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ROBERTO PINARDI

ANCORA SULLA «COMPLETEZZA» DELLE RICHIESTE REFERENDARIE

 

Sommario: 1. Premessa.- 2. La ratio decidendi delle sentt. nn. 25 e 27 del 2011.-  3. La logica … tautologica delle pronunce in esame.- 4. Affermazioni di principio e contenuto sostanziale del ragionamento svolto dalla Corte. - 5. Le odierne dichiarazioni di inammissibilità quale (ennesima) applicazione del criterio della «completezza» delle richieste referendarie.- 6. Un canone di giudizio che presta il fianco a numerosi rilievi.- 6.1. Analisi critica delle argomentazioni usualmente sviluppate dal giudice costituzionale a sostegno dell’utilizzo del limite de quo.- 6.1.1. «Completezza» del quesito ed espressione della volontà popolare.- 6.1.2. «Completezza»  del quesito e normativa di risulta.- 6.2. Altre possibili obiezioni nei confronti del ricorso al criterio in oggetto.- 6.2.1. Correzione dei quesiti e ruolo dell’Ufficio centrale.- 6.2.2. Il contrasto con la giurisprudenza costituzionale in tema di “proseguibilità” delle operazioni referendarie.- 6.2.3. L’iniziativa referendaria «nelle mani di pochi».- 7. Per concludere: dalla «garanzia costituzionale» alla «pedagogia democratica».

 

1. Premessa

La giurisprudenza costituzionale relativa alla tornata referendaria del 2011 sollecita qualche breve considerazione che prende spunto dall’analisi del criterio utilizzato dalla Consulta per dichiarare inammissibili le richieste esaminate con le sentt. nn. 25 e 27.

 

2. La ratio decidendi delle sentt. nn. 25 e 27 del 2011

Nella prima delle pronunce menzionate la Corte, dopo aver evidenziato che la «richiesta referendaria è atto privo di motivazione, sicché l’obiettivo dei sottoscrittori va desunto non da una loro dichiarazione d’intenti, ma soltanto dalla finalità incorporata nel quesito», ha censurato la richiesta sub iudice in quanto relativa unicamente all’art. 150 del codice dell’ambiente e non all’art. 23-bis del d. l. n. 112 del 2008 (convertito, con modificazioni, dalla l. n. 133 dello stesso anno). E questo perché, nel pensiero del giudice costituzionale, siffatta mancata inclusione rendeva il quesito «inidoneo e non coerente (con conseguente difetto di chiarezza) rispetto al fine, che l’iniziativa referendaria si propone, di rendere inapplicabile al servizio idrico integrato la disciplina delle modalità di affidamento della gestione dei servizi pubblici locali a rilevanza economica».

Analogamente, con la sent. n. 27, viene dichiarato inammissibile un quesito in quanto non avente ad oggetto la «complessiva disciplina delle modalità di affidamento della gestione dei servizi pubblici locali di rilevanza economica (ivi compreso il servizio idrico integrato), ma solo frammenti di disposizioni non idonei ad incidere in modo significativo su di essa». Di modo che la Consulta, dopo aver ribadito che «la richiesta referendaria è atto privo di motivazione e, pertanto, l’intento dei sottoscrittori del referendum va desunto … esclusivamente dalla finalità “incorporata nel quesito”», respinge la richiesta in parola rilevando che la stessa – se confrontata, per l’appunto, con lo scopo dei sottoscrittori – risultava «obiettivamente priv[a] di univocità e chiarezza e, quindi, inammissibile».

 

3. La logica … tautologica delle pronunce in esame

Un primo motivo di perplessità rispetto al modus argomentandi testé sintetizzato è di carattere squisitamente logico: mi domando, cioè, prendendo sul serio l’affermazione della Corte secondo cui l’intento dei sottoscrittori va ricavato esclusivamente dall’esame obiettivo della normativa sottoposta al vaglio popolare, come possa poi verificarsi che tale intento risulti incoerente rispetto al tentativo di eliminare quella stessa disciplina da cui si ricava, giustappunto, il fine ultimo della richiesta.

Un conto, infatti, è comparare l’efficacia delle abrogazioni proposte con quanto dichiarato aliunde dai promotori, o con lo scopo dell’iniziativa quale si ricava dal “titolo” assegnato al quesito dall’Ufficio centrale[1], ecc.: confrontando, cioè, gli effetti che produrrebbe un’eventuale vittoria dei “sì”, quali si desumono dall’analisi della disciplina interessata dalla richiesta di referendum, con elementi esterni alla stessa.

Un altro, invece, è evincere l’intento dei sottoscrittori unicamente dall’esame, interno al quesito, della normativa ivi contenuta, per poi giungere alla conclusione che la proposta di eliminare tale disciplina risulta incoerente con il fine di provocare, tramite il voto popolare, … la sua abrogazione. Sicché, detto altrimenti, non può certo stupire se per tale via la Corte giunge, in qualche occasione, ad applicazioni del criterio de quo che potrebbero definirsi tautologiche, come quando, sul finire della sent. n. 24 – e per escludere, questa volta, l’esistenza del vizio in oggetto – la Consulta evidenzia la perfetta congruenza tra lo scopo dei promotori, che viene desunto dal quesito, «di escludere l’applicazione delle norme contenute nell’art. 23-bis» d. l. cit. e la «richiesta referendaria di abrogare» tale disposizione (ci si chiede: come poteva essere diversamente?).

 

4. Affermazioni di principio e contenuto sostanziale del ragionamento svolto dalla Corte

Il fatto è che, nonostante l’affermazione, poc’anzi riportata, secondo cui, in casi del genere, la disamina operata dalla Corte viene tutta condotta all’interno del quesito referendario, la struttura argomentativa che caratterizza le pronunce in parola risulta, se ben si considera, di altro tenore.

Come s’è visto, infatti, la censura che viene mossa dalla Corte alle richieste di abrogazione popolare procede, in entrambe le ipotesi considerate, da una forte sottolineatura critica nei confronti di una mancanza di norme che avrebbero dovuto, al contrario, essere ricomprese nel quesito esaminato[2]: con conseguente, pretesa compromissione della «chiarezza» della domanda abrogativa che viene rivolta al corpo referendario. La Consulta, in altre parole, non si limita affatto, nelle sentenze in parola, a controllare, come affermato, la richiesta dall’interno, prendendo in considerazione, cioè, esclusivamente quello che essa contiene, ma ne sindaca, a ben vedere, la «razionalità» (anche) dall’esterno[3], e cioè con riferimento a quello che, pur non dovendolo, esclude. Muovendo, quindi, da un’analisi complessiva della disciplina che regola la materia interessata dall’iniziativa dei promotori per poi giungere a sanzionare non tanto un comportamento attivo degli stessi[4], quanto piuttosto un fatto omissivo che si estrinseca nell’esclusione di norme che andavano viceversa coinvolte nel quesito referendario.

 

5. Le odierne dichiarazioni di inammissibilità quale (ennesima) applicazione del criterio della «completezza» delle richieste referendarie

Si tratta, in buona sostanza – guardando non tanto alle affermazioni di principio quanto piuttosto al contenuto sostanziale del ragionamento sviluppato dal giudice dell’ammissibilità – dell’ennesima applicazione del criterio della «completezza»[5] delle richieste referendarie. Il quale, pertanto, assume, anche in questa tornata, un ruolo centrale nella giurisprudenza della Corte, se è vero non soltanto che la stessa ha basato, come s’è detto, esclusivamente sulla carenza di tale requisito le uniche due dichiarazioni di inammissibilità adottate nella fattispecie – portando quindi a diciotto il numero complessivo dei quesiti respinti applicando (anche o solamente) tale criterio[6] – ma che è ricorsa al canone in oggetto anche per comprovare l’ammissibilità di tutte le altre richieste esaminate[7], secondo uno schema di giudizio ormai classico che prevede, dapprima, la verifica del rispetto del limite materiale di cui all’art. 75, comma 2, Cost., per poi passare ad escludere vizi attinenti alla formulazione della domanda abrogativa, ivi compresi, per l’appunto, difetti che si manifestino sotto il profilo della necessaria «esaustività» del quesito formulato dai promotori.

 

6. Un canone di giudizio che presta il fianco a numerosi rilievi

L’utilizzo di questo criterio presta il fianco, a parere di chi scrive, a vari rilievi. Sintetizzo, di seguito, le obiezioni che mi paiono più significative, riprendendo, ma anche precisando quanto già evidenziato, al riguardo, in una precedente occasione[8].

 

6.1. Analisi critica delle argomentazioni usualmente sviluppate dal giudice costituzionale a sostegno dell’utilizzo del limite de quo

Innanzitutto, mi pare possibile sostenere che le due principali ragioni su cui da sempre la Corte fa leva per argomentare la necessità di dichiarare inammissibili richieste «incomplete» risultano tutt’altro che insuperabili. Secondo la Consulta, infatti:

(A) la mancata inclusione di una o più norme all’interno del quesito può incidere negativamente sulla sua «chiarezza», dato che, in ipotesi siffatte, può determinarsi un’insanabile «contraddizione fra la richiesta di abrogazione di una disciplina e la mancata richiesta di abrogazione di altre disposizioni dettate nel medesimo contesto normativo»: tale contraddizione, pertanto, fuorvierebbe la scelta dell’elettore incidendo, negativamente, sulla sua «libertà di voto»[9].

(B) il quesito è censurabile anche in rapporto agli effetti che si produrrebbero a seguito di una (eventuale) vittoria dei “sì”, poiché, in tale ipotesi, rimarrebbero in vita esclusivamente quelle disposizioni normative che, pur risultando «indissolubilmente legate a quelle che, invece, si vorrebbero sopprimere», non sono state sottoposte a consultazione popolare[10]. Ma a quel punto la loro portata prescrittiva risulterebbe illogica o comunque incoerente rispetto al mutato contesto normativo.

 

6.1.1. «Completezza» del quesito ed espressione della volontà popolare

Senonché, sotto il primo profilo, va detto che, volendo considerare i fenomeni in maniera realistica, è forzato sostenere che chi partecipa ad una consultazione referendaria valuti, nel momento in cui esprime la sua volontà (ed ancor prima sia posto in grado di conoscere con esattezza) anche ciò che non gli viene chiesto. E quindi si faccia influenzare, nella sua scelta favorevole o contraria all’abrogazione, dal fatto che la domanda che gli viene rivolta non comprende altre disposizioni, o persino «porzioni normative anche brevissime»[11], magari dettate, come è pacifico nella ricostruzione proposta dal giudice dell’ammissibilità[12], in un diverso contesto formale.

Vero è, invece – come precisato, peraltro, dalla stessa Consulta, in molteplici occasioni – che la scelta che viene compiuta riguarda non tanto ogni singola norma che è inclusa (o non inclusa) nel quesito abrogativo, quanto piuttosto il comune principio ispiratore che si ricava dal complesso delle disposizioni sottoposte a referendum[13]: sicché è in rapporto a tale specifico oggetto che la Corte ha il compito di garantire la libertà di voto degli elettori, ponendoli in grado di esprimere il proprio effettivo convincimento senza coartazioni od impedimenti di sorta. Ma allora, se questo è vero, mentre è ragionevole sostenere che un quesito che involga princìpi diversi può incidere negativamente sulla genuinità della volontà espressa, in quanto sommare il carattere vincolato della scelta a disposizione dell’elettore (sì-no) con una richiesta «non omogenea» comporta, in effetti, il venir meno del necessario equilibrio tra articolazione della risposta e complessità della domanda[14], non vi è chi non veda come l’assenza di determinate disposizioni non escluda, al contrario, che il quesito possa esprimere ugualmente il vero oggetto della decisione popolare (id est: l’unitario principio legislativo che viene sottoposto al responso delle urne), non impedendo, pertanto, ai cittadini, di esprimersi, in ogni caso[15], in maniera libera e consapevole. Di modo che, per concludere sul punto, non mi pare convincente il richiamo che la Corte opera, anche oggi, al fine di giustificare il ricorso al limite in oggetto, all’esigenza di garantire la «chiarezza» del quesito e quindi di preservare il diritto sancito dall’art. 48 Cost., dato che l’applicazione di tale criterio non discende, se ben si considera, da un’esigenza effettiva di evitare lesioni della libertà di voto degli elettori – né appare, tanto meno, ricollegabile alla struttura logica dello strumento abrogativo – derivando, piuttosto, da una ricostruzione del determinarsi della volontà popolare che risulta, come s’è visto, discutibile.

 

6.1.2. «Completezza»  del quesito e normativa di risulta

Venendo, ora, alla seconda delle ragioni che vengono usualmente prospettate dal giudice costituzionale allo scopo di motivare l’utilizzo del canone in parola, ritengo che la dichiarazione di inammissibilità di una richiesta (ritenuta) «incompleta» non risulti giustificata neppure sotto il diverso profilo degli effetti ultimi che si determinerebbero a seguito di un eventuale esito positivo della consultazione referendaria.

Al riguardo, infatti, occorre rilevare che tra le disposizioni sottoposte a referendum e quelle che, secondo la Consulta, dovevano esserlo, esiste (rectius: deve esistere) una precisa relazione. Poiché, si noti, qualora queste ultime non fossero espressione del medesimo «principio informatore» che è sotteso alla normativa abroganda, la censura del giudice dell’ammissibilità si risolverebbe in una pretesa in palese contrasto con una parte importante della sua consolidata giurisprudenza, richiedendosi, infatti, ai promotori di comprendere in un unico quesito disposizioni che risultano eterogenee e quindi di dar vita, in ultima analisi, ad una richiesta abrogativa che verrebbe sicuramente dichiarata inammissibile.

Ebbene, se questa è la relazione necessaria intercorrente tra la normativa inclusa e quella indebitamente esclusa – nel pensiero della Corte – dal quesito referendario, è evidente che, nella maggior parte dei casi, si determinerà, a seguito di una vittoria dei “sì”, la caducazione (anche) delle norme che non sono comprese nella richiesta dei promotori. Dato che, detto più precisamente, all’abrogazione espressa e diretta delle norme investite dal referendum farà seguito l’abrogazione tacita ed indiretta (o quanto meno l’inapplicabilità) di quelle escluse dal quesito – ma alle prime, come afferma la Corte, «indissolubilmente legate»[16] – proprio per incompatibilità implicita delle stesse con la ratio dell’abrogazione popolare. Cosicché, in buona sostanza, un intervento censorio del giudice dell’ammissibilità appare criticabile, sotto questo profilo, per un duplice ordine di motivi, e cioè, innanzitutto, perché risulta superfluo, e dunque ingiustificato, visto che le norme “omesse” sopravvivrebbero solo formalmente; ed in secondo luogo, perché in tal modo la Consulta anticipa processi interpretativi che non le competono, invadendo, dunque, attribuzioni assegnate ad altri poteri dello Stato.

Ma, si dirà, in taluni frangenti, si potrebbe anche verificare l’ipotesi in cui la normativa di risulta, pur connessa, a vario titolo, a quella abrogata, conserva, tuttavia – magari solo parzialmente – la sua applicabilità, non essendo in rapporto di stretta connessione con la disciplina caducata, nel senso, cioè, di presupporne l’esistenza o l’efficacia.

Sennonché, anche in relazione a questa specifica fattispecie è stato da tempo posto in rilievo, da un lato, che il ragionamento della Corte sconta un errore di prospettiva piuttosto evidente dato che commisura la coerenza delle norme residue alla stregua della situazione antecedente al responso popolare mentre l’avvenuta abrogazione dovrebbe indurre a considerare la materia solo in relazione alle disposizioni non comprese nel quesito[17]; e, dall’altro, che la censura del giudice costituzionale omette di tenere nella dovuta considerazione che «il popolo può ben voler determinare una situazione normativa politicamente inopportuna o carente, proprio per stimolare il legislatore a modificarla o completarla»[18]. Spetta, infatti, ai competenti organi legislativi dopo l’avvenuta abrogazione – e non alla Corte costituzionale in sede di giudizio di ammissibilità – preoccuparsi di eliminare eventuali disarmonie che si manifestino a seguito di una vittoria dei “si”, riorganizzando la disciplina della materia incisa dal voto popolare alla luce dell’esito della consultazione referendaria: come dimostra, del resto, il fatto che l’art. 37, u. c. della legge sul referendum conferisce, come noto, al Presidente della Repubblica la facoltà di ritardare, per un termine non superiore ai sessanta giorni, l’entrata in vigore dell’effetto abrogativo, proprio per dar tempo al legislatore di compiere gli interventi ritenuti necessari.

 

6.2. Altre possibili obiezioni nei confronti del ricorso al criterio in oggetto

Oltre ai rilievi, sin qui sviluppati, con cui ho cercato di confutare le ragioni di norma avanzate dalla Corte costituzionale allo scopo di giustificare il ricorso al criterio della «completezza» delle richieste referendarie, occorre ora osservare che contro l’applicazione del canone in esame militano altre obiezioni di vario genere e spessore. Mi limito, in questa sede, a far riferimento, in estrema sintesi, alle seguenti tre questioni principali.

 

6.2.1. Correzione dei quesiti e ruolo dell’Ufficio centrale

Primo: si deve evidenziare che l’utilizzo del criterio in oggetto produce effetti negativi sul giudizio che viene svolto dall’Ufficio centrale in ordine alla legittimità delle richieste abrogative.

Ricordo, infatti, che, soprattutto a partire dal 1993[19], i magistrati della Corte di cassazione hanno iniziato a “correggere” i quesiti in maniera sempre più ampia ed incisiva, giungendo, tra l’altro, ad integrare la proposta di abrogazione tramite l’aggiunta di norme “mancanti”[20]. Così che una parte della dottrina[21] ha correttamente posto in rilievo che l’Ufficio, in tal modo, sembra perseguire una propria linea di politica giudiziaria, volta ad “aggiustare” le richieste presentate dai promotori, sino a far loro raggiungere quella soglia di ineccepibilità giuridica che la Consulta esige in sede di giudizio di ammissibilità.

Ora, va detto che questa attività d’integrazione non può dirsi in sintonia con il compito che la legge affida all’Ufficio della Cassazione[22]. Giacché, a tacer d’altro[23], si giunge, per tale via, ad un’indebita trasformazione del ruolo assegnato a tale Ufficio che potrebbe essere sintetizzata dalla formula che segue: da organo di controllo della richiesta dei promotori ad organo di consulenza nei confronti della loro iniziativa. E cioè, lo ricordo, di una proposta di referendum che è stata sin lì semplicemente presentata da una piccola frazione del corpo elettorale e che mira all’eliminazione di una certa disciplina (non tanto perché presenti vizi di incostituzionalità, quanto piuttosto) per motivi di natura squisitamente politica.

 

6.2.2. Il contrasto con la giurisprudenza costituzionale in tema di “proseguibilità” delle operazioni referendarie

Secondo: ritengo incoerente l’utilizzo del criterio in parola rispetto ad alcune importanti affermazioni che vennero sviluppate, dallo stesso giudice costituzionale, nella storica sent. n. 68 del 1978, allorché venne “riscritto” l’art. 39 della legge sul referendum.

In quell’occasione, infatti, la Corte, nel circoscrivere l’abrogazione “sufficiente” alle sole modifiche della normativa inclusa nel quesito che innovino «i principi ispiratori della complessiva disciplina preesistente» oppure «i contenuti normativi essenziali dei singoli precetti»[24], ritenne ininfluente, ai fini della decisione sulla proseguibilità dell’iter referendario, il fatto che la nuova disciplina facesse sopravvivere, «entro il nuovo ordinamento della stessa materia», «contenuti normativi già presenti nell’ordinamento precedente»[25]. Il che poteva ben significare[26], «trasferendo il discorso a livello di interpretazione del quesito referendario», che l’ammissibilità di una proposta abrogativa «non  può essere infirmata dalla eventuale (ed accidentale) permanenza, nell’ordinamento giuridico, di disposizioni di contenuto analogo a quelle di cui espressamente si chiede la abrogazione»: con conseguente, inevitabile contrasto tra la giurisprudenza della Corte sul punto e quella in tema di necessaria «esaustività» delle proposte di referendum presentate dai promotori.

Per quest’aspetto, in altre parole, il ricorso al canone in esame sembra determinare una sorta di disparità di trattamento tra il legislatore, che può bloccare le operazioni referendarie pur riproducendo, in parte, la disciplina compresa nel quesito, ed i promotori della consultazione popolare, ai quali è imposto, invece[27], «di fare tabula rasa di ogni pur minimo frammento di disposizione che si ricolleghi a quelle oggetto di abrogazione»[28]. Potendosi anzi affermare che siffatta discriminazione inizia già dalle premesse teoriche da cui procede l’elaborazione del requisito in questione, dal momento che «non sembra giustificato» da alcuna ragione attinente a differenze ontologiche tra funzione legislativa e potestà referendaria «impedire ai promotori di referendum ciò che è consentito al legislatore», ovvero «abrogare ... norme generali senza che ciò comporti l’obbligo di abrogare tutte le norme speciali che ne siano applicazione particolare»[29]. 

 

6.2.3. L’iniziativa referendaria «nelle mani di pochi»

Terzo: occorre rilevare come alcune conseguenze negative ricollegabili all’utilizzo del limite de quo riguardino, più in generale, il “tasso” di democraticità dell’istituto previsto dall’art. 75 Cost.

L’applicazione del criterio in oggetto complica, infatti, enormemente la via d’accesso al principale strumento di democrazia diretta che è previsto dal nostro ordinamento poiché consegna, di fatto, l’iniziativa referendaria «nelle mani di pochi»: dato che – come è stato bene sottolineato[30] – «la stessa formulazione del quesito, per la tecnicità e complessità derivanti dall’esigenza di una simile “completezza”, sfugge ai cittadini elettori e diviene monopolio di gruppi o soggetti in grado di elaborarla». E questo, si osservi, in contrasto col modello prefigurato dai Costituenti, se è vero che essi, al contrario, hanno rifiutato l’ipotesi di iniziative oligarchiche o anche solo riconducibili strettamente alla logica delle normali dinamiche interpartitiche, privilegiando, viceversa, l’idea di «un’iniziativa diffusa» e «cioè saldamente radicata nella società civile»[31].

Da notare, inoltre, sotto il medesimo profilo, che la formulazione di un quesito «esaustivo» diviene tanto più problematica quanto più complessa e ramificata è la disciplina della materia incisa dalla richiesta. Con la conseguenza, invero paradossale, che i cittadini, già danneggiati una prima volta dalla scarsa qualità del sistema normativo, lo sono ancora, una seconda, a causa del medesimo problema, il quale può rendere, infatti, assai più difficile formulare un quesito «completo» e quindi ammissibile, e dunque giungere ad esprimere direttamente la propria volontà tramite referendum[32].

 

7. Per concludere: dalla «garanzia costituzionale» alla «pedagogia democratica»

In conclusione, pertanto, mi pare possibile affermare che se da un lato l’analisi della giurisprudenza del 2011, ed in particolare delle due dichiarazioni di inammissibilità contenute nelle sentt. nn. 25 e 27, conferma il ruolo centrale che riveste il criterio della «completezza» nel panorama dei limiti usualmente utilizzati dal giudice dell’ammissibilità, dall’altro, i rilievi sviluppati danno conto di alcune delle ragioni principali che hanno indotto buona parte della dottrina ad esprimersi, al contrario, in maniera fortemente critica nei confronti dell’utilizzo di tale canone di giudizio, sino al punto di definirlo apertamente «sconcertante» o «indifendibile»[33].

Il fatto è, allargando lo sguardo, che tramite il ricorso al criterio in parola si realizza, in ultima analisi, una duplice torsione.

In primo luogo, infatti, la Corte sembra procedere, in casi del genere, da un’idea del referendum abrogativo quale strumento che deve (ed ancor prima è in grado di) risolvere da solo il problema normativo conseguente ad un eventuale esito positivo della consultazione popolare. Sennonché questo modo di vedere risponde, se ben si considera, ad una visione antagonistica e non collaborativa tra i due “tipi” di democrazia che sono previsti dal nostro ordinamento. Mentre è corretto al contrario affermare che la Costituzione del ’47 costruisce il rapporto tra funzione legislativa e potestà referendaria quali momenti che non si contrappongono, ma si integrano tra loro, in quanto modi diversi di espressione della medesima sovranità popolare[34].

In secondo luogo, si deve evidenziare[35] che il ruolo svolto, dalla Corte, in ipotesi siffatte, sembra «trascorrere ... dalla garanzia costituzionale alla pedagogia democratica», nella misura in cui l’intervento della Consulta non pare più preordinato alla «tutela di principi costituzionali intangibili», quanto piuttosto a una sorta di «paternalismo costituzionale» in nome del quale, in buona sostanza, si intende «preservare il popolo dalle cattive conseguenze dei suoi atti»: funzione, questa, che va «affidata», tuttavia, «alla politica», pur con l’ovvio limite del rispetto del dettato costituzionale, e non può essere svolta, invece, dalla Corte, in sede di giudizio di ammissibilità.



[1] Per uno spunto, in questo senso, v. l’odierna sent. n. 28, al punto 3.2. del Considerato in diritto.

[2] A nulla rilevando che tali norme siano oggetto di altre e distinte richieste abrogative, dato che – come è corretto, peraltro, affermare – la Consulta, «in sede di giudizio di ammissibilità, deve valutare separatamente ciascun quesito referendario dichiarato legittimo dall’Ufficio centrale» (in termini l’odierna sent. n. 25, al punto 5.1. del Considerato in diritto, ma v. anche, nel medesimo senso, le sentt. nn. 24, 26 e 27).

[3] Un accenno, in verità, in questo senso, si legge nella sent. n. 25 (ma non nella n. 27), laddove la Corte infatti rileva che «per valutare l’idoneità, la congruità e la chiarezza del quesito referendario … è necessario: a) individuare l’intento con esso perseguito; b) individuare la normativa di risulta; c) porre a confronto i risultati di cui alla predette indagini».

[4] Come avviene, invece, per capirci, nel caso in cui venga fatta applicazione del criterio dell’«omogeneità», col quale, infatti, la Consulta – come noto – dichiara inammissibile la richiesta sub iudice per eccesso di norme che non siano riconducibili ad una «matrice razionalmente unitaria» (volendo utilizzare la formula contenuta nella sent. n. 16 del 1978). 

[5] Oppure, alternativamente, della «coerenza» (così A. Pace, Inammissibilità del referendum per incoerenza o per eccessiva elaboratezza del quesito?, in Giur. cost. 1981, I, 174), «congruenza» (cfr. G. Gemma, «Omogeneità delle richieste» e referendum sulla caccia: cattiva utilizzazione di un giusto criterio, ivi, 1044) od «esaustività» (R. Pinardi, Giudizio di ammissibilità e razionalità delle richieste di referendum, in Dir. e soc. 1988, 633 ss.) del quesito abrogativo.

[6] Per una disamina dei sedici precedenti mi sia concesso rinviare a R. Pinardi, La «completezza» delle richieste referendarie: un criterio da abbandonare, in Aa.Vv., Scritti in memoria di Livio Paladin, III, Napoli, 2004, 1623-1638.

[7] V. infatti, in tal senso, le sentt. nn. 24, 26, 28 e 29 del 2011, ai punti, rispettivamente, 5.2, 5.2, 3.2 e 2.2 del Considerato in diritto.

[8] Rinvio, quindi, sin d’ora, per riflessioni più articolate, a R. Pinardi, La «completezza», cit., spec. 1640 ss.

[9] In termini Corte costituzionale, sent. n. 27 del 1981, in Giur. cost. 1981, I, 172 ss. Molto chiaramente, nel medesimo senso, v. ad esempio la sent. n. 47 del 1991, ivi 1991, 321, nella quale si legge, infatti, che l’esigenza di chiarezza del quesito abrogativo può venire compromessa da richieste che omettano di includere, nello stesso, «porzioni normative anche brevissime», dato che «queste – di per sé destinate a perdere ogni ragione di sopravvivenza nell’eventualità di un’abrogazione delle parti espressamente indicate nel quesito – potrebbero, con il loro mantenimento formale durante il vaglio referendario, suscitare dubbi sull’effettivo intento dei promotori» e quindi compromettere «la chiarezza dell’intera operazione referendaria».

[10] Cfr. ancora Corte costituzionale, sent. n. 27 del 1981, cit., 172.

[11] Per questa citazione della sent. n. 47 del 1991 v. nota 9.

[12] Ricordo, infatti, che il requisito della «completezza» delle richieste referendarie si è evoluto da limite originariamente rivolto ad assicurare l’esaustività delle stesse rispetto all’unico atto coinvolto dall’iniziativa dei promotori (così, ad esempio, le sentt. nn. 27 del 1981, 28 del 1987 e 47 del 1991), a vincolo che comporta l’inammissibilità del quesito ogniqualvolta questo non comprenda una o più disposizioni legislative che rispondano al medesimo principio ispiratore: ovunque, quindi, tali disposizioni risultino collocate nell’ordinamento legislativo (ciò è chiaro, in particolar modo, a partire dalle sentt. nn. 34 e 36 del 1993).

[13] Ė la famosa «matrice razionalmente unitaria» di cui la Corte parla – pur utilizzando, talvolta, terminologie diverse – a partire dalla sent. n. 16 del 1978: per un tentativo di precisare i contorni sfuggenti di questa nozione cfr., volendo, R. Pinardi, L’Ufficio centrale per il referendum presso la Corte di cassazione, Milano, 2000, spec. 314 ss.

[14] Si tratta, quindi, per dirla con le parole di Vezio Crisafulli, di «un limite, prima ancora che di diritto positivo, di ordine logico» all’esplicazione della potestà referendaria: così V. Crisafulli, In tema di limiti al referendum, in Giur. cost. 1978, I, 163; Id., Lezioni di diritto costituzionale, Padova, 1984, II, 103-104.

[15] A prescindere, se si vuole, dall’ipotesi estrema in cui una richiesta risulti talmente carente di disposizioni da non consentire neppure l’individuazione del principio su cui gli elettori sono chiamati a pronunciarsi.

[16] Così, infatti, la (più volte) menzionata sent. n. 27 del 1981, cit., 172.

[17] Cfr. ad esempio, in questo senso, F. Gabriele, Profili evolutivi della giurisprudenza costituzionale sui limiti all’ammissibilità del referendum abrogativo, in Giur. it. 1981, I, 1, 1203; e F. Modugno, Rassegna critica delle sentenze sul referendum, in Giur. cost. 1981, I, 2113.

[18] Così F. Modugno, Rassegna critica, cit., 2114: per quest’aspetto, quindi, l’intervento censorio della Corte costituzionale appare «invasivo ... delle competenze di promotori, sottoscrittori e votanti» (ibidem, 2113). Cfr., in senso analogo, M. Luciani, La nuova giurisprudenza sul referendum. L’esempio della sentenza n. 22 del 1981, in Giur. cost. 1981, I, 453 (con tesi riproposta in Id., Commento all’art. 75, in G. Branca (già diretto da ) A. Pizzorusso (continuato da), Commentario della Costituzione, Bologna-Roma, 2005, 428) il quale ritiene ingiustificato impedire che una richiesta referendaria possa perseguire «l’opzione mediana consistente nell’eliminazione di una sola parte delle norme da cui il principio si desume, e nella conservazione di un’altra quota delle stesse, che pur costituendo applicazione o specificazione di quel principio, potrebbe essere (secondo i promotori) tuttavia opportuno mantenere in vita».

[19] Come rilevato, per primo, da P. Carnevale, La Corte e il referendum: un nuovo atto, in Giur. cost. 1993, 2264 ss.

[20] Per le opportune esemplificazioni e per un’analisi più dettagliata della vicenda sinteticamente descritta nel testo mi sia permesso rinviare a R. Pinardi, L’Ufficio centrale, cit., spec. 175 ss.

[21] Cfr. tra gli altri, in tema, A. Cariola, Osservazioni sul ruolo dell’Ufficio centrale nel procedimento referendario in una fase istituzionale che assume i contorni della stagione costituente, in Foro it. 1994, I, 2733; E. Malfatti, Il giudizio di ammissibilità del referendum abrogativo, in R. Romboli (a cura di), Aggiornamenti in tema di processo costituzionale (1993-1995), Torino, 1996, 453-455; R. Nania, Il giudizio di ammissibilità del referendum abrogativo tra «eccezionalità» e «normalità» dei circuiti di democrazia diretta, in Aa.Vv., Il giudizio di ammissibilità del referendum abrogativo. Atti del Seminario svoltosi in Roma Palazzo della Consulta nei giorni 5 e 6 luglio 1996, Milano, 1998, 219; ed A. Pertici, Il giudizio di ammissibilità del referendum abrogativo, in R. Romboli (a cura di), Aggiornamenti in tema di processo costituzionale (1996-1998), Torino, 1999, 468 e 498.

[22] Cfr. ad esempio, in senso analogo, M. Luciani, Commento all’art. 75, cit., 423, nota 1.

[23] V. infatti, amplius, le argomentazioni sviluppate in R. Pinardi, L’Ufficio centrale, cit., 185 ss. e 488 ss.

[24] Testualmente Corte costituzionale, sent. n. 68 del 1978, in Giur. cost. 1978, I, 588.

[25] Cfr. ancora Corte costituzionale, sent. n. 68 del 1978, cit., 587.

[26] Come prontamente posto in rilievo da A. Pace, Inammissibilità del referendum, cit., 174 (in senso adesivo cfr. ad esempio F. Modugno, Rassegna critica, cit., 2093).

[27] Va aggiunto: nella normalità dei casi, se si vuol tener conto dell’ipotesi, per molti versi peculiare, dei referendum in materia elettorale (i quali, come noto, devono dar vita, per risultare ammissibili, ad una disciplina di risulta immediatamente applicabile). In tema, ampiamente e per tutti, v. il recente studio monografico di A. Gigliotti, L'ammissibilità dei referendum in materia elettorale, Milano, 2009.

[28] In termini F. Sorrentino, Referendum elettorali ed «omogeneità», in Giur. cost. 1991, 1541.

[29] Così M. Luciani, La nuova giurisprudenza, cit., 453.

[30] Da L. Carlassare, Considerazioni su principio democratico e referendum abrogativo, in Aa.Vv., Il giudizio di ammissibilità, cit., 137 (corsivo testuale).

[31] Come bene sintetizza P. Ridola, Brevi note sul rapporto tra referendum e parlamentarismo alla luce della giurisprudenza costituzionale, in Aa.Vv., Il giudizio di ammissibilità, cit., 222.

[32] Cfr., in senso analogo, L. Paladin, Profili problematici della giurisprudenza costituzionale sull’ammissibilità del referendum, in Aa.Vv., Il giudizio di ammissibilità, cit., 17, il quale sottolinea la contraddizione che si determina proprio a causa dell’applicazione del limite della «completezza», dato che, con il ricorso a tale criterio, si fa «dipendere l’ammissibilità del referendum dalle stesse imperfezioni di un ordinamento iper-legificato del tipo italiano, rispetto alle quali», tuttavia, «il voto popolare abrogativo dovrebbe, o potrebbe, rappresentare un rimedio».

[33] Nel primo senso, infatti, M. Luciani, Omogeneità e manipolatività delle richieste di referendum abrogativo tra libertà del voto e rispetto del principio rappresentativo, in Aa.Vv., Il giudizio di ammissibilità, cit., 75; nel secondo B. Caravita, I referendum: minaccia o risorsa democratica?, ivi, 159.

[34] In tema cfr., ex plurimis, N. Bobbio, Democrazia rappresentativa e democrazia diretta, in G. Quazza (a cura di), Democrazia e partecipazione, Torino, 1978, 19 ss. e spec. 32

[35] Utilizzando le parole di G. Silvestri, Il popolo sotto tutela: garanzia formale e criterio della ragionevolezza nella conformazione giurisprudenziale del diritto al referendum, in Aa.Vv., Il giudizio di ammissibilità, cit., 237-240 (corsivo testuale).