Carlo Padula
Conflitto di attribuzioni tra Stato e Regioni, giudicato
costituzionale e vincolo nei confronti dell’attività amministrativa e dei
giudizi amministrativi e ordinari*
Sommario. 1. L’applicabilità dell’istituto del giudicato sostanziale alle decisioni della Corte costituzionale sui conflitti tra Stato e Regioni. 2. Conseguenze pratiche dell’applicazione del giudicato sostanziale alle decisioni sui conflitti tra Stato e Regioni: le sentenze di accoglimento. 2.1 La “nullità per violazione del giudicato” nel diritto amministrativo. 2.2 L’orientamento della Corte costituzionale e della dottrina prevalente: l'illusorietà dell’efficacia di giudicato delle sentenze di accoglimento. 2.3. La nullità degli atti amministrativi contrastanti con il giudicato costituzionale. 3. (segue) Le sentenze di rigetto. 3.1 Il carattere vincolante delle sentenze di rigetto sui giudizi amministrativi aventi stesse parti e stesso oggetto. 3.2 Gli effetti delle sentenze di rigetto sui giudizi penali e civili. 3.2.1 Il caso del conflitto ex art. 122, 4° comma, Cost.; la questione dell'ambito oggettivo del giudicato costituzionale. 3.2.2 Il carattere vincolante della sentenza di rigetto sul “seguito” del giudizio penale o civile. 4. I limiti soggettivi della decisione. 4.1 Considerazioni generali. 4.2 La limitazione soggettiva dell’annullamento
1. L’applicabilità dell’istituto
del giudicato sostanziale alle decisioni della Corte costituzionale sui
conflitti tra Stato e Regioni
E’
inevitabile, per chi si accosta al tema degli effetti delle decisioni nei
conflitti di attribuzioni tra Stato e Regioni, affrontare la questione
dell’applicabilità dell’istituto del giudicato a tali conflitti (e, più in
generale, alle decisioni della Corte costituzionale). Il tema è assai
complesso, affrontato da vasta dottrina e su di esso (come non raramente accade
in relazione al «trapianto» di istituti di altri processi al processo
costituzionale) non sono rare le oscillazioni e le incertezze.
E’
opportuno, innanzi tutto, ricordare le nozioni di base del diritto processuale
civile. Nel processo civile si distingue fra giudicato formale (passaggio in
giudicato) e giudicato sostanziale (autorità di cosa giudicata): il
primo risulta dall’art. 324 c.p.c.[1] e consiste nell’immutabilità della
sentenza, dell’atto, cioè nell’impossibilità di sottoporla a impugnazione
«ordinaria»[2];
il secondo risulta dall’art. 2909 c.c.[3] e consiste nell’immutabilità dell’accertamento
contenuto nella sentenza passata in giudicato, che non può più essere messo in
discussione in futuro[4].
Questo
vincolo di giudicato, però, è – ovviamente - limitato a quella causa,
identificata da tre elementi essenziali: parti, petitum e causa
petendi. Petitum e causa petendi sono strettamente collegati e
questo raccordo rappresenta l’oggetto del giudizio. Oltre ai limiti
soggettivi ed oggettivi, il giudicato sostanziale incontra anche limiti
cronologici, nel senso che esso vincola con riferimento alla situazione di
fatto e di diritto esistente al momento della sua formazione[5].
In
relazione ai conflitti di attribuzioni fra Stato e Regioni (ma anche ai
conflitti tra poteri e al giudizio di costituzionalità), il tema del giudicato
sembra trovarsi in una «zona d’ombra», perché l’unica disposizione ad esso
riferibile è l’art. 137, 3° comma, Cost.: «contro le decisioni della Corte
costituzionale non è ammessa alcuna impugnazione». Secondo l’interpretazione
più lineare, questa disposizione fa riferimento al giudicato «formale»,
sancendo il divieto di contestare la decisione della Corte davanti alla Corte
stessa o ad altri giudici[6];
peraltro, secondo alcuni Autori, l'art. 137, 3° comma, non stabilirebbe
un'immutabilità formale assoluta, in quanto non escluderebbe la possibilità
della Corte di tornare sulle proprie decisioni, in casi determinati; su questa
base si giustificherebbero la correzione delle sentenze della Corte e la
revisione delle sentenze penali[7].
Parte
della dottrina, però, ha attribuito all’art. 137, 3° comma, una portata più ampia,
ricavandone il divieto, per «ogni soggetto dell’ordinamento, compresa la stessa
Corte, di tornare – nel senso di ‘riproporla’, ‘riprodurla’ ovvero di
‘pronunciarsi nuovamente’ su di essa – su una questione già decisa». Anche le
sentenze della Corte, dunque, formerebbero il giudicato «sostanziale», per cui
sarebbero «immutabili, nei confronti di chiunque, gli effetti differenziati che
l’ordinamento riconosce alle diverse tipologie di pronunce»[8].
Tale interpretazione si potrebbe fondare sul fatto che, per certa dottrina
processualistica, «la ‘cosa giudicata’… è in realtà una sola»[9] e che la sua «autorità» deriva dall’esigenza
di certezza[10];
però, da un lato, non esiste per il processo costituzionale una norma come
l’art. 2909 c.c., dall’altro la tesi in questione è smentita dalla stessa
giurisprudenza costituzionale, che non si ritiene vincolata – nel giudizio di
legittimità costituzionale - alle proprie precedenti decisioni di rigetto e
ritiene di poter decidere diversamente, anche se la questione verte sullo
stesso oggetto (cioè, sulla stessa norma e in relazione allo stesso parametro)
e proviene da un giudizio con le stesse parti. La dottrina largamente
prevalente, dunque, ritiene che le decisioni di rigetto non acquistino forza
di giudicato (sostanziale)[11];
se così è, occorre concludere che l’art. 137, 3° comma, Cost. non impone di
attribuire a tutte le decisioni della Corte l’effetto di giudicato di cui
all’art. 2909 c.c.: esso è accostabile, piuttosto, all’art. 324 c.p.c.
Ciò
non esclude, però, che, per certe decisioni della Corte costituzionale,
l’applicabilità del giudicato sostanziale possa discendere da altre fonti.
Innanzi tutto, un supporto normativo all'applicazione dell'istituto del
giudicato sostanziale alle sentenze della Corte potrebbe ritrovarsi nell'art.
22, 1° comma, legge n. 87/1953, in base al quale «nel procedimento davanti alla
Corte costituzionale, salvo che per i giudizi sulle accuse di cui agli artt. 43
e seguenti, si osservano, in quanto applicabili, anche le norme del regolamento
per la procedura innanzi al Consiglio di Stato in sede giurisdizionale». Questa
disposizione, come noto, rinvia in generale alle norme riguardanti il processo
amministrativo, nell'ambito del quale non si dubita dell'applicabilità
dell'art. 2909 c.c., in virtù anche degli specifici appigli normativi forniti
dall'art. 37 legge n. 1034/1971 e dall'art. 28 t.u. Consiglio di Stato[12].
Sulla base dell’art. 22 legge n. 87/1953, dunque, si può applicare l’istituto
del giudicato sostanziale al processo costituzionale, tenendo anche presente
che tale istituto è espressione del principio generale della certezza delle
situazioni giuridiche (oltre che del ne bis in idem)[13].
Né
sembra che tale assunto sia smentito dal sopra citato orientamento che nega efficacia
di giudicato alle sentenze di rigetto nei giudizi di legittimità
costituzionale: l’art. 22 legge n. 87 rinvia alle norme sul processo
amministrativo «in quanto applicabili», e l’inidoneità di quelle sentenze a
formare giudicato (sostanziale) può essere legata all’oggetto del giudizio, nel
senso che la Corte vuole riservarsi la possibilità di cambiare idea sulla
costituzionalità di una norma legislativa, ritenendo che l’esigenza di certezza
del diritto sia recessiva rispetto a quella della costituzionalità delle leggi.
Del resto, anche nella giurisdizione civile contenziosa esistono casi di
sentenze che non acquistano autorità di giudicato[14].
L'applicabilità
del giudicato sostanziale alle decisioni sui conflitti è stata sia affermata[15] che negata da dottrina autorevole. Non
sembrano, però, condivisibili le ragioni addotte in contrario da Crisafulli,
per il quale, se le decisioni di accoglimento (che, dunque, hanno anche
annullato l’atto impugnato) acquistassero forza di giudicato, ulteriori atti di
esercizio della medesima competenza sarebbero nulli per violazione del
giudicato e disapplicabili: «conclusione logicamente ineccepibile, date le
premesse, ma inaccettabile, perché contraria ad esigenze di certezza nei
rapporti tra Stato e Regioni, e di riflesso negli stessi rapporti tra le
rispettive amministrazioni e gli altri soggetti dell'ordinamento»[16].
In
primo luogo, stupisce che l'applicabilità del giudicato sostanziale sia negata
sulla base del principio di certezza giuridica[17],
laddove è proprio questo principio la base fondamentale dell'istituto del
giudicato. È da sottolineare, infatti, che il fondamento principale del
giudicato sostanziale non è tanto il principio del ne bis in idem ma
proprio l’esigenza di certezza del diritto, tant’è vero che una sentenza è
impugnabile per revocazione solo se contrasta con una precedente passata
in giudicato (e non ha «pronunciato sulla relativa eccezione»), non
semplicemente se si pronuncia de eadem re[18].
L'autorità di cosa giudicata è connaturata alle sentenze perché l'unica
esigenza che la sentenza soddisfa, indefettibilmente, è proprio quella di
certezza giuridica, dal momento che l'altra esigenza rilevante nei diversi
processi (quella della giustizia) può restare, occasionalmente, non soddisfatta[19].
E' possibile, come visto, escludere l'autorità di cosa giudicata per il
prevalere di un interesse pubblico più forte di quello alla certezza, ma non
pare possibile negare che una sentenza «faccia stato» tra le parti per ragioni
di... certezza.
Inoltre,
se il regime della nullità, per certi versi, può creare incertezza giuridica,
per altri versi dà certezza, nel senso che – una volta che una lite è stata
giudicata – si è certi che il soccombente non può più riprodurre in modo
efficace lo stesso atto già annullato. Ancora, è da osservare che pure il
regime della annullabilità può creare incertezza, se l’atto illegittimo
costituisce la base per altri atti.
Dunque,
nonostante la portata ridotta dell’art. 137, 3° comma, Cost. e l’efficacia
delle sentenze di rigetto nei giudizi di legittimità costituzionale, l’istituto
del giudicato sostanziale risulta applicabile alle decisioni emesse dalla Corte
in sede di conflitti di attribuzione tra Stato e Regioni.
2. Conseguenze pratiche dell’applicazione
del giudicato sostanziale alle decisioni sui conflitti tra Stato e Regioni: le
sentenze di accoglimento
Quali
conseguenze pratiche produce tale applicabilità? Si è visto che, in relazione
alle decisioni di accoglimento, si è ipotizzata la nullità, per violazione del
giudicato, degli ulteriori atti di esercizio della medesima competenza già
negata dalla Corte[20].
Occorre ora verificare se la violazione del giudicato produca effettivamente
nullità dell'atto e poi determinare i casi in cui ci sia violazione del
giudicato.
2.1 La “nullità per violazione del
giudicato” nel diritto amministrativo
La
nullità per violazione del giudicato ipotizzata da Crisafulli deriva dal
diritto amministrativo. Si tratta di un'ipotesi formulata in un contesto del tutto
particolare e non sempre pacifica, prima della legge n. 15/2005. Infatti, il
problema era quello dell'inottemperanza al giudicato concretata non con un
comportamento omissivo ma con atti elusivi. Per evitare che tali atti
frustrassero l'esecuzione del giudicato, si è ritenuto che essi non andassero
impugnati con il ricorso ordinario ma attraverso il giudizio di ottemperanza; e
«in alcune formulazioni questa conclusione è stata argomentata con la tesi
secondo cui atti del genere sarebbero radicalmente nulli e tali cioè da porsi
in una logica assolutamente diversa da quella tipica dei provvedimenti
amministrativi»[21].
La decisione «capostipite» di questo orientamento è la sent. Cons. Stato, adun.
plenaria, 19 marzo 1984, n. 6, in base alla quale «è ammissibile il ricorso per
l’ottemperanza ad un giudicato dal quale sia desumibile integralmente il
provvedimento che l’amministrazione debba emettere per la sua esecuzione, anche
se l’amministrazione abbia emanato provvedimenti di diverso contenuto, da
considerarsi perciò nulli anche in difetto di tempestiva impugnazione»[22].
Il criterio utilizzato per distinguere i casi di nullità (con conseguente
esperibilità del giudizio di ottemperanza) o di annullabilità degli atti
contrastanti con il giudicato è, dunque, quello della vincolatività o
discrezionalità dell'attività che la p.a. deve compiere per dare attuazione al
giudicato stesso. Ad es., nella sent. TAR Firenze, n. 1330/2001, si legge che,
«qualora dal giudicato derivi non un semplice vincolo all'attività discrezionale,
ma un obbligo puntuale che non lasci spazio alcuno (tanto che l'ottemperanza
viene a concretarsi nell'adozione di un atto il cui contenuto è integralmente
desumibile dalla sentenza), deve ritenersi che l'Amministrazione resti priva
del potere di provvedere diversamente e che eventuali atti difformi siano nulli
e tali possano essere dichiarati anche in sede di ottemperanza»[23].
L'orientamento,
in questione, non era pacifico: la nullità degli atti elusivi del giudicato era
contestata da alcuni e la giurisprudenza più recente propende ad ammettere il
ricorso in ottemperanza contro tutti gli atti contrastanti con il giudicato[24].
Del resto, la distinzione tra nullità ed annullabilità in base al carattere
vincolato o meno del potere contrastava con il criterio di distinzione accolto
in generale (che, come noto, fa riferimento all'alternativa carenza di
potere-illegittimo esercizio di potere), e può essere interessante anche
segnalare che, nel 1969, Benvenuti riferiva che, «nella dottrina, la violazione
del giudicato viene prospettata in genere come violazione di legge» e che la
giurisprudenza talora prospettava quel vizio «come eccesso di potere» (nel
senso che la sentenza «assumerebbe il significato di un vincolo della
discrezionalità dell’amministrazione»), e concludeva che «la preclusione… non
toglie il potere dell’amministrazione di provvedere nuovamente e al giudice di
decidere nuovamente, ma interpone un elemento che non può essere trascurato»[25].
La
legge n. 15 del 2005, però, ha risolto ogni dubbio, stabilendo che «è nullo il
provvedimento amministrativo che manca degli elementi essenziali, che è viziato
da difetto assoluto di attribuzione, che è stato adottato in violazione o
elusione del giudicato, nonché negli altri casi espressamente previsti
dalla legge» (così il nuovo art. 21-septies, 1° comma, legge n.
241/1990)[26].
Il
legislatore, dunque, ha recepito il più recente orientamento giurisprudenziale,
che riconduceva al giudizio di ottemperanza ogni caso di violazione del
giudicato, e ha anche qualificato come nulli tutti gli atti amministrativi
contrastanti con il giudicato: il che toglie ragion d'essere alla domanda se e
quando un atto contrastante con il giudicato possa considerarsi adottato in
carenza di potere.
2.2 L’orientamento della Corte
costituzionale e della dottrina prevalente: l'illusorietà dell’efficacia di
giudicato delle sentenze di accoglimento.
La
giurisprudenza costituzionale, però, e la dottrina costituzionalistica
prevalente sono orientati in senso opposto rispetto al legislatore del 2005, e
tale orientamento proietta una «zona d’ombra» sull’efficacia di giudicato delle
sentenze di accoglimento, nel senso che è difficile percepire quale sia
l’effetto concreto dell’applicazione del giudicato sostanziale ad esse.
Basti
ricordare la vicenda del commissario dell’Ente Parco dell’arcipelago toscano.
La sent. 20
gennaio 2004, n. 27, ha dichiarato che non spetta allo Stato nominare il
commissario straordinario dell’Ente Parco «nel caso in cui tale nomina avvenga
senza che sia stato avviato e proseguito il procedimento per raggiungere
l’intesa per la nomina del Presidente dello stesso Ente», e ha annullato il
decreto di nomina del commissario. A seguito di ciò, il Ministro dell’ambiente
nominava nuovamente il commissario, scegliendo però una persona diversa.
Scaduto l’incarico, il Ministro nominava quale commissario (per 60 giorni) il
dott. Barbetti, cioè la persona sulla quale la Regione non aveva dato l’intesa
nel procedimento di nomina del presidente e che era stato nominato commissario
con il decreto annullato dalla sent. n. 27/2004.
La Regione decideva di non impugnare, per favorire il raggiungimento dell’intesa
per la nomina del presidente. L’intesa, però, non veniva raggiunta, perché il
Ministro teneva fermo il nome del dott. Barbetti, e, nel frattempo, il suo
incarico di commissario veniva prorogato due volte (sempre di 60 giorni). Nel
momento in cui – a fine 2004 – l’incarico veniva prorogato per 6 mesi, la
Regione sollevava di nuovo conflitto, al quale seguiva un ulteriore conflitto
(comprendente anche istanza di sospensione), perché il Ministro prorogava per
altri sei mesi (dal 4.6.2005) l’incarico commissariale del dott. Barbetti.
Con la
sent. n. 21/2006,
la Corte, dopo aver ricordato di essere stata «investita di identica questione
in relazione alla nomina del commissario straordinario dello stesso Ente», ha
accolto i conflitti ritenendo che il comportamento del Ministro non
rappresentasse «avvio e sviluppo della procedura dell’intesa per la nomina del
Presidente». La Corte ha dichiarato che «non spetta allo Stato… la nomina del
commissario», in assenza di trattative per la nomina del presidente, e ha
annullato i decreti di proroga[27].
Sia il riferimento all’«identica questione» sia il fatto che la Corte non
distingua, nel dispositivo, fra atto di nomina e atti di proroga rivelano che,
per la Corte, l’oggetto del giudizio (oltre alle parti) era uguale a quello
della sent. n.
27/2004. Eppure, non si fa cenno a violazioni del giudicato.
La
Corte ha occasione di pronunciarsi nuovamente sulla vicenda. Infatti, prima
della sent. n.
21/2006, il Ministro aveva «confermato» per altri sei mesi l’incarico commissariale
del dott. Barbetti, con decreto del 24.11.2005. La Regione ha sollevato
conflitto contro questo decreto, chiedendone la sospensione e, questa volta, la
Corte ha accolto l’istanza cautelare con l’ord. 7 aprile 2006,
n. 152 (due mesi dopo il ricorso), osservando che, «relativamente al fumus
boni iuris, risulta l'assenza di una apprezzabile attività per addivenire
all'intesa, da un lato, mancando reiterate ed effettive trattative a ciò
indirizzate... e, dall'altro, essendosi provveduto a confermare quale
commissario straordinario per la durata di sei mesi la stessa persona la cui
nomina era stata già annullata in precedenza da questa Corte»; e che, «con
riferimento al periculum in mora, la perdurante operatività del decreto
impugnato comporta una situazione di patente illegittimità dell'attività
dell'attuale commissario».
La
Corte costituzionale, dunque, di fronte a vicende uguali ad un caso già
giudicato, ha nuovamente deciso nel merito e ha considerato efficaci gli atti
adottati in contrasto con la sent. n. 27/2004
(tant'è vero che la sent. n. 21/2006
ha annullato gli atti impugnati e l'ord. n. 152/2006
ha sospeso l'esecuzione del decreto di conferma).
Come
accennato, anche la dottrina prevalente limita l'efficacia oggettiva delle
sentenze di accoglimento dei conflitti al caso concreto. Infatti, come
noto, in base all'orientamento ormai da tempo affermatosi, l'oggetto del
conflitto di attribuzioni intersoggettivo è la competenza in concreto, cioè la
spettanza o meno della competenza esercitata con quello specifico atto, in quel
particolare modo[28].
Dunque, un nuovo atto di esercizio della medesima competenza non violerebbe il
giudicato[29];
un conflitto instaurato (dalla medesima Regione) contro di esso sarebbe un
giudizio diverso, perché diverso sarebbe il petitum. È chiaro che la
precedente decisione di accoglimento costituirebbe un precedente... assai
autorevole; in casi di questo tipo, talora la Corte ha adottato la formula
della «manifesta non spettanza»[30].
In
questa prospettiva, la dottrina di solito non distingue tra atti analoghi e
atti identici, perché – si può presumere - comunque il nuovo atto è un atto
distinto, adottato in un momento diverso, è un nuovo esercizio di potere[31].
Sembra quasi di cogliere, in questa posizione, l'eco di una risalente dottrina
amministrativistica, secondo la quale, poiché la sentenza amministrativa ha ad
oggetto un atto e non un rapporto, «non abbiamo probabilmente degli effetti del
giudicato apprezzabili in via diretta», ma soltanto un «vincolo rispetto
all'ulteriore attività amministrativa»; la sentenza non colpirebbe il potere
amministrativo o quello del giudice, nel senso di negarli, ma opererebbe come
fatto, venendo inclusa tra i limiti dell'esercizio del potere; di fronte ad un
ulteriore atto amministrativo, «il giudice verrà a trovarsi sempre di fronte ad
una fattispecie nuova»[32].
2.3 La nullità degli atti
amministrativi contrastanti con il giudicato costituzionale
Tale
impostazione, però, va incontro a due obiezioni.
In
primo luogo, già Mortati ha osservato che, «così intesa, la dichiarazione di
appartenenza del potere viene in definitiva a risolversi nell'annullamento
dell'atto»[33].
In effetti, risulta un po' artificiosa l'affermazione che l'oggetto della
decisione è la competenza (seppur in concreto), se poi la
decisione non fa stato neppure per una vicenda identica, nel rapporto fra le
stesse parti. E, verosimilmente, è proprio la difficoltà di limitare in modo
così drastico l'efficacia della sentenza sul conflitto che ha indotto
Crisafulli a negare l'applicabilità del giudicato alle sentenze sui conflitti:
volendo restare coerente alla tesi della competenza come oggetto primario del
conflitto ma non volendo accettare le conseguenze derivanti dall'autorità di
cosa giudicata su quell'oggetto, la conclusione è stata quella di rifiutare la
trasposizione dell'istituto processualistico alle decisioni costituzionali. E
anche Zagrebelsky, che accoglie la tesi prevalente del doppio oggetto del
conflitto, dimostra che, «dal punto di vista pratico», essa si distingue da
quella «che vede nella pronuncia sull'atto la risoluzione del conflitto» solo
facendo riferimento alle sentenze di rigetto. Dunque, l'assunto secondo il
quale il giudicato non varrebbe per ulteriori atti di esercizio della medesima
competenza sembra porsi in contrasto con la tesi che vede nella competenza (in
concreto) l'oggetto della sentenza.
Ma, in
realtà (e in secondo luogo), la posizione della dottrina prevalente e della
Corte non pare coerente neppure assumendo l'atto come oggetto del conflitto. Il
giudizio amministrativo ha ad oggetto la legittimità di un atto ma è pacifico
che, se l'Amministrazione reitera l'atto nei confronti dello stesso soggetto e
con gli stessi vizi, quell'atto viola il giudicato[34] (pare pacifico che atti come quelli oggetto
della sent. n.
21/2006 e dell'ord. n. 152/2006
sarebbero considerati contrastanti con il dictum della sent. n. 27/2004).
Anche il giudizio di costituzionalità ha ad oggetto la legittimità di una legge
ma si ritiene che il legislatore violi il giudicato quando «ricrea... un
assetto identico a quello già accertato come incostituzionale dalla Corte,
ovvero... qualora riproduca il medesimo oggetto del precedente giudizio di
costituzionalità»[35].
La
legge n. 15/2005 ha, poi (come visto), eliminato le incertezze che regnavano
sulle varie ipotesi di violazione del giudicato e sulle sue conseguenze,
accomunando ogni caso nel regime della nullità.
Dunque,
la giurisprudenza costituzionale e la dottrina prevalente vanificano
l'efficacia oggettiva delle sentenze di accoglimento dei conflitti
intersoggettivi, sulla base di un'impostazione teorica che non sembra
sostenibile né considerando la competenza (in concreto) come oggetto del
conflitto né considerando l'atto come oggetto del conflitto.
La
conclusione è che, se l'ente soccombente reitera l'atto annullato nei confronti
dell’ente vittorioso senza emendarlo dei vizi rilevati dalla Corte, tale atto –
secondo i principi attuali del diritto amministrativo– è da considerarsi in
contrasto con il giudicato costituzionale e, dunque, nullo[36].
Naturalmente,
la violazione del giudicato non è scontata, dovendo verificarsi che permanga la
stessa situazione di fatto e di diritto sulla quale si è basata la sentenza
della Corte; vengono in rilievo, a questo proposito, i limiti cronologici del
giudicato, cioè il fatto che esso vincola con riferimento alla situazione di
fatto e di diritto esistente al momento della sua formazione (v. § 1). Però, se
il vizio sussiste ancora, sotto il profilo del fatto (nel caso dell'Ente Parco,
perché non erano state avviate le trattative per la nomina del Presidente) e
del diritto, ciò vuol dire che l'ente soccombente non ha rispettato il dictum
della Corte e ha adottato un atto che non aveva – permanendo quella situazione
– il potere di adottare.
Da questo
punto di vista, il fatto che il nuovo atto valga per un periodo di tempo
diverso rispetto a quello annullato (come accade di regola) o sia addirittura
riferito al medesimo periodo cui si riferiva il precedente atto non è
decisivo in relazione alla violazione del giudicato: la seconda evenienza
rileva solo nel senso di facilitare la verifica di cui sopra, dato che l'unico
elemento innovativo potrebbe essere l'avvenuto annullamento (dopo il giudicato)
delle norme (ad es., regolamentari) sulla base delle quali la Corte ha accolto
il conflitto[37].
Il fatto che il nuovo atto retroagisca, però, potrebbe rilevare in relazione
alla regola generale secondo la quale i provvedimenti amministrativi possono retroagire
solo sulla base di una espressa disposizione di legge o per attuare, «ora per
allora», sentenze del giudice amministrativo[38].
Ancora,
non è decisiva la distinzione tra atti identici e atti analoghi: quello che
conta è che il nuovo atto rispetti o meno la regola di diritto enunciata nella
sentenza. Nel caso dell’Ente Parco, anche l’atto con cui è stato nominato
commissario (subito dopo la sent. n. 27/2004)
una persona diversa dal dott. Barbetti violava il giudicato, pur non essendo
identico a quello annullato dalla Corte, perché comunque vanificava l’effetto
conformativo della sentenza della Corte, in base alla quale il commissario
poteva essere nominato solo se erano state avviate le trattative per la nomina
del presidente[39].
Dunque, il giudizio sulla nullità dell’atto analogo a quello annullato va
svolto caso per caso, valutando se il nuovo atto contrasti o meno con il
giudicato, in base ai criteri del diritto amministrativo[40].
È chiaro
che, per ragioni di certezza, l'ente vittorioso avrà spesso interesse a far
ribadire in via giudiziale le proprie ragioni[41],
ma pare importante tener fermo che l'atto contrastante con il giudicato
potrebbe essere direttamente disapplicato. Se si decide di adire nuovamente la
Corte costituzionale, a rigore bisognerebbe chiedere l'accertamento della
lesività del comportamento consistente nell'adozione di un atto identico
o analogo a quello annullato e la dichiarazione della nullità dell'atto stesso:
tale conflitto non dovrebbe essere dichiarato inammissibile in quanto privo di
oggetto, perché l'adozione di un atto contrastante con il giudicato (e, dunque,
nullo) comunque concreta un comportamento lesivo ed anche i comportamenti
significanti, come noto, possono dare luogo ad un conflitto di attribuzioni.
Se, invece, l'ente vittorioso solleva il secondo conflitto negli stessi termini
del primo, chiedendo l'annullamento dell'atto, la Corte – a rigore – dovrebbe
dichiararlo inammissibile in quanto l'atto da annullare non c'è e per
violazione del ne bis in idem. Peraltro, se la Corte è adita, ragioni di
certezza sconsigliano pronunce di inammissibilità e consigliano sentenze di
accoglimento[42].
La
vicenda dell'Ente Parco, poi, conferma quello che si è detto nel § 1 quanto al
fatto che, se il regime della nullità può creare incertezza, ciò vale anche per
il regime dell'annullabilità: il periculum indicato dalla Corte a
fondamento della sospensione dell'atto di conferma del commissario («la
perdurante operatività del decreto impugnato comporta una situazione di patente
illegittimità dell'attività dell'attuale commissario») è chiaramente
riconducibile al principio di certezza delle situazioni giuridiche.
Per
far luce sulla «zona d'ombra» sopra evidenziata sembra necessaria, quindi, una
correzione della giurisprudenza costituzionale, oltre ad una presa di coscienza
– da parte delle parti confliggenti – della possibilità di disapplicare l'atto
amministrativo contrastante con il giudicato. Dopo la legge n. 15 del 2005, invece,
non pare che ci si possa lamentare di lacune normative.
3. (segue) Le sentenze di rigetto
3.1 Il carattere vincolante delle
sentenze di rigetto sui giudizi amministrativi aventi stesse parti e stesso
oggetto
Il
rilievo dell'efficacia di giudicato delle sentenza di rigetto emerge
soprattutto in relazione all'eventualità che il medesimo atto oggetto del
conflitto sia stato impugnato davanti al giudice amministrativo, per lesione
della competenza costituzionale[43].
Quali condizionamenti produce la sentenza di rigetto della Corte nei confronti
del giudice amministrativo?
È noto
che, nella prassi, i giudici amministrativi sospendono il proprio giudizio in
attesa della pronuncia della Corte, alla quale poi si adeguano[44].
Tale prassi rappresenta un riconoscimento del ruolo centrale della Corte nel
giudicare del rispetto delle competenze costituzionali, del suo carattere di
giudice speciale dei rapporti fra Stato e Regioni. Quello che, però,
occorre stabilire è se i TAR siano vincolati o meno dalle sentenze di rigetto
della Corte[45].
Consideriamo
l’ipotesi che le parti del giudizio amministrativo coincidano con quelle del
conflitto e che davanti al TAR sia fatto valere (anche) il vizio di
incompetenza costituzionale che è stato denunciato in sede di conflitto. Si
tratta di un caso ben conosciuto nella prassi, dato che, quando una Regione
dubita del «tono costituzionale» del conflitto o quando dubita che l’atto
lesivo sia meramente esecutivo di una legge non impugnata, spesso agisce
contemporaneamente su due fronti, impugnando l’atto davanti al TAR e sollevando
il conflitto davanti alla Corte. Di fronte al giudice amministrativo, infatti,
non si pongono problemi di «tono costituzionale» ed è possibile sollevare
questione di costituzionalità in via incidentale in relazione alla legge
applicata dall’atto impugnato, qualora questo sia considerato esecutivo della
legge.
Secondo
la dottrina e la giurisprudenza prevalenti i due giudizi sono autonomi, perché
il conflitto si svolge sul piano «intersoggettivo del riequilibrio dell’assetto
di competenza tra Stato e Regione», mentre il giudizio davanti al TAR si svolge
«sul piano oggettivo di verifica della legalità dell’azione amministrativa»[46].
Dunque, se il giudice amministrativo annullasse per lesione di competenza un
atto fatto salvo dalla Corte, non ci sarebbe un contrasto di giudicati in senso
tecnico[47].
Altra dottrina non esclude una possibile utilità dell’applicazione del
giudicato nel rapporto tra la sentenza della Corte e quella del giudice
amministrativo[48],
mentre altri Autori arrivano a sostenere che, in caso di rigetto del ricorso
per conflitto di attribuzioni tra Stato e Regioni, il giudice amministrativo
sarebbe vincolato dalla decisione costituzionale anche se non c’è identità di
parti[49].
Se
(come visto) si ritiene che le decisioni della Corte abbiano autorità di cosa
giudicata, la sentenza di rigetto del conflitto dovrebbe vincolare il giudice
amministrativo, esistendo identità di soggetti ed oggetto fra i due giudizi[50].
Non pare possibile negare l'identità oggettiva osservando che il conflitto ha
per oggetto la competenza in concreto, mentre il giudizio amministrativo ha per
oggetto la validità dell'atto impugnato. Se il vizio dedotto è, in entrambi i
casi, la lesione di competenza costituzionale, sarebbe formalistico affermare
una diversità oggettiva fra i due giudizi. Se c'è un atto all'origine del
conflitto, l'oggetto di questo comprende anche la validità dell'atto (seppure
in via conseguenziale rispetto all'accertamento di competenza; del resto, è lo
stesso art. 39 legge n. 87/1953 che evidenzia la complessità dell'oggetto del
conflitto, parlando sia di «regolamento di competenza» sia di «atto
impugnato»); d’altro canto, il giudice amministrativo può pronunciare
l’annullamento solo se ha accertato l’esistenza della legittimazione e
dell’interesse della Regione ricorrente e se ha accertato, nel merito,
l’esistenza della lesione di competenza: dunque, anche il giudizio
amministrativo ha una componente di accertamento[51].
In definitiva, il petitum del giudizio amministrativo corrisponde –
sostanzialmente – a quello del conflitto.
Fra
l’altro, la tesi dell’autonomia fra giudizio amministrativo e conflitto, per la
loro diversità di oggetto, è sostenuta da alcuni Autori che – come visto –
sminuiscono gli effetti di giudicato delle sentenze di accoglimento del
conflitto accentuando il fatto che esse sono strettamente collegate alla
vicenda concreta giudicata dalla Corte, cioè allo specifico atto annullato:
pare, dunque, che l’efficacia delle sentenze di accoglimento e di rigetto dei conflitti
di attribuzione sia circoscritta con argomentazioni di cui è dubbia la
coerenza.
Il
carattere vincolante delle sentenze di rigetto dei conflitti (nei confronti del
giudizio amministrativo avente stesse parti e stesso oggetto), oltre a
discendere dall’efficacia di giudicato che abbiamo visto potersi riconoscere
alle sentenze della Corte sui conflitti, soddisfa anche diverse esigenze
sostanziali: quella di economia dei giudizi, quella di evitare decisioni
contrastanti e quella di dare prevalenza alla decisione dell’organo che – oltre
ad avere una posizione assai peculiare nell’ordinamento[52] - ha, in relazione al vizio di lesione di
competenza costituzionale, una giurisdizione speciale e prevista dalla
Costituzione[53].
Non
sembra possibile, però, arrivare a sostenere la necessità di sospensione del
processo amministrativo ex art. 295 c.p.c.[54],
nel caso sia pendente un conflitto di attribuzioni sullo stesso atto. Tale tesi
è stata sostenuta sia considerando l'efficacia vincolante della sentenza della
Corte[55] sia ravvisando un nesso di pregiudizialità tra
il conflitto di attribuzioni ed il giudizio amministrativo[56], ma pare inconciliabile con il modo in cui
l'art. 295 c.p.c. è inteso dalla dottrina processualcivilistica e dalla
giurisprudenza della Cassazione. Infatti, le questioni pregiudiziali che
impongono la sospensione del processo sono quelle che costituiscono antecedente
logico della causa principale e che non possono essere decise incidenter
tantum ma devono essere decise con efficacia di giudicato in altro
processo, in modo che – senza sospensione - potrebbe verificarsi contrasto di
giudicati. La questione pregiudiziale è una questione diversa da quella oggetto
del processo principale[57].
Invece, nel caso che stiamo esaminando, il processo amministrativo ed il
conflitto di attribuzioni hanno ad oggetto la medesima questione, cioè
l’accertamento della lesione della competenza costituzionale, e tale
accertamento non è riservato alla Corte costituzionale, secondo
l’orientamento prevalente[58],
per cui esso può essere compiuto direttamente dal giudice amministrativo.
Concettualmente, il caso della sovrapposizione fra giudizio amministrativo e
conflitto di attribuzioni non andrebbe inquadrato nell’ambito della
pregiudizialità ma in quello della litispendenza (art. 39 c.p.c.).
La
conclusione è che la sentenza con cui la Corte costituzionale respinge il
conflitto di attribuzioni fa stato nel processo amministrativo pendente
tra le stesse parti, e che il giudice amministrativo può (ma non deve) sospendere
il proprio giudizio[59].
3.2 Gli effetti delle sentenze di
rigetto sui giudizi penali e civili
3.2.1 Il caso del conflitto ex
art. 122, 4° comma, Cost.; la questione dell'ambito oggettivo del giudicato
costituzionale
Può capitare che un giudice ordinario debba
decidere una causa che dipende, logicamente, dalla sentenza della Corte: se
viene instaurato un giudizio civile o penale avente ad oggetto la
responsabilità di un consigliere regionale per diffamazione e la Regione di
appartenenza del consigliere solleva conflitto contro un atto di quel processo
(il caso non è certo di scuola, come noto), quale vincolo si produce a carico
del giudice se la Corte dichiara che le opinioni espresse dal consigliere
regionale non sono coperte dall’immunità di cui all’art. 122, 4° comma, Cost. [60]?
È
chiaro che, in questo caso, il conflitto ed il giudizio comune sono
profondamente diversi, sia per parti che per oggetto. Occorrerebbe, dunque,
verificare se le sentenze di rigetto del conflitto tra Stato e Regioni possono
avere un effetto vincolante anche su giudizi aventi diverse parti e diverso
oggetto[61].
Una trattazione completa della questione richiederebbe, da un lato, di
affrontare temi propri del diritto processuale civile e penale (in che limiti
le parti di un giudizio civile o penale possono essere vincolate da un
giudicato formatosi in un giudizio avente parti diverse), dall'altro di
verificare in che misura, nella prassi, le sentenze di rigetto nei conflitti
(tra Stato e Regioni ma anche in quelli tra poteri sollevati ex art. 68,
1° comma, Cost.) siano ritenute vincolanti dai giudici civili e penali.
Entrambe le operazioni esulano dalle possibilità di questo lavoro, per cui ci
si limita, in questa sede, a tracciare un percorso con il quale si potrebbe
arrivare a dare una risposta.
La
questione centrale sembra essere la seguente: il giudicato copre solo
l'accertamento del potere del giudice di compiere l'atto impugnato o si estende
all'affermazione del potere statale di giudicare sulla condotta del consigliere
in quanto non riconducibile alla sua attività di consigliere? Nel primo caso,
l’unico effetto preclusivo sarebbe quello di impedire al giudice di rimettere
in discussione l’atto impugnato per il vizio ritenuto insussistente dalla
Corte, ma nelle successive fasi del processo l’organo giurisdizionale (quello
autore dell’atto impugnato o un altro giudice) potrebbe anche ritenere che la
condotta del consigliere sia “scriminata” ex art. 122 Cost.; nel secondo
caso, la questione dell’applicabilità dell’art. 122, 4° comma, sarebbe ormai
chiusa in senso negativo, per cui – in virtù della sentenza di rigetto della
Corte - nessun giudice potrebbe negare di avere giurisdizione sulla condotta
del consigliere e anche questi non potrebbe più invocare la prerogativa
dell’insindacabilità.
Per
scegliere la prima o la seconda soluzione occorre determinare con esattezza
l’ambito oggettivo del giudicato[62].
Benché in dottrina[63] si ritrovi, talora, l’affermazione secondo la
quale il giudicato si forma sul decisum ma non sulla ratio decidendi (che
avrebbe solo forza di precedente), pare pacifico che, corrispondendo l’oggetto
del giudicato all’oggetto del giudizio, l’ambito oggettivo del giudicato va
definito in relazione sia al petitum (che si trova immancabilmente
espresso nel dispositivo) che alla causa petendi[64] (che, invece, spesso emerge dalla
motivazione). L’affermazione secondo la quale il giudicato non copre la ratio
decidendi può essere accolta, dunque, solo nel senso che il giudicato non
si estende alle argomentazioni utilizzate dal giudice, ma non nel senso
che esso non comprende i motivi della decisione[65].
Gli
elementi che suffragano tale conclusione sono numerosi. Si pensi al principio
secondo il quale “il giudicato copre il dedotto ed il deducibile”[66],
che presuppone chiaramente l’estensione del giudicato ai motivi fatti valere;
al fatto che, se una sentenza si fonda su due distinti motivi e viene impugnata
solo in relazione ad uno di essi, essa passa in giudicato[67];
al fatto che l’ambito del giudicato delle sentenze dei giudici amministrativi
si determina in relazione ai vizi accertati come esistenti (in quanto l’effetto
conformativo della sentenza impedisce all’amministrazione di riadottare l’atto
con quei vizi[68])
o come inesistenti (perché il giudicato di rigetto impedisce alla p.a. di
annullare d’ufficio l’atto per i vizi dichiarati insussistenti nella sentenza[69]);
all'esistenza dei limiti cronologici del giudicato[70];
infine, al fatto che l'effetto di giudicato riconosciuto in misura maggiore o
minore alle sentenze emesse dalla Corte costituzionale nei vari giudizi di sua
competenza è sempre “letto” in relazione allo specifico vizio denunciato[71].
Dunque,
l'ambito oggettivo del giudicato corrisponde all'oggetto del giudizio e, come
noto, in caso di conflitti aventi ad oggetto atti giurisdizionali, la causa
petendi non può essere un error in judicando ma solo un difetto del
potere del giudice di compiere l'atto in questione[72].
Nel caso di conflitti ex art. 122, 4° comma, quindi, la Corte
costituzionale si pronuncia sì sulla lesività dell'atto impugnato ma per una
ragione (l'esistenza o meno del potere giurisdizionale sulla condotta del
consigliere, in relazione all'applicabilità o meno dell'art. 122, 4° comma,
Cost.) che non è limitabile a quello specifico atto. Il motivo che deve essere necessariamente
dedotto nei conflitti su atti giurisdizionali fa sì che il baricentro del
giudizio non sia la valutazione del singolo atto ma l'accertamento del potere
giurisdizionale statale, attraverso la valutazione del carattere “funzionale” o
meno della condotta del consigliere.
Il
fatto che, nei conflitti su atti giurisdizionali, l'accertamento del potere
giurisdizionale (in generale) non appartenga al mero iter argomentativo
ma componga direttamente l'oggetto del conflitto risulta chiaramente dalla giurisprudenza
costituzionale. Si può ricordare, innanzi tutto, la sent. n. 76/2001,
che per la prima volta ha ammesso l'intervento del privato diffamato dal
consigliere in virtù della considerazione che “la valutazione sull’esistenza
della garanzia svolta dalla Corte in sede di conflitto finirebbe per
sovrapporsi all’analoga valutazione demandata al giudice del processo comune”,
e che il conflitto ha ad oggetto “la risoluzione di un tema del tutto
“pregiudiziale” [rispetto al giudizio comune], quale è quello relativo alla
sussistenza o meno nel caso concreto del potere di agire”. Risulta chiaramente
che l'oggetto del conflitto non è tanto la spettanza del potere di compiere lo
specifico atto impugnato quanto piuttosto la valutazione della riconducibilità
della condotta del consigliere all'art. 122, 4° comma Cost., e, dunque,
l'accertamento dell'esistenza o meno del potere giurisdizionale statale.
Ma si possono
fare altri esempi. Di fronte a tre conflitti promossi da una Regione speciale
avverso tre provvedimenti giudiziari emessi in materia di incompatibilità e di
conseguente decadenza dalla carica di consigliere regionale, la Corte ha
osservato che “la controversia... non ha ad oggetto sostanziale la sussistenza
o meno della causa di incompatibilità... né la conseguente decadenza del
consigliere”, dando atto che il motivo “che sorregge tutti tre i ricorsi della
Regione poggia sulla tesi secondo cui giudicare sui casi di ineleggibilità e di
incompatibilità dei membri del Consiglio regionale sardo... spetterebbe
esclusivamente alla competenza del Consiglio regionale medesimo”. L'intera
motivazione della sentenza riguarda l'esistenza o meno del potere giurisdizionale
statale in materia di incompatibilità e, in quel caso, anche il dispositivo
“dichiara che spetta allo Stato, e per esso ai competenti organi
giurisdizionali, giudicare in sede giurisdizionale sulla sussistenza di cause
sopravvenute di incompatibilità con la carica di membro del Consiglio regionale
sardo e sulla conseguente decadenza del consigliere”[73].
Un
altro esempio può essere dato dalla sent. n. 292/2001:
i conflitti erano sorti a seguito di due decreti della Corte dei conti,
sezione giurisdizionale per il Trentino-Alto Adige, con i quali era stato
prescritto all’agente contabile del Consiglio della Regione Trentino-Alto Adige
e del Consiglio della Provincia autonoma di Trento il deposito dei conti
giudiziali relativi alle gestioni degli anni 1996, 1997 e 1998, ma la Corte
individua più in generale il “tema, cui unicamente ha riguardo il presente
giudizio”, nella “spettanza alla Corte dei conti del potere di sottoporre gli
agenti contabili dei consigli al giudizio di conto”[74].
Per
una recente conferma si può ricordare la sentenza n. 416/2006, in
tema di conflitti tra poteri ex art. 68 Cost.: “oggetto
del presente giudizio sul conflitto di attribuzione sollevato dal Tribunale di
Brescia non è la valutazione dell’offensività delle dichiarazioni del
parlamentare imputato, ma solo l’estensione della copertura offerta dal primo
comma dell’art. 68 Cost. alle dichiarazioni che hanno dato origine alla
querela, non spettando a questa Corte stabilire se, nel caso sottoposto al suo
esame, ricorrano o meno gli estremi del reato di diffamazione”[75].
Come
si vede, in tutti i casi esaminati la lesività degli specifici atti impugnati è
solo l'occasione di un giudizio che ha ad oggetto principale l'esistenza
del potere giurisdizionale o su una fattispecie in generale (sent. n. 29/2003
e sent. n.
292/2001) o su una condotta determinata (sent. n. 76/2001
e sent. n.
416/2006); in questi ultimi casi, quindi, il conflitto verte
sull'invocabilità o meno della prerogativa dell'insindacabilità.
Si può anche segnalare che, di fronte
a due conflitti promossi – ex art. 122, 4° comma - da una Regione contro
due distinti atti giurisdizionali, emessi da organi diversi nell'ambito del
medesimo procedimento, la Corte ha disposto la “riunione dei giudizi, avuto
riguardo alla sostanziale coincidenza dell’oggetto dei due ricorsi” (sent. n. 221/2006):
dando, dunque, chiara prevalenza alla condotta rispetto all'atto impugnato ai
fini della definizione dell'oggetto del conflitto .
3.2.2 Il carattere vincolante
della sentenza di rigetto sul “seguito” del giudizio penale o civile
Dunque,
nel caso di conflitto intersoggettivo ex art. 122, 4° comma, Cost., la
sentenza di rigetto della Corte non incide tanto sull’oggetto del giudizio
ordinario (l'esistenza o meno della responsabilità del consigliere regionale)
quanto piuttosto sul presupposto di esso, cioè sulla giurisdizione.
Da ciò discende che, nel momento in cui la
Corte respinge il conflitto sollevato dalla Regione, essa afferma che al
giudice in questione spetta il potere di compiere l'atto impugnato perché la
condotta del consigliere non è riconducibile all’art. 122, 4° comma, Cost.;
le parti del giudizio (Stato e Regione) sono vincolate da questa statuizione,
per cui non possono più mettere in discussione la non riconducibilità della
condotta de qua all'art. 122, 4° comma, Cost. In sostanza, la sentenza
di rigetto si traduce nel riconoscimento allo Stato del potere di
giudicare su quella condotta. La Regione aveva contestato il difetto del
potere giurisdizionale, per effetto dell’art. 122, 4° comma; la Corte ha
statuito che il potere sussiste; il regolamento di competenza operato dalla
Corte fa stato nei rapporti tra Stato e Regione, per cui gli organi
giudiziari statali non possono più dubitare della propria giurisdizione in
ragione dell'art. 122, 4° comma, Cost.; in quel giudizio la sussistenza del
potere del giudice non può più essere discussa, con conseguente impossibilità,
per il consigliere regionale, di appellarsi all’art. 122, 4° comma, Cost. [76].
Questa conclusione non rappresenta una
deroga ai limiti soggettivi del giudicato: la sentenza della Corte vale per lo
Stato e per la Regione ma ciò basta ad impedire al giudice che aveva dato
origine al conflitto, procedendo contro il consigliere (e ai giudici che
dovessero intervenire in seguito), di affrontare nuovamente la questione
dell’invocabilità dell’art. 122, 4° comma. La sentenza della Corte non
pregiudica la valutazione del giudice civile o penale sugli elementi
costitutivi dell’illecito ma solo quella dell’esistenza del suo potere:
l'applicabilità dell'art. 122, 4° comma, Cost. è l’oggetto specifico della
sentenza della Corte e su di esso la decisione di rigetto non può non fare
stato. Opinando diversamente, si dovrebbe anche ammettere che, se la Corte
respinge un conflitto relativo ad un atto di un procedimento amministrativo
dichiarando che spetta all’ente resistente svolgere quel procedimento, la
sentenza non vincoli l’ente vittorioso a ritenersi competente e a proseguire il
procedimento (salve valutazioni di altro tipo). La differenza tra il giudizio
ed il procedimento amministrativo non sembra, in questo caso, rilevante: la
Corte ha attuato le norme costituzionali nel caso concreto e sia i giudici che
la p.a. sono tenuti ad applicare quelle norme così come «precisate» dalla Corte,
essendo destinatari della sentenza. Si possono estendere ai conflitti (sia su
atti amministrativi che su atti giurisdizionali) le chiare parole scritte da
Nigro a proposito della sentenza amministrativa di rigetto: “il giudicato di
rigetto non preclude l'ulteriore attività delle parti e del giudice (o dei
giudici), ma solo se questa abbia fondamento in censure che investano aspetti
dell'episodio di vita totalmente diversi da quelli già esaminati dal giudice;
la preclude invece quando essa pretenda di fondarsi sulle censure già esaminate
e respinte e anche su censure che a queste si colleghino così strettamente da
contribuire alla stessa rappresentazione dell'episodio di vita”[77].
Le parti del giudizio comune, dunque, non subiscono gli «effetti riflessi» del
giudicato perché il loro rapporto è legato a quello oggetto del conflitto ma
perché sono coinvolti dall’esercizio di un’attività e la parte del conflitto
(lo Stato) non può discutere l’esistenza del potere di compiere quell'attività
in relazione all'art. 122, 4° comma, Cost.
Del resto, nella sent. n. 76/2001
la stessa Corte costituzionale ha ammesso (con affermazioni svolte in generale,
non con riferimento al caso di specie) che la sentenza di accoglimento del
conflitto vincola il giudice ordinario[78] e, proprio in ragione di ciò, si è ammesso
l'intervento nel conflitto del terzo diffamato dal consigliere. Ora, il vincolo
a carico del giudice comune non discende necessariamente dal fatto che la
sentenza di accoglimento annulla l'atto impugnato. Occorre distinguere
fra l'effetto della sentenza e l'autorità di cosa giudicata: il primo implica
il venir meno dell'atto ma è il secondo che impedisce di ridiscutere
l'accertamento contenuto della sentenza[79].
Se la sentenza di accoglimento non facesse stato tra le parti, l'annullamento
di un atto giurisdizionale non impedirebbe al giudice di riadottare l'atto (e
l'annullamento di un atto non essenziale per il processo non impedirebbe al
giudice di proseguire comunque il giudizio[80]),
in contrasto con la sentenza della Corte (andando incontro, ovviamente,
all'eventualità di un nuovo conflitto). Nella sent. n. 76/2001,
invece, la Corte esclude questa eventualità e dimostra di attribuire alle
proprie decisioni autorità di cosa giudicata. Ora, in base al principio
generale secondo il quale l'efficacia di giudicato non cambia secundum
eventum litis[81],
anche la sentenza di rigetto deve produrre il medesimo vincolo a carico del
giudice.
L'inoppugnabilità dell'accertamento
compiuto dalla Corte risulta anche da una vicenda in materia di segreto di
Stato, che ha originato addirittura tre conflitti tra poteri ed un giudizio in
via incidentale[82].
La Corte, dopo aver chiarito con la sent. n. 110/1998
che l’opposizione del segreto di Stato da parte del Presidente del Consiglio
dei ministri ha l’effetto di inibire all’autorità giudiziaria di utilizzare gli
elementi di conoscenza e di prova coperti dal segreto (ragion per cui la sent. n. 110/1998
annullò alcuni atti di indagine ed una richiesta di rinvio a giudizio presentata
dalla Procura di Bologna), torna sulla medesima vicenda con la sent. n. 410/1998,
dato che il p.m. aveva reiterato la richiesta di rinvio a giudizio utilizzando
nuovamente i documenti illegittimamente acquisiti; la Corte dichiarò che non
spetta al pubblico ministero rinnovare la richiesta di rinvio a giudizio
utilizzando fonti di prova acquisite in violazione del segreto di Stato già
accertata con sentenza della Corte costituzionale, e annullò la seconda
richiesta di rinvio a giudizio. A seguito di ciò, il p.m. formulò richiesta di
archiviazione, ma il g.i.p. sollevò questione di costituzionalità in relazione
all'art. 256 c.p.p., nella parte in cui consente di opporre il segreto di Stato
anche in relazione ad atti privi del connotato della segretezza in quanto già
contenuti ed acquisiti al fascicolo processuale. La Corte precisò di aver già “inoppugnabilmente
definito la controversia in merito all’utilizzabilità degli stessi atti, sui
quali è stato opposto e confermato il segreto di Stato, cui fa riferimento il
giudice a quo”, e che, “derivando inequivocabilmente, e in via definitiva,
la sanzione dell’inutilizzabilità degli atti di cui si tratta, non già
dall’art. 256 cod. proc. pen., bensì dalle due citate sentenze della Corte
costituzionale, sottratte dall’art. 137, ultimo comma, della Costituzione, a
qualsiasi forma, anche indiretta o impropria, di impugnazione, il giudice a
quo avrebbe dovuto rilevarla d’ufficio”[83].
Tale decisione è interessante perché
mostra che non è il meccanismo dell'annullamento che può giustificare una
diversa efficacia delle sentenze di accoglimento rispetto a quelle di rigetto.
Nel caso di specie, il g.i.p. non era affatto vincolato dal venir meno della
richiesta di rinvio a giudizio (annullata dalla sent. n. 410/1998)
perché si trovava a decidere su una richiesta di archiviazione: eppure, la
Corte ha ritenuto che esso fosse vincolato dal giudicato costituzionale
(giudicato di carattere sostanziale, nonostante l'improprio riferimento operato
dall'ordinanza all'art. 137, 3° comma, Cost.).
Nella sent. n. 487/2000,
pronunciata sempre su un conflitto tra poteri sollevato dal Presidente del
Consiglio in ordine alla medesima vicenda, la Corte ha precisato che “rispetto
alla valutazione circa l’inutilizzabilità dei documenti di cui si tratta non
compete [al g.i.p.], in questo caso, alcun potere decisorio in ordine alla
adozione di determinazioni ulteriori e diverse dal rilievo d’ufficio della
inutilizzabilità di tali documenti,... non residuando nel procedimento penale a
quo alcuno spazio per fare applicazione, ai fini dell’identificazione degli
atti non utilizzabili, dell’art. 256 cod. proc. pen.”[84].
Qui la Corte rende chiaro che la propria precedente sentenza ha prodotto il
tipico effetto del giudicato sostanziale, cioè quello di consumare il
potere giurisdizionale su una certa questione[85].
La Corte, dunque, ha considerato
l'accertamento contenuto in una propria decisione vincolante nel seguito del
giudizio (anche nei confronti di un organo diverso da quello parte del
precedente giudizio): da un lato, anche in questo caso si conferma che l'oggetto
del giudicato non è limitato agli specifici atti impugnati ma comprende la ratio
decidendi, dall'altro non si vede perché l'accertamento contenuto
nella sentenza di rigetto non dovrebbe vincolare analogamente, nel “seguito”
giudiziario, gli organi del soggetto (lo Stato) che è stato parte del conflitto
intersoggettivo.
Se tale conclusione è esatta, nel
caso del conflitto ex art. 122, 4° comma, Cost., il consigliere
regionale sarebbe danneggiato da una sentenza (di rigetto) emessa su un
giudizio al quale non ha partecipato: di qui la necessità di ammettere
l’intervento del consigliere davanti alla Corte costituzionale, necessità che
risulta – ovviamente – assai pressante in caso di giudizio penale, dato che non
si può negare all’indagato (o imputato) la possibilità di difendersi su una
questione che può essere decisiva ai fini del giudizio finale[86].
Né sembra possibile svalutare quest'esigenza facendo notare che il consigliere
è difeso indirettamente dalla Regione[87]:
la difesa è un diritto inviolabile e ogni soggetto deve poterla esercitare
personalmente e direttamente, senza dipendere dalla condotta processuale di
altri soggetti.
Può
essere interessante notare, in conclusione, che – se la tesi sopra esposta è
esatta – la Corte svolgerebbe una funzione di «regolamento di giurisdizione»,
nei rapporti tra giudici ordinari e consigli regionali, analoga a quella svolta
dalla Cassazione nei rapporti tra giudici ordinari e giudici speciali e tra
giudici ordinari e pubblica amministrazione: ma ciò non deve stupire più di
tanto, se si rammenta, da un lato, che la competenza della Corte sui conflitti
di attribuzione tra poteri è stata «estratta» proprio dalla competenza della
Cassazione sulle questioni di giurisdizione, che in origine comprendevano anche
le questioni di attribuzione tra giudici e altri poteri pubblici[88],
dall’altro che il conflitto intersoggettivo relativo ad atti giurisdizionali
nasconde un conflitto tra poteri.
4. I limiti soggettivi della
decisione
4.1 Considerazioni generali
I
punti fin qui fissati (applicabilità del giudicato sostanziale alle decisioni
sui conflitti Stato-Regioni, limiti del giudicato, collegamento fra portata
della decisione e motivo di essa) consentono di svolgere qualche breve
osservazione anche sul tema dell’ambito soggettivo delle sentenze con cui la
Corte decide i conflitti tra Stato e Regioni. In questa materia vale la regola
processualistica generale, per cui esse valgono solo per gli enti che hanno
partecipato al processo, salvi gli effetti dell'eventuale annullamento, il cui
ambito soggettivo coincide con quello dell'atto annullato[89] (a parte
i casi di limitazione dell'annullamento alla Regione ricorrente, sui quali v. infra).
In
dottrina si distingue, peraltro, giustamente, tra efficacia soggettiva
dell'annullamento (che, appunto, dipende dall'atto annullato) ed efficacia
soggettiva del giudicato[90],
ma, nel caso dei conflitti Stato-Regioni, è dubbio il rilievo pratico di tale
distinzione. Infatti, se la conseguenza di essa consiste nel fatto che il
divieto di adottare un atto identico a quello annullato “non potrebbe in nessun
modo valere con riferimento a soggetti che non hanno partecipato al giudizio”[91],
è da osservare che ciò vale quando l’atto annullato è di una Regione[92],
ma in questo caso anche gli effetti dell’annullamento rimangono circoscritti a
quella Regione.
Quanto
alle sentenze di rigetto, la limitazione soggettiva del giudicato fa sì che una
Regione possa impugnare davanti alla Corte l’atto statale già contestato senza
successo da un’altra Regione (naturalmente, se per la prima non era decorso il
termine di impugnazione), anche per gli stessi motivi: in questo caso, la
sentenza di rigetto opererà come precedente ma, in astratto, la Corte potrebbe
mutare orientamento.
Sempre
in virtù dei limiti del giudicato, se un privato impugna un atto regionale o
statale facendo valere il vizio di incompetenza già dedotto, senza successo,
davanti alla Corte in sede di conflitto, oppure se un atto statale fatto salvo
dalla Corte è impugnato, per lo stesso motivo, davanti al TAR da una Regione
diversa, il giudice amministrativo non è giuridicamente vincolato dalla
sentenza della Corte[93].
La sentenza della Corte non fa stato (se fosse altrimenti, il privato o
la Regione si troverebbero condizionati da una sentenza emessa in un giudizio
al quale non hanno partecipato), ma è chiaro che costituirà un precedente
autorevole, provenendo dall’organo specializzato nella materia in questione.
4.2 La limitazione soggettiva
dell’annullamento
Qualora l'atto generale oggetto del
conflitto sia viziato solo in relazione alla Regione ricorrente (o,
comunque, ad alcune Regioni), la Corte limita l'ambito soggettivo della
propria sentenza alla Regione stessa (o alle Regioni in
questione)[94].
Il caso tipico è quello del conflitto
sollevato da una Regione speciale, che fa valere una prerogativa ad essa
peculiare, in quanto prevista dal proprio Statuto speciale (o dalle relative
norme di attuazione).
In dottrina si è segnalato che,
talora, in casi di questo tipo, la Corte non limita l'accoglimento alla Regione
ricorrente ma annulla l’atto in generale[95].
In realtà, in tutti i casi indicati la Corte ha annullato tout court l’atto
impugnato perché il vizio non era limitato alla Provincia autonoma ricorrente,
venendo in rilievo una competenza spettante anche alle Regioni ordinarie (e
alle altre Regioni speciali)[96].
Si potrebbe osservare che la dimensione dell’annullamento deve corrispondere
alla dimensione del vizio e che, quindi, opportunamente la Corte – in quei casi
– non si è fermata alla specialità del motivo di ricorso (che, ovviamente,
faceva riferimento allo Statuto speciale) ma ha tenuto conto della generalità
del vizio accertato. Resta, però, la discrasia fra motivo del ricorso e motivo
(implicito) della decisione, il che suscita perplessità dal punto di vista di
vari principi processuali: quello della corrispondenza tra chiesto e pronunciato, quello per
cui il giudice non deve procedere d'ufficio (la Corte costituzionale dovrebbe
verificare autonomamente se l’atto impugnato viola anche il Titolo V e/o gli
altri Statuti speciali) e quello del contraddittorio, dato che l’Avvocatura non
potrebbe difendersi in relazione a parametri inespressi. D’altro canto, la
stretta corrispondenza della sentenza alla causa petendi sacrificherebbe
altri importanti principi: quello della legalità costituzionale, quello di
economia processuale (se l’atto può essere contestato dalle altre Regioni) e
quello della certezza del diritto (soprattutto se l’atto è la base di altri
atti). Complessivamente, dunque, la giurisprudenza costituzionale sopra citata
non sembra criticabile.
Ugualmente,
e sempre per lo stretto collegamento esistente tra vizio accertato e portata
della decisione, risultano condivisibili quelle sentenze che limitano
l’accoglimento alla Regione speciale ricorrente pur quando l’atto è impugnato
per violazione di norme “generali” (ad es., il principio di legalità), con
conseguente menomazione di competenze statutarie. Secondo alcuni, in questo
caso sarebbe speciale solo la competenza di cui si chiede tutela, non il vizio
e,“pur se il vizio accertato ha natura per così dire 'generale', nondimeno la
Corte valorizza il requisito dell'interesse a sollevare il conflitto, requisito
che presuppone l'incidenza dell'atto sulle attribuzioni del ricorrente”[97].
In realtà, nei casi di “triangolazione” il parametro è composto anche
dallo Statuto speciale (altrimenti, il conflitto sarebbe inammissibile), per
cui il vizio è speciale[98].
Il fatto che sia affermata la lesione delle competenze statutarie non dovrebbe
mettere in gioco l'interesse al ricorso ma la legittimazione, perché quella
lesione è il motivo che deve essere necessariamente dedotto per sollevare il
conflitto[99].
In
base ai medesimi criteri, si potrebbe giustificare la limitazione dell’annullamento
alla Regione ordinaria ricorrente, qualora la lesione consista nella
sovrapposizione dell’atto impugnato ad una disciplina adottata dalla ricorrente
(e non dalle altre Regioni). Anche in questo caso, la limitazione sarebbe
giustificata dalla specialità del vizio perché, se la competenza statale è
esclusa non dall’astratta competenza regionale ma dal concreto esercizio di
questa, l’atto statale è del tutto legittimo in relazione alle Regioni prive di
disciplina, per cui la limitazione dell’accoglimento alla Regione ricorrente
corrisponde al fatto che l’atto è lesivo solo in relazione ad essa[100].
* Rielaborazione
di un intervento programmato svolto al convegno di Modena su “Le zone d'ombra
della giustizia costituzionale - I conflitti di attribuzioni” e destinato alla
pubblicazione nei relativi atti per i tipi di Giappichelli, Torino, a cura di R.
Pinardi
[1] Art. 324 c.p.c., Cosa giudicata formale:
«S’intende passata in giudicato la sentenza che non è più soggetta né a
regolamenti di competenza, né ad appello, né a ricorso per cassazione, né a revocazione
per i motivi di cui ai numeri 4 e 5 dell’articolo 395».
[2] L’esperibilità della revocazione straordinaria
e dell’opposizione di terzo, invece, non impediscono il passaggio in giudicato
della sentenza.
[3] Art. 2909 c.c., Cosa giudicata:
«L’accertamento contenuto nella sentenza passata in giudicato fa stato a ogni
effetto tra le parti, i loro eredi o aventi causa».
[4] Su ciò si veda la fondamentale voce di G. Pugliese, voce Giudicato civile (dir.
vig.), in Enc. dir., Milano, 1969, 800 ss; v. poi, anche per
ulteriori citazioni, A. Chizzini,
Art. 2909, in G. Cian – A.
Trabucchi (a cura di), Commentario breve al codice civile,
Padova, 2004, 3230; C. Mandrioli,
Diritto processuale civile, I, Torino, 2005, 146 ss.; E.T. Liebman, Manuale di diritto processuale
civile - Principi, Milano, 2002, 265 ss.
[5] V. A. Chizzini,
op. cit., 3232 ss.; G. Pugliese,
op. cit., 862 ss.
[6] In base alla sent. n. 29/1998,
l’art. 137, 3° comma, «non si limita ad interdire gravami devoluti ad altri
giudici, giacché non è configurabile un giudizio superiore rispetto a quello
dell’unico organo di giurisdizione costituzionale, ma impedisce anche il
ricorso alla stessa Corte contro le decisioni che essa ha emesso»; l’art. 137,
3° comma, vieta «qualsiasi tipo di impugnazione, qualunque sia lo strumento con
il quale è richiesto il sindacato sulle decisioni della Corte cost. …[sicché
è]… così inibita ogni domanda diretta ad incidere su di una sentenza
pronunciata dalla Corte e proposta per ottenerne l’annullamento o la riforma,
anche solo nella motivazione, ovvero ad eliderne gli effetti». Parla di
giudicato formale, in riferimento all’art. 137, 3° comma, P. Costanzo, Il dibattito sul giudicato
costituzionale nelle pagine di Giurisprudenza costituzionale (note
sparse su un tema di perdurante attualità), in A. Pace (a cura di), Corte costituzionale e processo
costituzionale, Milano, 2006, 218.
[7] V. A. Pizzorusso,
Art. 137 – IX, in G. Branca
(a cura di), Commentario della Costituzione, Bologna-Roma, 1981, 695
ss., per il quale l'art. 137, 3° comma, non esclude neppure la possibilità di
applicare al processo costituzionale l'istituto della revocazione di cui
all'art. 395 c.p.c.; M.R. Morelli,
Art. 137, in V. Crisafulli – L.
Paladin (a cura di), Commentario breve della Costituzione,
Padova, 1990, 808; sull’art. 137, 3° comma, v. anche M. Perini, Il seguito e l’efficacia
delle decisioni costituzionali nei conflitti fra poteri dello Stato,
Milano, 2003, 160 ss.
[8] V. F. Dal
Canto, voce Giudicato costituzionale, in Enc. dir., V
aggiornamento, Milano, 2001, 434, e R. Manfrellotti,
Effetti del giudicato costituzionale reso in sede di conflitto
intersoggettivo e validità degli atti amministrativi, in Giur. cost.,
n. 1/2006, 169. Dal Canto supporta questa interpretazione dell’art. 137, 3°
comma, Cost. citando la sent. n. 29/1998
della Corte costituzionale, che, però, come visto nella nota 6, sembra
escludere ricorsi volti ad incidere sul giudicato formale più che presupporre
l’intangibilità degli effetti sostanziali della sentenza.
[9] V. G. Pugliese,
op. cit., 803.
[10] Per A. Chizzini,
op. cit., 3230, il giudicato formale è il solo presupposto del giudicato
sostanziale, per «imprescindibili esigenze di certezza del diritto».
[11] In questo senso si era espresso già M. Cappelletti, Pronunce di rigetto nel
processo costituzionale delle libertà e cosa giudicata, in Riv. dir.
proc., 1956, 149 e 155; v. poi, per tutti, M.R. Morelli, Art. 134, in V.
Crisafulli – L. Paladin (a cura di), op. cit., 803, L. Paladin, Diritto costituzionale,
Padova, 1998, 775 ss., V. Crisafulli,
Lezioni di diritto costituzionale, t. II, Padova, 1984, 394, e,
in senso critico rispetto all’orientamento prevalente, A. Ruggeri, Storia di un “falso” -
L’efficacia inter partes delle sentenze di rigetto della Corte
costituzionale, Milano, 1990, 27 ss.
[12] L'art. 37 legge TAR regola i “ricorsi...
diretti ad ottenere lo adempimento dell'obbligo dell'autorità amministrativa di
conformarsi al giudicato degli organi di giustizia amministrativa”; inoltre, il
riconoscimento dell'autorità di cosa giudicata alle sentenze amministrative è
ricavato anche, a contrariis, dall'art. 28 r.d. n. 1054/1924, che
autorizza il Consiglio di Stato «a decidere di tutte le questioni pregiudiziali
od incidentali relative a diritti», precisando che «su dette questioni...,
tuttavia, la efficacia della cosa giudicata rimane limitata alla questione
principale decisa nel caso»: v. E. Ferrari,
Art. 28, in A. Romano (a
cura di), Commentario breve alle leggi sulla giustizia amministrativa,
Padova, 2001, 441. All'”inesecuzione del giudicato amministrativo”, infine, fa
riferimento l'art. 26 dPR n. 3/1957. Sul giudicato amministrativo ci si limita
a rinviare – oltre che alle monografie di M. Clarich,
Giudicato e potere amministrativo, Padova, 1989, e P.M. Vipiana, Contributo allo studio del
giudicato amministrativo, Milano, 1990 - a F. Benvenuti, voce Giudicato (dir. amm.), in Enc. dir.,
Milano, 1969, 893 ss.; M. Nigro,
Giustizia amministrativa, Bologna, 1994, 297 ss.; A.M. Sandulli, Manuale di diritto
amministrativo, vol. 2, Napoli, 1989, 1515 ss.; G. Abbamonte – R. Laschena, Giustizia
amministrativa, in G. Santaniello
(a cura di), Trattato di diritto amministrativo, Padova, 1997, 383 ss.;
A. Travi, Lezioni di
giustizia amministrativa, Torino, 2006, 325 ss., per il quale il giudicato
«esterno» comporta «un vincolo anche rispetto a giudizi diversi, che possano
instaurarsi fra le medesime parti, nei quali assuma rilevanza la medesima
questione»; F.G. Scoca (a cura
di), Giustizia amministrativa, Torino, 2006, 455 ss.; C.E. Gallo, Manuale di giustizia
amministrativa, Torino, 2005, 247 ss.; E. Ferrari, Art. 45, in A.
Romano (a cura di), op. cit., 545 ss., che evidenzia come la
forza di giudicato fu vista sin dalla fine dell'800 come un corollario del
riconoscimento della natura giurisdizionale delle decisioni della IV sezione;
E. Ferrari, Art. 26, in A. Romano (a cura di), op. cit.,
888 ss., ove si precisa che la forza di giudicato riguarda sia gli effetti
demolitori sia quelli ripristinatori sia quelli conformativi prodotti dalla
sentenza di annullamento.
[13] Secondo A.M. Sandulli, Natura, funzione ed effetti delle pronunce della
Corte costituzionale sulla legittimità delle leggi, in AA. VV., Studi in
onore di Emilio Betti, Milano, 1962, e ripubblicato in AA. VV., 1956-2006
– Cinquant'anni di Corte costituzionale, t. I, Roma, 2006, 460, il
giudicato sostanziale «è proprio di tutte le pronunce giurisdizionali
inoppugnabili intervenute in processi di cognizione autonomi»; in relazione ai
conflitti tra poteri, M. Perini, op.
cit., 192 s., nota che l’estensione del giudicato alle sentenze della Corte
si giustifica per la «concordanza di scopo» tra i due istituti, in quanto essi
servono a «stabilizzare una data fattispecie in modo da evitare future
controversie».
[14] «In vari tempi e in vari ordinamenti si è
riconosciuta l’esistenza di casi, in cui l’interesse alla decisione esatta e giusta
appariva, per l’importanza primaria dei relativi valori, socialmente superiore
all’esigenza della certezza e induceva ad accantonare o negare l’autorità del
giudicato»: G. Pugliese, op.
cit., 850; sulla non essenzialità del giudicato sostanziale per la funzione
giurisdizionale v. già M. Cappelletti,
op. cit., 140.
[15] Parlano espressamente di «giudicato», con
riferimento alle decisioni dei conflitti di attribuzioni tra Stato e Regioni,
C. Mortati, Istituzioni di
diritto pubblico, t. II, Padova, 1976, 1447; A. Pizzorusso, voce Conflitto, in Novissimo Digesto italiano, Appendice, vol.
II, Torino, 1981, 382; G. Zagrebelsky,
La giustizia costituzionale, Bologna, 1988, 360 s.; A. Cerri, Corso di giustizia
costituzionale, Milano, 2004, 341 ss.; A. Ruggeri – A. Spadaro,
Lineamenti di giustizia costituzionale, Torino, 2004, 268 s.; G. Volpe, Art. 137 – IV – La disciplina
del procedimento nel conflitto tra enti, in G. Branca (a cura di), Commentario alla Costituzione,
Bologna-Roma, 1981, 421; P. Bianchi,
Il conflitto di attribuzioni tra Stato e Regioni, in R. Romboli (a cura di), Aggiornamenti in
tema di processo costituzionale, Torino, 1996, 324; L. Mannelli, Il conflitto di
attribuzioni tra Stato e Regioni, in R. Romboli
(a cura di), Aggiornamenti in tema di processo costituzionale, Torino,
1999, 319 ss.; F. Dal Canto,
op. cit., 463, che, però, si limita ad invocare l'art. 137, 3° comma, Cost.
(nel medesimo senso v. E. Malfatti
– S. Panizza – R. Romboli, Giustizia costituzionale,
Torino, 2003, 210); G. Chiarelli,
I conflitti di attribuzione, in G. Maranini
(a cura di), La giustizia costituzionale, Firenze, 1966, 60 e 67; G.
Belli, Il sindacato di
costituzionalità delle leggi regionali ed i conflitti di attribuzioni fra Stato
e Regioni e tra le Regioni, in AA. VV., La Corte costituzionale,
Roma, 1957, 476 e 483; per M.R. Morelli,
op. cit., 790, «la decisione fa stato solo in riferimento alla
fattispecie concreta individuata nel processo concluso». Sull’efficacia di
giudicato delle sentenze emesse sui conflitti tra poteri v., anche per
ulteriori citazioni, M. Perini, op.
cit., 40 ss. e 188 ss.; A. Pisaneschi,
I conflitti di attribuzione tra i poteri dello Stato, Milano 1992, 403
ss.; M. Mazziotti, I
conflitti di attribuzione fra i poteri dello Stato, Milano 1972, 61 s. e
187 ss.; L.A. Mazzarolli, Sull’efficacia
delle decisioni della Corte costituzionale sui conflitti di attribuzione tra
potere legislativo e autorità giurisdizionale e sui riflessi delle stesse sulla
posizione delle parti processuali e sulle successive determinazioni del giudice,
in AA.VV., Scritti in onore di Livio Paladin, Napoli, 2004, t. III,
1318.
[16] V. V. Crisafulli,
op. cit., 452.
[17] In senso simile v. R. Manfrellotti, op. cit., 169, che, però, attribuisce
valore sostanziale al giudicato formale di cui all'art. 137, 3° comma, Cost. e
fa coincidere l'efficacia della sentenza con l'immutabilità degli effetti (la
pronuncia sul conflitto “o non ha alcuna rilevanza giuridica, o non può che
avere efficacia di cosa giudicata”), oltre a ritenere il giudicato requisito
imprescindibile di ogni pronuncia giurisdizionale (170).
[18] V. G. Pugliese,
op. cit., 827 e 835; A. Chizzini,
op. loc. cit.; F. Dal Canto, Il
giudicato costituzionale nel giudizio sulle leggi, Torino, 2002, 30 ss.,
cui si rinvia anche per citazioni dottrinali in materia di certezza del
diritto.
[19] V. N. Jaeger, Sui limiti di efficacia delle decisioni della Corte costituzionale, in Riv. dir. proc., 1964, 364 ss., e ripubblicato in AA. VV., 1956-2006 – Cinquant'anni di Corte costituzionale, t. I, Roma, 2006, 358 s. Può restare occasionalmente insoddisfatta sia l'esigenza di giustizia formale (cioè, l'esatta applicazione della legge) sia quella di giustizia sostanziale (per inadeguatezza della norma applicata, in generale o in relazione alla specifica fattispecie).
[20] Oltre a Crisafulli, anche A. Cerri, op. cit., 341 s.,
considera nulli-inesistenti gli atti contrastanti con il giudicato ma, a
differenza del primo Autore, accetta tale conseguenza, anche se la limita
all’«atto meramente riproduttivo (esecutivo-confermativo) di quello oggetto già
di censura».
[21] Così A. Travi,
op. cit., 336.
[22] V. Foro it., 1984, III, 331.
[23] V. anche le sentt. TAR Roma, n. 6776/2005, TAR
Napoli, n. 4485/2001 e Cons. Stato, ad. plen., n. 7/1995.
[24] V. F.G. Scoca,
op. cit., 469; V. A. Travi,
op. cit., 337; L. Verrienti,
Art. 27, sez. II, in A. Romano (a
cura di), op. cit., 420 ss. Per la giurisprudenza, v., ad es., Cons.
Stato, sez. VI, 20 luglio 2004, n. 5251: «il ricorso per ottemperanza è
ammissibile in ogni caso, anche dopo l’adozione di atti esecutivi a contenuto
discrezionale, senza necessità di operare la tradizionale dicotomia concettuale
tra elusione ovvero violazione del giudicato, qualora il petitum sostanziale
del ricorso attenga all’oggetto proprio del giudizio d’ottemperanza, e miri
cioè a far valere non già la difformità dell’atto sopravvenuto rispetto alla
legge sostanziale (in tal caso occorrendo esperire l’ordinaria azione d’annullamento),
bensì la difformità specifica dell’atto stesso rispetto all’obbligo
(processuale) di attenersi esattamente all’accertamento contenuto nella
sentenza da eseguire».
[25] V. F. Benvenuti,
op. cit., 902.
[26] In base al 2° comma, «le questioni inerenti
alla nullità dei provvedimenti amministrativi in violazione o elusione del
giudicato sono attribuite alla giurisdizione esclusiva del giudice
amministrativo». Sul nuovo art. 21-septies v. A. Susca, L’invalidità del provvedimento
amministrativo dopo le leggi n. 15/2005 e n. 80/2005, Milano, 2005, 77 ss.;
A. Travi, op. cit.,
337; F.G. Scoca, op. cit.,
469 ss.; C.E. Gallo, op.
cit., 272; G. Falcon, Lezioni
di diritto amministrativo, vol. I, Padova, 2005, 144 ss.; D. Sorace, Diritto delle amministrazioni
pubbliche, Bologna, 2005, 345 s.; G. Corso,
Manuale di diritto amministrativo, Torino, 2006, 292 ss..
[27] V. il punto 6 del Diritto. Come detto,
la Regione non aveva impugnato la nomina del 6.4.2004, ma solo le proroghe del
18.11.2004 e dell’8.6.2005. La decisione di merito ha assorbito quella
sull’istanza cautelare (ed è intervenuta 5 mesi dopo l’inizio del processo).
[28] Su ciò ci si limita a rinviare a L. Paladin, op. cit., 803; G. Zagrebelsky, op. cit., 334 e 361;
V. Crisafulli, op. cit.,
449; S. Grassi, Il giudizio
costituzionale sui conflitti di attribuzione tra Stato e Regioni e tra Regioni,
Milano, 1985, 176 ss.; S. Grassi,
Conflitti costituzionali, in Digesto disc. pubbl., III, Torino,
1989, 374 s.
[29] V. L. Paladin,
op. cit., 803 nota 42; G. Zagrebelsky,
op. cit., 361 s.; A. Cerri,
op. cit., 341, che fa valere esigenze di certezza del diritto; A. Ruggeri – A. Spadaro, op. cit., 269; E. Malfatti – S. Panizza – R. Romboli,
op. cit., 210; G. Volpe,
op. loc. cit.; T. Martines
– A. Ruggeri – C. Salazar, Lineamenti di diritto
regionale, Milano, 2005, 339; M.R. Morelli,
op. cit., 790; F. Dal Canto,
voce Giudicato costituzionale, cit., 463; G. Chiarelli, op. cit., 60.
[30] V. A. Mangia,
L'accesso nei conflitti intersoggettivi, in A. Anzon. - P. Caretti. - S. Grassi, Prospettive di accesso
alla giustizia costituzionale, Torino, 2000, 328.
[31] Degli autori citati nella nota 29 solo Cerri
(p. 342) e Dal Canto (p. 463, nota 234) distinguono atti identici e atti
analoghi a quello annullato, ritenendo che i primi violino il giudicato (e i
secondi no); v., per l’opinione di Cerri, la nota 20. C. Mortati, op. loc. cit., riferisce
che la giurisprudenza ritiene necessario un nuovo giudizio sia in caso di
reiterazione dell'atto annullato sia in caso di nuovo atto afferente alla stessa
competenza ma riguardante soggetti diversi o situazioni di fatto diverse.
[32] V. F. Benvenuti,
op. cit., 902 ss.; per l'A. «ogni potere pubblico contiene... quel
minimo di originarietà che respinge effetti giuridici diretti da parte della
manifestazione di altro potere» (nota 31); «la presenza del nuovo atto...
funziona anche da schermo frapposto fra il giudicato di prima e l'eventuale
giudizio di poi, per modo che la nuova attività del giudice viene condizionata
dal precedente giudicato in modo del tutto indiretto» (904). Su tale teoria v.,
criticamente, C.E. Gallo, op.
cit., 249 ss., M. Nigro, op.
cit., 302 s., e M. Clarich,
op. cit., 51 ss.
[33] V. C. Mortati,
op. loc. cit.
[34] Per A.M. Sandulli,
Manuale, cit., 1515 s., «l’accoglimento del ricorso importa… che
l’Amministrazione non possa, senza incorrere in inosservanza del giudicato nei
confronti delle parti in causa…, emanare di nuovo l’atto senza averne eliminato
i vizi che ne determinarono la caducazione, e senza attenersi alla ‘regola di
diritto’ enunciata dal giudice nel provvedere»; sull’«effetto conformativo»
delle sentenze di annullamento v. la dottrina citata nella nota 12. In
giurisprudenza v., ad es., la sent. TAR Roma, n. 6776/2005: «l’obbligo di ottemperanza
[al giudicato]… non può ritenersi soddisfatto in presenza di un provvedimento
dal contenuto oggettivamente elusivo, che non recepisca le ragioni
dell’intervenuto annullamento in quanto reiteri motivazioni già dichiarate
illegittime, o contenga irrituali contestazioni della sentenza: un
provvedimento, quello del tipo indicato, da ritenersi “tamquam non esset”,
ovvero nullo per violazione del giudicato (giurisprudenza pacifica: cfr., fra
le tante, Cons. St., sez. V, 7.3.2001, n. 216 e 11.10.1996, n. 1231; sez.
IV, 20.3.1992, n. 304; TAR Toscana, 9.8.2001, n. 1330) ».
[35] V. F. Dal
Canto, op. ult. cit., 451.
[36] Invece, non ci sarebbe violazione del
giudicato, dati – se non altro - i suoi limiti soggettivi, se lo Stato
soccombente adottasse un atto del tutto analogo a quello annullato nei
confronti di una Regione diversa o se una Regione diversa da quella soccombente
adottasse un atto del tutto analogo a quello annullato; in questo caso,
ovviamente, la sentenza della Corte agirebbe come “precedente”. Anche per R. Manfrellotti, op. cit., 175,
l'atto oggetto della sent. n. 21/2006
era nullo in virtù dell'art. 21-septies legge n. 241/1990.
[37] Dunque, si concorda con F. Dal Canto, op. ult. cit., 451 s.,
là dove afferma che la violazione del giudicato – da parte del legislatore – si
determina anche se la normativa annullata è riprodotta solo per il futuro, ma
non là dove afferma che, se la riproduzione avviene per il passato, la verifica
di permanenza del vizio originario è scontata (452), perché potrebbe esserci
stato, dopo il giudicato, un annullamento retroattivo della norma-parametro.
[38] V., per tutti, G. Falcon, op. cit., 161 s.
[39] Un altro esempio può essere tratto dalla sent. n. 207/1996, che ha dichiarato la non spettanza allo Stato, «in mancanza di intesa con la Regione», del potere di collocare fuori ruolo un dipendente della Regione «per le urgenti necessità operative dei Servizi tecnici nazionali della Presidenza del Consiglio dei Ministri», e ha annullato «il d.P.C.M. 27 maggio 1995 nella parte relativa a personale della Regione Sardegna». Se il Presidente del Consiglio dei ministri avesse adottato un nuovo decreto, senza intesa con la Regione, collocando fuori ruolo un dipendente diverso, il nuovo atto comunque avrebbe violato il giudicato costituzionale.
[40] Nel diritto amministrativo, ad es., se è stato
annullato con effetto di giudicato un atto di conferimento di incarichi
dirigenziali perché l’Amministrazione non ha svolto una certa procedura
comparativa, è chiaro che – se l’Amministrazione adotta un nuovo atto di
conferimento a favore di persone diverse, ma sempre escludendo i ricorrenti,
senza svolgere la procedura prescritta nella sentenza - il nuovo atto viola il
giudicato, contrastando con l’effetto conformativo della sentenza.
[41] Per certa dottrina (v. ad es. F.G. Scoca, op. cit., 471), in caso di
nullità l’azione di ottemperanza è imprescrittibile, come è tipico delle azioni
volte a far valere la nullità, mentre altra dottrina sostiene l’applicabilità
del termine ordinario di prescrizione (10 anni): v. su ciò A. Susca, op. cit., 79 s.;
naturalmente, se si segue di nuovo la strada del conflitto di attribuzioni
davanti alla Corte, resta fermo il termine di 60 giorni.
[42] La situazione, cioè, è simile a quella che si
presenta in relazione alle leggi precedenti alla Costituzione: se il giudice
solleva la questione, la Corte– anche per ragioni di certezza – non valuta se
la legge è stata abrogata dalla Costituzione (il che renderebbe la questione
irrilevante e, dunque, inammissibile), ma decide nel merito la questione.
[43] Il giudicato preclude anche all'ente
soccombente «la possibilità di sollevare un nuovo conflitto, lamentando la
violazione della stessa attribuzione e impugnando il medesimo atto» (F. Dal Canto, op. ult. cit., 463, e,
nel medesimo senso, E. Malfatti –
S. Panizza – R. Romboli, op. cit., 210), ma pare
che tale possibilità sia preclusa, ancor prima, dal decorso del termine.
[44] V. V. Crisafulli,
op. cit., 454; è da segnalare che la sospensione del giudizio comune era
menzionata già nel 1961 da A. Pensovecchio
Li Bassi, voce Conflitti fra regioni e Stato, in Enc. dir.,
Milano, 1961, 1024.
[45] Quanto alle sentenze di accoglimento, è ovvio
che esse, facendo venir meno l’oggetto del processo amministrativo, dovranno
essere tenute in considerazione dal giudice amministrativo, così come
l’annullamento dell’atto da parte del TAR si rifletterà automaticamente sul
conflitto avente ad oggetto quel medesimo atto, nel senso che la Corte
dichiarerà la cessazione della materia del contendere.
[46] V. M.R. Morelli,
op. cit., 790; nel medesimo senso v. L. Paladin, op. cit., 803; A. Pizzorusso, Conflitto, cit., 368 s.; S. Grassi, Conflitti costituzionali,
cit., 387; S. Grassi, Il
giudizio, cit., 341 (per il quale non c’è «prevalenza necessaria del
giudicato della Corte proprio perché la tutela della Corte è suppletiva e perché
le sue decisioni hanno natura diversa»); E. Malfatti
– S. Panizza – R. Romboli, op. cit., 210; G. Volpe, op. cit., 431; G. Grottanelli De’ Santi, Conflitti di
attribuzioni e Regioni, in AA. VV., Giustizia e Regioni, Padova,
1990, 105; F.S. Marini, Appunti
di giustizia costituzionale, Torino, 2005, 129. Per la giurisprudenza v. le
citazioni in Volpe, in F. Sorrentino,
La giurisprudenza della Corte costituzionale nei conflitti tra Stato e
Regioni, in le Regioni, n. 5/1986, 978 ss., in G. Zagrebelsky, op. cit., 363, e in
L. Mannelli, op. cit.,
319.
[47] V. M.R. Morelli,
op. cit., 791.
[48] V. Crisafulli,
op. cit., 454, (che, come visto, dubita dell’applicabilità del giudicato
alle sentenze sui conflitti) osserva che, in relazione al problema
dell’interferenza tra conflitto e giudizio amministrativo, «a nulla servirebbe
richiamarsi ai principi del giudicato, poiché… questo opera tra le parti che
erano in giudizio e non coprirebbe perciò l’intera area del problema»: dal che
pare possibile dedurre che, in caso di identità di parti, il giudicato
costituzionale vincolerebbe il TAR.
[49] V. G. Zagrebelsky,
op. cit., 363, per il quale, in caso di rigetto del conflitto, «la
decisione della Corte, assumendo forza di giudicato sul punto della spettanza
del potere in relazione al singolo atto in questione, vincolerà tutti gli altri
soggetti, i giudici comuni in primo luogo» (361); peraltro, a proposito delle
sentenze di accoglimento, l’A. sembra escludere un effetto di giudicato per i
rapporti intercorrenti tra soggetti diversi; per C. Mortati, op. cit., 1450, «in mancanza di apposite norme
ed allo scopo di evitare pronuncie fra loro contrastanti, ragioni di buon senso
dovrebbero condurre... alla sospensione del giudizio [amministrativo]... fino
alla pronuncia della corte, la quale dovrebbe fare stato anche nell'altro
giudizio»; anche per A. Cerri, op.
cit., 347, «si tende a riconoscere una prevalente efficacia del giudizio
della Corte (in ipotesi di motivi comuni), a nulla rilevando l'eventuale
diversità delle parti nei due giudizi»; G. Chiarelli,
op. cit., 67, suggerisce di prevedere normativamente la
sospensione del processo amministrativo, dato che la sentenza della Corte
avrebbe efficacia di giudicato nel processo amministrativo; per A. Ruggeri – A. Spadaro, Lineamenti di giustizia costituzionale,
Torino, 2001, 362, ci può essere «contrasto tra giudicati»: il che presuppone
una possibile identità di oggetto tra i due giudizi; L. Mannelli, op. cit., 321 ipotizza
– nel caso in cui la sentenza del giudice amministrativo contrasti con il
giudicato costituzionale – che essa possa essere impugnata davanti alla Corte
in sede di conflitto di attribuzioni (intersoggettivo, se è la Regione
soccombente, e tra poteri se è lo Stato soccombente); sulla questione v. anche
A. Mangia, op. cit., 329
ss., e F. Pierandrei, voce Corte
costituzionale, in Enc. dir., Milano, 1962, 1005.
[50] Si concorda, quindi, con F. Dal Canto, op. ult. cit., 464,
per il quale il giudicato costituzionale «potrebbe... ritenersi operante
soltanto ove coincidessero le parti costituite in entrambi i giudizi».
[51] V., per tutti, F.G. Scoca, op. cit., 458 s.; l’accertamento è presente,
come noto, anche nelle azioni di condanna e costitutive.
[52] Oltre alla posizione generale della Corte, è
da valutare che essa può annullare le sentenze del giudice amministrativo,
mentre questo non può incidere sulle sentenze costituzionali. Per P. Bianchi, Il conflitto di attribuzioni
tra Stato e Regioni e tra Regioni, in R.
Romboli (a cura di), Aggiornamenti in tema di processo costituzionale,
Torino, 2005, 292, in caso di giudizi paralleli il rischio è che «la
definizione di uno pregiudichi la soluzione dell’altro»: ma il problema è forse
rappresentato dal rischio opposto, cioè dalla possibilità di contrasto tra
decisioni e, dunque, di incertezza giuridica.
[53] Nel senso del necessario adeguamento del giudice amministrativo alle sentenze della Corte sui conflitti v. L. Vandelli, I difficili rapporti tra conflitto di attribuzione e giurisdizione amministrativa (a proposito di atti di controllo sull’amministrazione regionale), in Giur. cost., 1977, 1815.
[54] Art. 295 c.p.c.: «Il giudice dispone che il
processo sia sospeso in ogni caso in cui egli stesso o altro giudice deve
risolvere una controversia, dalla cui definizione dipende la decisione della causa».
Sui presupposti di applicazione dell'art. 295 c.p.c. nel processo
amministrativo v., ad es., la sent. Cons. Stato, sez. V, n. 7/2006, la sent.
Cons. Stato, sez. IV, n. 2290/2006, e, in dottrina, F.G. Scoca, op. cit., 392 ss.
[55] V. G. Zagrebelsky,
op. cit., 363, che afferma la necessità della sospensione anche qualora
il giudizio amministrativo sia stato promosso da un soggetto diverso da quello
che ha sollevato il conflitto.
[56] V. L. Vandelli, op. cit., 1814 ss.; L. Mannelli, op. cit., 321.
[57] V., per tutti, A. Giussani, Art. 295, in F. Carpi – M. Taruffo (a cura di), Commentario breve al
codice di procedura civile, Padova, 2002, 920 ss.; in giurisprudenza v. la
sent. Cass., sez. un., n. 3354/1994.
[58] V., ad es., G. Volpe, op. cit., 430, che pure nega la pregiudizialità
della decisione della Corte. Esiste, però, qualche caso in cui il giudice
amministrativo ha declinato la giurisdizione di fronte a ricorsi con cui si
faceva valere il vizio di lesione di competenza costituzionale, «per la funzione
esclusiva di risolvere un tal genere di conflitti accordata alla Corte
costituzionale» (così, ad es., Cons. Stato, sez. IV, n. 868/1996; v. anche
Cons. Stato, sez. IV, n. 264/1988 e G. Zagrebelsky,
op. cit., 364, e L. Mannelli,
op. cit., 319 s.).
[59] La situazione ricorda quella dei rapporti tra processo civile e processo penale, dato che, in base all’art. 3 c.p.p., il giudice penale può sospendere il processo fino al passaggio in giudicato della sentenza civile che risolve una questione pregiudiziale sullo stato di famiglia o di cittadinanza, e la sentenza civile ha efficacia di giudicato nel processo penale. Per L. Paladin, op. cit., 803, V. Crisafulli, op. cit., 454, A. Ruggeri – A. Spadaro, op. cit., 2004, 259, la sospensione del processo amministrativo non è necessaria; per S. Grassi, Conflitti, cit., 386, la sospensione è necessaria se si dimostra il nesso di pregiudizialità; sui possibili mezzi di coordinamento tra i due giudizi v. L. Vandelli, op. cit., 1801 ss.
[60] Il rapporto fra conflitto di attribuzioni e
processo civile può venire in rilievo perché il giudice civile non deve
attendere la sentenza penale per accertare il diritto al risarcimento di danni
provocati da fatti che costituiscono reato: v., ad es., Cass., sez. III, 21
ottobre 2005, n. 20355.
[61]Il rapporto fra le decisioni del
conflitto di attribuzioni ed i giudizi ordinari (civili o penali) non è stato
oggetto di grande attenzione da parte della dottrina, che si è concentrata più
sulle interferenze tra conflitto e giudizio amministrativo: v., comunque, G. Grasso, Il conflitto di attribuzioni
tra le Regioni e il potere giudiziario, Milano, 2001, 173 ss., e, per
qualche accenno, A. Mangia, op.
cit., 336 (per il quale i “soggetti privati coinvolti nella decisione
impugnata” subiscono “conseguenze precise dalla soluzione del conflitto”), e F.
Sorrentino, I rapporti tra lo
Stato e le Regioni nella giurisprudenza della Corte costituzionale sui
conflitti di attribuzione, in Quad. reg., 1987, 404; per un’analisi
del rapporto fra conflitto e giudizi “comuni” in generale v. G. Volpe, op. cit., 427 ss.
[62] Si possono ricordare, ad es., le parole di A.
Pizzorusso, Effetto di
“giudicato” ed effetto di “precedente” delle sentenze della Corte
costituzionale, in Giur. cost., 1966, 1979: “per stabilire in che
cosa consista l’effetto di giudicato delle sentenze della Corte è prima di
tutto necessario determinare quale sia l’oggetto delle medesime”.
[63] V., ad es., A. Pizzorusso, Gli effetti delle decisioni della Corte
costituzionale nei giudizi ordinari, in Riv. trim. dir. proc. civ.,
1987, 910 s., e A. Anzon, Il
valore del precedente nel giudizio sulle leggi, Milano, 1995, 142.
[64]V., anche per ulteriori citazioni, R.
Villata, L'esecuzione delle
decisioni del Consiglio di Stato, Milano, 1971, 563 ss.
[65] V. le sentt. Cass., sez. trib., 28 ottobre
2004, n. 20885; Cons. Stato,
sez. V, 20 aprile 2000, n. 2424; Cass., sez. lav., 13 febbraio 1993, n. 1811.
[66] Sul quale v., ad es., A. Attardi, voce Preclusione, in Enc.
dir., Milano 1985, 899; A. Papalia,
in C. Consolo – F.P. Luiso (a
cura di), Codice di procedura civile commentato, Milano, 2000, 1574; A.
Chizzini, op. cit., 3234;
G. Pugliese, op. cit., 864
s.; nel processo amministrativo l’applicazione di tale principio è discussa in
relazione al “deducibile”: v. E. Ferrari,
Art. 26, cit., 900, per il quale è comunque pacifico che “il giudicato,
anche in questa ipotesi, si forma in relazione ai motivi posti a fondamento
della domanda”; v. anche F. Benvenuti,
op. cit., 904 nota 36; M. Clarich,
op. cit., 150 s., M. Nigro,
op. cit., 309 s., R. Villata,
op. cit., 581 ss., e M.P. Vipiana,
op. cit., 152.
[67] V., ad es., le sentt. Cass., sez. III, 13
luglio 2005, n. 14740; Cass., sez. III, 7 novembre 2005, n. 21490.
[68] V. la dottrina citata nella nota 12; sul ruolo
dei motivi di ricorso ai fini del giudicato e sull'effetto conformativo v., in
particolare, M. Clarich, op.
cit., 137 ss., P.M. Vipiana, op.
cit., 155, M. Nigro, op.
cit., 300 ss. (che ricorda come la dottrina abbia valorizzato “la
motivazione della pronuncia come utile a stabilire il contenuto della sentenza
quanto e più del dispositivo”), R. Villata,
op. cit., 535 ss. e 561 ss., e E. Capaccioli, Per la effettività della giustizia
amministrativa, in AA. VV. Il processo amministrativo, Milano, 1979,
213 ss.
[69] V. A.M. Sandulli,
Manuale, cit., 1516; P.M. Vipiana,
op. cit., 154; M. Clarich,
op. cit., 152; M. Nigro, op.
cit., 310. Si può anche ricordare che, “dopo una sentenza che abbia
dichiarato la cessazione della materia del contendere in considerazione degli
effetti di un provvedimento sopravvenuto, l'Amministrazione non potrebbe
adottare atti sul presupposto che il provvedimento sopravvenuto nei confronti
del ricorrente non produca gli effetti che invece il giudice nella sentenza ha
accertato sussistenti”: così A. Travi,
op. cit., 326.
[70] In base ai quali esso vincola con riferimento
alla situazione di fatto e di diritto esistente al momento della sua
formazione: il che presuppone che gli elementi di fatto e diritto posti a base
della sentenza compongono il giudicato.
[71] Su ciò basti il rinvio a F. Dal Canto, op. ult. cit., passim
(in particolare, 436, 441, 451).
[72] La sent. n. 276/2003
ha ricordato che, “perché sia dunque ammissibile un conflitto di attribuzione,
quando a base della vindicatio sia posto un atto giurisdizionale, è necessario
che da parte del potere o dell’ente – che da quell’atto pretende di aver subito
una lesione nella propria sfera di attribuzioni costituzionali – «sia
contestata radicalmente la riconducibilità dell’atto che determina il conflitto
alla funzione giurisdizionale...ovvero sia messa in questione l’esistenza
stessa del potere giurisdizionale nei confronti del soggetto ricorrente»”
(punto 2 del Diritto); v. anche le sentt. n. 27/1999
e n. 326/2003.
[73] V. la sent. n. 29/2003.
[74] Punto 5 del Diritto.
[75] V. il punto 3.2 del Diritto.
[76] Diversamente A. Ambrosi, I consiglieri regionali, in R. Orlandi – A. Pugiotto (a cura di), Immunità
politiche e giustizia penale, Torino, 2005, 238, per il quale la sentenza
della Corte «non può fare stato», per cui il rigetto del ricorso regionale non
impedisce all'imputato di difendersi nel giudizio penale; anche R. Romboli, Immunità per le opinioni
espresse dai parlamentari e dai consiglieri regionali e tutela del terzo
danneggiato: un importante mutamento della giurisprudenza costituzionale, in
attesa di un altro più significativo, in Giur. cost., 2001, 507,
sembra escludere un effetto vincolante della sentenza della Corte, dato che
afferma che «il parlamentare potrà… esercitare con pienezza il suo
diritto di difesa» dopo la decisione della Corte favorevole al giudice. A
sostegno della posizione di questi Autori potrebbe forse essere invocata la sent. n. 225/2001
della Corte costituzionale, che, nel dichiarare inammissibile l'intervento di
Previti nel conflitto tra poteri sollevato dalla Camera contro il g.i.p. del
Tribunale di Milano, ha osservato che «tali diritti inerenti alla qualità di
imputato non sono direttamente coinvolti, né sono suscettibili di essere
pregiudicati, nel presente giudizio per conflitto, nel quale la Corte è
chiamata esclusivamente a decidere in ordine alle denunciate lesioni delle
attribuzioni costituzionali della Camera dei deputati ad opera delle ordinanze
medesime» (punto 2 del Diritto). Nella successiva sent. n. 451/2005
(emessa sulla medesima vicenda), la Corte ha ribadito che “il principio
generale secondo cui nel giudizio per conflitto la legittimazione spetta
soltanto agli organi dei poteri confliggenti subisce un’unica deroga quando (ma
non è il caso di specie) l’esito di tale giudizio possa definitivamente pregiudicare
le posizioni di un soggetto ad esso estraneo”, e che “il prosieguo del giudizio
penale – dopo l’annullamento, da parte di questa Corte, delle ordinanze del
giudice dell’udienza preliminare – sotto nessun profilo può considerarsi come
“giudizio di ottemperanza” del giudicato costituzionale, ostando a tale
configurazione le differenze oggettive e soggettive esistenti fra il processo
costituzionale e quello penale”; dalla “distinzione fra i due giudizi – e in
particolare dal rilievo che in quello per conflitto la Corte è chiamata
esclusivamente a decidere in ordine alle denunciate lesioni delle attribuzioni
costituzionali della Camera, ad opera dei provvedimenti impugnati... discende
direttamente l’inammissibilità degli interventi spiegati avanti a questa Corte
dal parlamentare assoggettato a processo penale” (punto 4 del Diritto).
A tali affermazioni della Corte si potrebbe obiettare che la diversità fra due
cause non preclude, di per sé, il carattere vincolante della decisione adottata
nella prima causa: l’identità delle cause è necessaria per impedire la
trattazione della seconda lite (cioè, in realtà, di una lite già decisa) ma non
se si vuole che la prima decisione costituisca solo un presupposto della
seconda (v. G. Pugliese, op.
cit., 870 ss.; come ricorda F. Dal
Canto, Il giudicato costituzionale, cit., 34, al giudicato “si
riconosce solitamente una funzione negativa, che si identifica con la
regola del ne bis in idem,... e una funzione positiva, che si
riferisce invece al dovere del giudice, nel corso di un successivo processo
avente un oggetto diverso, ma in vario modo dipendente da quello ove si è
formato il giudicato, di assumere la statuizione su cui quest'ultimo si è
prodotto come incontestabile”). Del resto, il meccanismo della trasformazione delle
questioni pregiudiziali in cause pregiudiziali mira proprio a far sì che un
giudizio si basi su una sentenza adottata su una causa diversa.
[77] Così M. Nigro,
op. cit., 310.
[78] “La valutazione sull’esistenza della garanzia svolta
dalla Corte in sede di conflitto finirebbe per sovrapporsi all’analoga
valutazione demandata al giudice del processo comune. Ove dunque si ritenesse
precluso l’intervento nel giudizio costituzionale, finirebbe per risultare in
concreto compromessa la stessa possibilità per la parte di agire in giudizio a
tutela dei suoi diritti. La conclusione alla quale occorre ora pervenire,
d’altra parte, è ulteriormente avvalorata dalla circostanza che l’esigenza del
contraddittorio - fortemente riaffermata dalla nuova formulazione del secondo
comma dell’art. 111 della Costituzione – si riflette anche sul piano della
partecipazione al giudizio riservato a questa Corte, derivando da esso la
risoluzione di un tema del tutto “pregiudiziale”, quale è quello relativo alla
sussistenza o meno nel caso concreto del potere di agire”; nella sent. n. 225/2001,
punto 2 del Diritto, la Corte ricorda di aver ammesso l'intervento del
privato con la sent.
n. 76/2001, “in quanto l'esito del conflitto era suscettibile di
condizionare la stessa possibilità che il giudizio comune avesse luogo”. Che
l'esito del conflitto possa condizionare il giudizio ordinario sembra risultare
anche dalla sent.
n. 276/2003, che ha ribadito l’impossibilità di impugnare un atto
giurisdizionale per errores in judicando, al fine di evitare che il
conflitto assuma le connotazioni di un mezzo di impugnazione atipico: una
eventualità, quest’ultima, la cui evidente patologia risulterebbe aggravata
dalla circostanza che lo scrutinio, in tal modo impropriamente richiesto a
questa Corte, finirebbe per sovrapporsi a quello già operato in sede
giurisdizionale, con un perimetro decisorio peraltro neppure coincidente e nel
quadro di un contrasto tra enti, diversi dalle parti del procedimento nel quale
è stato adottato l’atto posto a base del conflitto (punto 2 del Diritto).
Per M. Perini, op. cit.,
172 s., nel caso di conflitto sollevato da giudici, l’art. 137, 3° comma, Cost.
preclude al giudice «nel corso del medesimo processo la possibilità di
rimettere in discussione la questione risolta dalla Corte»; sempre M. Perini, Il seguito delle decisioni
costituzionali in materia di conflitti di attribuzione tra poteri, in R. Bin – G. Brunelli – A. Pugiotto – P. Veronesi
(a cura di), “Effettività” e “seguito” delle tecniche decisorie della Corte
costituzionale, Napoli, 2006, 312, afferma, in generale, che nei conflitti
tra poteri “l’a.g. ha l’obbligo di concludere il procedimento che ha originato
il conflitto ponendo in essere gli adempimenti processuali conseguenti alla
decisione costituzionale”.
[79] Sulla distinzione fra effetti della sentenza e
irretrattabilità degli effetti v., per i conflitti tra Stato e Regioni, F. Dal Canto, op. ult. cit., 463, e
G. Volpe, op. cit., 421
s.; in generale v. E.T. Liebman, op.
cit., 250 e 267, A. Papalia, op.
cit., 1571.
[80] Significativa, a questo proposito, è la già
citata sent. n.
451/2005 (caso Previti), con cui la Corte ha ritenuto di non poter
sindacare la valutazione del giudice, che aveva ritenuto ininfluente
l'annullamento di precedenti atti giurisdizionali operato dalla Corte con la
sent. n. 225/2001 (v. il punto 8 del Diritto : “il giudice ha adottato
una motivazione di tipo processuale, il cui sindacato compete esclusivamente al
giudice del processo penale”; v. anche i punti 13 e 15). Analogamente, la sent. n. 263/2003
(caso Matacena) stabilì che “alla constatazione dell’avvenuta lesione consegue
l’annullamento del provvedimento impugnato, fermo restando che spetterà alle
competenti autorità giurisdizionali investite del processo (essendosi questo
nel frattempo concluso in primo grado) valutare le eventuali conseguenze di
tale annullamento sul piano processuale» (punto 5 del Diritto).
[81] Su tale principio v. F. Dal Canto, op. ult. cit., 432; A.
Travi, op. cit., 321;
M. Nigro, op. cit., 309;
sull'identità dell'effetto delle sentenze di accoglimento e di rigetto nei
conflitti tra poteri v. M. Perini,
171 e 173.
[82] Peraltro, si ricorda che le sentenze emesse
sul caso “Previti” confortano la tesi opposta alla nostra, ma gli argomenti da
esse utilizzati non sembrano risolutivi: v. la nota 76.
[83] V. l'ord. n. 344/2000, corsivi aggiunti.
[84] Punto 7 del Diritto.
[85] V., per tutti, A. Chizzini, op. cit., 3231.
[86] Nella sent. n. 76/2001
la Corte ha ammesso l’intervento nel conflitto della parte civile, cioè del
soggetto leso, perché il conflitto poteva precludergli la possibilità di agire
in giudizio, ma non è detto che ad uguale conclusione la Corte arriverebbe se
spiegasse intervento il consigliere regionale. A. Ambrosi, op. cit., 237 s., e A. Concaro, Conflitti costituzionali e
immunità: anche le parti private vanno tutelate nel giudizio dinanzi alla
Corte?, in Giur. cost., 2001, 520 s., auspicano che venga ammesso
l'intervento del consigliere (e del parlamentare) soprattutto in relazione all'esigenza
di completezza del contraddittorio, ai fini di una migliore ricostruzione dei
fatti; sulla necessità di un ampliamento del contraddittorio v. anche G. Grasso, op. cit., 176 ss.
[87] R. Romboli,
Immunità, cit., 507, distingue la posizione del parlamentare da quella
del terzo danneggiato per la “tutela garantita al parlamentare dalla presenza
della camera di appartenenza”.
[88] V. G. Gioia,
I regolamenti di giurisdizione, in corso di pubblicazione; R. Lucifredi, voce Attribuzioni
(conflitto di), in Enc. dir., Milano, 1959, 291; G. Gemma, Conflitti di attribuzione fra
poteri dello Stato e sindacato sugli atti giurisdizionali, in Riv. dir.
proc., 1997, 457. Del resto, il regolamento di giurisdizione comprenderebbe
ancora il conflitto tra amministrazione e giudice: in base al (pressoché
inapplicato) art. 41, 2° comma, c.p.c., «la pubblica
amministrazione che non è parte in causa può chiedere in ogni stato e grado del
processo che sia dichiarato dalle sezioni unite della Corte di cassazione il
difetto di giurisdizione del giudice ordinario a causa dei poteri attribuiti
dalla legge all'amministrazione stessa, finché la giurisdizione non sia stata
affermata con sentenza passata in giudicato».
Sulla possibile sovrapposizione di questo istituto e dei conflitti fra poteri
dello Stato v. G. Zagrebelsky, op.
cit., 371, e A. Pizzorusso, Conflitto,
cit., 370.
[89] V. A. Pizzorusso,
Art. 134– III, in G. Branca
(a cura di), Commentario della Costituzione, Bologna-Roma, 1981, 131; V.
Crisafulli, op. cit., 451
s.; G. Volpe, op. cit.,
421; A. Cerri, op. cit.,
341 ss.; E. Malfatti - S. Panizza
– R. Romboli, op. cit., 210; F. Dal Canto, op. cit., 463 s.; C. Mortati, op. cit., 1448; S. Grassi, Conflitti, cit., 375; A.
Mangia, op. cit., 301 e
329. Se la sentenza di accoglimento ha ad oggetto un atto generale, dunque, non
sembra verificarsi in senso proprio un'“estensione degli effetti della
decisione della Corte” (così A. Ruggeri–
A. Spadaro, op. cit., 2004, 269).
[90] V. G. Volpe,
op. cit., 421 s.
[91] Così F. Dal
Canto, op. loc. ult. cit.
[92] Se è annullato un atto generale statale, è
ovvio che il divieto di riproduzione vale solo per lo Stato, non esistendo un
altro soggetto in grado di reiterare l’atto annullato.
[93] Nella nota 49, però, si sono citati diversi
Autori che ritengono il giudice amministrativo vincolato dalla sentenza di
rigetto anche se non c’è identità di parti.
[94] V. F. Bertolini,
Osservazioni in tema di conflitti di attribuzione accolti “nei confronti”
della Regione ricorrente, in Giur. cost., n. 2/1999, 1489 ss.; A. Ruggeri – A. Spadaro, op. cit., 2004, 269; A. Cerri, op. cit., 341; L. Mannelli, Il conflitto di
attribuzione tra Stato e Regione e tra Regioni, in R. Romboli (a cura di), Aggiornamenti in
tema di processo costituzionale, Torino 1993, 248; A. D’Atena, Conflitto di attribuzione e
annullamento dell’atto invasivo, limitatamente alla Regione ricorrente, in Giur.
cost., 1991, 1447 s.;F. Dimora, Limitazione degli effetti di
annullamento di atto statale alla sola Regione ricorrente, in le Regioni,
1992, 529 ss. Non sono da considerare casi di vera limitazione
dell'annullamento quelli in cui l'atto impugnato era rivolto a tutte le Regioni
ma, in realtà, le considerava distintamente, per cui era scomponibile in tanti
atti rivolti alle singole Regioni: così, la sent. n. 242/1997
ha giudicato di un atto (dPCm 21.12.1995), che individua – Regione per Regione
- le aree demaniali marittime escluse dalla delega alle Regioni di cui all’art.
59 dPR n. 616/1977,e l’ha annullato solo nella parte riguardante la Regione
Liguria, per la mancanza del parere della Regione stessa; per un caso simile v.
la sent. n.
207/1996.
[95] V. F. Bertolini,
op. cit., 1494, nota 11.
[96]Nel caso della sent. n. 341/1992
le competenze lese erano quelle in materia di formazione professionale e
sanità; nel caso della sent. n. 135/1992,
la materia incisa era la sanità e la motivazione della sentenza fa a un certo
punto riferimento indistinto al rango costituzionale dell’autonomia delle
“regioni o province autonome”; anche la sent. n. 507/1991
(sanità) e n.
517/1991 (inquinamento acustico) hanno riconosciuto la lesione di
competenze comuni alle Regioni ordinarie e non hanno fatto valere speciali
prerogative delle Province ricorrenti; infine, l’ultima sentenza segnalata da
Bertolini (la n.
834/1988) limita accoglimento al “territorio della Provincia di Bolzano”.
[97] V. F. Bertolini,
op. cit., 1496 ss.
[98] Delle sentenze citate da Bertolini nella nota
13, la n.
263/1997 fa diversi riferimenti all’autonomia speciale della Provincia e
questa aveva invocato varie competenze di rango primario, per cui il vizio era
“speciale”; la sent.
n. 61/1997, invece, accoglie il conflitto solo in relazione alla Provincia
di Trento benché il vizio fosse riscontrabile anche in relazione alle Regioni
ordinarie (un regolamento ministeriale aveva disciplinato la materia della
sanità); infine, nel caso della sent. 69/1995,
il vizio sembra interamente speciale perché la Corte - oltre a valorizzare la
competenza primaria della Provincia in materia di fiere e le norme di
attuazione in materia di atti indirizzo e coordinamento – sottolinea sì la
“mancanza di valida base legislativa” ma nel senso che la legge alla base
dell’atto impugnato non intendeva innovare il riparto di competenze tra Stato e
Province autonome.
[99] Sulla distinzione tra interesse al ricorso e
legittimazione sia consentito il rinvio a C. Padula,
La Corte costituzionale e l’interesse a ricorrere nei conflitti tra Stato e
Regioni, in le Regioni, n. 2/2000, 449, e C. Padula, L’asimmetria nel giudizio in
via principale, Padova, 2005, 173 ss.
[100] In dottrina si segnala la sent. n. 174/1991
come esempio di limitazione dell’accoglimento del conflitto alla Regione
ordinaria ricorrente: v. A. Cerri,
op. cit., 341, e F. Bertolini,
op. cit., 1499 ss., per il quale anche in questo caso rileva l'interesse
ad agire, nel senso che solo chi ha disciplinato la materia ha interesse
all'annullamento; in realtà, si è evidenziato che, in casi del genere (v., ad
es., i primi ricorsi regionali fatti negli anni '70 contro leggi statali), il
ricorso della Regione che non ha esercitato la competenza non è privo di
interesse ma proprio infondato, perché, se la Regione non ha disciplinato la
materia, lo Stato può intervenire (v., anche per ulteriori citazioni, C. Padula, op. ult. cit., 180 nota
37).