenza, nel quadro di una volontà progettuale finalizzata a garantire una trasformazione forte di tutta la società. In questo contesto, ogni valorizzazione delle possibili differenze e specificità anche territoriali non poteva che essere visto, se non come un vero e proprio pericolo, almeno come un elemento da prendere in considerazione e da accettare solo a condizione che non ponesse ostacoli al raggiungimento dell'obbiettivo programmatico fondamentale che ispirava il sistema complessivo.

 

2.2. Gli effetti sulla Costituzione del 1948 del cambiamento introdotto dalla riforma del 2001

Considerato dal punto di vista della sua compatibilità con il progetto "forte" e, soprattutto, "unitario" di trasformazione della società italiana contenuto nella Costituzione del 1948, il cambiamento introdotto dalla riforma del titolo V appare ancora più rilevante di quanto non sia se valutato soltanto dal punto di vista delle considerazioni sinora svolte in ordine al mutamento del sistema delle fonti e della distribuzione dei ruoli e delle competenze fra livelli di governo e di amministrazione.

Infatti, dalla nuova "composizione" della Repubblica, contenuta nell'art.114 della Costituzione fino alla modifica dell'attività parlamentare di formazione delle leggi contenuta nell'art.11 della l. cost. n.3 del 2001, tutta la riforma costituzionale si colloca in una prospettiva di valorizzazione delle differenze regionali e locali. Essa, infatti, postula una articolazione della "potestà legislativa" (art.117 primo comma) e dell'attribuzione delle "funzioni amministrative" (art.118 primo comma) che assume come un valore la differenziazione territoriale delle comunità e pone al centro del funzionamento del sistema complessivo la esaltazione del ruolo proprio dei diversi livelli territoriali di decisione e di governo. Di conseguenza, il mantenimento del carattere unitario dell'ordinamento repubblicano e della stessa Repubblica, che resta "una e indivisibile" secondo quanto disposto dall'art.5 della Cost., è ora rimesso, almeno per quanto riguarda l'unificazione dell'attività dei diversi legislatori, soltanto a pochi "elementi unificanti", essenzialmente contenuti nel primo comma dell'art.117.

E' venuta a mancare, infatti, nel nuovo ordinamento, quella funzione "unificante" prima riconosciuta alla legge statale che rappresentava allo stesso tempo la causa e la conseguenza del mantenuto ruolo centrale dello Stato, ed in ogni caso era l'asse portante di un sistema improntato essenzialmente all'uniformità e, proprio per questo, capace di garantire la realizzazione di quel progetto unitario della società italiana che stava alla base della Costituzione repubblicana e che anche ora rimane punto nodale della prima parte della nostra Carta costituzionale.

Questo aspetto, così rilevante e caratterizzante della riforma costituzionale e che differenzia profondamente il nuovo ordinamento costituzionale da quello basato sul testo originale della Costituzione del 1948, non è superabile neppure tenendo conto dei non pochi elementi che, collocati sia al livello delle competenze dei legislatori e dei conseguenti rapporti fra l'attività legislativa statale e regionale, sia a livello dei raccordi possibili e necessari fra amministrazioni, sia sul piano del ruolo del governo nell'esercizio del suo potere sostitutivo, hanno tutti lo scopo evidente di garantire forme di coordinamento ed, in alcuni settori, anche elementi di uniformizzazione dell'ordinamento complessivo.

E' ben vero, infatti, che non mancano anche nel nuovo sistema norme costituzionali che possono consentire, attraverso quelle che già sono state definite come "competenze trasversali" e che sono contenute essenzialmente nel secondo comma dell'art.117 alle lettere e), m), s) ed altre, un ruolo uniformante dello Stato in settori fondamentali del sistema complessivo. Del resto proprio fra queste "competenze trasversali" si colloca anche quella che qui ci interessa, relativa appunto alla determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale. Né mancano numerosi casi in cui la riforma assegna direttamente alla legge statale compiti di coordinamento e di disciplina dell'attività delle regioni in settori specificamente individuati, così come avviene all'art.117 quinto e ultimo comma.

E' altresì vero che l'art.120 Cost., nel prevedere il potere sostitutivo del governo, riserva alla tutela dell'unità giuridica e dell'unità economica, e in particolare alla tutela dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali, un'attenzione che riconferma il persistere di una forte connotazione unitaria dell'ordinamento che, in conformità al primo comma dell'art.5 Cost., costituisce comunque un valore essenziale da salvaguardare.

E' vero, ancora, che l'art. 119 Cost., pur fondando un sistema di finanziamento delle regioni e degli altri enti territoriali fortemente orientato all'esaltazione dell'autonomia di entrata e di spesa, prevede comunque l'esistenza di un ruolo rilevante dello Stato, non già limitato solo all'istituzione e alla gestione del fondo perequativo, ma esteso anche al coordinamento e alla regolazione dell'intero sistema finanziario e tributario dello Stato, delle regioni e degli enti territoriali.

E', infine, vero anche che l'art.118 Cost., esaltando i principi di sussidiarietà, di differenziazione e di adeguatezza come criteri che devono presiedere all' allocazione delle funzioni amministrative fra i diversi livelli di governo, postula un sistema di amministrazione fortemente "integrata" e potenzialmente ricca di raccordi e di strumenti di collegamento fra i diversi soggetti titolari di tali funzioni che possono anche essere distribuite in modo diverso e secondo principi organizzativi differenti a seconda degli ambiti territoriali e dei settori di volta in volta concretamente coinvolti.

Resta pur sempre vero, però, che, malgrado tutti questi aspetti chiaramente orientati a mantenere forti elementi di unitarietà dell'ordinamento complessivo, il nuovo sistema appare improntato a un'esaltazione del ruolo delle differenze, e specialmente di quelle radicate nella dimensione territoriale delle comunità. E' proprio questo l'aspetto che, sul piano sistematico ancora prima che su quello dei singoli settori di volta in volta coinvolti, sembra, anche a prima vista, difficilmente compatibile con un progetto di cambiamento incisivo e fortemente uniforme quale quello che a suo tempo ispirò l'Assemblea costituente.

Tutto questo, di per sé, non è immediatamente e irrimediabilmente incompatibile con il sistema di valori tutto orientato all'eguaglianza sostanziale dei diritti e delle condizioni di vita che informa di sé la prima parte della Costituzione.

E' però evidente che mentre un progetto che si pone un obiettivo fortemente unificante della società è perfettamente coerente con un sistema istituzionale che attribuisce allo Stato il ruolo di soggetto dominante, in grado di garantirne con la sua stessa azione unitaria l'attuazione, esso è invece ben più difficilmente armonizzabile con un ordinamento fortemente articolato e policentrico.

Ancora più complessa, poi, è la convivenza di un progetto costituzionale di forte unificazione sostanziale dell'intera società italiana, quale quello contenuto nella Costituzione del 1948, con una riforma costituzionale quale quella contenuta nella l.cost.n.3 del 2001, che esplicitamente individua nella pluralità dei livelli territoriali di governo, nella moltiplicazione dei legislatori e dei soggetti titolari di funzioni amministrative, nella nuova "centralità" assegnata al legislatore regionale e all'amministrazione locale il quadro di riferimento in cui la società italiana, esaltata nelle sue differenze territoriali e nelle sue articolazioni comunitarie, può meglio riconoscersi e svilupparsi.

 

2.2. Il nuovo sistema costituzionale in difficile equilibrio fra uniformità e differenziazione

In sostanza, mentre nel sistema precedente al centro del sistema si poneva l'uniformità dell'ordinamento garantita dalla Costituzione e dallo Stato e le differenze conseguenti all'articolazione regionale e locale si ponevano come elementi marginali se non eccezionali, ora al centro del sistema si pone l'esaltazione della pluralità e della differenziazione dell'ordinamento legate alla molteplicità dei livelli decisionali.

In questo nuovo quadro, dunque, vi sono tutte le ragioni per chiedersi quale sia il ruolo reale di questi elementi uniformanti, e come essi debbano essere interpretati e applicati. Se, cioè, essi debbano essere considerati essenzialmente come elementi di arginamento e di freno alla forza dirompente della differenziazione, o se, invece, essi debbano essere visti, anche in virtù della non modificata prima parte della Costituzione, come aspetti dominanti e caratterizzanti di un ordinamento che, malgrado i cambiamenti forti intervenuti, deve mantenersi fermo nel privilegiare comunque l'eguaglianza formale e sostanziale dei cittadini.

E' questa, dunque, la questione più rilevante e più "vera" che sta oggi al centro del dibattito relativo all'effettiva portata della riforma del titolo V.

Se cioè essa debba essere interpretata valorizzandone fino in fondo gli elementi diversificanti, anche a costo di renderne più difficile l'armonizzazione con la prima parte della Costituzione e, in generale, con le parti immodificate della Costituzione del 1948, o se invece essa debba essere interpretata valorizzandone gli elementi uniformanti e improntati alla difesa dell'eguaglianza dei cittadini, anche a costo di svalutarne profondamente la portata innovativa e da aprire la via a fenomeni di delusione e di abbandono della difesa sostanziale e formale della portata delle innovazioni approvate dalla XIII legislatura.

L'analisi deve dunque estendersi a una riflessione attenta sul contesto che ha portato a questa riforma e sugli obiettivi che essa ha inteso perseguire.

 

 

3. Il nodo del completamento del "progetto"sotteso alla l.cost.n.3 del 2001 e i difficili problemi connessi alla attuazione della riforma .

Per poter valutare compiutamente il "significato" e il "peso" delle questioni richiamate, e cioè per poter comprendere appieno i problemi che derivano dalla difficoltà di armonizzare la Costituzione del 1948, e specialmente la sua prima parte, con la l.cost.n.3 del 2001, è utile richiamare brevemente sia le caratteristiche essenziali del processo che ha condotto all'approvazione della riforma costituzionale sia i profili più delicati che la ormai lunga e ancora non risolta fase della sua attuazione stanno facendo emergere.

3.1. Il nodo del completamento della riforma costituzionale

Il primo problema che questa riforma pone riguarda prima di tutto il suo stesso completamento, inteso come completamento di un processo di revisione costituzionale da considerarsi ancora non "esaurito".

Infatti, in virtù dell'art.11 della l.cost.n.3 del 2001, che contiene una disposizione la cui efficacia è esplicitamente destinata ad esaurirsi con la revisione del titolo primo della seconda parte della Costituzione, questa riforma rappresenta un caso piuttosto anomalo di riforma costituzionale che si autodichiara ancora non pienamente compiuta (e contemporaneamente verrebbe ipotecare la direzione del completamento).

C’è dunque un completamento della riforma che è rimesso allo stesso legislatore costituzionale. Quello che è più importante però è che questo completamento, riguardando la riforma dello stesso Parlamento, costituisce un elemento essenziale nel "progetto" riformatore complessivo così come sotteso a tutta la l. cost.n.3 del 2001. La prevista possibilità, rimessa ai regolamenti delle due Camere, di integrare la Commissione bicamerale per le questioni regionali con la partecipazione di rappresentanti delle regioni e degli enti locali nonché le conseguenti modifiche del procedimento legislativo nelle materie dell'art.117 e 119 Cost. sono infatti esplicitamente indicate come destinate a restare in vigore "sino alla revisione del titolo I della parte II della Costituzione", e cioè fino a una riforma del parlamento nazionale che, con tutta evidenza, si prevede che debba aprirsi alla partecipazione regionale ed, eventualmente, anche degli altri enti territoriali.

Il contesto nel quale si inserisce questa disposizione è dunque chiarissimo e riguarda la consapevolezza del riformatore costituzionale che il progetto perseguito richiede un cambiamento forte dello stesso parlamento nazionale e l'ingresso in una delle due Camere delle nuove realtà costituite dalle regioni e dagli enti territoriali così come disegnate dalle innovazione costituzionali già approvate.

Quello che qui deve però essere soprattutto sottolineato è che il fatto stesso che la medesima riforma costituzionale dichiari esplicitamente che il processo riformatore non è ancora completato e che esso deve proseguire proprio con la modifica di quello che è l'istituto cardine della rappresentanza popolare, e cioè il Parlamento, evidenzia la difficoltà nella quale ci troviamo oggi.

Non solo abbiamo dunque una riforma, già approvata, che per il suo stesso contenuto incide profondamente sul sistema costituzionale e pone problemi difficili di armonizzazione con la parte ancora in vigore della Costituzione del 1948. Essa è anche, e per sua stessa dichiarazione, una riforma che richiede di essere ancora completata proprio in uno snodo fondamentale quale è il ruolo che, al fine dell'armonizzazione e della coesione del sistema complessivo, può giocare un Parlamento rinnovato, e reso istituto permanente di raccordo fra la rappresentanza unitaria del popolo e la rappresentanza articolata delle comunità territoriali in cui quel medesimo popolo si articola.

La necessità stessa di ulteriori interventi di revisione costituzionale incide dunque in misura rilevante sul modo col quale la riforma approvata potrà concretamente operare e, soprattutto, su quale potrà essere, una volta giunto a regime il processo ancora in corso, la concreta armonizzazione fra l'originario progetto della Costituzione del 1948 e quello, in larga parte differente, contenuto nella legge di revisione del titolo V.

Tuttavia sarebbe riduttivo sottolineare soltanto il peso che potrà avere la revisione del titolo primo della seconda parte della Costituzione sulla concreta attuazione delle riforma e sul modo col quale essa troverà definitiva armonizzazione col quadro costituzionale complessivo,.

Caratteristica rilevante della nuova normativa costituzionale è, infatti, quella di contenere molte norme che fanno rinvio a leggi statali specifiche, puntuali, la cui emanazione è essenziale per il funzionamento e la piena attuazione della riforma stessa.

Alcune di queste disposizioni sono già state richiamate nelle pagine precedenti e ad esse si dedicherà specifica attenzione nel paragrafo successivo.

Fra di esse, però, ve ne è una, e cioè l'art.116 ultimo comma, che merita di essere considerata anche dal punto di vista del completamento della riforma stessa.

Infatti la previsione normativa contenuta nella disposizione citata può condurre, a seconda di come verrà concretamente attuata, anche a incidere così profondamente sul sistema costituzionale da dar luogo a vere e proprie forme di regionalismo ad autonomia differenziata, e dunque a varianti, potenzialmente anche molto rilevanti, dello stesso "progetto" riformatore contenuto nella legge di revisione già approvata.

Un'attenzione particolare deve essere dedicata dunque al ruolo assegnato alla legge statale dall’art.116 nella parte in cui questa disposizione prevede la possibilità di intese Stato-Regioni per l'attribuzione ad alcune Regioni di ambiti di competenze differenziate nelle materie del terzo comma dell'art.117 e nelle materie del secondo comma della stessa disposizione previste dalla lettera l) limitatamente all'organizzazione della giustizia di pace, e alle lettere n) ed s).

E' chiaro che questa disposizione prevede una possibilità di attuazione a geometria variabile della riforma attraverso, appunto, il meccanismo di intese Stato-Regioni, in materie numerose e alcune anche particolarmente delicate.

Da come questa norma troverà applicazione, e in particolare dal contenuto dell'eventuale legge statale relativa alle procedure da seguire ai fini delle intese e da quello delle singole leggi statali di approvazione delle eventuali intese, potrà derivare un ampliamento, anche molto notevole, degli elementi di differenziazione che il nuovo sistema può consentire. Il che, ovviamente, porrebbe in una luce ancora più cruda le difficoltà di armonizzazione fra il contenuto e lo stesso "spirito" del progetto sotteso alla riforma e quello contenuto invece nella Costituzione del 1948.

3.2. I difficili problemi relativi all'attuazione della riforma

Vi sono poi problemi delicati di completamento e di attuazione della riforma che riguardano l' adozione e il contenuto delle specifiche leggi statali, esplicitamente indicate dalle nuove norme costituzionali e che, proprio per questo, si pongono come strategicamente essenziali per la loro piena e integrale attuazione.

Non basta dunque porre l'accento, come già molti hanno fatto, sulle crescenti difficoltà che una sostanziale inattuazione della riforma può produrre sia sul piano concreto del funzionamento del sistema, sia sul piano del pregiudizio di un accettabile grado di legalità complessiva del nostro ordinamento giuridico.

Occorre dire anche, e con la necessaria enfasi, che vi sono aspetti di questa riforma che potranno trovare piena definizione solo con il pieno e integrale completamento del progetto riformatore che nella parte in cui esso ancora non è compiutamente concluso.

Infine, l'inattuazione della riforma accentua e aggrava la difficoltà di trovare rapidamente un accettabile equilibrio fra la disciplina normativa e la tensione progettuale contenuta nella parte ancora in vigore della Costituzione del 1948 e le innovazioni valoriali e progettuali che sottostanno ai mutamenti sistemici operati dalla riforma.

In questo quadro, ferma restando l'importanza che tutte le leggi di immediata attuazione della riforma previste dalle nuove norme costituzionali hanno, non si può tacere della particolare importanza che inevitabilmente assume la normativa di attuazione dell'art.119 della Cost., da un lato, la normativa relativa all'esercizio delle competenze statali "trasversali", e in particolare alla determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale, dall'altro.

 

3.2.1. L'attuazione dell'art.119 e il problema della individuazione dei livelli essenziali delle prestazioni: problemi e prospettive

Il dato di fondo che accomuna le due problematiche, a prima vista così diverse, relative alla piena attuazione del dettato dell'art.119, da un lato, all'ampiezza della competenza esercitabile dalla legge statale ex art. 117 lettera m), dall'altro, consiste essenzialmente nel fatto che ogni decisione sulle modalità di applicazione di queste norme coinvolge immediatamente il grande tema dell'uniformità finalizzata a garantire l'eguaglianza, da un lato, e della differenza finalizzata a consentire la diversità, dall'altro. L'attuazione di queste norme, dunque, mette direttamente alla prova la compatibilità tra l'impostazione di fondo della Costituzione del 1948 e le innovazioni introdotte dalla riforma del 2001.

3.2.2. I problemi relativi all'art.119 Cost.

La centralità del problema di come conciliare un accettabile grado di uniformità con un irrinunciabile grado di differenza, vale certamente per il nuovo art.119 il quale sostanzialmente si articola intorno ad alcune linee guida fra di loro molto difficili da armonizzare.

La prima linea-guida, e quella più innovativa, è che comuni, città metropolitane, provincie e regioni hanno autonomia finanziaria di entrata e di spesa, possiedono risorse proprie e stabiliscono e applicano tributi propri, sia pure in armonia con la Costituzione e con i principi di coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario. Essi, inoltre, dispongono di compartecipazioni al gettito dei tributi erariali riferibili al loro territorio.

Queste indicazioni, contenute essenzialmente nei primi due commi dell'art.119, pongono una pluralità di questioni. Tuttavia, guardando solo a quelle che più direttamente interessano nell'ambito di questo lavoro, si può dire che esse riguardano essenzialmente: a) l'ampiezza del potere impositivo da riconoscere alle regioni nell'ambito dei principi di coordinamento del sistema tributario e della finanza pubblica; b) le modalità con le quali dovranno essere individuati i raccordi fra territorio degli enti e gettito dei tributi erariali, al fine di definire modalità, ambito e caratteristiche della loro compartecipazione.

E' chiaro, infatti, che quanto più, in ragione delle modificazioni introdotte dalla riforma, si esalta il carattere innovativo della disposizione nella parte in cui prevede l'autonomia finanziaria di entrata, e dunque si amplia l'ambito del potere impositivo autonomo di questi enti, tanto più si accentueranno le differenze che possono sussistere fra di essi in ragione della diversa consistenza della base impositiva su cui ciascuno può contare. Per contro, quanto più si interpreta il vincolo dell'armonia con la Costituzione come vincolo al rispetto dell'eguaglianza sostanziale fra cittadini come valore che innerva di sé tutta la prima parte della Carta costituzionale, tanto più si tenderà a dare un'interpretazione e una applicazione estensiva del potere di coordinamento del sistema tributario e della finanza pubblica spettante allo Stato e tanto più si sarà tentati di limitare l'effettivo ambito di imposizione propria delle regioni e degli enti territoriali.

Analogamente accade per quanto riguarda l'individuazione del nesso fra compartecipazione al gettito dei tributi erariali e raccordo col territorio.

Quanto più si vuole esaltare il valore innovativo della disposizione, che chiaramente ha come scopo di assicurare che una parte del gettito tributario riscosso dallo Stato torni alle comunità che vivono in cui è stato raccolto, tanto più si tenderà ad espandere la diretta riferibilità al territorio del gettito erariale sul quale va calcolata la compartecipazione e tanto più alta sarà l'aliquota di compartecipazione riconosciuta alle regioni e agli enti territoriali.

Per contro, quanto più si vuole rafforzare il ruolo perequativo dello Stato e in genere il ruolo della finanza statale, anche in nome dei compiti che la prima parte della Costituzione assegna a una "Repubblica" a suo tempo certamente considerata coincidente con lo Stato, tanto più si adotterà una interpretazione restrittiva del nesso tra tributi erariali e territorio e si cercherà di ridurre l'aliquota di compartecipazione riconosciuta in quest'ambito.

La seconda linea-guida riguarda la previsione di un fondo perequativo da istituire con legge statale (anche avvalendosi della competenza riconosciuta alla legge statale dall'art.117 lettera e)). Secondo la norma dell'art.119 terzo comma questo fondo perequativo deve essere previsto, senza vincolo di destinazione, "per i territori con minore capacità fiscale per abitante".

Occorre tener presente anche che, ex art.119 terzo comma, le risorse derivanti dall'autonomia impositiva, dalla compartecipazione al gettito dei tributi erariali e dal fondo perequativo devono essere comunque tali da consentire alle regioni e agli enti territoriali locali di "finanziare integralmente le funzioni pubbliche loro attribuite"

Anche i problemi posti dalle disposizioni che riguardano questo secondo aspetto sono molti. Fra questi, due in particolare interessano in questa sede.

Il primo riguarda quale debba essere l'obbiettivo ultimo del fondo perequativo, e, di conseguenza, quale debba essere anche l'ammontare delle risorse ad esso destinate.

E' evidente, infatti, che se si ritenesse che il fondo perequativo debba essere comunque tale da garantire a tutti "i territori" la medesima capacità di entrata e di spesa, se ne dovrebbe dedurre che a tutti gli enti territoriali, dalle regioni fino ai comuni, lo Stato debba comunque garantire la medesima capacità di entrata e di spesa rispetto a quella che caratterizza gli enti del medesimo livello di governo i cui "territori" hanno maggiore capacità fiscale e quindi garantiscono maggiori tributi propri e più ricche compartecipazioni.

Una impostazione di questo genere, al di là delle difficoltà di applicazione legate in gran parte all'equivocità dell'espressione "territori" contenuta nel secondo comma dell'art.119, avrebbe certamente il pregio di portare al massimo la uniformità della capacità di esercizio delle funzioni assegnate ai diversi livelli di governo e di amministrazione e, specialmente per la parte delle funzioni esercitate dai livelli di governo territoriale a favore dei cittadini e dei diritti loro riconosciuti, sarebbe pienamente compatibile anche con la più estremizzante applicazione della logica sottesa all'art.3 secondo comma della Costituzione.

E' evidente, però, che una tale interpretazione e attuazione del dettato costituzionale avrebbe due effetti immediati.

Il primo sarebbe quello di ridurre fortemente la possibilità di riconoscere una effettiva e ampia capacità di autonomia di entrata di tutti i livelli regionali e locali, giacché il fondo perequativo dovrebbe probabilmente essere talmente incrementato da costringere lo Stato a respingere ogni ipotesi di ridistribuzione del proprio potere impositivo in favore degli altri enti di governo.

In questo senso spingerebbe infatti, inevitabilmente, l'esigenza statale di mantenere una capacità di entrata e di spesa adeguata a far fronte alle esigenze, a questo punto rilevantissime, del fondo perequativo stesso.

Il secondo effetto sarebbe quello di considerare per principio identiche, anche nell'ambito di interesse dei singoli enti territoriali, sia le modalità di spesa sia le modalità concrete di attuazione delle funzioni, almeno per quanto riguarda il rapporto tra il loro ambito di svolgimento e gli oneri connessi.

Non occorre molta fatica per dimostrare che l'adozione di un'interpretazione del ruolo del fondo perequativo quale quella qui rapidamente delineata porterebbe anche a vanificare pressoché totalmente ogni aspetto relativo alla differenziazione e all'articolazione dei livelli di governo locali in ordine alle decisioni relative al modo e al contenuto quantitativo e qualitativo dell'esercizio delle funzioni loro assegnate. Il che è il contrario di quanto richiede invece un policentrismo dei governi territoriali che sia fondato sulla valorizzazione del principio di responsabilità dei rappresentanti verso i rappresentati e sulla necessità di garantire una accettabile corrispondenza fra gli obbiettivi e i bisogni che caratterizzano, ed eventualmente differenziano, ciascuna comunità.

In sostanza una interpretazione di questo tipo condurrebbe a vanificare sostanzialmente proprio quell'autonomia finanziaria di entrata e di spesa che non a caso l'art.119 assicura nel primo comma e che costituisce il cuore dell'innovazione introdotta dalla riforma del titolo V per quanto riguarda l'aspetto finanziario dell'autonomia assicurata a questi enti dall'art.114 secondo comma.

Per contro, non vi è dubbio neppure che qualunque altra interpretazione del dettato dell'art.119 secondo e terzo comma che, nell'intento di salvaguardare l'innovazione costituzionale, assegnasse al fondo perequativo non già l'obbiettivo di garantire la stessa capacità di spesa a tutti i livelli di governo ma piuttosto lo scopo di assicurare soltanto una ragionevole riduzione delle differenze di capacità di spesa derivanti dalle diversità di capacità fiscale dei diversi territori andrebbe incontro a due problemi evidenti.

Il primo, quello di come definire in sede di attuazione cosa debba intendersi appunto per "ragionevole", e cioè in che misura l'innovazione costituzionale consente l'esistenza di differenze fra i diversi territori e in che misura impone invece la riduzione di queste differenze anche a costo di imporre la piena e totale uniformità delle funzioni esercitate.

Il secondo, quello di come evitare di cadere immediatamente sotto la censura di un sindacato di costituzionalità relativo alle norme di attuazione che volesse prendere a parametro non già la differenziazione sottesa a tutta la riforma costituzionale e richiamata esplicitamente dallo stesso primo comma dell'art.119, ma piuttosto i valori di eguaglianza dei cittadini sottesi a tutta la prima parte della Costituzione e, in particolare, alle norme costituzionali relative ai diritti civili e sociali.

Il primo problema, quello relativo a cosa debba intendersi per "ragionevole differenza" potrebbe essere agevolmente risolto facendo riferimento ai molti studi in materia di perequazione che individuano nella media fra le entrate del soggetto con la maggiore capacità fiscale e quelle del soggetto con capacità fiscale minore il giusto punto di equilibrio di un ragionevole sistema perequativo. Il secondo problema, invece, non può essere risolto solo dalla tecnica legislativa adottata poiché dipende essenzialmente dalla visione di fondo che si adotta in ordine al sistema dei valori costituzionali, così come esso risulta dopo l'innesto del nuovo progetto riformatore del 2001 sull'antico progetto costituzionale del 1948. Visione che certamente può condurre su posizioni diverse il legislatore e la Corte costituzionale ma che comunque il legislatore ha, per la parte di sua competenza, il diritto e il dovere di esplicitare.

La terza linea-guida contenuta nel quarto art.119 riguarda il potere-dovere dello Stato di destinare "risorse aggiuntive" e anche di effettuare "interventi speciali" a favore di regioni o enti territoriali specificamente determinati, quando ciò sia finalizzato a "promuovere lo sviluppo economico, la coesione e la solidarietà sociale, rimuovere gli squilibri economici e sociali, favorire l'effettivo esercizio della persona, o provvedere a scopi diversi dal normale esercizio delle loro funzioni".

Anche con riferimento a questa terza linea-guida i problemi relativi all'attuazione della disposizione costituzionale sono enormi, sia in ragione dell'ampiezza dei motivi che possono giustificare l'intervento dello Stato, sia per la possibilità dello Stato di scegliere fra erogazione di risorse e altre forme di interventi, sia per il fatto che all'ampiezza degli scopi che possono giustificare l'intervento statale si accompagna comunque la previsione della specialità degli interventi e della necessità di determinarne i destinatari.

E' evidente anche che questa disposizione costituzionale è suscettibile di molte diverse possibili interpretazioni e modalità di attuazione.

Per un verso, infatti, chi volesse esaltare sempre e comunque il principio di eguaglianza potrebbe essere tentato di attenuare il principio di specialità e di determinazione dei singoli destinatari contenuto nella norma fino a sostenere che essa, in virtù delle finalità di promozione dello sviluppo e di coesione sociale ed economica di volta in volta perseguite, può giustificare un ruolo interventista dello Stato molto ampio e quasi illimitato.

Inoltre, in questa linea interpretativa lo Stato, in virtù del "potere della borsa", potrebbe esercitare anche un potere di uniformizzazione molto forte sia rispetto agli enti e agli stessi cittadini destinatari degli interventi statali sia rispetto alle modalità di esercizio delle funzioni e degli interventi per favorire i quali lo Stato eroga le risorse aggiuntive.

Collocandosi al capo opposto del ventaglio delle interpretazioni possibili, la disposizione potrebbe essere letta, invece, come il fondamento di un potere tendenzialmente molto ampio riconosciuto allo Stato al fine di sviluppare una forte politica di cooperazione finanziaria con gli enti territoriali analoga a quella nota negli USA come "grants in aid". Una politica (o una serie di politiche) che in linea di massima non ha come obbiettivo primario la uniformizzazione delle opportunità degli enti e dei cittadini ma piuttosto lo stimolo verso i livelli di governo locale a intraprendere azioni e attività che lo Stato centrale condivide e, proprio per questo, promuove.

Di nuovo dunque siamo in presenza delle possibilità di adottare interpretazioni e modalità di attuazione della disposizione costituzionale fra di loro diverse e sostanzialmente contrapposte. Ed è evidente che tra le due qui delineate, e che si collocano ai due estremi opposti, se ne potrebbero aggiungere moltissime altre, tutte fra loro molto diverse.

Ancora una volta la scelta fra le diverse possibilità di attuazione e di interpretazione del significato concreto di questa disposizione potrà dipendere non solo dalle circostanze e dalle vicende specifiche ma anche, e in misura potenzialmente molto rilevante, dalle diverse opzioni che si vorranno fare e che saranno tutte inevitabilmente legate al diverso peso da assegnare ai valori che costituiscono il connettivo della prima parte della Costituzione e a quelli che rappresentano invece il filo rosso di fondo che ha condotto all'approvazione della riforma.

 

 

3.2.3 I problemi relativi alla determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali

In un'ottica analoga, ma in termini ancora più netti per l'evidente e immediata connessione con gli art.2 e 3, secondo comma della Costituzione, si pongono i problemi relativi all'interpretazione e alla futura attuazione della disposizione contenuta nell'art.117 lettera m), relativa all'individuazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale.

Nella sua interpretazione più estrema, questa norma, in quanto contenuta nell'elenco delle materie di competenza esclusiva del legislatore statale, assegna allo Stato un ruolo potenzialmente così ampio da consentire e persino rafforzare il pieno mantenimento del progetto costituzionale originario, quale emerge nella prima parte della Costituzione.

Non vi è dubbio infatti che se si dà una lettura ampia ed estensiva del concetto di "livelli essenziali", da un lato, e della garanzia che deve essere assicurata su tutto il territorio nazionale, dall'altro, si può giungere in materia di diritti civili e sociali fino a ricostruire un ruolo unificante della legge statale e del potere statale non diverso, e forse persino più ampio, di quello che esso era prima della riforma del titolo quinto.

Inoltre, se sulla base di una lettura ampia dei profili appena richiamati si aggiunge anche una interpretazione e attuazione altrettanto ampia ed estensiva del concetto e sull'ambito dei diritti civili e sociali, che giunga a farli coincidere integralmente con tutti i diritti e i doveri dei cittadini previsti dalla prima parte della Costituzione, si può giungere a sostenere il pieno mantenimento in capo allo Stato del compito di definire, in via sostanzialmente esclusiva, i modi e i contenuti di attuazione di tutto il progetto costituzionale contenuto nella prima parte della nostra Carta.

In questa prospettiva si può arrivare a sostenere che in realtà non vi è alcuna potenziale contraddizione fra il progetto originario del Costituente del 1948 e le innovazioni introdotte dal titolo V giacché, grazie appunto alla norma in questione, l'intera attuazione della prima parte della Costituzione è sostanzialmente rimessa nelle mani del legislatore statale, che diventa di fatto il garante di un'uniformità coerente anche le letture più unificanti possibili degli art.2 e 3 Cost..

Di qui arrivare poi ad affermare la doverosità dell'intervento statale a salvaguardia del dettato e dei valori di fondo della prima parte della Costituzione, il passo è certamente breve, col risultato che si potrebbe agevolmente giungere a negare in radice quanto qui costituisce invece la tesi di fondo di queste riflessioni: e cioè che vi sia una inevitabile "tensione" se non palese "differenza" fra il progetto costituzionale sotteso alla prima parte della Costituzione e quello sul quale invece poggia ora la riforma del titolo V.

Certamente resterebbe vero che comunque le competenze del legislatore statale e di quelli regionali sono ora fortemente mutate, che è profondamente cambiata la allocazione del potere regolamentare fra i diversi livelli di governo e che è fortemente mutato il sistema amministrativo e la distribuzione delle funzioni e dei compiti amministrativi fra i diversi soggetti previsti indicati dall'art.114 Cost. come componenti la Repubblica.

Tuttavia è innegabile che una interpretazione pienamente estensiva del contenuto dell'art.117 lettera m) condurrebbe (o in ogni caso potrebbe condurre) il legislatore regionale, il regolatore regionale e locale e il potere amministrativo comunque allocato a dover operare, almeno in materia di diritti civili e sociali, con vincoli e secondo parametri potenzialmente così restrittivi da ridurre l'azione dei poteri e dei governi regionali e locali alla pura dimensione operativa dell'esercizio delle funzioni loro assegnate o delle competenze loro riconosciute.

La conseguenza di una impostazione di questo tipo che oggi, sia pure in forme meno estremizzate di quanto qui fatto, pare tendere a prevalere anche nelle opinioni di non pochi commentatori, sarebbe evidentemente quella di ridurre, almeno in questi settori, l'effetto dell'innovazione costituzionale e del nuovo dei livelli territoriali di governo fondato dall'art.114 Cost. a poco più di un sistema in grado di consentire un modesto grado di differenziazione in ordine all'organizzazione delle funzioni e all'erogazione delle prestazioni di loro competenza.

E' evidente che l'affermarsi di questa linea condurrebbe a dare una lettura estremamente continuista del sistema costituzionale post-riforma, ma di fatto condurrebbe anche a ridimensionare enormemente la portata innovativa della revisione del titolo V.

La questione però è se una interpretazione di questo genere, che conduce a fondare un potere-dovere del legislatore statale sostanzialmente illimitato allorché si tratti di definire e di disciplinare l'esercizio e il godimento di diritti che certamente devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale, sia, solo per quest'ultima ragione, accettabile.

In realtà non sembra possibile ammettere che, in ogni caso e con riferimento all'esercizio di ogni diritto civile e sociale, i livelli essenziali delle prestazioni da garantire debbano sempre coincidere con il livello "massimo" e "unico" della prestazione. Al contrario, il riferimento all'essenzialità del livello sembra invece imporre al legislatore statale di non conculcare la libertà e la discrezionalità dei governi locali in misura tale da imporre sempre e comunque un esercizio uniforme delle prestazioni su tutto il territorio nazionale.

Inoltre una interpretazione di questo genere, applicata a tutte le prestazioni relative a tutti i diritti civili e sociali e valevole su tutto il territorio nazionale condurrebbe a portare, in questi settori, il ruolo del legislatore statale e dello Stato a un grado di standardizzazione e uniformizzazione dei servizi e delle prestazioni e ad una vincolatività delle prescrizioni, degli standards e delle regole quale finora mai era stato sostenuto e neppure si era concretamente verificato.

Neppure nei momenti di massima enfatizzazione dell'eguaglianza sostanziale dei cittadini e di universalità e di uniformizzazione delle prestazioni concernenti diritti civili e sociali si è mai giunti, finora, a un grado di vincolatività quale l'interpretazione appena esposta potrebbe giungere ad ammettere.

Del resto, la stessa recente riforma sanitaria contenuta nel d.lgs.n.299 del 1999, che pure ha per prima introdotto nel nostro ordinamento la nozione dei livelli essenziali delle prestazioni, ha poi trovato nel successivo d.lgs.n.56 del 2001, e specificamente negli art.2,7 e nell'allegato A, una metodologia e criteri relativi alla definizione di tali livelli e alla individuazione delle risorse necessarie per farvi fronte ampiamente rispettosi del ruolo delle regioni.

La questione relativa all'interpretazione di quanto contenuto nell'art.117 lettera m) si sposta allora sulla necessità di individuare un accettabile punto di equilibrio fra il ruolo di garanzia dell'eguaglianza in materia di prestazioni relative ai diritti civili e sociali che indiscutibilmente la norma riconosce al legislatore statale, e, contemporaneamente, la necessità di salvaguardare, anche in questi settori, un ragionevole grado di differenziazione fra le politiche perseguite e le decisioni assunte dai legislatori regionali e, in genere, dai decisori dei livelli di governo substatuali.

Si colloca qui dunque il problema centrale di questa disposizione: quello cioè di definire cosa debba intendersi per "livelli essenziali" in un contesto che deve certamente essere attento ai valori dell'uniformità e dell'eguaglianza (valori particolarmente importanti in materia di diritti civili e sociali) ma che deve altrettanto certamente essere attento a salvaguardare anche in questi settori quel principio di possibile differenziazione delle scelte e delle politiche che ciascuna regione e ciascun ente territoriale deve poter mantenere nell'interesse e secondo la volontà dei propri cittadini.

Di nuovo si torna al nodo centrale con cui si è aperta questa riflessione: la centralità dell'esigenza di trovare un giusto punto di equilibrio fra uniformità e differenza, fra fedeltà al progetto costituzionale del 1948 e innovazione legata alla riforma del titolo V, fra tutela dell'eguaglianza sostanziale di tutti i cittadini e riconoscimento del diritto dei cittadini di decidere sul loro governo regionale e locale in un contesto che garantisca loro di poter realmente incidere anche su politiche e scelte rilevanti per la loro condizione di vita.

 

 

4. Quale futuro per la riforma del titolo V?

La riflessione svolta spinge a sottolineare ancora una volta quanto la riforma del titolo V sia di fatto innovativa e complessa.

Soprattutto pone in risalto il fatto che la sua armonizzazione con le norme ancora in vigore della Costituzione del 1948 e specificamente con la sua prima parte è cosa più complessa di quanto possa a prima vista apparire.

In questo senso non vi è dubbio che per sciogliere alcuni dei nodi più complessi, e in ogni caso per individuare un accettabile punto di equilibrio fra i diversi progetti e sistemi valoriali sottostanti alla vecchia e alla nuova normativa, saranno essenziali sia le modalità con le quali sarà completato il processo riformatore anticipato dall'art.11 della l.cost.n.3 del 2001, sia il contenuto delle leggi statali di attuazione esplicitamente previste dalla nuova normativa, e prime fra queste quelle attuative dell'art.119 Cost..

Di non minore peso sarà poi il modo col quale lo Stato riterrà di interpretare le competenze legislative "trasversali" che rientrano nella sua potestà legislativa esclusiva e i criteri che eventualmente potrà seguire la Corte costituzionale ove fosse chiamata a giudicarne la legittimità costituzionale.

Vi è però un aspetto particolare che merita di essere sottolineato particolarmente: nel contesto che qui abbiamo ricostruito la "variabile tempo" gioca inevitabilmente un ruolo molto importante.

I problemi aperti dall'innesto tra il nuovo e il vecchio testo costituzionale sono infatti di ampiezza e di portata tali da non consentire ritardi né nell'attività di completamento e di attuazione della riforma né nelle decisioni dei legislatori statali e regionali in ordine agli indirizzi e ai criteri che intendono seguire nell'esercitare le competenze loro riconosciute.

Ogni ritardo, e già troppo se ne è accumulato nei molti mesi ormai passati dall'entrata in vigore della riforma costituzionale, rischia infatti di aggravare le conseguenze derivanti dalle difficoltà segnalate e, soprattutto, di favorire una sorta di accettazione di un diffuso stato di inadempienza del comando costituzionale. Fenomeno, questo, che rapidamente potrebbe condurre addirittura all'accettazione di un vero e proprio stato di illegalità costituzionale di settori importanti dell'ordinamento e di larga parte della nuova legislazione statale e regionale.

A questo pericolo, ormai più attuale che potenziale, non si può rispondere solo invocando l'opera del giudice e pensando di affidare a lui, e solo a lui, la soluzione di tutti i problemi che possono nascere dal potenziale contrasto fra il sistema valoriale del progetto costituzionale ordinario e quello sotteso alla riforma approvata.

Per molti aspetti, infatti, la soluzione di questi problemi postula anche scelte che, proprio perché legate ai valori in gioco, devono essere compiute innanzitutto dalle classi politiche nazionali, regionali e locali.

Sottrarsi al dovere di compiere le scelte che il completamento della riforma, la sua attuazione e alla sua applicazione impongono significa, di fatto, assegnare ai giudici un compito troppo grande e caricarli di un peso e di una responsabilità che ad essi non spetta, o almeno che non spetta innanzitutto a loro.

Al giudice, e specialmente al giudice costituzionale, si deve chiedere certamente di esercitare fino in fondo il suo potere di verifica e di controllo della legittimità delle scelte compite e della loro compatibilità con il complessivo sistema normativo costituzionale oggi in vigore: ma, appunto, deve poter essere un giudizio su "scelte compiute", non una sostituzione rispetto a "scelte non fatte".

Per questo non può che suscitare preoccupazione il fatto che, mentre ancora manca ogni legge di attuazione e il legislatore nazionale continua sostanzialmente a legiferare come se la riforma non fosse neppure entrata in vigore, tanto rappresentanti autorevoli del Governo quanto il Governo medesimo, attraverso la concreta presentazione di nuovi disegni di legge di riforma della riforma appena entrata in vigore, dichiarino esplicitamente, e concretamente operino nella convinzione che non è doveroso, e tanto meno importante dare attuazione della nuova normativa costituzionale così come oggi essa è, perché comunque è la riforma stessa che deve a sua volta essere riformata.

Del resto, andando persino al di là delle dichiarazioni fatte anche in sede ufficiale, il disegno di legge costituzionale presentato dal governo in ordine alla c.d. devolution non solo conferma che l'intenzione di riformare la riforma è concreta e attuale; evidenzia anche la reale esistenza di un progetto e una strategia destinati ad accentuare ulteriormente il contrasto fra il progetto costituzionale originario e il nuovo sistema di valori a cui ci si ispira.

Sembra, in sostanza, che tanto il Governo quanto le forze politiche di maggioranza, invece di porre la necessaria attenzione a sciogliere almeno i nodi più complessi che già oggi derivano dal nuovo ordinamento costituzionale successivo alla l.cost.n.3 del 2001, operino piuttosto per aggrovigliare ulteriormente nodi e difficoltà.

Dal canto loro sia l'opposizione che lo stesso sistema delle regioni e degli enti territoriali, sembrano spesso operare secondo linee strategiche e tattiche altalenanti: ora cercando di collaborare, senza grande fortuna, a un'attuazione possibile e condivisa della riforma; ora accettando, con forse troppa rassegnazione, violazioni palesi non solo delle nuove norme costituzionali ma dello stesso progetto complessivo che ha ispirato la riforma.

Ancora: le regioni stesse, continuando nella inerzia che sinora le ha caratterizzate sia in ordine alla approvazione dei nuovi Statuti e delle necessarie e connesse innovazioni regolamentari e organizzative, sia in ordine alla normativa di attuazione della riforma costituzionale che è di loro immediata competenza, stanno di fatto concretamente avallando, anche con i loro comportamenti, una linea di sostanziale inattuazione del nuovo quadro costituzionale.

Infine la dottrina, che aveva accolto con grande apertura e grande disponibilità al cambiamento le innovazioni contenute nella riforma, pare oggi sempre più tendere a una lettura finalizzata a porre in risalto gli elementi unificanti in essa contenuti piuttosto che quelli orientati a favorire la possibilità per le regioni e gli enti territoriali di operare, almeno nelle materie di loro competenza, reali differenze di scelte, di indirizzo e di regolamentazione.

Non vi è dubbio, e anche in questa sede lo si è riconosciuto e ribadito più volte, che il nuovo sistema costituzionale richiede di affrontare e risolvere grandi problemi di coordinamento fra i diversi livelli di governo al fine di tutelare e garantire il carattere unitario dell'ordinamento della Repubblica affermato dall'art.1 e ribadito dall'art.5 della Costituzione.

Per molti aspetti sembra però di cogliere una tendenza chiara a cercare una soluzione adatta attraverso un neo-ampliamento e un neo-potenziamento del ruolo del legislatore statale e, in ultima analisi, dello Stato centrale piuttosto che, come il sistema costituzionale oggi richiederebbe e imporrebbe, attraverso lo sviluppo di forme di raccordo e di coordinamento nuove e coerenti con un sistema ormai fortemente policentrico.

La stessa enfatizzazione della tutela dell'unità giuridica e dell'unità economica, unita alla propensione a dare una lettura estensiva di tutte le competenze del legislatore statale a carattere trasversale (prima fra tutte quella relativa alla tutela dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali), enfatizzazione talvolta condotta fino a giustificare un generale potere espansivo del potere del legislatore e del governo statale, sembra infatti giustificarsi più come una risposta al pericolo che l'attuale fase di sostanziale inattuazione della riforma possa condurre alla disarticolazione complessiva del sistema, per evitare la quale nessun prezzo sembra troppo alto, che non come una risposta solidamente coerente ai problemi di un sistema che non può comunque accettare che la necessaria garanzia di unità sia pagata con il blocco sostanziale di ogni reale processo di articolazione e di differenziazione dei livelli di governo, e dunque con la negazione stessa della riforma.

In altre parole, sembra che la dottrina, posta di fronte alle difficoltà e ai rischi di "blocco" dell'intero sistema quali quelli sono quelli che si vanno sempre più spesso manifestando come conseguenza inevitabile della forte resistenza ad applicare e completare la riforma, sia sempre più rassegnata a rifugiarsi in una lettura sostanzialmente centralistica e fortemente uniformante di una normativa costituzionale che, invece, era e resta una normativa tutta orientata al policentrismo e all'articolazione dei livelli di governo.

Al contrario, la doverosa ricerca di un collante unitario compatibile con la nuova normativa costituzionale non dovrebbe condurre mai a giustificare un salto all'indietro verso inedite forme di neocentralismo statale. Essa dovrebbe invece spingere piuttosto a un deciso balzo in avanti verso la costruzione in un sistema complesso di rapporti e di relazioni fra i diversi livelli di governo, capace di assicurare un accettabile e moderno equilibrio fra uniformità e differenza.

E' dunque giunto il momento di prendere coscienza del fatto che la "questione costituzionale", che da molti anni ha caratterizzato le vicende del nostro Paese, intrecciandosi con una crisi politica prima solo strisciante e poi così dirompente da aver determinato addirittura il mutamento del sistema politico italiano, non è affatto ancora chiusa. Come si è cercato di dimostrare in questa riflessione, infatti, essa è stata formalmente e parzialmente risolta dalla l.,cost.n.3 del 2001 ma resta in tutta la sua rilevanza se si guarda al di là delle innovazioni approvate per tenere adeguatamente in conto la dimensione dei problemi che il suo completamento e la sua piena attuazione comportano.

Nel recente passato italiano la incapacità di risolvere i problemi costituzionali ha condotto alla crisi del nostro sistema politico. Dobbiamo evitare ora che, malgrado la coraggiosa anche se parziale risposta data dalla innovazione costituzionale adottata nella XIII legislatura, la perdurante incapacità di chiudere la "questione costituzionale" italiana possa portare nel prossimo futuro alla crisi del nostro sistema istituzionale.