ROBERTO
PINARDI
SULLA COMPOSIZIONE DEGLI ORGANI DI GARANZIA
DELLE MAGISTRATURE SPECIALI (RIFLESSIONI A MARGINE DELLA SENT.
N. 16 DEL 2011 DELLA CORTE COSTITUZIONALE)
Sommario: 1. Premessa. – 2.
Sintesi dell’iter argomentativo sviluppato dal giudice delle leggi. – 3.
Alcune osservazioni critiche sulla tecnica decisionale utilizzata. – 3.1. Sulla
scarsa linearità delle motivazioni addotte dalla Consulta. – 3.2. Una risposta
incompleta ai dubbi sollevati dal giudice a quo. – 3.2.1. Il quesito
rimasto insoluto. – 4. Sulla legittimità costituzionale della composizione
prevista per il Consiglio di presidenza della Corte dei conti. – 4.1. Gli
organi di garanzia delle magistrature speciali e il “modello” previsto dall’art. 104 Cost. – 4.2. Il carattere
“rinforzato” della riserva di
legge contenuta nell’art. 108, comma 2, Cost. – 4.3. Sulla necessaria compresenza di membri “laici” e “togati”
elettivi. – 4.4. Un
bilanciamento diseguale. – 5.
Per concludere. Componente elettiva e componente di diritto degli organi di
garanzia.
1. Premessa.
La sent. n. 16 del
2011 si segnala all’attenzione del lettore sia per l’interesse che suscita
il tema della quaestio legitimitatis che era sottoposta al vaglio della Corte
costituzionale, sia per il modo con cui la stessa ha inteso affrontare e
risolvere i dubbi prospettati dal giudice a
quo. Ricostruiamo, innanzitutto, l’iter
argomentativo che caratterizza la pronuncia in esame individuando i passaggi
principali che hanno condotto il giudice delle leggi ad adottare, nel caso di
specie, un dispositivo di inammissibilità.
2. Sintesi
dell’iter argomentativo
sviluppato dal giudice delle leggi.
Oggetto
d’impugnazione era l’art. 11, comma 8, della l. n. 15 del 2009, per asserita
violazione degli artt. 100, 103 e 108, comma 2, Cost. – in relazione agli artt.
3 e 104 della Carta fondamentale – nella parte in cui tale disposizione, con
riguardo alla composizione prevista per il Consiglio di presidenza della Corte
dei conti, statuisce «che la componente consiliare eletta dai magistrati
contabili sia numericamente uguale a quella rappresentativa del Parlamento e
non sia garantita la presenza maggioritaria dei rappresentanti dei magistrati
della Corte dei conti in seno all’organo di autogoverno, quanto meno mediante
la previsione di un rappresentante in più rispetto al numero dei rappresentanti»
dell’organo legislativo[1].
La
Corte, dal canto suo, dapprima (nel punto 2 del Considerato in diritto) ripercorre l’impostazione generale da cui
discendono le censure sollevate dal giudice rimettente giudicandola,
espressamente, «condivisibile».
È
quindi corretto anche per la Consulta sostenere:
a) che non è possibile pervenire alla
«integrale estensione, agli organi di garanzia» delle magistrature speciali,
«del modello previsto dall’art. 104 Cost. per la magistratura ordinaria»;
anche
se b) ciò non significa che possa
ritenersi «del tutto priva di vincoli finalistici la riserva di legge contenuta
nel citato art. 108, comma 2, Cost.». A tal
proposito, infatti, la Corte rileva, più in particolare, che tra le direttive
ricavabili dalla Costituzione in tema di tutela dell’indipendenza dei giudici
speciali rientra:
b1) il fatto «che un organo di garanzia
debba comunque esserci»;
b2) la circostanza che di tale organo
«debbono necessariamente far parte sia componenti eletti dai giudici delle
singole magistrature, sia componenti esterni di nomina parlamentare»;
pur se
b3) nel «rispetto del principio
costituzionale di cui sopra, il rapporto numerico tra membri “togati” e membri
“laici”, di nomina parlamentare, può essere variamente fissato dal
legislatore».
Ciò
detto, tuttavia, la Consulta, invece di proseguire sulla strada intrapresa e
quindi di concludere l’iter
argomentativo pregresso che l’avrebbe condotta a pronunciarsi sulla fondatezza delle
doglianze esaminate, abbandona il piano del merito della quaestio sub iudice per passare a motivarne, nel punto 3 del Considerato in diritto,
l’inammissibilità. Di modo che, in quest’ottica, dopo aver rilevato che i dubbi
sollevati dal TAR del Lazio si risolvevano nella richiesta di adottare una
pronuncia additiva con cui «eleva[re] il numero dei componenti eletti dai
magistrati della Corte dei conti “quanto meno” di una unità»; e che, quindi,
nel pensiero del giudice a quo,
«l’aumento di una unità della componente togata elettiva» doveva considerarsi
«come una delle possibilità utili per conseguire il fine auspicato, ma non
l’unica»[2],
la Corte adotta un dispositivo di inammissibilità sulla base della riscontrata
«incertezza del petitum»,
ovvero in ragione del fatto che «la scelta tra una soluzione “minimale” ed
altre soluzioni ipotizzabili, tutte ritenute idonee a rimuovere il denunciato
vizio di legittimità costituzionale ... non può provenire da questa Corte, ma
solo dal legislatore».
3. Alcune
osservazioni critiche sulla tecnica decisionale utilizzata.
Le
argomentazioni testé riportate prestano il fianco a qualche rilievo.
3.1. Sulla
scarsa linearità delle motivazioni addotte dalla Consulta.
In
primo luogo, infatti, mi pare possibile affermare che, se considerato nel suo
complesso, il procedere della parte motiva della sent. n. 16 è
scarsamente lineare.
Basti
verificare, a tal proposito, la sostanziale inutilità delle riflessioni
sviluppate dal giudice delle leggi, nel punto 2 del Considerato in diritto, allo scopo di dimostrare la correttezza
della scelta dispositiva in seguito effettuata[3],
oppure osservare che con l’ultima delle argomentazioni svolte la Consulta
afferma che la «rilevata inammissibilità del petitum non consente di esaminare
nel merito la fondatezza delle censure formulate dal rimettente», quando
questo, come s’è visto, non corrisponde (pienamente) a verità. Poiché la Corte,
nella prima parte della motivazione, non soltanto si sofferma ad analizzare
l’impostazione di fondo da cui scaturiscono siffatte censure, ma giunge, per di
più, a giudicare tale ricostruzione – e sia pure senza trarne alcuna
conseguenza in ordine al dispositivo da adottare – «condivisibile».
3.2. Una
risposta incompleta ai dubbi sollevati dal giudice a quo.
In
secondo luogo, e soprattutto, merita conto evidenziare come la Consulta, con le
sue argomentazioni, finisca per rispondere solo parzialmente ai dubbi
prospettati dal giudice a quo.
A ben
vedere, infatti, questi aveva impugnato l’art. 11, comma 8 cit. sotto un
triplice, collegato profilo:
(A)
«nella parte in cui» tale disposizione «prevede che la componente consiliare
eletta dai magistrati contabili sia numericamente uguale a quella rappresentativa
del Parlamento»;
(B) «nella parte in cui ... non sia garantita
la presenza maggioritaria dei rappresentanti dei magistrati della Corte dei
conti in seno all’organo di autogoverno»[4];
(C)
«nella parte in cui», infine, tale prevalenza «non sia garantita ... quanto
meno mediante la previsione di un rappresentante in più rispetto al numero dei
rappresentanti del Parlamento».
Si
noti, al riguardo, che ciascuno dei tre profili evidenziati avrebbe potuto dar
vita ad una questione autonoma, come è dimostrato se non altro dal fatto che,
laddove le censure del giudice rimettente fossero state separatamente accolte,
ciò si sarebbe inevitabilmente tradotto nell’utilizzo, da parte della Corte, di
tre diverse tecniche decisionali: e
cioè, rispettivamente, nell’adozione di una pronuncia di accoglimento tout court, oppure di una sentenza
additiva “di principio” o ancora di una pronuncia additiva “tradizionale”. Ed è
del resto significativo notare che, nel difendere la disciplina impugnata,
l’Avvocatura dello Stato non si è affatto limitata a sostenere
l’inammissibilità delle richieste sub
(B) e (C) – ritenendo, quindi, assorbita ogni altra censura – ma abbia
reputato, invece, necessario motivare anche in relazione alla quaestio sub (A)[5],
sostenendone, esplicitamente, l’infondatezza.
Ora,
la Consulta, al contrario, di fronte al complesso atteggiarsi del problema di
legittimità costituzionale che era sottoposto alla sua attenzione, si pronuncia
unicamente sulle ultime due doglianze menzionate.
Da un
lato, infatti, come già ricordato, Essa evidenzia, convincentemente – per quel
che concerne il profilo sub (C) – che
l’incertezza del petitum
che derivava dall’espressione «quanto meno» rendeva inammissibile la richiesta
di adottare una pronuncia additiva “di regole”, allo scopo di “riscrivere”,
puntualmente, la composizione prevista per il Consiglio di presidenza.
In
secondo luogo, con riferimento alla censura
sub (B), la Corte giunge alla medesima conclusione negando, in buona
sostanza – anche se con qualche forzatura, a parere di chi scrive – l’autonomia
di questo specifico aspetto della questione sollevata dal giudice rimettente
rispetto all’altro già esaminato. La Consulta, infatti, ricorda, a tal
proposito, che la difesa dell’Associazione magistrati della Corte dei conti,
nel tentativo di evitare una pronuncia di inammissibilità da parte del giudice
delle leggi, aveva sostenuto che l’intervento richiesto dal TAR del Lazio era
«limitato ad una pura affermazione di principio», ovvero alla semplice
asserzione che, all’interno dell’organo di garanzia, debba risultare prevalente
la componente rappresentativa dei magistrati contabili. Ciò che si sarebbe
quindi tradotto nell’adozione di una pronuncia additiva a dispositivo generico,
attraverso cui riconoscere, sì, siffatta necessità costituzionale, lasciando,
però, a un futuro intervento dell’organo legislativo il compito di determinare,
con maggior precisione, la misura di tale prevalenza. La Corte, tuttavia,
dichiara inammissibile anche questa richiesta istituendo una stretta connessione
tra i due profili della quaestio legitimitatis
sintetizzati, supra,
sub (B) e (C). E quindi affermando
che, nel caso di specie, non veniva chiesto alla Corte costituzionale un
intervento «limitato ad una pura affermazione di principio, ... ma esteso
all’individuazione di un concreto rapporto numerico», giacché il giudice a quo «indica, con formula dubitativa,
la soglia minima» di tale rapporto, «mediante l’espressione “quanto meno”», il
che «implica logicamente la preferibilità, secondo il rimettente, di altri
rapporti, che vedessero una presenza più elevata di membri togati elettivi».
La
Corte, infine – come anticipato – non si pronuncia sulla censura sub (A). Né potrebbe sostenersi, al
riguardo, che la risposta, sul punto, è ricavabile, implicitamente, da quel
passaggio della sentenza in esame in cui si legge che «il rapporto numerico tra
membri “togati” e membri “laici” ... può essere variamente fissato dal
legislatore», perché, per un verso, come vedremo, nulla autorizza, a seguito di
un corretto bilanciamento degli interessi costituzionali che entrano in gioco
nella fattispecie, ad interpretare il significato dell’avverbio «variamente»
utilizzato dalla Corte – e peraltro dalla stessa non ulteriormente precisato –
come sinonimo di «liberamente»; e per l’altro, in ogni caso, anche accedendo a
una ricostruzione del genere, resta il fatto che la Consulta avrebbe dovuto
affiancare ad un dispositivo di inammissibilità un dispositivo di infondatezza,
relativo, per l’appunto, in maniera specifica, al profilo in parola della quaestio sindacata.
3.2.1.
Il quesito rimasto insoluto.
In
definitiva, pertanto, si ha come l’impressione che la Corte costituzionale,
forse non unanime al suo interno circa la decisione da adottare, abbia
preferito glissare sul problema di merito che era sotteso alla doglianza sub (A) – dichiarandola, dunque,
anch’essa inammissibile – quando però, a stretto rigore, un dispositivo del
genere non poteva che riguardare i profili sub
(B) e (C)[6].
Limitandosi, quindi, ad indicare, in tema di tutela dell’indipendenza dei
giudici speciali, una serie di vincoli costituzionali estremamente generici[7]
(e su cui, probabilmente – proprio per questo motivo – un accordo, invece,
esisteva), ma non rispondendo, in ultima analisi, al quesito principale che le
era stato rivolto dal giudice rimettente: è conforme a Costituzione la
composizione di un organo di garanzia di una magistratura non ordinaria che
preveda, al suo interno, in egual numero, membri “laici” e “togati” elettivi?
4. Sulla
legittimità costituzionale della composizione prevista per il Consiglio di
presidenza della Corte dei conti.
Procedendo
dall’analisi critica delle scarne riflessioni sviluppate, sul punto, dai
giudici della Consulta, cercherò di fornire una risposta a tale quesito.
4.1. Gli
organi di garanzia delle magistrature speciali e il “modello” previsto dall’art. 104 Cost.
Così,
innanzitutto, il fatto che la conformazione organizzativa degli organi di
“autogoverno” (rectius:
di “garanzia”)[8]
delle magistrature speciali non debba necessariamente ricalcare il modello
tratteggiato, dalla Costituzione, per il Consiglio superiore della
magistratura, mi pare affermazione non soltanto corretta, per i motivi che tra
un attimo evidenzierò, ma anche condivisa dalla dottrina assolutamente
maggioritaria[9]
e del resto rispondente ad affermazioni
che risultano risalenti e pacifiche
nella stessa giurisprudenza del giudice delle leggi[10].
Un
conto, infatti, è rilevare l’esigenza, imposta dal dettato costituzionale, di
assicurare a ogni magistratura quell’autonomia istituzionale (o indipendenza
“esterna”) che è presupposto imprescindibile dell’indipendenza (questa volta
“interna”)[11]
che va garantita ad ogni suo membro[12];
altra cosa è sostenere che un risultato del genere può essere raggiunto, in parte qua, solo attraverso una
determinata conformazione dell’organo di garanzia cui fa capo quella specifica
giurisdizione, tale per cui lo stesso deve pedissequamente rifarsi allo schema
ricavabile dall’art. 104 Cost. Con il che, a ben vedere, si finirebbe per
contraddire, in radice, la ragione
stessa che ha indotto il Costituente a mantenere le giurisdizioni speciali di
cui al precedente art. 103, e che consiste, com’è risaputo[13],
nella presa d’atto che alcune delle peculiarità che contraddistinguono tali
giurisdizioni appaiono, per l’appunto, difficilmente riconducibili ad unità[14].
4.2. Il
carattere “rinforzato” della riserva di legge contenuta nell’art.
108, comma 2, Cost.
Ciò
non significa, tuttavia, voler sostenere che la «generica affermazione di
indipendenza contenuta nell’art. 108» rappresenta un «totale rinvio alla
discrezionalità del legislatore in materia di indipendenza dei giudici diversi
dall’ordinario»[15].
Se si considera, infatti, a tacer d’altro[16]:
a) l’espressa previsione, nel testo
costituzionale, di regole e principi volti a garantire la retta formazione e la
compiuta espressione del convincimento del giudice (si noti: di qualsiasi
giudice), tra cui l’imposizione dell’obbligo del contraddittorio e del dovere
di motivare «(t)utti i provvedimenti giurisdizionali»
(artt. 24, comma 2 e 111, commi 2 e 6);
b) la portata generale del principio del
giudice «naturale precostituito per legge», di cui all’art. 25, comma 1, Cost.;
e
soprattutto: c) l’esistenza di una
norma di chiusura dell’intero sistema costituzionale delle garanzie previste a
tutela dell’indipendenza dell’attività giurisdizionale, coincidente con il
principio, di generale applicazione, secondo cui «i giudici (tutti i giudici)
sono soggetti soltanto alla legge» (art. 101, comma 2, Cost.);
mi
pare corretto affermare che se si procede a una lettura sistematica (e non
parcellizzata) della Carta costituzionale si giunge ad acclarare
l’esistenza di un indirizzo di «omogeneità, voluta dalla Costituzione, degli status e delle garanzie di indipendenza,
interna ed esterna, di tutti i soggetti che esercitano funzioni
giurisdizionali»[17].
Per cui, se è innegabile che ad una regolamentazione espressa degli istituti
che assicurano tale indipendenza ai componenti della magistratura ordinaria
(art. 104 ss.: “autogoverno”, assunzione per concorso, inamovibilità, ecc.)
corrisponde, in Costituzione, un semplice rinvio, alla legge, del compito di
prevedere le modalità concrete che dovranno garantire il medesimo risultato in
rapporto ai membri delle giurisdizioni speciali (art. 108, comma 2); è
altrettanto evidente, però, che la Carta del ’48 – se considerata, lo ripeto,
nel suo complesso – delinea già, per quel che concerne le condizioni di
autonomia e di indipendenza di tutti i componenti delle diverse magistrature,
un unico «modo di essere generale dei soggetti-giudici cui è affidato
l’esercizio della giurisdizione»[18].
Da cui discende la necessità di non riconoscere una libertà assoluta, a favore
delle Assemblee legislative, nel riempire di contenuti positivi il rinvio
operato dall’art. 108, comma 2, Cost., ma di ritenere, viceversa, condivisibile
la tesi, anche oggi ribadita dai giudici della Consulta[19],
circa la natura “rinforzata” della riserva di legge ivi contenuta. La quale, quindi[20],
«consente di guardare all’attuazione legislativa del canone dell’indipendenza
dei giudici non ordinari in chiave non tanto discrezionale, ... quanto
piuttosto “vincolata” nei suoi contenuti ad alcuni fondamentali parametri costituzionali».
4.3. Sulla necessaria compresenza di membri
“laici” e “togati” elettivi.
Ma
quali sono per l’appunto, tali parametri?
Nella
sentenza in esame la Corte costituzionale si accontenta di affermare, come già
evidenziato, con riflessioni che ritengo pienamente condivisibili, che tra le
garanzie istituzionali che sono poste a tutela dell’indipendenza dei giudici
non ordinari vanno ricomprese, secondo Costituzione, le seguenti due: per un
verso, la necessità «che un organo di
garanzia debba ... esserci, sul presupposto che “l’indipendenza è ... forma
mentale, costume, coscienza d’un’entità professionale”, ma “in mancanza di
adeguate, sostanziali garanzie, essa ... degrada a velleitaria aspirazione”»[21];
e, per l’altro, che di tale organo «debbono necessariamente far parte sia
componenti eletti dai giudici delle singole magistrature, sia componenti
esterni di nomina parlamentare, nel bilanciamento degli interessi,
costituzionalmente tutelati, ad evitare tanto la dipendenza dei giudici dal
potere politico, quanto la chiusura degli stessi in “caste” autoreferenziali»[22].
Nulla
è detto, tuttavia, circa il rapporto numerico che deve regolare la compresenza
di tali componenti. O, meglio: la
Consulta – lo si è già rilevato – si limita, al riguardo, ad affermare, in
maniera del tutto generica, che la quota rispettiva di membri “laici” e
“togati” elettivi «può essere variamente fissat[a]
dal legislatore».
Ora,
come va interpretata quest’affermazione della Corte? È davvero lecito (o
finanche doveroso), alla luce di quanto dispone la Carta costituzionale,
ritenere che le Assemblee legislative possano conformare l’organo di garanzia
delle singole magistrature speciali come meglio credono, fermo restando l’unico
obbligo di prevedere la presenza (magari anche solo simbolica) di entrambe le
componenti appena menzionate? E questo, più in particolare, vale fino al punto
di ritenere esente da censure d’incostituzionalità anche una disciplina che
prevedesse che tale organo è composto, in maggioranza (se non addirittura nella
sua quasi totalità) da soggetti estranei all’ordine giudiziario? L’avverbio
«variamente», in altre parole, deve leggersi come sinonimo di «liberamente», o
va anch’esso declinato secondo direttive desumibili dal testo costituzionale?
4.4. Un bilanciamento diseguale.
Partirei,
nel tentativo di fornire una risposta plausibile a questi quesiti, da
un’osservazione che si legge anche nell’odierna pronuncia – e che mi pare, del
resto, difficilmente contestabile – secondo cui la conformazione organizzativa
che caratterizza gli organi di garanzia deve contemperare, tra loro, due
diversi interessi costituzionali: l’esigenza di pervenire ad una tutela
adeguata dell’indipendenza dei membri dell’ordine giudiziario e l’esigenza di
«evitare il mero cortocircuito istituzione-corporazione»[23],
tramite l’introduzione, all’interno dell’organo di “autogoverno”, di soggetti
che non esercitino funzioni giurisdizionali.
Ebbene,
contemperare significa bilanciare. Senonché, ritengo,
sui due piatti della metaforica bilancia a disposizione del giudice delle leggi
le esigenze di cui si discute non pesano (rectius: non devono pesare,
secondo Costituzione) nella medesima misura.
Così,
da un lato, il secondo dei requisiti poc’anzi individuati deve ritenersi
rispettato anche qualora la disciplina che regola la composizione dell’organo
di garanzia stabilisca che la partecipazione di membri non togati è
minoritaria. Dato che, a ben vedere, se è corretto sostenere, come ho tentato
di dimostrare con riferimento alla conformazione del Consiglio di presidenza
della giustizia amministrativa prima della riforma operata con l. n. 205 del
2000[24],
che l’assenza di questa componente comporta l’illegittimità costituzionale
della normativa che così dispone, lo è altrettanto, mi pare, affermare che non
necessariamente i membri esterni alla magistratura devono risultare in
maggioranza all’interno dell’organo di “autogoverno”, dato che già il fatto che
sia prevista una loro presenza (non numericamente insignificante, si potrebbe
aggiungere) scongiura il pericolo del formarsi di “caste chiuse”[25],
e dunque soddisfa la seconda delle esigenze costituzionali poc’anzi menzionate.
Lo
stesso non può dirsi, tuttavia, a proposito dell’altra componente
costituzionalmente necessaria che caratterizza gli organi di garanzia. Poiché
procedendo dalla constatazione che la ratio (costituzionale) che è sottesa alla presenza di membri
togati va individuata nell’esigenza, anche oggi ribadita dalla Consulta, di
«evitare ... la dipendenza dei giudici dal potere politico», non vi è chi non
veda come una mancata prevalenza numerica di tale componente finirebbe non
tanto per contemperare, quanto piuttosto per disconoscere uno dei due interessi
che stanno alla base della previsione di un organo di “autogoverno”, ponendosi
dunque in contrasto con quel principio di autonomia (e quindi di indipendenza)
delle magistrature non ordinarie che è sancito dal dettato costituzionale.
5. Per concludere. Componente elettiva e
componente di diritto degli organi di garanzia.
Da
quanto sin qui argomentato, pertanto, discende che l’art. 11, comma 8, della l.
n. 15 del 2009, nella parte in cui prevede che il Consiglio di presidenza della
Corte dei conti è formato, in egual misura, da membri “laici” e “togati”
elettivi, è in contrasto con l’art. 108, comma 2, Cost.[26].
Senonché, siffatta valutazione non può ancora
ritenersi definitiva, giacché manca da prendere in considerazione un ultimo,
importante tassello della complessa problematica de qua, non a caso oggetto di particolare attenzione sia da parte
del giudice rimettente, sia da parte dell’Avvocatura dello Stato.
Si
tratta, più precisamente, della questione che riguarda la presenza di una
componente di diritto all’interno del Consiglio di presidenza. Essa è formata,
infatti, da tre magistrati contabili: il Presidente, il Procuratore generale e
il Presidente aggiunto della Corte dei conti. Sicché se si guarda alla
conformazione complessiva che è prevista per l’organo di garanzia, ci si
accorge senza soverchie difficoltà che il rapporto numerico tra la componente
“laica” e la componente “togata” risulta essere non tanto di equivalenza,
quanto piuttosto di prevalenza della seconda, se è vero che a fronte di quattro
membri “laici” se ne contano sette “togati”, di cui tre, per l’appunto, di
diritto e quattro elettivi.
Ora,
la constatazione testé formulata sposta i termini (e quindi la soluzione) del
problema che abbiamo sin qui esaminato?
La
risposta dipende, ovviamente, dal significato che si intenda attribuire alla
previsione di una componente non elettiva all’interno dell’organo di garanzia.
Nel
pensiero del giudice rimettente, infatti[27],
appare comunque «necessaria» una «prevalenza ... della componente togata eletta
dai magistrati», «al fine di assicurare l’autonomia e l’indipendenza» della
magistratura contabile, stante «la diversa funzione svolta dalla componente
togata elettiva rispetto a quella, di carattere prevalentemente istituzionale,
assolta dai componenti di diritto».
In
accordo con quanto argomentato, al contrario, dall’Avvocatura generale dello
Stato, non si comprendono «le ragioni per cui i componenti togati di diritto
debbano essere distinti dai membri eletti, tenuto conto del comune stato
giuridico e delle modalità di designazione». Dato che due di tali componenti
«(Procuratore generale e Presidente aggiunto) sono “eletti”, sia pure in
maniera indiretta, dalla stessa base elettorale, poiché la loro nomina –
ancorché discendente da un provvedimento formale dell’Autorità politica – è il
risultato di una designazione che proviene dal Consiglio di presidenza»; mentre
il Presidente della Corte dei conti è, sì, «designato dall’Autorità politica»,
ma «sentito l’avviso» dell’organo di garanzia.
Ebbene,
senza poter esaminare, in questa sede, con la dovuta ampiezza e profondità
d’indagine, i presupposti di natura teorica che stanno alla base di queste
affermazioni, mi sembra plausibile sostenere che il ragionamento sviluppato dal
giudice a quo risulta, sul punto, più
convincente.
Le
argomentazioni prospettate dalla difesa erariale, infatti, si risolvono, se ben
si considera, in una mera petizione di principio, nella misura in cui con le
stesse si vorrebbe dimostrare l’autonomia dal Governo della componente di
diritto del Consiglio di presidenza – e quindi la natura egualmente
rappresentativa dell’ordine giudiziario che sarebbe attribuibile a tale
componente – evidenziando come la designazione dei tre membri non elettivi
venga a dipendere, in ultima analisi, e sia pure in diversa misura, da una
scelta ascrivibile all’organo di garanzia. Il cui carattere di autonomia, però,
dal potere politico è proprio quello che ancora deve essere dimostrato.
Se si
considera, invece, da un lato, che la presenza di una componente di diritto
all’interno del Consiglio di presidenza della Corte dei conti sembra rispondere
ad «una logica di direzione amministrativa» della magistratura contabile che è
ricollegabile, come è stato giustamente posto in rilievo, al«l’impostazione
storicamente “verticistica”» che caratterizza tale giurisdizione[28];
e che, d’altra parte e più in generale[29],
la formazione degli organi di “autogoverno” «attraverso elezioni interne ai
rispettivi ordini appare una soluzione coerente, anzi coessenziale al quadro
dei principi e dei contenuti ricavabili dal disegno costituzionale,
relativamente all’autonomia e all’indipendenza delle singole magistrature»,
ritengo corretto concludere che le due species di membri “togati” che compongono l’organo in parola
non possono essere tranquillamente accomunate sotto il profilo che qui viene in
esame, dato che la loro presenza non sembra rispondere alla medesima ratio di
garantire l’autonomia dell’ordine giudiziario di appartenenza. Con il che
risulta confermato il giudizio di illegittimità costituzionale della
composizione prevista per il Consiglio di presidenza della Corte dei conti in
rapporto alla previsione contenuta nell’art. 108, comma 2, Cost.
[1] Ricordo,
infatti, per comodità del lettore, che l’art. 11, comma 8 cit. stabilisce che i
componenti del Consiglio di presidenza siano complessivamente undici, di cui
tre membri di diritto (il Presidente, il Procuratore generale ed il Presidente
aggiunto della Corte dei conti) ed otto membri elettivi, quattro di estrazione
parlamentare e quattro (anziché dieci, come era previsto in precedenza) eletti
dai (e tra i) magistrati della Corte dei conti.
[2] Dato che,
prosegue il giudice delle leggi, «si potrebbe ritenere maggiormente adeguato un
rapporto numerico diverso, sulla base di scelte di maggiore o minore vicinanza
al modello stabilito dall’art. 104 Cost. per la magistratura ordinaria».
[3] Al riguardo
propongo di svolgere il seguente esperimento: si legga la motivazione della
sentenza in esame omettendo gli ultimi quattro capoversi del punto 2 del Considerato in diritto (da «Il medesimo
giudice ...» a «Nel rispetto del principio costituzionale ...»): se ne avrà un iter argomentativo ugualmente
esplicativo delle ragioni sottese alla dichiarazione di inammissibilità in
seguito adottata, ma più logicamente consequenziale nel suo svolgimento
complessivo.
[4] Laddove,
si osservi, l’autonomia di questa seconda censura rispetto alla prima è
dimostrata, oltre da quanto evidenzieremo, tra un attimo, nel testo, anche dal
fatto che un conto è ritenere illegittima, ut sic, una composizione paritaria dell’organo in questione, altra
cosa è ritenere costituzionalmente necessaria la presenza maggioritaria di una
delle sue componenti, all’uopo specificamente individuata.
[5] Cfr.
infatti, al riguardo, quanto si legge, rispettivamente, nei punti 3.2.3. e
3.3.2. del Ritenuto in fatto.
[6] Sotto
questo profilo, pertanto, la pronuncia che qui si commenta si espone alle
medesime critiche che sono state mosse ad una delle species che compongono il genus delle
decisioni di «incostituzionalità accertata ma non dichiarata», se è vero che anche
in questa ipotesi la Corte utilizza la necessità di non invadere il campo
riservato agli organi legislativi quale argomento che si dimostra non
pertinente: in tema, amplius,
mi sia concesso rinviare a R. Pinardi, La
Corte, i giudici ed il legislatore. Il problema degli
effetti temporali delle sentenze d’incostituzionalità, Milano, 1993, 82 ss. ed ivi ulteriori richiami bibliografici.
[7] Sono
quelli ricordati, nel par. 2, ai punti b1),
b2) e b3) e su cui torneremo nel prosieguo della trattazione.
[8] Come
precisa oggi la Corte (ma per l’affermazione secondo cui l’espressione
“autogoverno” sembra «da accogliersi piuttosto in senso figurato che in una
rigorosa accezione giuridica» cfr. già Corte costituzionale, sent. n. 142 del
1973). Più in particolare, in senso critico in ordine all’utilizzazione di tale
espressione con riguardo agli organi di garanzia delle magistrature speciali v.
per tutti G. Armao,
Il Consiglio della magistratura militare:
un nuovo modello per la riforma degli organi di “autogoverno” delle
magistrature speciali, in Foro amm. 1990,2235-2236.
[9] Cfr.
almeno, in tal senso, le conclusioni cui giunge l’unico studio monografico
dedicato al tema degli organi di garanzia delle magistrature speciali: A. D’Aloia, L’autogoverno delle magistrature «non
ordinarie» nel sistema costituzionale della giurisdizione, Napoli, 1996,
433.
[10] Oltre
all’odierna pronuncia si veda, infatti – e a titolo meramente esemplificativo –
per l’affermazione secondo cui «il requisito dell’indipendenza dei giudici
speciali ... deve essere considerato in relazione ai particolari aspetti di
ciascun tipo di giurisdizione», la sent. n. 43 del 1964 (la quale si richiama,
sul punto, alla sent. n. 108 del 1962).
[11] Due sono,
infatti, di norma, le accezioni in cui si parla di indipendenza
(rispettivamente: interna ed esterna) del giudice, «a seconda che si abbia
riguardo al profilo attinente all’esercizio delle attribuzioni che ai giudici
sono affidate, ovvero all’assetto organizzativo del potere giurisdizionale (o
di sue parti in relazione agli altri poteri)» (la definizione è tratta da S. Bartole, voce Indipendenza del giudice (teoria generale),
in Enc. giur. Treccani,
XVI, Roma, 1989, 1).
[12] Sul
carattere strumentale della garanzia dell’autonomia rispetto a quella
dell’indipendenza cfr., ex plurimis, R. Romboli - S. Panizza, voce Ordinamento
giudiziario, in Dig. disc. pubbl., X, Torino, 1995, 380 ss.
ed Autori ivi richiamati a nota 72.
[13] Al di là,
si potrebbe aggiungere, di alcune resistenze di natura corporativa che
influirono sicuramente sulla decisione di non accogliere la proposta propugnata
da Calamandrei, la quale prevedeva, tra l’altro, la
soppressione delle funzioni giurisdizionali esercitate dalla Corte dei conti e
dal Consiglio di Stato.
[14] Cfr. ad
esempio, in tal senso, M. R. Morelli,
Artt. 102-103, in V. Crisafulli - L. Paladin (a cura di), Commentario breve alla Costituzione, Padova, 1990, 641; e G. Carbone, Art. 100, in G. Branca
(già diretto da) A. Pizzorusso
(continuato da), Commentario della
Costituzione (artt. 99-103), Bologna-Roma, 1994,
66 ss. e 132.
[15] Così,
invece, A. M. Poggi, Il sistema giurisdizionale tra «attuazione»
e «adeguamento» della Costituzione, Napoli, 1995, 221, sulla scia,
peraltro, di C. Mortati, Istituzioni di diritto pubblico, Padova,
1976, II, 1275, il quale definiva l’art. 108, comma 2, Cost. come un «generico
e platonico mandato al legislatore». In senso contrario, tra gli altri, cfr. V. Onida, voce
Giurisdizione speciale, in Nov.mo dig. it., App., III, Torino, 1982, 1072.
[16] Il riferimento
è ad altri argomenti ricavabili dall’intenzione del legislatore e dall’analisi
lessicale dell’art. 108, comma 2, Cost., per i quali rinvio a R. Pinardi, «Autogoverno»
ed indipendenza dei giudici speciali: riflessioni sulla composizione prevista
per il Consiglio di presidenza della giustizia amministrativa, in Giur. cost. 1996, 3315 ss.
[17] In termini
G. Silvestri, Giudici ordinari, giudici speciali e unità della giurisdizione nella
Costituzione italiana, in Aa.Vv., Scritti
in onore di M. S. Giannini, III, Milano, 1988, 726.
[18] Così, ancora,
G. Silvestri, Giudici ordinari,
cit., 714.
[19] Cfr. tra
le prime, in tema, Corte costituzionale, sent. n. 108 del 1962.
[20] Per
utilizzare le parole di A. D’Aloia, L’autogoverno,
cit., 431.
[21] Le frasi
che la Consulta riporta tra virgolette sono tratte dalla sua precedente
decisione n. 266 del 1988. In dottrina, in senso analogo, v. ad esempio I. Lolli, L’autogoverno delle giurisdizioni speciali:
profili problematici e prospettive di riforma, in Giur. cost. 1997, 2072 s., mentre per una posizione di segno contrario,
cfr. G. Armao,
Il Consiglio, cit., 2235, il quale
afferma che, dato che l’art. 108, comma 2, Cost. «si limita ad indicare al
legislatore la necessità di garantire mediante legge l’indipendenza dei giudici
speciali», ne consegue che la stessa «istituzione di appositi organi di
“autogoverno” per le magistrature amministrative, contabile e militare,
analoghi per struttura e competenze al C.S.M., va considerata ... frutto di una discrezionale
valutazione del legislatore».
[22] Sul punto
cfr., volendo, R. Pinardi,
«Autogoverno», cit., 3322-3323 e gli Autori ivi richiamati.
[23] L’efficace
espressione è mutuata da G. Carbone,
Art. 100, cit., 135.
[24] Cfr., al
riguardo, le riflessioni sviluppate in R.
Pinardi, «Autogoverno», cit., 3307 ss. Ricordo,
infatti, che, prima dell’entrata in vigore della legge in parola, l’organo di
garanzia della magistratura amministrativa era composto unicamente da soggetti
provenienti dallo stesso ordine giudiziario.
[25] Come
dimostra, d’altra parte, il fatto che l’art. 104, comma 4, Cost. prevede, come
noto, per il Consiglio superiore della magistratura, una percentuale di membri
non togati di un terzo.
[26] Va notato,
del resto, che la composizione prevista per il Consiglio di presidenza della
Corte dei conti rappresenta, sotto questo profilo, un unicum nel panorama degli organi di garanzia delle magistrature
speciali se è vero che il numero di membri “laici” e “togati” elettivi risulta,
rispettivamente, di 4 e 10 per il Consiglio di presidenza della giustizia
amministrativa, di 1 e 2 per il Consiglio della magistratura militare e di 4 e
11 per il Consiglio di presidenza della giustizia tributaria. Sicché è
possibile affermare che gli altri organi di “autogoverno” delle magistrature
non ordinarie ripropongono, grosso modo, il medesimo rapporto numerico che è
previsto per il C.S.M., pur se tale soluzione – per quanto rilevato, supra, nel par.
4.1. – non deve ritenersi costituzionalmente obbligatoria.
[27] Così come
ricostruito dalla Corte costituzionale nel Ritenuto
in fatto dell’odierna pronuncia (la medesima precisazione vale anche per le
frasi riportate di seguito tra virgolette e attribuibili all’Avvocatura dello
Stato).
[28] Per la
dimostrazione di questo assunto (specificamente riferito, peraltro, alla presidenza
dell’organo in parola), nonché per le due frasi riportate tra virgolette, cfr.
A. D’Aloia,
L’autogoverno, cit., 270.
[29] Come
rileva ancora A. D’Aloia,
L’autogoverno, cit., 187.