Francesco Picozzi

(dottorando di ricerca in ‘Metodi e tecniche della formazione e dela valutazione delle leggi’ nell’università di Genova)

LA RIFORMA DELLA COMPOSIZIONE E DEL SISTEMA ELETTORALE DEL C.S.M.: ALCUNE OSSERVAZIONI

 

1) Considerazioni introduttive e cenno ai precedenti interventi legislativi Dopo un cammino parlamentare piuttosto spedito, anche se caratterizzato da un forte scontro fra maggioranza e opposizione, è giunta all’approvazione la l. 28 marzo 2002, n. 44. Con essa, novellando il testo della l. 24 marzo 1958, n. 195, si attuano importanti riforme riguardanti l’organo di autogoverno della magistratura, destinate ad avere una non secondaria influenza sulla sua attività e forse anche sul suo ruolo. Da un lato, si è ridotto il numero dei membri elettivi del Consiglio da trenta a ventiquattro. Dall’altro lato, si è radicalmente modificato il meccanismo elettorale della componente togata, prevedendo la candidatura dei magistrati a titolo individuale e non più nell’ambito di liste contrassegnate da un logo ed istituendo tre collegi nazionali distinti, rispettivamente, per l’elezione di due magistrati di legittimità, dieci giudicanti e quattro requirenti. Va sin da ora tenuto presente che, in base all’art. 15 della l. n. 44/02, le accennate innovazioni non si applicano al Consiglio attualmente in carica.

Tale intervento legislativo si inserisce in una lunga serie di precedenti di più o meno vasta portata in questa materia. Sul C.s.m. è ormai da anni in corso di svolgimento un intenso dibattito sia a livello politico che a livello dottrinale che si è riverberato anche in sede di commissione bicamerale per la riforma della parte seconda della Costituzione. In questa sede si svolse infatti una approfondita discussione durante la quale, come vedremo in seguito, vennero avanzate proposte che riecheggiano in qualche maniera nelle soluzioni ora adottate.

In ragione di ciò è opportuno, per arrivare a descrivere efficacemente la ratio delle scelte del legislatore del 2002, effettuare una, sia pur sintetica, ricostruzione delle discipline normative succedutesi nel corso degli anni, delle osservazioni di volta in volta avanzate dalla dottrina e degli interventi effettuati dalla Corte costituzionale.

Come è noto, l’art. 104 della Costituzione, quanto alla composizione del C.s.m., oltre ad elencarne i tre componenti di diritto, si limita a fissare in un terzo rispetto a due terzi la proporzione fra membri eletti dal Parlamento, comunemente definiti "laici", e membri eletti da tutti i magistrati "tra gli appartenenti alle varie categorie" presenti nella magistratura ordinaria, perciò detti "togati". Per tutti i consiglieri è previsto un esplicito divieto di immediata rieleggibilità. E’ pertanto rimessa alla scelta del legislatore ordinario la specificazione del numero dei complessivo dei componenti del Consiglio. E’ altresì rimessa allo stesso legislatore ordinario la scelta del sistema mediante il quale provvedere alla elezione della componente togata.

Come precedentemente affermato, è proprio su entrambi questi aspetti che, dando seguito ad un’iniziativa governativa, è intervenuto il Parlamento.

Numerosi sono i precedenti interventi legislativi sul punto. Con la l. 24 marzo 1958 n. 195, "Norme sulla costituzione e sul funzionamento del Consiglio superiore della magistratura" si dettò una prima disciplina in materia, dando per la prima volta attuazione alla Costituzione. L’art. 1 di tale legge fissava il numero dei componenti elettivi a ventuno, di cui, ovviamente, quattordici togati. Questi ultimi, in base all’art. 23, I c., venivano ripartiti in base alla loro categoria di appartenenza: sei scelti tra i magistrati della Corte di cassazione (dei quali due con ufficio direttivo), quattro tra i magistrati di Corte d’appello e quattro tra i magistrati di tribunale. Ai fini delle elezioni i magistrati di cassazione erano riuniti in un unico collegio nazionale, mentre quelli di appello e di tribunale venivano suddivisi in quattro collegi territoriali, in ognuno dei quali si eleggevano, con sistema maggioritario a turno unico, rispettivamente, un magistrato di appello ed uno di tribunale (art. 26, I c.) . L’elettorato attivo subiva una specifica limitazione (art. 23, III c.), posto che ciascun magistrato poteva votare solo per i componenti appartenenti alla propria categoria.

Tale normativa suscitò subito una serie di critiche in dottrina. In particolare fu prospettata l’illegittimità costituzionale tanto per la scelta del legislatore di garantire alla c. d. alta magistratura una rappresentanza proporzionalmente molto più cospicua rispetto a quella delle altre categorie in seno al Consiglio quanto per la limitazione dell’elettorato attivo dei magistrati. La Corte costituzionale, però, con la famosa decisione 12 dicembre 1963 n. 168, respinse tali censure d’incostituzionalità .

Comunque la l. 18 dicembre 1967, n. 1198 novellò il testo originario della l. 195/1958 introducendo un nuovo e macchinoso procedimento elettorale fondato su di una sorta di elezioni primarie. Restò invariato il numero complessivo dei membri del C.s.m., così come non cambiarono i rapporti numerici fra le categorie. Le elezioni però avevano luogo fra i candidati elettivamente designati da un collegio centrale presso la Corte di cassazione, da quattro collegi territoriali di magistrati d’appello e da quattro collegi territoriali di magistrati di tribunale. Il collegio centrale designava dodici magistrati di cassazione (di cui quattro con ufficio direttivo), i collegi territoriali designavano due magistrati ciascuno nell’ambito delle rispettive categorie. Sulla base di tali designazioni l’ufficio centrale nazionale formava la lista dei ventotto magistrati designati. Ciascun magistrato poteva votare: per non più di sei magistrati di cassazione, di cui almeno quattro rientranti nella lista dei designati; per non più di quattro magistrati d’appello, di cui almeno tre scelti fra i designati; per non più di quattro magistrati di tribunale, di cui almeno tre scelti fra i designati. Venivano proclamati eletti coloro che avevano riportato il maggior numero di voti nella categoria di appartenenza. In ogni caso dovevano essere proclamati eletti almeno quattro magistrati di cassazione, tre di corte di appello e tre di tribunale compresi nella lista nazionale. Si introdusse la possibilità per i magistrati di votare colleghi appartenenti ad altre categorie superando così le precedenti critiche della dottrina.

Con la l. 22 dicembre 1975, n. 695 si riformò radicalmente la disciplina in materia, stabilendosi un netto discrimine con la fase precedente. Da un lato si intervenne sul numero complessivo dei membri elettivi, che venne innalzato da ventuno a trenta, ed in particolare, quello dei componenti togati passò da quattordici a venti, di cui otto magistrati di cassazione, quattro di appello e otto di tribunale. Dall’altro, si introdusse un nuovo sistema elettorale per i componenti eletti dai magistrati. Si abolirono i collegi territoriali e si optò per il collegio unico nazionale. In questo ambito territoriale le elezioni avevano luogo per liste concorrenti tra le quali venivano ripartiti i seggi con criterio proporzionale. Ciascuna lista doveva essere presentata da non meno di 150 elettori. Erano escluse dalla ripartizione le liste che non superavano la soglia di sbarramento del sei per cento. L’elettorato attivo venne attribuito a tutti i magistrati senza distinzione di categorie e questi potevano esprimere un voto di lista ed eventuali preferenze (comunque in numero non superiore alla metà dei candidati da eleggere).

Con la l. 3 gennaio 1981, n. 1 venne stabilito che la metà dei membri togati del Consiglio si sarebbe dovuta eleggere indipendentemente dalla categoria di appartenenza mentre per la restante metà si sarebbe dovuta osservare la proporzione di quattro magistrati di cassazione, due di corte di appello e quattro di tribunale.

Tali proporzioni vennero ulteriormente modificate dalla l. 22 novembre 1985, n. 655 la quale stabilì che la componente togata del Consiglio si sarebbe dovuta comporre di due magistrati di cassazione, con effettivo esercizio delle funzioni di legittimità, otto magistrati con funzioni di merito e dieci magistrati scelti indipendentemente dalla categoria di appartenenza.

L’ultimo intervento di riforma si ebbe con la l. 12 aprile 1990, n. 74. Con essa si mantenne il collegio unico nazionale solo per l’elezione dei due magistrati con funzioni di legittimità, mentre per i restanti diciotto membri, scelti fra magistrati con funzioni di merito, si abbandonò il collegio unico in favore di quattro collegi territoriali, composti dai vari distretti di corte d’appello scelti mediante estrazione a sorte. In questi diversi ambiti territoriali potevano concorrere alle elezioni liste di candidati, previa la sottoscrizione delle stesse da parte di cinquanta elettori per il collegio nazionale e trenta per i collegi territoriali. Ciascun magistrato riceveva due schede l’una per l’elezione dei due magistrati di cassazione, l’altra contenente la lista dei candidati del proprio collegio. Era possibile esprimere un voto per uno solo dei candidati nel collegio nazionale ed un voto di lista, con eventuale indicazione della preferenza, per il collegio territoriale. La ripartizione dei seggi avveniva con criterio proporzionale mitigato dalla clausola di sbarramento che veniva innalzata dal sei al nove per cento.

 

2) Riduzione del numero dei membri elettivi del Consiglio

Esaminiamo ora i punti caratterizzanti della riforma del 2002.

Innanzitutto va considerata la riduzione del numero dei membri elettivi del Consiglio. A questo proposito è interessante osservare come tale previsione non facesse parte dell’originario disegno di legge presentato dall’esecutivo e neanche del programma governativo illustrato dal ministro Castelli ad inizio legislatura. Essa è stata introdotta con un emendamento proposto nel corso dell’esame del progetto in commissione referente al Senato. In questa fase si è fissato in ventuno il nuovo numero dei consiglieri elettivi, di cui naturalmente quattordici togati. Tale scelta avrebbe rappresentato un ritorno alla situazione anteriore alla l. 695/1975 assai difficile da comprendere. Non a caso essa è stata oggetto tanto di preoccupate osservazioni, provenienti dall’interno dello stesso Consiglio superiore e dalla magistratura associata, quanto di uno scontro politico sviluppatosi in entrambi i rami del Parlamento. Ciò ha indotto i deputati a modificare parzialmente la scelta fatta dai senatori. Infatti, nel corso dell’esame alla Camera il numero dei consiglieri elettivi è stato innalzato da ventuno a ventiquattro, riducendo quindi la consistenza del "taglio" da nove a sei componenti. Pertanto il nuovo testo dell’art. 1 l. n. 195/1958 prevede che, oltre ai tre membri di diritto di cui all’art. 104 Cost., 2° e 3° c., vadano a comporre il Consiglio sedici componenti eletti dai magistrati ordinari ed otto componenti eletti dal Parlamento in seduta comune, per un totale di ventisette membri. Tutto ciò, naturalmente, a partire dalle prossimo rinnovo del Consiglio stesso.

A questo "taglio" dei componenti del Consiglio non poteva restare indifferente la Sezione disciplinare. Perciò anche l’art. 4 l. 195/1958 è stato modificato. La nuova composizione di tale delicato organo è stabilita in sei componenti effettivi e quattro supplenti. La previsione di un numero pari di componenti ha indotto il legislatore ad inserire un nuovo comma all’art. 6 l. 195/1958, con il quale si prevede che in caso di parità fra i voti dei membri della Commissione "prevale la soluzione più favorevole all’incolpato".

Si è reso inoltre indispensabile intervenire sul quorum necessario per la validità delle deliberazioni consiliari, che, in base al nuovo art. 5 l. 195/1958, viene raggiunto con la presenza di almeno dieci magistrati e cinque membri laici.

Risulta piuttosto difficile capire cosa abbia potuto indurre il legislatore a ritornare parzialmente sui suoi passi, facendo venir meno la scelta del 1975 per un riavvicinamento alla scelta del legislatore del 1958 che indicò in ventuno i componenti del Consiglio. Certo dal 1975 ad oggi non è diminuito il numero dei magistrati che, anzi, fra togati ed onorari, è all’incirca raddoppiato. Conseguentemente, essendo così aumentato il numero dei suoi amministrati, non si può certo ritenere che l’origine di tale scelta stia nella diminuzione del carico di lavoro gravante sul Consiglio.

Da parte di alcuni si è voluto presentare la riduzione dei consiglieri come una semplice operazione di risparmio di risorse o di snellimento dell’organo mirante principalmente ad un recupero di efficienza. In effetti i primi commentatori della l. n. 44 hanno rilevato che tale ridimensionamento, pur potendo creare "problemi per ciò che riguarda il funzionamento delle Commissioni", dovrebbe in compenso garantire maggiore speditezza ed efficienza ai lavori dell’adunanza plenaria. Ma, a nostro avviso, la riduzione del numero dei consiglieri non deve essere considerata solamente in quest’ottica riduttiva. Non siamo di fronte ad una scelta politicamente neutra. Al contrario, in essa si può vedere il primo passo di un complessivo disegno assai più ambizioso.

Emerge, infatti, dall’esame dei lavori preparatori la volontà di contribuire in questa maniera a rideterminare il ruolo ed a restringere l’ambito di azione del Consiglio.

Tale impostazione del legislatore non sembra essere affatto improvvisata. Tutto al contrario essa si inserisce nell’ambito di un dibattito politico e dottrinale che ormai da decenni vede impegnati gli studiosi nel discutere della collocazione istituzionale e della stessa definizione della natura del C.s.m. Non è nostra intenzione e, soprattutto, non è questa la sede per ripercorrere un confronto nell’ambito del quale sono state proposte dagli studiosi le ricostruzioni più diverse che, di volta in volta, sono state sostenute od osteggiate dagli schieramenti politici.

Tralasciamo la vexata quaestio della natura di organo costituzionale oppure meramente di rilievo costituzionale del Consiglio per concentrarci solo sugli aspetti che sembrano più rilevanti in proposito. E’ stato constatato in dottrina come un grave problema sia posto dall’individuazione delle specifiche funzioni del Consiglio. Infatti, "quale che sia la definizione che fornisce del ruolo del C.s.m. resta… aperto il problema di quali siano, precisamente, le attribuzioni consiliari e quali i possibili oggetti delle relative delibere".

E’ noto, infatti, come l’esercizio di alcuni poteri e funzioni da parte del Consiglio, non esplicitamente menzionati in Costituzione, abbia più volte causato tensioni con settori del mondo politico.

E’ questo il caso di quelle che autorevole dottrina definisce "funzioni di rappresentanza del potere giudiziario nei rapporti con gli altri poteri", come, ad esempio, fare proposte al ministro sulle materie di sua competenza dare pareri sui disegni di legge in qualsiasi modo attinenti all’organizzazione della giustizia (v. l’art. 10 della legge 24 marzo 1958 n. 195) e, più in generale, il potere di pronunciarsi manifestando la propria opinione su qualsiasi vicenda possa interessare il funzionamento della giustizia. In particolare forti tensioni si sono generate in occasione di interventi consiliari a tutela dell’indipendenza e dell’autonomia della magistratura di fronte ad attacchi provenienti dall’esterno di essa.

E’ anche questo il caso dell’adozione di atti normativi (o paranormativi) da parte del Consiglio. Mentre tra gli studiosi si è cercato di individuare un fondamento giustificativo per quest’ultimo fenomeno, alcuni trovandolo nel ruolo del Consiglio quale organo che fornisce un "indirizzo di politica giudiziaria" la cui attività normativa "dà vita ad atti di governo giudiziario aventi natura ed efficacia analoghe a quelli che sono espressione della funzione di indirizzo politico dei governi statali e regionali…". Altri, invece, individuandolo principalmente in ragioni di fatto e di opportunità quali la tutela dei valori costituzionali di indipendenza del giudice e di buon funzionamento degli uffici. Infatti la necessità di ricorrere in maniera così consistente ad atti normativi consiliari sarebbe principalmente dovuta "alla latitanza del legislatore" che renderebbe di fatto necessario "supplire agli spazi di potere normativo dismessi dal Parlamento. Nel campo politico si è assistito, invece, a tentativi di circoscrivere drasticamente, se non di azzerare, questa attività consiliare di produzione normativa. Ricordiamo, ad esempio, come il problema emerse anche nella Commissione bicamerale "D’Alema" dove, tanto nel Comitato garanzie, quanto nel plenum prevalsero le posizioni di coloro che volevano colpire questa modalità di esercizio delle funzioni del Consiglio.

E’ proprio in quest’ottica che, a nostro avviso, deve essere letta la scelta del legislatore di ridurre il numero dei componenti il Consiglio. La riforma del 2002 non è affatto estemporanea ma è il coerente, anche se parziale, sviluppo di una concezione tendente al ridimensionamento del ruolo del C.s.m. Inequivocabili sono le prese di posizione sul punto di autorevoli esponenti della maggioranza parlamentare. Si è infatti affermato che la riduzione del numero dei consiglieri si rende necessaria per contrastare un "sovradimensionamento di compiti autogestiti, addirittura autoaffidati, che paralizza l’esercizio corretto di quei compiti che sono attribuiti allo stesso C.s.m. dalla Costituzione". Invece, secondo quest’ottica, quelli del Consiglio sono e devono restare "compiti di estrema chiarezza, linearità, ovvietà, letteralità… promozioni, assunzioni, assegnazioni, trasferimenti, procedimenti disciplinari: compiti, quindi, ben chiari e precisi, che non hanno niente a che vedere con numerose altre attività che il C.s.m., in un disperato tentativo di guadagnare spazio politico non assegnatogli dalla Costituzione, si è conquistato, o meglio accaparrato". Ciò ha permesso di concludere che sarebbe sufficiente un ritorno del C.s.m. ai suoi compiti istituzionali par fare sì che "l’incidenza della riduzione del numero dei componenti" sia "pari a zero". Detto altrimenti, l’obiettivo di tale riduzione è quello di "far sì che il Consiglio superiore della magistratura svolga le missioni che la nostra Costituzione ad esso assegna e non ne svolga di altre e di ulteriori". Siamo, in pratica, di fronte alla chiara enunciazione dell’idea di rideterminare in maniera riduttiva il ruolo del Consiglio, che andrebbe concepito come semplice organo di amministrazione puntuale, privato della materiale possibilità di "occuparsi di altro" tramite una drastica riduzione del numero dei suoi componenti.

Prescindendo, per ora, da un giudizio su tale scopo politico la presa di posizione del legislatore appare francamente imprudente. Infatti, la dottrina ha più volte messo in evidenza come la questione dell’esercizio di attribuzioni implicite da parte del Consiglio non si possa risolvere, e neanche circoscrivere, con interventi isolati. Come saggiamente affermato, "é vano ed anche ingiusto… preoccuparsi soltanto di censurare sistematicamente l’operato del Consiglio superiore, se non si affrontano, nella sola sede competente, le difficoltà di carattere istituzionale ed ordinamentale che ne impacciano l’azione ed il funzionamento". Pertanto, secondo tale migliore dottrina, spetterebbe al Parlamento il compito di riformare la legislazione vigente sull’ordinamento giudiziario in maniera tale da renderla più coerente e meno lacunosa, con ciò eliminando od almeno circoscrivendo le ragioni dell’ampliamento, ritenuto abnorme, del ruolo del C.s.m. senza rischiare di incidere negativamente sulla funzionalità del sistema.

Probabilmente consapevole della fondatezza di queste ultime considerazioni il Governo, come preannunciato sin dall’inizio della legislatura, ha preso un’importante iniziativa nella seduta del 14 marzo, deliberando la presentazione alle camere di un disegno di legge delega mediante il quale si vuole affidare all’esecutivo la possibilità di intervenire con uno o più decreti legislativi in materia di ordinamento giudiziario.

Dalla lettura della proposta governativa e della relazione illustrativa emerge innanzitutto la volontà di porre in essere una riforma di ampio respiro che, se venisse attuata, avrebbe delle importanti conseguenze anche sul problema oggetto della nostra attenzione. In proposito due sono le linee guida che costituiscono la struttura fondamentale del disegno di legge.

Da un lato vi è la riforma dei Consigli giudiziari, concepita in maniera da aumentare i loro compiti ed accrescerne quindi l’importanza rispetto al Consiglio superiore (art. 4). Si afferma che "da organismi prevalentemente consultivi del Consiglio superiore della magistratura, i Consigli giudiziari devono diventare organismi che assumono compiti e responsabilità deliberative". In particolare si affidano a questi ultimi importanti funzioni quali l’approvazione delle tabelle degli uffici giudiziari su proposta dei titolari degli uffici e nel rispetto dei criteri indicati dalla legge, la formulazione di pareri circa l’attività dei magistrati del distretto, la vigilanza sul loro comportamento ed anche l’assunzione di alcune decisioni riguardanti il loro status (art. 4, lettera r, nn. 1, 2, 6 e 7). Si prevede inoltre l’istituzione di un "organismo analogo al Consiglio giudiziario presso la Corte di cassazione" dotato però dell’inquietante nomen di "Consiglio direttivo" (art. 4, I c.).

Dall’altro lato, vi è l’idea di rivalutare il ruolo della Corte di cassazione, anche quale vertice ideale dell’ordine giudiziario, istituendo presso di essa, e non presso il C.s.m., come auspicato dalla magistratura associata, la nuova scuola per la formazione degli uditori giudiziari e per l’aggiornamento professionale dei magistrati (art. 3) .

A questo punto ci pare di avere individuato con chiarezza il filo conduttore di un complessivo disegno mirante a riconfigurare in maniera riduttiva rispetto al passato il ruolo del Consiglio superiore, operando, tanto, un taglio al numero dei suoi componenti, elemento che non potrà non ridurne le complessive capacità di funzionamento quanto, una più precisa delimitazione dei suoi compiti, dovuta principalmente alla loro attribuzione ad altri organi, quali la Corte di cassazione e i Consigli giudiziari.

La presentazione del suddetto disegno di legge delega non fa venire meno la critica all’imprudenza del legislatore. Infatti è, a nostro giudizio, rischiosa la riduzione dei membri del Consiglio attuata in vista di un ridimensionamento del suo ruolo e dei suoi compiti che avverrà solo a seguito dell’approvazione di una riforma futura che solo adesso sta muovendo i suoi primi passi. Si è voluto rischiare anteponendo la riduzione della funzionalità del Consiglio alle innovazioni necessarie per renderla non traumatica per l’intero sistema giudiziario. Al momento non si è ancora in grado di sapere se, come ed in quale lasso di tempo il Parlamento conferirà la delega al governo. Soprattutto non si è in grado di prevedere come le riforme in questione verranno attuate nella prassi e quali effetti avranno sul complessivo carico di lavoro del C.s.m. Il rischio assai concreto è che ci si ritrovi, magari per lungo periodo, con un organo consiliare dalle capacità parzialmente pregiudicate in un contesto legislativo non adeguatamente riformato. Meglio sarebbe stato approvare la misura in questione solo a seguito del varo definitivo della riforma generale dell’ordinamento giudiziario. In questa maniera sarebbe stato possibile valutare con maggiore cognizione di causa il reale impatto delle riforme sul ruolo del C.s.m. Purtroppo l’incombente scadenza elettorale per il rinnovo del Consiglio ha impedito di accogliere gli inviti alla prudenza che anche in sede parlamentare erano stati avanzati.

Infine ricordiamo come a sostegno della decurtazione del numero dei componenti il Consiglio sia stato avanzato un ulteriore argomento, da valutare, però, in prospettiva futura. Si è affermato che tale scelta deve essere vista "in funzione anche della possibilità di una sezione disciplinare che sia autonoma rispetto al Consiglio superiore della magistratura". Questo auspicio era peraltro già contenuto in una mozione approvata a maggioranza dal Senato nella seduta del 5 dicembre 2001. Al punto e) di tale mozione si impegna il governo a disporre "l’attribuzione della materia disciplinare – opportunamente rivista in base al principio di tipicità delle condotte – nei confronti dei magistrati ad un apposito organo elettivo composto da magistrati con lunga esperienza giudiziaria e da giuristi laici di chiara fama". E’ evidente che se in futuro si dovesse dare un seguito a tale proposito ci troveremmo di fronte ad una profonda incisione del ruolo stesso del C.s.m. quale organo di "governo autonomo dell’ordine giudiziario", tale da comportare un evidente perdita d’importanza del Consiglio nell’ambito del sistema di pesi e contrappesi concepito dal legislatore costituente del 1947 a garanzia dell’indipendenza e dall’autonomia della magistratura.

 

3) L a eliminazione del collegamento fra candidato e simbolo di lista

Altro asse portante della riforma del 2002 è l’introduzione di un nuovo sistema elettorale per la componente togata. Come precedentemente messo in evidenza, questo è, dal punto di vista storico, il sesto intervento sul punto.

Quanto alla ratio della l. n. 44/02, la prima cosa che colpisce l’osservatore è che essa sia sostanzialmente identica a quella che aveva ispirato, almeno inizialmente, i sostenitori della riforma del 1990. Infatti, nel dibattito che precedette la formazione della l. n. 74/1990 un’importanza fondamentale fu data al ridimensionamento del ruolo delle correnti della magistratura associata. Riconducendosi, forse ingiustamente, a queste ultime la responsabilità di una asserita "politicizzazione" del Consiglio, fenomeno che avrebbe prodotto pratiche spartitorie e lottizzatorie che avrebbero influenzato le decisioni del Consiglio in tutti i settori di sua competenza. Influendo, grazie anche alla mancanza di precise regole legislative, su scelte particolarmente delicate per l’indipendenza interna dei singoli magistrati come quelle riguardanti la carriera dei giudici od il conferimento di incarichi direttivi.

La principale ragione della forza delle correnti venne individuata nel sistema elettorale introdotto dalla n. 695/1975 che prevedeva l’elezione della componente togata in un collegio unico nazionale con sistema proporzionale per liste concorrenti. Tale analisi aveva un suo indubbio fondamento anche se, ad onor del vero, il fenomeno correntizio nacque prima dell’introduzione della legge elettorale proporzionale e quindi poteva essere stato da questa favorito, ma non certo generato.

Di fatto lo scopo dichiarato che spinse il legislatore del 1990 a riformare la legge elettorale fu proprio quello di ridurre, quanto più possibile, l’influenza delle correnti sulla composizione del Consiglio superiore, in maniera da "spezzare quella sorta di cordone ombelicale" creatosi fra i consiglieri togati e le correnti di cui questi erano espressione.

Con tali premesse il Parlamento approvò la l. 12 aprile 1990 n. 74, la quale però non si dimostrò coerente con gli scopi preannunciati. Infatti essa si limitò ad abbandonare il collegio unico nazionale ma senza rinunciare alla elezione con sistema proporzionale per liste contrapposte. Ulteriore correttivo fu l’innalzamento della soglia di sbarramento dal 6 al 9%. Francamente poco per cercare seriamente di ridurre il tanto temuto fenomeno della lottizzazione correntizia del Consiglio.

Infatti negli anni successivi all’approvazione di tale riforma la dottrina, anche quella più sensibile alle ragioni del pluralismo culturale all’interno del Consiglio, ha continuato ad avanzare critiche tali da far pensare ad una totale mancanza di effetti realmente innovativi della l. 74/1990. Si è infatti continuato a stigmatizzare "la politicizzazione spicciola, il clientelismo, lo spirito di fazione, il metodo spartitorio delle correnti…"

Pertanto negli ultimi anni si sono susseguite proposte miranti ad una, anche radicale, riforma del sistema elettorale. Anche nella Commissione bicamerale per le riforme istituzionali il tema è stato oggetto di intenso dibattito fra gli esponenti politici. Si è giunti fino al punto di far esprimere direttamente il popolo sull’argomento mediante l’indizione di un referendum rimasto senza alcun esito a causa del mancato raggiungimento del quorum.

Con questi precedenti, che certo non hanno contribuito a rendere l’attuale dibattito politico più sereno, il governo ha ritenuto improcrastinabile un ulteriore intervento di riforma, il cui primo passo si è avuto con disegno di legge (n. 891) presentato dal ministro della giustizia e comunicato alla presidenza del Senato il 26 novembre 2001.

La posizione del governo, come sopra accennato, si inserisce in una evidente linea di continuità con le ragioni addotte a sostegno della riforma del 1990. L’esecutivo ha mirato chiaramente a ridurre il ruolo e l’influenza delle correnti della magistratura associata sulla composizione del C.s.m. Questa volta però gli strumenti individuati per ottenere tale scopo sono stati assai più innovativi e dirompenti rispetto al passato.

In particolare per quanto riguarda l’elezione dei magistrati di merito, ridotti, lo ricordiamo, a quattordici, si è ritornati all’idea del collegio nazionale, introdotta nel 1975, abbandonando i quattro collegi territoriali di cui alla l. n. 74 del 1990. In tale ambito territoriale le elezioni non si svolgeranno più con la presentazione di liste ma si avranno le candidature di singoli magistrati prive di collegamento con qualsiasi raggruppamento. Allo scopo di candidarsi sarà infatti sufficiente essere sostenuti da un numero di presentatori che potrà oscillare fra un minimo di venticinque ed un massimo di cinquanta.

Ad onor del vero anche altre proposte erano state avanzate tanto in sede dottrinale, quanto in sede politica per raggiungere un simile scopo. E’ stata ricorrente negli ultimi anni la proposta di introdurre un sistema maggioritario e uninominale, capace di consentire una maggiore governabilità dell’organo consiliare. Come anche è stato più volte ipotizzato il ricorso al sistema del voto singolo trasferibile capace di mantenere l’impostazione di un sistema proporzionale a collegi plurinominali limitando però la prevalenza della logica di lista in favore della scelta della persona. Infine vi è anche chi è giunto a proporre il sorteggio come sistema per garantire una scelta dei componenti togati sicuramente spoliticizzata.

Posto che il legislatore nell’introdurre la riforma ha operato nell’ottica di indebolire le correnti per ridurre la "politicizzazione" del consiglio, e non essendo questa la sede per tentare una analisi approfondita della situazione reale che ci porti a capire se, veramente, correnti e politicizzazione siano i due lati di un’unica medaglia, ci si limiterà, nel prosieguo del discorso, a valutare la coerenza delle scelte fatte dal Parlamento con il perseguimento degli obiettivi proclamati.

Nella relazione orale dal presidente della Commissione giustizia del Senato, sen. Caruso, si individua lo scopo della legge nel "consentire ai magistrati l’opportunità normativa di costituire un Consiglio che (al suo interno…) sia del tutto sganciato dal sistema delle correnti". Da questo punto di vista sembra coerente la scelta in favore del sistema sopra brevemente descritto. Infatti l’eliminazione della possibilità di presentare liste contrassegnate da simboli costituisce un elemento di forte rottura con il recente passato. Tale sistema dovrebbe effettivamente garantire la possibilità di presentare candidature autorevoli svincolate dall’appartenenza a gruppi organizzati. In questa maniera potrebbe essere incentivata la partecipazione anche di magistrati che non si sono finora riconosciuti in nessuna delle correnti o non hanno ritenuto di doversi schierare apertamente.

Sul punto è stato ribattuto che alle correnti resterebbe comunque aperta la strada di sostenere informalmente alcuni candidati, indicandoli ai propri sostenitori. Ciò provocherebbe una mancanza di chiarezza che danneggerebbe il leale svolgimento della competizione elettorale. Tale obiezione ha un suo indubbio fondamento ma non appare insuperabile. In effetti non è possibile, e non sarebbe legittimo, che il legislatore pretendesse di eliminare l’associazionismo dei magistrati. Un tale obiettivo sarebbe completamente in contrasto con l’art. 18 della Costituzione. Quello che però si può cercare di fare è, da un lato, eliminare un collegamento formale tra candidato e gruppo di appartenenza, dall’altro, aprire la strada alla possibilità di candidature esclusivamente fondate sul prestigio personale del candidato e non su logiche di appartenenza.

Tale scelta per quanto osteggiata da coloro che difendono il valore del pluralismo appare come quelle più coerente con l’impostazione data dal costituente. Infatti non si deve dimenticare che l’art. 104 Cost. dà una limitata ma esplicita indicazione sui meccanismi elettorali da adottarsi da parte del legislatore ordinario. Essa è contenuta nel 6° comma di tale articolo nel quale si stabilisce che "I membri elettivi del Consiglio… non sono immediatamente rieleggibili". Da tale disposizione emerge la volontà del costituente di evitare che i consiglieri in carica siano indotti ad utilizzare la loro posizione per la ricerca di consensi finalizzata ad una immediata rielezione. Questo d’altronde è il comportamento tipico dei componenti di organi collegiali politici, i quali, al di là delle proclamazioni retoriche, orientano la loro azione all’esclusiva ricerca del consenso necessario per essere rieletti. In base all’art.104, 6° c., Cost. tale non deve essere il comportamento dei membri elettivi del Consiglio (organo che non deve esprimere un suo indirizzo politico). E’ evidente, infatti, che colui che sa di non essere rieleggibile non si sentirà sottoposto a pressioni di tipo elettoralistico e sarà pertanto più libero da qualsivoglia condizionamento nello svolgimento delle sue funzioni. L’appartenenza a liste elettorali espressione di correnti destinate ad avere una certa durata nel tempo e quindi a presentarsi a più tornate elettorali si inserisce in questo disegno del costituente come un elemento di non completa armonia. Infatti il singolo consigliere, pur disincentivato dalla Costituzione a ricercare consensi per sé, potrebbe essere indotto a ricercarli per la corrente di appartenenza. In questa maniera si presenterebbe concretamente il rischio di comportamenti influenzati da calcoli elettoralistici, con possibili ricadute sull’esercizio delle funzioni consiliari, vanificando di fatto lo scopo dell’art. 104, 6° c.

Da questo punto di vista il nuovo sistema elettorale, con la previsione di candidature a titolo individuale, appare come un più coerente sviluppo dell’art. 104 c.p.v. in quanto persegue con maggiore coerenza l’obiettivo di garantire un esercizio della funzione di consigliere il più possibile lontano da logiche spartitorie e lottizzatorie.

4)L’elezione dei magistrati di merito per categorie di appartenenza

Meno condivisibile appare l’introduzione di nuove categorie per l’esercizio dell’elettorato passivo. In proposito il nuovo art. 23 della l. 195/1958 come sostituito dall’art. 5 della l. 44/02 prevede che le elezioni si effettuino nei seguenti ambiti:

a) in un collegio unico nazionale, per due magistrati che esercitano le funzioni di legittimità presso la Corte suprema di cassazione e la Procura generale presso la stessa Corte;

b) in un collegio unico nazionale, per quattro magistrati che esercitano le funzioni di pubblico ministero presso gli uffici di merito e presso la Direzione nazionale antimafia, ovvero che sono destinati alla Procura generale presso la Corte suprema di cassazione ai sensi dell’articolo 116 dell’ordinamento giudiziario di cui al regio decreto 30 gennaio 1941, n. 12, come sostituito dall’articolo 2 della legge 13 febbraio 2001, n. 48;

c) in un collegio unico nazionale, per dieci magistrati che esercitano le funzioni di giudice presso gli uffici di merito, ovvero che sono destinati alla Corte suprema di cassazione ai sensi dell’articolo 115 dell’ordinamento giudiziario di cui al citato regio decreto n. 12 del 1941, come sostituito dall’articolo 2 della citata legge n. 48 del 2001.

L’esercizio dell’elettorato attivo non viene invece frazionato, per cui i magistrati voteranno, con schede diverse, anche per l'elezione dei loro colleghi appartenenti alle altre categorie .

L’introduzione di questa tripartizione della componente togata si ripercuote anche sulla composizione della sezione disciplinare, i cui componenti effettivi diventano sei. Fra questi quattro sono i togati, ripartiti come segue: un magistrato di cassazione, due giudici di merito e un pubblico ministero operante presso uffici di merito ( nuovo art. 4 l. n. 195/1958).

Certamente non vi è nulla da obiettare quanto alla legittimità costituzionale di tale scelta. La stessa Corte costituzionale, in un suo obiter dictum, aveva ipotizzato una simile soluzione legislativa. Inoltre autorevole dottrina si era in passato espressa in favore dell’introduzione di tali categorie per l’elettorato passivo dei magistrati.

Nonostante tali importanti prese di posizione, non si vede, stante l’attuale situazione, una grande utilità in tale innovazione. La previsione di categorie per l’esercizio dell’elettorato passivo mira a garantire che fra i rappresentanti dei magistrati vi siano soggetti portatori di professionalità specifiche ed infungibili. In tal senso va vista la garanzia, costituzionalmente necessaria, della presenza in Consiglio di rappresentanti dei magistrati esercitanti funzioni di legittimità. Questi ultimi sono infatti gli unici ad esercitare la loro specifica funzione. In quanto tali sono portatori di un esperienza professionale infungibile. Non ci sembra che la medesima logica sostenga, con la stessa forza, la scelta di distinguere le categorie dei magistrati giudicanti da quelli requirenti.

E’ sotto gli occhi di tutti il fatto che i magistrati italiani siano portatori di una cultura giuridica e di una preparazione tecnica sostanzialmente comuni, non a caso vi è un unico concorso, identico per tutti per accedere all’ordine giudiziario. Va inoltre tenuto presente che non sono rari i casi di soggetti che durante la loro vita professionale esercitano entrambe le funzioni. Tutto ciò contribuisce alla formazione di una mentalità e di un senso d’identità comuni a tutti i componenti della magistratura. Pertanto nell’attuale situazione non è individuabile una linea netta di separazione fra i magistrati esercitanti le due rispettive funzioni di merito ed in particolare non sembra possibile ritenere che la maggioritaria presenza dell’una piuttosto che dell’altra categoria impoverisca il Consiglio di apporti professionali specifici.

Appare allora evidente che l’introduzione di tali nuove categorizzazioni sia stata introdotta non tanto per garantire l’apporto di specifiche professionalità in seno al Consiglio ma per altre ragioni.

La più ricorrente di queste riguarda la necessità di porre un argine alla preponderanza numerica dei pubblici ministeri tra gli eletti, dovuta, secondo alcuni, alla loro maggiore "esposizione mediatica". Pur non volendo negare il dato di fatto della presenza proporzionalmente superiore al loro numero complessivo dei pubblici ministeri, non riusciamo, alla luce delle precedenti argomentazioni, a capire quale rischio essa possa comportare.

Probabilmente anche tale scelta del legislatore potrebbe essere esaminata non tanto con lo sguardo volto al presente quanto, piuttosto, al futuro (in analogia a quanto affermato supra riguardo alla riduzione dei membri del Consiglio). Infatti emerge dai lavori preparatori come la nuova categorizzazione dell’elettorato passivo sia funzionale ai futuri interventi tendenti ad una maggiore distinzione delle funzioni giudicanti e requirenti. Tale questione è ormai al centro del dibattito politico e dottrinale da diverso tempo ed è anche uno degli elementi caratterizzanti il programma della maggioranza. Appare perciò evidente come l’unica effettiva ragione da addurre a sostegno dell’introduzione adesso di questa nuova categorizzazione stia nell’anticipare una riforma dell’ordine giudiziario che è soltanto in procinto di muovere i primi passi dell’iter di formazione. E’ questa la vera ratio legis che emerge dai lavori parlamentari.

Anche su questo punto sembra doveroso avvertire che solo a seguito dell’approvazione definitiva della complessiva riforma immaginata dall’esecutivo sarà possibile esprimere un giudizio più meditato. Infatti la presente riforma del C.s.m. acquisirà una sua coerenza e, soprattutto, dimostrerà di avere un senso, solo nell’ambito di più netta distinzione fra le funzioni giudicanti e quelle requirenti. Proprio l’introduzione di significativi ostacoli nel passaggio dall’una all’altra funzione, come previsto dall’art. 5 del disegno di legge delega governativo, potrà, con il trascorrere degli anni, contribuire alla formazione di mentalità e professionalità maggiormente differenziate all’interno della magistratura, rendendo in qualche maniera significativa l’introduzione delle nuove categorie per l’elettorato passivo.

Per il momento si sarebbe, probabilmente, rivelato più opportuno e proficuo concentrare l’attenzione sulla possibilità di introdurre altri tipi di categorizzazioni. Ad esempio sarebbe stato interessante garantire alla categoria dei dirigenti di uffici giudiziari una, sia pur ristretta, quota di rappresentanza. In fondo questi soggetti svolgono funzioni che implicano il quotidiano confronto con questioni e problemi assolutamente peculiari. In questo senso il loro specifico apporto alla composizione del Consiglio avrebbe potuto arricchirlo di competenze e professionalità non sostituibili da quelle di altri magistrati.

5) Il ritorno al collegio nazionale

L’ultima fondamentale caratteristica del nuovo sistema elettorale riguarda l’abbandono dei quattro collegi territoriali in favore del ritorno al collegio nazionale.

Di tutte le innovazioni questa appare francamente la meno comprensibile e meno coerente con lo spirito complessivo del nuovo meccanismo elettorale.

Infatti affermazione ricorrente fra i sostenitori della riforma è che si debba spezzare il meccanismo lottizzatorio delle correnti per fare spazio a personalità autorevoli che chiedono di essere votate per il loro curriculum e la stima di cui godono fra i colleghi (questa è la ratio dell’abbandono del sistema per liste contrapposte). Altra idea ricorrente è quella di limitare la presenza nel Consiglio di quelle categorie di magistrati sovraesposte al contatto con i mezzi di comunicazione di massa (questa è una delle ragioni dell’introduzione delle quote per giudici e pubblici ministeri).

Entrambe queste ragioni fondanti dell’intero intervento del legislatore appaiono radicalmente contraddette dell’introduzione del collegio nazionale. Infatti, l’ingente ampliamento territoriale del collegio rende assolutamente irrealistica l’idea che il candidato possa essere conosciuto personalmente da tutti i suoi potenziali elettori. Inoltre si deve tenere presente che a seguito della riduzione del numero dei consiglieri sarà più difficile un candidato rientrare nel novero degli eletti, in quanto, ovviamente, sarà necessario un numero di preferenze più elevato rispetto al passato. L’interazione di questi due elementi tende a produrre effetti negativi soprattutto nei confronti dei candidati che: a) siano realmente sganciati da qualsivoglia organizzazione; b) non abbiano goduto di abbondante esposizione al grande pubblico tramite i mass media. In pratica, con questa previsione, si rischia di danneggiare proprio i potenziali candidati che invece si intendeva incentivare.

In base a queste considerazioni non risulta convincente la scelta del legislatore. A sostegno di essa si è affermato che il superamento dei collegi territoriali contribuirebbe "all’affermazione di candidati di prestigio e liberi da logiche localistiche e di mera appartenenza di corrente". Tale effetto potrebbe essere in qualche modo rafforzato dall’aver affidato le operazioni di scrutinio delle schede a una sola commissione centrale elettorale, costituita presso al Corte di cassazione, e composta da cinque magistrati effettivi e da due supplenti. Tale previsione dovrebbe rendere assai problematica ogni forma di controllo del voto a livello locale.

A tali argomentazioni possono essere contrapposte le serie ragioni di critica sopra riportate. A nostro avviso, la logica dei meccanismi elettorali suggerisce che quanto più si amplia l’estensione del collegio tanto più diventa difficile fare valere, da parte degli elettori, scelte dettate dalla conoscenza diretta del singolo candidato. Vale la pena di ricordare in proposito che il collegio unico nazionale, per l’elezione dei magistrati di merito, era stato introdotto dalla riforma del 1975 e che fu abbandonato, in favore dei quattro collegi territoriali formati mediante sorteggio, dal legislatore del 1990 proprio con lo scopo di attenuare l’influenza delle correnti.

6) Considerazioni conclusive

E’ innegabile il forte collegamento esistente fra la visione complessiva del ruolo, delle funzioni ed anche della posizione istituzionale del Consiglio, da una parte, ed il sistema elettorale che si adotta per i rappresentanti dei magistrati, dall’altra. E’ stato detto che può essere molto proficuo analizzare la storia del C.s.m. attraverso l’evoluzione del sistema elettorale prescelto per la componente togata. A questo proposito, con felice sintesi si è osservato che originariamente, con la l. 195/1958, si è optato per "un sistema maggioritario essenzialmente per categorie" coerente con un’idea di neutralità e di rappresentanza professionale delle categorie di magistrati. Successivamente, a partire dalla l. 695/1975, si è gradualmente passati ad una rappresentanza prevalentemente di tipo ideologico - politico fondata sul sistema proporzionale e sulla riduzione a due delle categorie.

Può essere considerata la l. 44/2002 come un elemento di rottura di questo processo storico? Possiamo vedere in essa una significativa inversione di rotta di un cammino che ha portato a passare da una rappresentanza di tipo categoriale – professionale ad un di tipo ideologico – politico?

A nostro avviso sì. E’ questa la logica conclusione alla quale giungere a seguito delle osservazioni sopra esposte. In questo senso siamo di fronte ad una piccola svolta storica. Il legislatore del 2002 ha optato per un meccanismo elettorale che ha il principale scopo di porre in secondo piano l’appartenenza ad un’area ideale del candidato. Infatti essa non viene in alcun modo esplicitata sulla scheda elettorale e la candidatura non avviene più nell’ambito di liste ma a titolo strettamente individuale. Allo stesso tempo viene esaltata l’importanza dell’appartenenza ad una delle nuove categorie introdotto per l’esercizio dell’elettorato passivo (magistrato giudicante o requirente). Il membro togato del C.s.m. sarà quindi maggiormente caratterizzato da una rappresentatività di tipo categoriale piuttosto che di tipo ideologico.

Va comunque osservato che il combinarsi degli effetti delle singole innovazioni del nuovo sistema elettorale, da noi finora esaminate singolarmente, potrebbe anche condurre a risultati non auspicabili. La personalizzazione delle candidature e la mancanza di espliciti collegamenti con gruppi potrebbe, da un lato, favorire la presentazione di "candidature di disturbo", dall’altro, la formazione di "cordate sotterranee". Ciò evidentemente non contribuirebbe "a selezionare magistrati autorevoli e dotati di sufficiente forza rappresentativa della magistratura".

Con tale rischio si combina il pericolo che un Consiglio numericamente ridimensionato trovi maggiori difficoltà ad espletare i suoi compiti, con la stessa ampiezza con cui sono stati intesi fino ad oggi. Tale risultato, inoltre, sarebbe notevolmente amplificato dall’eventuale approvazione delle innovazioni che abbiamo visto essere contenute nella riforma generale dell’ordinamento giudiziario proposta dal governo. In esito a questo complessivo processo innovatore ci si potrebbe trovare di fronte alla necessità di sottoporre ad attenta riconsiderazione molte delle definizioni finora proposte in dottrina riguardo al ruolo del Consiglio. Anche i più tradizionali e prudenti modi di concepire il Consiglio, quale, ad esempio, quello di organo riservatario della "gestione amministrativa dell’ordine giudiziario", potrebbero essere duramente messi alla prova. Altro non si potrebbe pensare di fronte all’esaltazione del ruolo della Corte di cassazione e dei Consigli giudiziari a discapito di quello dal C.s.m.

Quanto finora detto evidenzia, a nostro avviso, il tentativo di depotenziare il Consiglio alterando quello che dovrebbe essere il suo ruolo nel sistema istituzionale. Ciò non senza il rischio di gravi ripercussioni sulla reale autonomia ed indipendenza dell’ordine giudiziario e dei suoi singoli appartenenti.

Due osservazioni su ciò che non è stato previsto dalla l.44/2002.

Il suo principale obiettivo, come detto, è quello di creare le condizioni per spoliticizzare il C.s.m. Come abbiamo visto, ciò altro non ha significato che colpire le correnti della magistratura associata. Ma stupisce in proposito la totale mancanza di attenzione per il comportamento dei membri laici. Questi ultimi infatti hanno contribuito non poco a "politicizzare" il Consiglio, comportandosi in molti casi come meri terminali dei partiti da cui sono stati espressi. Non a caso si parla correntemente di membri laici del Polo oppure dell’Ulivo. Anche senza voler proporre ulteriori interventi del legislatore, sarebbe francamente auspicabile che, in coerenza con lo sforzo effettuato nei confronti della componente togata, si proceda in futuro ad operare scelte di persone che si comportino in maniera realmente indipendente. In questo senso l’imminente rinnovo del Consiglio sarà un primo banco di prova. Risulterebbe infatti poco comprensibile il rigore utilizzato nei confronti dei "togati", per spezzare ogni loro legame con gruppi organizzati, a fronte della solita spartizione partitica dei consiglieri laici.

Per concludere un auspicio. E’ stato del tutto trascurato, nel corso del dibattito sulla riforma, il ruolo dei magistrati onorari. Eppure questi ultimi rappresentano, ormai da anni, una realtà assai importante, praticamente insostituibile. Nonostante ciò, nei loro confronti si resta ancorati a quello che possiamo definire "eterogoverno" da parte del C.s.m., in particolare della sua ottava Commissione. Speriamo che l’approvazione di questa nuova legge possa essere il punto di partenza per portare avanti in sede politica una riflessione già avviata da parte della dottrina e che ha avuto già un qualche riscontro nella legislazione, con la previsione da parte dell’art. 5 l. n. 468/1999 della presenza di un rappresentante dei giudici di pace nel Consiglio giudiziario. Non pare infatti accettabile che una così consistente parte della magistratura sia "governata da soggetti che non ha contribuito a nominare".