ROBERTO PINARDI
ANCORA SULLA «COMPLETEZZA» DELLE RICHIESTE
REFERENDARIE
Sommario: 1. Premessa.- 2. La ratio
decidendi delle sentt.
nn. 25 e 27 del 2011.- 3. La logica … tautologica delle pronunce in
esame.- 4. Affermazioni di principio e contenuto sostanziale del ragionamento
svolto dalla Corte. - 5. Le odierne dichiarazioni di inammissibilità quale
(ennesima) applicazione del criterio della «completezza» delle richieste
referendarie.- 6. Un canone di giudizio che presta il fianco a numerosi
rilievi.- 6.1. Analisi critica delle argomentazioni usualmente sviluppate dal
giudice costituzionale a sostegno dell’utilizzo del limite de quo.-
6.1.1. «Completezza» del quesito ed espressione della
volontà popolare.- 6.1.2. «Completezza»
del quesito e normativa di
risulta.- 6.2. Altre possibili obiezioni nei confronti del ricorso al criterio
in oggetto.- 6.2.1. Correzione dei quesiti e ruolo dell’Ufficio centrale.- 6.2.2.
Il contrasto con la giurisprudenza costituzionale in
tema di “proseguibilità” delle operazioni referendarie.- 6.2.3. L’iniziativa
referendaria «nelle mani di pochi».- 7. Per concludere: dalla «garanzia
costituzionale» alla «pedagogia democratica».
1. Premessa
La giurisprudenza costituzionale relativa alla tornata
referendaria del 2011 sollecita qualche breve considerazione che prende spunto
dall’analisi del criterio utilizzato dalla Consulta per dichiarare
inammissibili le richieste esaminate con le sentt.
nn. 25 e 27.
2. La ratio decidendi delle sentt.
nn. 25 e 27 del 2011
Nella prima delle pronunce menzionate la Corte, dopo aver
evidenziato che la «richiesta referendaria è atto privo di motivazione, sicché
l’obiettivo dei sottoscrittori va desunto non da una loro dichiarazione
d’intenti, ma soltanto dalla finalità incorporata nel quesito», ha censurato la
richiesta sub iudice
in quanto relativa unicamente all’art. 150 del codice dell’ambiente e non
all’art. 23-bis del d. l. n. 112 del
2008 (convertito, con modificazioni, dalla l. n. 133 dello stesso anno). E
questo perché, nel pensiero del giudice costituzionale, siffatta mancata
inclusione rendeva il quesito «inidoneo e non coerente (con conseguente difetto
di chiarezza) rispetto al fine, che l’iniziativa referendaria si propone, di
rendere inapplicabile al servizio idrico integrato la disciplina delle modalità
di affidamento della gestione dei servizi pubblici locali a rilevanza
economica».
Analogamente, con la sent. n. 27,
viene dichiarato inammissibile un quesito in quanto non avente ad oggetto la
«complessiva disciplina delle modalità di affidamento della gestione dei
servizi pubblici locali di rilevanza economica (ivi compreso il servizio idrico integrato), ma solo frammenti di
disposizioni non idonei ad incidere in modo significativo su di essa». Di modo
che la Consulta, dopo aver ribadito che «la richiesta referendaria è atto privo
di motivazione e, pertanto, l’intento dei sottoscrittori del referendum va desunto … esclusivamente
dalla finalità “incorporata nel quesito”», respinge la richiesta in parola
rilevando che la stessa – se confrontata, per l’appunto, con lo scopo dei
sottoscrittori – risultava «obiettivamente priv[a] di
univocità e chiarezza e, quindi, inammissibile».
3. La logica … tautologica delle pronunce in esame
Un primo motivo di perplessità rispetto al modus argomentandi
testé sintetizzato è di carattere squisitamente logico: mi domando, cioè,
prendendo sul serio l’affermazione della Corte secondo cui l’intento dei
sottoscrittori va ricavato esclusivamente dall’esame obiettivo della normativa
sottoposta al vaglio popolare, come possa poi verificarsi che tale intento
risulti incoerente rispetto al tentativo di eliminare quella stessa disciplina
da cui si ricava, giustappunto, il fine ultimo della richiesta.
Un conto, infatti, è comparare l’efficacia delle
abrogazioni proposte con quanto dichiarato aliunde dai promotori, o con lo scopo dell’iniziativa quale si ricava dal
“titolo” assegnato al quesito dall’Ufficio centrale[1],
ecc.: confrontando, cioè, gli effetti che produrrebbe un’eventuale vittoria dei
“sì”, quali si desumono dall’analisi della disciplina interessata dalla
richiesta di referendum, con elementi
esterni alla stessa.
Un altro, invece, è evincere l’intento dei sottoscrittori
unicamente dall’esame, interno al
quesito, della normativa ivi
contenuta, per poi giungere alla conclusione che la proposta di eliminare tale
disciplina risulta incoerente con il fine di provocare, tramite il voto
popolare, … la sua abrogazione. Sicché, detto altrimenti, non può certo stupire
se per tale via la Corte giunge, in qualche occasione, ad applicazioni del
criterio de quo che potrebbero
definirsi tautologiche, come quando, sul finire della sent. n. 24 – e
per escludere, questa volta, l’esistenza del vizio in oggetto – la Consulta
evidenzia la perfetta congruenza tra lo scopo dei promotori, che viene desunto
dal quesito, «di escludere l’applicazione delle norme contenute nell’art. 23-bis» d. l. cit. e la «richiesta
referendaria di abrogare» tale disposizione (ci si chiede: come poteva essere
diversamente?).
4. Affermazioni di principio e contenuto sostanziale del
ragionamento svolto dalla Corte
Il fatto è che, nonostante l’affermazione, poc’anzi
riportata, secondo cui, in casi del genere, la disamina operata dalla Corte
viene tutta condotta all’interno del quesito referendario, la struttura
argomentativa che caratterizza le pronunce in parola risulta, se ben si
considera, di altro tenore.
Come s’è visto, infatti, la censura che viene mossa dalla
Corte alle richieste di abrogazione popolare procede, in entrambe le ipotesi
considerate, da una forte sottolineatura critica nei confronti di una mancanza
di norme che avrebbero dovuto, al contrario, essere ricomprese nel quesito
esaminato[2]:
con conseguente, pretesa compromissione della «chiarezza» della domanda
abrogativa che viene rivolta al corpo referendario. La Consulta, in altre
parole, non si limita affatto, nelle sentenze in parola, a controllare, come
affermato, la richiesta dall’interno, prendendo in considerazione, cioè,
esclusivamente quello che essa contiene, ma ne sindaca, a ben vedere, la
«razionalità» (anche) dall’esterno[3],
e cioè con riferimento a quello che, pur non dovendolo, esclude. Muovendo,
quindi, da un’analisi complessiva della disciplina che regola la materia
interessata dall’iniziativa dei promotori per poi giungere a sanzionare non
tanto un comportamento attivo
degli stessi[4],
quanto piuttosto un fatto omissivo
che si estrinseca nell’esclusione di norme che andavano viceversa coinvolte nel
quesito referendario.
5. Le odierne dichiarazioni di inammissibilità quale
(ennesima) applicazione del criterio della «completezza» delle richieste
referendarie
Si tratta, in buona sostanza – guardando non tanto alle
affermazioni di principio quanto piuttosto al contenuto sostanziale del
ragionamento sviluppato dal giudice dell’ammissibilità – dell’ennesima
applicazione del criterio della «completezza»[5]
delle richieste referendarie. Il quale, pertanto, assume, anche in questa
tornata, un ruolo centrale nella giurisprudenza della Corte, se è vero non
soltanto che la stessa ha basato, come s’è detto, esclusivamente sulla carenza
di tale requisito le uniche due dichiarazioni di inammissibilità adottate nella
fattispecie – portando quindi a diciotto il numero complessivo dei quesiti
respinti applicando (anche o solamente) tale criterio[6] –
ma che è ricorsa al canone in oggetto anche per comprovare l’ammissibilità di
tutte le altre richieste esaminate[7],
secondo uno schema di giudizio ormai classico che prevede, dapprima, la
verifica del rispetto del limite materiale di cui all’art. 75, comma 2, Cost.,
per poi passare ad escludere vizi attinenti alla formulazione della domanda
abrogativa, ivi compresi, per
l’appunto, difetti che si manifestino sotto il profilo della necessaria
«esaustività» del quesito formulato dai promotori.
6. Un canone di giudizio che presta il fianco a numerosi
rilievi
L’utilizzo di questo criterio presta il fianco, a parere di
chi scrive, a vari rilievi. Sintetizzo, di seguito, le obiezioni che mi paiono
più significative, riprendendo, ma anche precisando quanto già evidenziato, al
riguardo, in una precedente occasione[8].
6.1. Analisi critica delle argomentazioni usualmente
sviluppate dal giudice costituzionale a sostegno dell’utilizzo del limite de quo
Innanzitutto, mi pare possibile sostenere che le due
principali ragioni su cui da sempre la Corte fa leva per argomentare la
necessità di dichiarare inammissibili richieste «incomplete» risultano
tutt’altro che insuperabili. Secondo la Consulta, infatti:
(A) la mancata inclusione di una o più norme all’interno
del quesito può incidere negativamente sulla sua «chiarezza», dato che, in
ipotesi siffatte, può determinarsi un’insanabile «contraddizione fra la
richiesta di abrogazione di una disciplina e la mancata richiesta di
abrogazione di altre disposizioni dettate nel medesimo contesto normativo»:
tale contraddizione, pertanto, fuorvierebbe la scelta dell’elettore incidendo,
negativamente, sulla sua «libertà di voto»[9].
(B) il quesito è censurabile anche in rapporto agli effetti che si
produrrebbero a seguito di una (eventuale) vittoria dei “sì”, poiché, in tale
ipotesi, rimarrebbero in vita esclusivamente quelle disposizioni normative che,
pur risultando «indissolubilmente legate a quelle che, invece, si vorrebbero
sopprimere», non sono state sottoposte a consultazione popolare[10].
Ma a quel punto la loro portata prescrittiva risulterebbe illogica o comunque incoerente
rispetto al mutato contesto normativo.
6.1.1. «Completezza» del quesito ed espressione della volontà
popolare
Senonché, sotto il primo profilo, va detto che, volendo considerare i fenomeni in
maniera realistica, è forzato sostenere che chi partecipa ad una consultazione
referendaria valuti, nel momento in cui esprime la sua volontà (ed ancor prima
sia posto in grado di conoscere con esattezza) anche ciò che non gli viene chiesto. E quindi si faccia
influenzare, nella sua scelta favorevole o contraria all’abrogazione, dal fatto
che la domanda che gli viene rivolta non comprende altre disposizioni, o
persino «porzioni normative anche brevissime»[11],
magari dettate, come è pacifico nella ricostruzione proposta dal giudice
dell’ammissibilità[12],
in un diverso contesto formale.
Vero è, invece – come precisato, peraltro, dalla stessa Consulta, in
molteplici occasioni – che la scelta che viene compiuta riguarda non tanto ogni
singola norma che è inclusa (o non inclusa) nel quesito abrogativo, quanto
piuttosto il comune principio ispiratore che si ricava dal complesso delle
disposizioni sottoposte a referendum[13]:
sicché è in rapporto a tale specifico oggetto che la Corte ha il compito di
garantire la libertà di voto degli elettori, ponendoli in grado di esprimere il
proprio effettivo convincimento senza coartazioni od impedimenti di sorta. Ma
allora, se questo è vero, mentre è ragionevole sostenere che un quesito che
involga princìpi diversi può incidere negativamente
sulla genuinità della volontà espressa, in quanto sommare il carattere
vincolato della scelta a disposizione dell’elettore (sì-no)
con una richiesta «non omogenea» comporta, in effetti, il venir meno del
necessario equilibrio tra articolazione della risposta e complessità della
domanda[14],
non vi è chi non veda come l’assenza di determinate disposizioni non escluda,
al contrario, che il quesito possa esprimere ugualmente il vero oggetto della
decisione popolare (id est: l’unitario
principio legislativo che viene sottoposto al responso delle urne), non
impedendo, pertanto, ai cittadini, di esprimersi, in ogni caso[15],
in maniera libera e consapevole. Di modo che, per concludere sul punto, non mi
pare convincente il richiamo che la Corte opera, anche oggi, al fine di
giustificare il ricorso al limite in oggetto, all’esigenza di garantire la
«chiarezza» del quesito e quindi di preservare il diritto sancito dall’art. 48
Cost., dato che l’applicazione di tale criterio non discende, se ben si
considera, da un’esigenza effettiva di evitare lesioni della libertà di voto
degli elettori – né appare, tanto meno, ricollegabile alla struttura logica
dello strumento abrogativo – derivando, piuttosto, da una ricostruzione del
determinarsi della volontà popolare che risulta, come s’è visto, discutibile.
6.1.2. «Completezza» del
quesito e normativa di risulta
Venendo, ora, alla seconda delle ragioni che vengono usualmente
prospettate dal giudice costituzionale allo scopo di motivare l’utilizzo del
canone in parola, ritengo che la dichiarazione di inammissibilità di una richiesta
(ritenuta) «incompleta» non risulti giustificata neppure sotto il diverso
profilo degli effetti ultimi che si determinerebbero a seguito di un eventuale
esito positivo della consultazione referendaria.
Al riguardo, infatti, occorre rilevare che tra le disposizioni sottoposte
a referendum e quelle che, secondo la Consulta, dovevano esserlo, esiste
(rectius:
deve esistere) una precisa relazione. Poiché, si noti, qualora queste ultime
non fossero espressione del medesimo «principio informatore» che è sotteso alla
normativa abroganda, la censura del giudice
dell’ammissibilità si risolverebbe in una pretesa in palese contrasto con una
parte importante della sua consolidata giurisprudenza, richiedendosi, infatti,
ai promotori di comprendere in un unico quesito disposizioni che risultano
eterogenee e quindi di dar vita, in ultima analisi, ad una richiesta abrogativa
che verrebbe sicuramente dichiarata inammissibile.
Ebbene, se questa è la relazione necessaria intercorrente tra la normativa inclusa e quella
indebitamente esclusa – nel pensiero della Corte – dal quesito referendario, è
evidente che, nella maggior parte dei casi, si determinerà, a seguito di una
vittoria dei “sì”, la caducazione (anche) delle norme che non sono comprese
nella richiesta dei promotori. Dato che, detto più precisamente,
all’abrogazione espressa e diretta delle norme investite dal referendum
farà seguito l’abrogazione tacita ed indiretta (o quanto meno
l’inapplicabilità) di quelle escluse dal quesito – ma alle prime, come afferma
la Corte, «indissolubilmente legate»[16]
– proprio per incompatibilità implicita delle stesse con la ratio
dell’abrogazione popolare. Cosicché, in buona sostanza, un intervento censorio
del giudice dell’ammissibilità appare criticabile, sotto questo profilo, per un
duplice ordine di motivi, e cioè, innanzitutto, perché risulta superfluo, e
dunque ingiustificato, visto che le norme “omesse” sopravvivrebbero solo
formalmente; ed in secondo luogo, perché in tal modo la Consulta anticipa
processi interpretativi che non le competono, invadendo, dunque, attribuzioni
assegnate ad altri poteri dello Stato.
Ma, si dirà, in taluni frangenti, si potrebbe anche
verificare l’ipotesi in cui la normativa di risulta, pur connessa, a vario
titolo, a quella abrogata, conserva, tuttavia – magari solo parzialmente – la
sua applicabilità, non essendo in rapporto di stretta connessione con la
disciplina caducata, nel senso, cioè, di presupporne
l’esistenza o l’efficacia.
Sennonché, anche in relazione a questa specifica
fattispecie è stato da tempo posto in rilievo, da un lato, che il ragionamento
della Corte sconta un errore di prospettiva piuttosto evidente dato che
commisura la coerenza delle norme residue alla stregua della situazione
antecedente al responso popolare mentre l’avvenuta abrogazione dovrebbe indurre
a considerare la materia solo in relazione alle disposizioni non comprese nel
quesito[17];
e, dall’altro, che la censura del giudice costituzionale omette di tenere nella
dovuta considerazione che «il popolo può ben voler determinare una situazione
normativa politicamente inopportuna o carente, proprio per stimolare il
legislatore a modificarla o completarla»[18].
Spetta, infatti, ai competenti organi legislativi dopo l’avvenuta abrogazione –
e non alla Corte costituzionale in sede di giudizio di ammissibilità –
preoccuparsi di eliminare eventuali disarmonie che si manifestino a seguito di
una vittoria dei “si”, riorganizzando la disciplina della materia incisa dal
voto popolare alla luce dell’esito della consultazione referendaria: come
dimostra, del resto, il fatto che l’art. 37, u. c. della legge sul referendum
conferisce, come noto, al
Presidente della Repubblica la facoltà
di ritardare, per un termine non superiore ai sessanta giorni, l’entrata in
vigore dell’effetto abrogativo, proprio per dar tempo al legislatore di
compiere gli interventi ritenuti necessari.
6.2. Altre possibili
obiezioni nei confronti del ricorso al criterio in oggetto
Oltre ai rilievi, sin qui sviluppati, con cui ho cercato di
confutare le ragioni di norma avanzate dalla Corte costituzionale allo scopo di
giustificare il ricorso al criterio della «completezza» delle richieste
referendarie, occorre ora osservare che contro l’applicazione del canone in
esame militano altre obiezioni di vario genere e spessore. Mi limito, in questa
sede, a far riferimento, in estrema sintesi, alle seguenti tre questioni
principali.
6.2.1. Correzione dei quesiti e
ruolo dell’Ufficio centrale
Primo: si deve evidenziare che l’utilizzo del criterio in oggetto produce
effetti negativi sul giudizio che viene svolto dall’Ufficio centrale in ordine
alla legittimità delle richieste abrogative.
Ricordo, infatti, che, soprattutto a partire dal 1993[19],
i magistrati della Corte di cassazione hanno iniziato a “correggere” i quesiti in maniera sempre
più ampia ed incisiva, giungendo, tra l’altro, ad integrare la proposta di
abrogazione tramite l’aggiunta di norme “mancanti”[20].
Così che una parte della dottrina[21]
ha correttamente posto in rilievo che l’Ufficio, in tal modo, sembra perseguire
una propria linea di politica giudiziaria, volta ad “aggiustare” le richieste
presentate dai promotori, sino a far loro raggiungere quella soglia di
ineccepibilità giuridica che la Consulta esige in sede di giudizio di
ammissibilità.
Ora, va detto che questa attività d’integrazione non può dirsi in sintonia
con il compito che la legge affida all’Ufficio della Cassazione[22].
Giacché, a tacer d’altro[23],
si giunge, per tale via, ad un’indebita trasformazione del ruolo assegnato a
tale Ufficio che potrebbe essere sintetizzata dalla formula che segue: da
organo di controllo della richiesta dei promotori ad organo di consulenza nei
confronti della loro iniziativa. E cioè, lo ricordo, di una proposta di referendum
che è stata sin lì semplicemente presentata da una piccola frazione del corpo
elettorale e che mira all’eliminazione di una certa disciplina (non tanto
perché presenti vizi di incostituzionalità, quanto piuttosto) per motivi di
natura squisitamente politica.
6.2.2. Il contrasto
con la giurisprudenza costituzionale in tema di “proseguibilità” delle
operazioni referendarie
Secondo: ritengo incoerente l’utilizzo del criterio in parola rispetto ad alcune
importanti affermazioni che vennero sviluppate, dallo stesso giudice
costituzionale, nella storica sent. n. 68 del 1978,
allorché venne “riscritto” l’art. 39 della legge sul referendum.
In quell’occasione, infatti, la Corte, nel circoscrivere
l’abrogazione “sufficiente” alle sole modifiche della normativa inclusa nel
quesito che innovino «i principi ispiratori della complessiva disciplina
preesistente» oppure «i contenuti normativi essenziali dei singoli precetti»[24],
ritenne ininfluente, ai fini della decisione sulla proseguibilità dell’iter
referendario, il fatto che la nuova disciplina facesse sopravvivere, «entro il nuovo
ordinamento della stessa materia», «contenuti normativi già presenti
nell’ordinamento precedente»[25].
Il che poteva ben significare[26],
«trasferendo il discorso a livello di interpretazione del quesito
referendario», che l’ammissibilità di una proposta abrogativa «non può essere infirmata dalla eventuale (ed
accidentale) permanenza, nell’ordinamento giuridico, di disposizioni di
contenuto analogo a quelle di cui espressamente si chiede la abrogazione»: con
conseguente, inevitabile contrasto tra la giurisprudenza della Corte sul punto
e quella in tema di necessaria «esaustività» delle proposte di referendum presentate dai promotori.
Per quest’aspetto, in altre parole, il ricorso al canone in
esame sembra determinare una sorta di disparità di trattamento tra il
legislatore, che può bloccare le operazioni referendarie pur riproducendo, in
parte, la disciplina compresa nel quesito, ed i promotori della consultazione
popolare, ai quali è imposto, invece[27],
«di fare tabula rasa di ogni pur minimo frammento di disposizione che si
ricolleghi a quelle oggetto di abrogazione»[28].
Potendosi anzi affermare che siffatta discriminazione inizia già dalle premesse
teoriche da cui procede l’elaborazione del requisito in questione, dal momento
che «non sembra giustificato» da alcuna ragione attinente a differenze
ontologiche tra funzione legislativa e potestà referendaria «impedire ai
promotori di referendum ciò che è consentito al legislatore», ovvero
«abrogare ... norme generali senza che ciò comporti l’obbligo di abrogare tutte
le norme speciali che ne siano applicazione particolare»[29].
6.2.3. L’iniziativa
referendaria «nelle mani di pochi»
Terzo: occorre rilevare come alcune conseguenze negative ricollegabili
all’utilizzo del limite de quo
riguardino, più in generale, il “tasso” di democraticità dell’istituto previsto
dall’art. 75 Cost.
L’applicazione del criterio in oggetto complica, infatti,
enormemente la via d’accesso al principale strumento di democrazia diretta che
è previsto dal nostro ordinamento poiché consegna, di fatto, l’iniziativa
referendaria «nelle mani di pochi»: dato che – come è stato bene
sottolineato[30]
– «la stessa formulazione del quesito, per la tecnicità e complessità derivanti
dall’esigenza di una simile “completezza”, sfugge ai cittadini elettori e diviene
monopolio di gruppi o soggetti in grado di elaborarla». E questo, si osservi,
in contrasto col modello prefigurato dai Costituenti, se è vero che essi, al
contrario, hanno rifiutato l’ipotesi di iniziative oligarchiche o anche solo
riconducibili strettamente alla logica delle normali dinamiche interpartitiche,
privilegiando, viceversa, l’idea di «un’iniziativa diffusa» e «cioè saldamente
radicata nella società civile»[31].
Da notare, inoltre, sotto il medesimo profilo, che la
formulazione di un quesito «esaustivo» diviene tanto più problematica quanto
più complessa e ramificata è la disciplina della materia incisa dalla
richiesta. Con la conseguenza, invero paradossale, che i cittadini, già
danneggiati una prima volta dalla scarsa qualità del sistema normativo, lo sono
ancora, una seconda, a causa del medesimo problema, il quale può rendere,
infatti, assai più difficile formulare un quesito «completo» e quindi
ammissibile, e dunque giungere ad esprimere direttamente la propria volontà
tramite referendum[32].
7. Per concludere:
dalla «garanzia costituzionale» alla «pedagogia democratica»
In conclusione, pertanto, mi pare possibile affermare che
se da un lato l’analisi della giurisprudenza del 2011, ed in particolare delle
due dichiarazioni di inammissibilità contenute nelle sentt.
nn. 25 e 27, conferma il
ruolo centrale che riveste il criterio della «completezza» nel panorama dei
limiti usualmente utilizzati dal giudice dell’ammissibilità, dall’altro, i
rilievi sviluppati danno conto di alcune delle ragioni principali che hanno
indotto buona parte della dottrina ad esprimersi, al contrario, in maniera
fortemente critica nei confronti dell’utilizzo di tale canone di giudizio, sino
al punto di definirlo apertamente «sconcertante» o «indifendibile»[33].
Il fatto è, allargando lo sguardo, che tramite il ricorso
al criterio in parola si realizza, in ultima analisi, una duplice torsione.
In primo luogo, infatti, la Corte sembra procedere, in casi
del genere, da un’idea del referendum abrogativo quale strumento che
deve (ed ancor prima è in grado di) risolvere da solo il problema normativo
conseguente ad un eventuale esito positivo della consultazione popolare. Sennonché
questo modo di vedere risponde, se ben si considera, ad una visione
antagonistica e non collaborativa tra i due “tipi” di democrazia che sono
previsti dal nostro ordinamento. Mentre è corretto al contrario affermare che
la Costituzione del ’47 costruisce il rapporto tra funzione legislativa e
potestà referendaria quali momenti che non si contrappongono, ma si integrano
tra loro, in quanto modi diversi di espressione della medesima sovranità
popolare[34].
In secondo luogo, si deve evidenziare[35]
che il ruolo svolto, dalla Corte, in ipotesi siffatte, sembra «trascorrere ... dalla
garanzia costituzionale alla pedagogia democratica», nella misura in cui
l’intervento della Consulta non pare più preordinato alla «tutela di principi
costituzionali intangibili», quanto piuttosto a una sorta di «paternalismo
costituzionale» in nome del quale, in buona sostanza, si intende «preservare il
popolo dalle cattive conseguenze dei suoi atti»: funzione, questa, che va
«affidata», tuttavia, «alla politica», pur con l’ovvio limite del rispetto del
dettato costituzionale, e non può essere svolta, invece, dalla Corte, in sede
di giudizio di ammissibilità.
[1] Per uno spunto, in questo senso, v.
l’odierna sent.
n. 28, al punto 3.2. del Considerato
in diritto.
[2] A nulla rilevando che tali norme
siano oggetto di altre e distinte richieste abrogative, dato che – come è
corretto, peraltro, affermare – la Consulta, «in sede di giudizio di
ammissibilità, deve valutare separatamente ciascun quesito referendario
dichiarato legittimo dall’Ufficio centrale» (in termini l’odierna sent. n. 25, al
punto 5.1. del Considerato in diritto,
ma v. anche, nel medesimo senso, le sentt.
nn. 24, 26 e 27).
[3] Un accenno, in verità, in questo
senso, si legge nella sent. n. 25 (ma
non nella n. 27),
laddove la Corte infatti rileva che «per valutare l’idoneità, la congruità e la
chiarezza del quesito referendario … è necessario: a) individuare l’intento con
esso perseguito; b) individuare la normativa di risulta; c) porre a confronto i
risultati di cui alla predette indagini».
[4] Come avviene, invece, per capirci,
nel caso in cui venga fatta applicazione del criterio dell’«omogeneità», col
quale, infatti, la Consulta – come noto – dichiara inammissibile la richiesta sub iudice per eccesso di norme che non siano
riconducibili ad una «matrice razionalmente unitaria» (volendo utilizzare la
formula contenuta nella sent. n. 16 del
1978).
[5] Oppure, alternativamente, della
«coerenza» (così A. Pace, Inammissibilità
del referendum per incoerenza o per eccessiva elaboratezza del quesito?,
in Giur. cost. 1981, I, 174),
«congruenza» (cfr. G. Gemma, «Omogeneità
delle richieste» e referendum sulla caccia: cattiva utilizzazione di un
giusto criterio, ivi, 1044) od «esaustività» (R. Pinardi, Giudizio
di ammissibilità e razionalità delle richieste di referendum, in Dir. e
soc. 1988, 633 ss.) del quesito abrogativo.
[6] Per una disamina dei sedici
precedenti mi sia concesso rinviare a R. Pinardi, La
«completezza» delle richieste referendarie: un criterio da abbandonare, in Aa.Vv., Scritti in memoria di Livio Paladin,
III, Napoli, 2004, 1623-1638.
[7] V. infatti, in tal senso, le sentt.
nn. 24, 26, 28 e 29 del 2011, ai
punti, rispettivamente, 5.2, 5.2, 3.2 e 2.2 del Considerato in diritto.
[8] Rinvio, quindi, sin d’ora, per
riflessioni più articolate, a R. Pinardi, La
«completezza», cit., spec. 1640 ss.
[9] In termini Corte costituzionale, sent. n. 27 del
1981, in Giur. cost. 1981, I, 172 ss. Molto
chiaramente, nel medesimo senso, v. ad esempio la sent. n. 47 del
1991, ivi 1991, 321, nella quale
si legge, infatti, che l’esigenza di chiarezza del quesito abrogativo può
venire compromessa da richieste che omettano di includere, nello stesso,
«porzioni normative anche brevissime», dato che «queste – di per sé destinate a
perdere ogni ragione di sopravvivenza nell’eventualità di un’abrogazione delle
parti espressamente indicate nel quesito – potrebbero, con il loro mantenimento
formale durante il vaglio referendario, suscitare dubbi sull’effettivo intento
dei promotori» e quindi compromettere «la chiarezza dell’intera operazione
referendaria».
[10] Cfr. ancora Corte costituzionale, sent. n. 27 del
1981, cit., 172.
[11] Per questa citazione della sent. n. 47 del
1991 v. nota 9.
[12] Ricordo, infatti, che il requisito
della «completezza» delle richieste referendarie si è evoluto da limite
originariamente rivolto ad assicurare l’esaustività delle stesse rispetto
all’unico atto coinvolto dall’iniziativa dei promotori (così, ad esempio, le sentt.
nn. 27 del 1981, 28 del 1987 e 47 del 1991), a
vincolo che comporta l’inammissibilità del quesito ogniqualvolta questo non
comprenda una o più disposizioni legislative che rispondano al medesimo
principio ispiratore: ovunque, quindi, tali disposizioni risultino collocate
nell’ordinamento legislativo (ciò è chiaro, in particolar modo, a partire dalle
sentt. nn. 34 e 36 del 1993).
[13] Ė la famosa «matrice
razionalmente unitaria» di cui la Corte parla – pur utilizzando, talvolta,
terminologie diverse – a partire dalla sent. n. 16 del
1978: per un tentativo di precisare i contorni sfuggenti di questa nozione
cfr., volendo, R. Pinardi,
L’Ufficio centrale per il referendum presso la Corte di cassazione,
Milano, 2000, spec. 314 ss.
[14] Si tratta, quindi, per dirla con le
parole di Vezio Crisafulli,
di «un limite, prima ancora che di diritto positivo, di ordine logico»
all’esplicazione della potestà referendaria: così V. Crisafulli, In tema di
limiti al referendum, in Giur. cost.
1978, I, 163; Id., Lezioni di
diritto costituzionale, Padova, 1984, II, 103-104.
[15] A prescindere, se si vuole,
dall’ipotesi estrema in cui una richiesta risulti talmente carente di
disposizioni da non consentire neppure l’individuazione del principio su cui
gli elettori sono chiamati a pronunciarsi.
[16] Così, infatti, la (più volte)
menzionata sent.
n. 27 del 1981, cit., 172.
[17] Cfr. ad esempio, in questo senso, F. Gabriele, Profili evolutivi della
giurisprudenza costituzionale sui limiti all’ammissibilità del referendum abrogativo,
in Giur. it.
1981, I, 1, 1203; e F. Modugno, Rassegna
critica delle sentenze sul referendum, in Giur.
cost. 1981, I, 2113.
[18] Così F.
Modugno, Rassegna critica, cit., 2114: per quest’aspetto, quindi,
l’intervento censorio della Corte costituzionale appare «invasivo ... delle
competenze di promotori, sottoscrittori e votanti» (ibidem, 2113). Cfr.,
in senso analogo, M. Luciani,
La nuova giurisprudenza sul referendum.
L’esempio della sentenza n. 22 del 1981, in Giur.
cost. 1981, I, 453 (con tesi riproposta in Id., Commento
all’art. 75, in G. Branca (già
diretto da ) A. Pizzorusso
(continuato da), Commentario della
Costituzione, Bologna-Roma, 2005, 428) il quale
ritiene ingiustificato impedire che una richiesta referendaria possa perseguire
«l’opzione mediana consistente nell’eliminazione di una sola parte delle norme
da cui il principio si desume, e nella conservazione di un’altra quota delle
stesse, che pur costituendo applicazione o specificazione di quel principio,
potrebbe essere (secondo i promotori) tuttavia opportuno mantenere in vita».
[19] Come rilevato, per primo, da P. Carnevale, La Corte e il referendum: un nuovo atto, in Giur. cost. 1993, 2264 ss.
[20] Per le opportune esemplificazioni e
per un’analisi più dettagliata della vicenda sinteticamente descritta nel testo
mi sia permesso rinviare a R. Pinardi, L’Ufficio centrale, cit., spec. 175
ss.
[21] Cfr. tra gli altri, in tema, A. Cariola, Osservazioni
sul ruolo dell’Ufficio centrale nel procedimento referendario in una fase
istituzionale che assume i contorni della stagione costituente, in Foro it. 1994, I, 2733; E.
Malfatti, Il giudizio di ammissibilità del referendum
abrogativo, in R. Romboli
(a cura di), Aggiornamenti in tema di processo costituzionale
(1993-1995), Torino, 1996, 453-455; R. Nania, Il giudizio di ammissibilità del
referendum abrogativo tra «eccezionalità» e «normalità» dei circuiti di
democrazia diretta, in Aa.Vv.,
Il giudizio di ammissibilità del referendum
abrogativo. Atti del Seminario svoltosi in Roma Palazzo della Consulta nei
giorni 5 e 6 luglio 1996, Milano, 1998, 219; ed A. Pertici, Il
giudizio di ammissibilità del referendum
abrogativo, in R. Romboli
(a cura di), Aggiornamenti in tema di processo costituzionale (1996-1998),
Torino, 1999, 468 e 498.
[22] Cfr. ad esempio, in senso analogo, M. Luciani, Commento all’art. 75, cit., 423, nota 1.
[23] V. infatti, amplius,
le argomentazioni sviluppate in R. Pinardi, L’Ufficio centrale, cit., 185 ss. e
488 ss.
[24] Testualmente Corte costituzionale, sent. n. 68 del
1978, in Giur. cost. 1978, I, 588.
[25] Cfr. ancora Corte costituzionale, sent. n. 68 del
1978, cit., 587.
[26] Come prontamente posto in rilievo da
A. Pace, Inammissibilità del
referendum, cit., 174 (in senso adesivo cfr. ad esempio F. Modugno, Rassegna critica, cit., 2093).
[27] Va aggiunto: nella normalità dei
casi, se si vuol tener conto dell’ipotesi, per molti versi peculiare, dei referendum
in materia elettorale (i quali, come noto, devono dar vita, per risultare
ammissibili, ad una disciplina di risulta immediatamente applicabile). In tema,
ampiamente e per tutti, v. il recente studio monografico di A. Gigliotti, L'ammissibilità dei referendum in materia elettorale, Milano, 2009.
[28] In termini F. Sorrentino, Referendum elettorali ed «omogeneità»,
in Giur. cost. 1991, 1541.
[29] Così M.
Luciani, La nuova giurisprudenza, cit.,
453.
[30] Da L.
Carlassare, Considerazioni su principio
democratico e referendum abrogativo, in Aa.Vv., Il giudizio di
ammissibilità, cit., 137 (corsivo testuale).
[31] Come bene sintetizza P. Ridola, Brevi
note sul rapporto tra referendum e parlamentarismo alla luce della
giurisprudenza costituzionale, in Aa.Vv., Il giudizio di
ammissibilità, cit., 222.
[32] Cfr., in senso analogo, L. Paladin, Profili
problematici della giurisprudenza costituzionale sull’ammissibilità del referendum, in Aa.Vv., Il giudizio di
ammissibilità, cit., 17, il quale sottolinea la
contraddizione che si determina proprio a causa dell’applicazione del limite
della «completezza», dato che, con il ricorso a tale criterio, si fa «dipendere
l’ammissibilità del referendum dalle stesse imperfezioni di un
ordinamento iper-legificato del tipo italiano,
rispetto alle quali», tuttavia, «il voto popolare abrogativo dovrebbe, o
potrebbe, rappresentare un rimedio».
[33] Nel primo senso, infatti, M. Luciani, Omogeneità e manipolatività
delle richieste di referendum abrogativo
tra libertà del voto e rispetto del principio rappresentativo, in Aa.Vv., Il
giudizio di ammissibilità, cit., 75; nel secondo B. Caravita, I referendum: minaccia
o risorsa democratica?, ivi, 159.
[34] In tema cfr., ex plurimis, N. Bobbio, Democrazia rappresentativa e democrazia
diretta, in G. Quazza
(a cura di), Democrazia e partecipazione, Torino, 1978, 19 ss. e spec.
32
[35] Utilizzando le parole di G. Silvestri, Il popolo sotto tutela:
garanzia formale e criterio della ragionevolezza nella conformazione
giurisprudenziale del diritto al referendum, in Aa.Vv., Il giudizio di
ammissibilità, cit., 237-240 (corsivo testuale).