Carlo Padula

Conflitto di attribuzioni tra Stato e Regioni, giudicato costituzionale e vincolo nei confronti dell’attività amministrativa e dei giudizi amministrativi e ordinari* 

Sommario. 1. L’applicabilità dell’istituto del giudicato sostanziale alle decisioni della Corte costituzionale sui conflitti tra Stato e Regioni. 2. Conseguenze pratiche dell’applicazione del giudicato sostanziale alle decisioni sui conflitti tra Stato e Regioni: le sentenze di accoglimento. 2.1 La “nullità per violazione del giudicato” nel diritto amministrativo. 2.2 L’orientamento della Corte costituzionale e della dottrina prevalente: l'illusorietà dell’efficacia di giudicato delle sentenze di accoglimento. 2.3. La nullità degli atti amministrativi contrastanti con il giudicato costituzionale. 3. (segue) Le sentenze di rigetto. 3.1 Il carattere vincolante delle sentenze di rigetto sui giudizi amministrativi aventi stesse parti e stesso oggetto. 3.2 Gli effetti delle sentenze di rigetto sui giudizi penali e civili. 3.2.1 Il caso del conflitto ex art. 122, 4° comma, Cost.; la questione dell'ambito oggettivo del giudicato costituzionale. 3.2.2 Il carattere vincolante della sentenza di rigetto sul “seguito” del giudizio penale o civile. 4. I limiti soggettivi della decisione. 4.1 Considerazioni generali. 4.2 La limitazione soggettiva dell’annullamento

 

 

1. L’applicabilità dell’istituto del giudicato sostanziale alle decisioni della Corte costituzionale sui conflitti tra Stato e Regioni

E’ inevitabile, per chi si accosta al tema degli effetti delle decisioni nei conflitti di attribuzioni tra Stato e Regioni, affrontare la questione dell’applicabilità dell’istituto del giudicato a tali conflitti (e, più in generale, alle decisioni della Corte costituzionale). Il tema è assai complesso, affrontato da vasta dottrina e su di esso (come non raramente accade in relazione al «trapianto» di istituti di altri processi al processo costituzionale) non sono rare le oscillazioni e le incertezze.

E’ opportuno, innanzi tutto, ricordare le nozioni di base del diritto processuale civile. Nel processo civile si distingue fra giudicato formale (passaggio in giudicato) e giudicato sostanziale (autorità di cosa giudicata): il primo risulta dall’art. 324 c.p.c.[1] e consiste nell’immutabilità della sentenza, dell’atto, cioè nell’impossibilità di sottoporla a impugnazione «ordinaria»[2]; il secondo risulta dall’art. 2909 c.c.[3] e consiste nell’immutabilità dell’accertamento contenuto nella sentenza passata in giudicato, che non può più essere messo in discussione in futuro[4].

Questo vincolo di giudicato, però, è – ovviamente - limitato a quella causa, identificata da tre elementi essenziali: parti, petitum e causa petendi. Petitum e causa petendi sono strettamente collegati e questo raccordo rappresenta l’oggetto del giudizio. Oltre ai limiti soggettivi ed oggettivi, il giudicato sostanziale incontra anche limiti cronologici, nel senso che esso vincola con riferimento alla situazione di fatto e di diritto esistente al momento della sua formazione[5].

In relazione ai conflitti di attribuzioni fra Stato e Regioni (ma anche ai conflitti tra poteri e al giudizio di costituzionalità), il tema del giudicato sembra trovarsi in una «zona d’ombra», perché l’unica disposizione ad esso riferibile è l’art. 137, 3° comma, Cost.: «contro le decisioni della Corte costituzionale non è ammessa alcuna impugnazione». Secondo l’interpretazione più lineare, questa disposizione fa riferimento al giudicato «formale», sancendo il divieto di contestare la decisione della Corte davanti alla Corte stessa o ad altri giudici[6]; peraltro, secondo alcuni Autori, l'art. 137, 3° comma, non stabilirebbe un'immutabilità formale assoluta, in quanto non escluderebbe la possibilità della Corte di tornare sulle proprie decisioni, in casi determinati; su questa base si giustificherebbero la correzione delle sentenze della Corte e la revisione delle sentenze penali[7].

Parte della dottrina, però, ha attribuito all’art. 137, 3° comma, una portata più ampia, ricavandone il divieto, per «ogni soggetto dell’ordinamento, compresa la stessa Corte, di tornare – nel senso di ‘riproporla’, ‘riprodurla’ ovvero di ‘pronunciarsi nuovamente’ su di essa – su una questione già decisa». Anche le sentenze della Corte, dunque, formerebbero il giudicato «sostanziale», per cui sarebbero «immutabili, nei confronti di chiunque, gli effetti differenziati che l’ordinamento riconosce alle diverse tipologie di pronunce»[8]. Tale interpretazione si potrebbe fondare sul fatto che, per certa dottrina processualistica, «la ‘cosa giudicata’… è in realtà una sola»[9] e che la sua «autorità» deriva dall’esigenza di certezza[10]; però, da un lato, non esiste per il processo costituzionale una norma come l’art. 2909 c.c., dall’altro la tesi in questione è smentita dalla stessa giurisprudenza costituzionale, che non si ritiene vincolata – nel giudizio di legittimità costituzionale - alle proprie precedenti decisioni di rigetto e ritiene di poter decidere diversamente, anche se la questione verte sullo stesso oggetto (cioè, sulla stessa norma e in relazione allo stesso parametro) e proviene da un giudizio con le stesse parti. La dottrina largamente prevalente, dunque, ritiene che le decisioni di rigetto non acquistino forza di giudicato (sostanziale)[11]; se così è, occorre concludere che l’art. 137, 3° comma, Cost. non impone di attribuire a tutte le decisioni della Corte l’effetto di giudicato di cui all’art. 2909 c.c.: esso è accostabile, piuttosto, all’art. 324 c.p.c.

Ciò non esclude, però, che, per certe decisioni della Corte costituzionale, l’applicabilità del giudicato sostanziale possa discendere da altre fonti. Innanzi tutto, un supporto normativo all'applicazione dell'istituto del giudicato sostanziale alle sentenze della Corte potrebbe ritrovarsi nell'art. 22, 1° comma, legge n. 87/1953, in base al quale «nel procedimento davanti alla Corte costituzionale, salvo che per i giudizi sulle accuse di cui agli artt. 43 e seguenti, si osservano, in quanto applicabili, anche le norme del regolamento per la procedura innanzi al Consiglio di Stato in sede giurisdizionale». Questa disposizione, come noto, rinvia in generale alle norme riguardanti il processo amministrativo, nell'ambito del quale non si dubita dell'applicabilità dell'art. 2909 c.c., in virtù anche degli specifici appigli normativi forniti dall'art. 37 legge n. 1034/1971 e dall'art. 28 t.u. Consiglio di Stato[12]. Sulla base dell’art. 22 legge n. 87/1953, dunque, si può applicare l’istituto del giudicato sostanziale al processo costituzionale, tenendo anche presente che tale istituto è espressione del principio generale della certezza delle situazioni giuridiche (oltre che del ne bis in idem)[13].

Né sembra che tale assunto sia smentito dal sopra citato orientamento che nega efficacia di giudicato alle sentenze di rigetto nei giudizi di legittimità costituzionale: l’art. 22 legge n. 87 rinvia alle norme sul processo amministrativo «in quanto applicabili», e l’inidoneità di quelle sentenze a formare giudicato (sostanziale) può essere legata all’oggetto del giudizio, nel senso che la Corte vuole riservarsi la possibilità di cambiare idea sulla costituzionalità di una norma legislativa, ritenendo che l’esigenza di certezza del diritto sia recessiva rispetto a quella della costituzionalità delle leggi. Del resto, anche nella giurisdizione civile contenziosa esistono casi di sentenze che non acquistano autorità di giudicato[14].

L'applicabilità del giudicato sostanziale alle decisioni sui conflitti è stata sia affermata[15] che negata da dottrina autorevole. Non sembrano, però, condivisibili le ragioni addotte in contrario da Crisafulli, per il quale, se le decisioni di accoglimento (che, dunque, hanno anche annullato l’atto impugnato) acquistassero forza di giudicato, ulteriori atti di esercizio della medesima competenza sarebbero nulli per violazione del giudicato e disapplicabili: «conclusione logicamente ineccepibile, date le premesse, ma inaccettabile, perché contraria ad esigenze di certezza nei rapporti tra Stato e Regioni, e di riflesso negli stessi rapporti tra le rispettive amministrazioni e gli altri soggetti dell'ordinamento»[16].

In primo luogo, stupisce che l'applicabilità del giudicato sostanziale sia negata sulla base del principio di certezza giuridica[17], laddove è proprio questo principio la base fondamentale dell'istituto del giudicato. È da sottolineare, infatti, che il fondamento principale del giudicato sostanziale non è tanto il principio del ne bis in idem ma proprio l’esigenza di certezza del diritto, tant’è vero che una sentenza è impugnabile per revocazione solo se contrasta con una precedente passata in giudicato (e non ha «pronunciato sulla relativa eccezione»), non semplicemente se si pronuncia de eadem re[18]. L'autorità di cosa giudicata è connaturata alle sentenze perché l'unica esigenza che la sentenza soddisfa, indefettibilmente, è proprio quella di certezza giuridica, dal momento che l'altra esigenza rilevante nei diversi processi (quella della giustizia) può restare, occasionalmente, non soddisfatta[19]. E' possibile, come visto, escludere l'autorità di cosa giudicata per il prevalere di un interesse pubblico più forte di quello alla certezza, ma non pare possibile negare che una sentenza «faccia stato» tra le parti per ragioni di... certezza.

Inoltre, se il regime della nullità, per certi versi, può creare incertezza giuridica, per altri versi dà certezza, nel senso che – una volta che una lite è stata giudicata – si è certi che il soccombente non può più riprodurre in modo efficace lo stesso atto già annullato. Ancora, è da osservare che pure il regime della annullabilità può creare incertezza, se l’atto illegittimo costituisce la base per altri atti.

Dunque, nonostante la portata ridotta dell’art. 137, 3° comma, Cost. e l’efficacia delle sentenze di rigetto nei giudizi di legittimità costituzionale, l’istituto del giudicato sostanziale risulta applicabile alle decisioni emesse dalla Corte in sede di conflitti di attribuzione tra Stato e Regioni.

 

2. Conseguenze pratiche dell’applicazione del giudicato sostanziale alle decisioni sui conflitti tra Stato e Regioni: le sentenze di accoglimento

Quali conseguenze pratiche produce tale applicabilità? Si è visto che, in relazione alle decisioni di accoglimento, si è ipotizzata la nullità, per violazione del giudicato, degli ulteriori atti di esercizio della medesima competenza già negata dalla Corte[20]. Occorre ora verificare se la violazione del giudicato produca effettivamente nullità dell'atto e poi determinare i casi in cui ci sia violazione del giudicato.

 

2.1 La “nullità per violazione del giudicato” nel diritto amministrativo

La nullità per violazione del giudicato ipotizzata da Crisafulli deriva dal diritto amministrativo. Si tratta di un'ipotesi formulata in un contesto del tutto particolare e non sempre pacifica, prima della legge n. 15/2005. Infatti, il problema era quello dell'inottemperanza al giudicato concretata non con un comportamento omissivo ma con atti elusivi. Per evitare che tali atti frustrassero l'esecuzione del giudicato, si è ritenuto che essi non andassero impugnati con il ricorso ordinario ma attraverso il giudizio di ottemperanza; e «in alcune formulazioni questa conclusione è stata argomentata con la tesi secondo cui atti del genere sarebbero radicalmente nulli e tali cioè da porsi in una logica assolutamente diversa da quella tipica dei provvedimenti amministrativi»[21]. La decisione «capostipite» di questo orientamento è la sent. Cons. Stato, adun. plenaria, 19 marzo 1984, n. 6, in base alla quale «è ammissibile il ricorso per l’ottemperanza ad un giudicato dal quale sia desumibile integralmente il provvedimento che l’amministrazione debba emettere per la sua esecuzione, anche se l’amministrazione abbia emanato provvedimenti di diverso contenuto, da considerarsi perciò nulli anche in difetto di tempestiva impugnazione»[22]. Il criterio utilizzato per distinguere i casi di nullità (con conseguente esperibilità del giudizio di ottemperanza) o di annullabilità degli atti contrastanti con il giudicato è, dunque, quello della vincolatività o discrezionalità dell'attività che la p.a. deve compiere per dare attuazione al giudicato stesso. Ad es., nella sent. TAR Firenze, n. 1330/2001, si legge che, «qualora dal giudicato derivi non un semplice vincolo all'attività discrezionale, ma un obbligo puntuale che non lasci spazio alcuno (tanto che l'ottemperanza viene a concretarsi nell'adozione di un atto il cui contenuto è integralmente desumibile dalla sentenza), deve ritenersi che l'Amministrazione resti priva del potere di provvedere diversamente e che eventuali atti difformi siano nulli e tali possano essere dichiarati anche in sede di ottemperanza»[23].

L'orientamento, in questione, non era pacifico: la nullità degli atti elusivi del giudicato era contestata da alcuni e la giurisprudenza più recente propende ad ammettere il ricorso in ottemperanza contro tutti gli atti contrastanti con il giudicato[24]. Del resto, la distinzione tra nullità ed annullabilità in base al carattere vincolato o meno del potere contrastava con il criterio di distinzione accolto in generale (che, come noto, fa riferimento all'alternativa carenza di potere-illegittimo esercizio di potere), e può essere interessante anche segnalare che, nel 1969, Benvenuti riferiva che, «nella dottrina, la violazione del giudicato viene prospettata in genere come violazione di legge» e che la giurisprudenza talora prospettava quel vizio «come eccesso di potere» (nel senso che la sentenza «assumerebbe il significato di un vincolo della discrezionalità dell’amministrazione»), e concludeva che «la preclusione… non toglie il potere dell’amministrazione di provvedere nuovamente e al giudice di decidere nuovamente, ma interpone un elemento che non può essere trascurato»[25].

La legge n. 15 del 2005, però, ha risolto ogni dubbio, stabilendo che «è nullo il provvedimento amministrativo che manca degli elementi essenziali, che è viziato da difetto assoluto di attribuzione, che è stato adottato in violazione o elusione del giudicato, nonché negli altri casi espressamente previsti dalla legge» (così il nuovo art. 21-septies, 1° comma, legge n. 241/1990)[26].

Il legislatore, dunque, ha recepito il più recente orientamento giurisprudenziale, che riconduceva al giudizio di ottemperanza ogni caso di violazione del giudicato, e ha anche qualificato come nulli tutti gli atti amministrativi contrastanti con il giudicato: il che toglie ragion d'essere alla domanda se e quando un atto contrastante con il giudicato possa considerarsi adottato in carenza di potere.

 

2.2 L’orientamento della Corte costituzionale e della dottrina prevalente: l'illusorietà dell’efficacia di giudicato delle sentenze di accoglimento.

La giurisprudenza costituzionale, però, e la dottrina costituzionalistica prevalente sono orientati in senso opposto rispetto al legislatore del 2005, e tale orientamento proietta una «zona d’ombra» sull’efficacia di giudicato delle sentenze di accoglimento, nel senso che è difficile percepire quale sia l’effetto concreto dell’applicazione del giudicato sostanziale ad esse.

Basti ricordare la vicenda del commissario dell’Ente Parco dell’arcipelago toscano. La sent. 20 gennaio 2004, n. 27, ha dichiarato che non spetta allo Stato nominare il commissario straordinario dell’Ente Parco «nel caso in cui tale nomina avvenga senza che sia stato avviato e proseguito il procedimento per raggiungere l’intesa per la nomina del Presidente dello stesso Ente», e ha annullato il decreto di nomina del commissario. A seguito di ciò, il Ministro dell’ambiente nominava nuovamente il commissario, scegliendo però una persona diversa. Scaduto l’incarico, il Ministro nominava quale commissario (per 60 giorni) il dott. Barbetti, cioè la persona sulla quale la Regione non aveva dato l’intesa nel procedimento di nomina del presidente e che era stato nominato commissario con il decreto annullato dalla sent. n. 27/2004. La Regione decideva di non impugnare, per favorire il raggiungimento dell’intesa per la nomina del presidente. L’intesa, però, non veniva raggiunta, perché il Ministro teneva fermo il nome del dott. Barbetti, e, nel frattempo, il suo incarico di commissario veniva prorogato due volte (sempre di 60 giorni). Nel momento in cui – a fine 2004 – l’incarico veniva prorogato per 6 mesi, la Regione sollevava di nuovo conflitto, al quale seguiva un ulteriore conflitto (comprendente anche istanza di sospensione), perché il Ministro prorogava per altri sei mesi (dal 4.6.2005) l’incarico commissariale del dott. Barbetti.

Con la sent. n. 21/2006, la Corte, dopo aver ricordato di essere stata «investita di identica questione in relazione alla nomina del commissario straordinario dello stesso Ente», ha accolto i conflitti ritenendo che il comportamento del Ministro non rappresentasse «avvio e sviluppo della procedura dell’intesa per la nomina del Presidente». La Corte ha dichiarato che «non spetta allo Stato… la nomina del commissario», in assenza di trattative per la nomina del presidente, e ha annullato i decreti di proroga[27]. Sia il riferimento all’«identica questione» sia il fatto che la Corte non distingua, nel dispositivo, fra atto di nomina e atti di proroga rivelano che, per la Corte, l’oggetto del giudizio (oltre alle parti) era uguale a quello della sent. n. 27/2004. Eppure, non si fa cenno a violazioni del giudicato.

La Corte ha occasione di pronunciarsi nuovamente sulla vicenda. Infatti, prima della sent. n. 21/2006, il Ministro aveva «confermato» per altri sei mesi l’incarico commissariale del dott. Barbetti, con decreto del 24.11.2005. La Regione ha sollevato conflitto contro questo decreto, chiedendone la sospensione e, questa volta, la Corte ha accolto l’istanza cautelare con l’ord. 7 aprile 2006, n. 152 (due mesi dopo il ricorso), osservando che, «relativamente al fumus boni iuris, risulta l'assenza di una apprezzabile attività per addivenire all'intesa, da un lato, mancando reiterate ed effettive trattative a ciò indirizzate... e, dall'altro, essendosi provveduto a confermare quale commissario straordinario per la durata di sei mesi la stessa persona la cui nomina era stata già annullata in precedenza da questa Corte»; e che, «con riferimento al periculum in mora, la perdurante operatività del decreto impugnato comporta una situazione di patente illegittimità dell'attività dell'attuale commissario».

La Corte costituzionale, dunque, di fronte a vicende uguali ad un caso già giudicato, ha nuovamente deciso nel merito e ha considerato efficaci gli atti adottati in contrasto con la sent. n. 27/2004 (tant'è vero che la sent. n. 21/2006 ha annullato gli atti impugnati e l'ord. n. 152/2006 ha sospeso l'esecuzione del decreto di conferma).

Come accennato, anche la dottrina prevalente limita l'efficacia oggettiva delle sentenze di accoglimento dei conflitti al caso concreto. Infatti, come noto, in base all'orientamento ormai da tempo affermatosi, l'oggetto del conflitto di attribuzioni intersoggettivo è la competenza in concreto, cioè la spettanza o meno della competenza esercitata con quello specifico atto, in quel particolare modo[28]. Dunque, un nuovo atto di esercizio della medesima competenza non violerebbe il giudicato[29]; un conflitto instaurato (dalla medesima Regione) contro di esso sarebbe un giudizio diverso, perché diverso sarebbe il petitum. È chiaro che la precedente decisione di accoglimento costituirebbe un precedente... assai autorevole; in casi di questo tipo, talora la Corte ha adottato la formula della «manifesta non spettanza»[30].

In questa prospettiva, la dottrina di solito non distingue tra atti analoghi e atti identici, perché – si può presumere - comunque il nuovo atto è un atto distinto, adottato in un momento diverso, è un nuovo esercizio di potere[31]. Sembra quasi di cogliere, in questa posizione, l'eco di una risalente dottrina amministrativistica, secondo la quale, poiché la sentenza amministrativa ha ad oggetto un atto e non un rapporto, «non abbiamo probabilmente degli effetti del giudicato apprezzabili in via diretta», ma soltanto un «vincolo rispetto all'ulteriore attività amministrativa»; la sentenza non colpirebbe il potere amministrativo o quello del giudice, nel senso di negarli, ma opererebbe come fatto, venendo inclusa tra i limiti dell'esercizio del potere; di fronte ad un ulteriore atto amministrativo, «il giudice verrà a trovarsi sempre di fronte ad una fattispecie nuova»[32].

 

2.3 La nullità degli atti amministrativi contrastanti con il giudicato costituzionale

Tale impostazione, però, va incontro a due obiezioni.

In primo luogo, già Mortati ha osservato che, «così intesa, la dichiarazione di appartenenza del potere viene in definitiva a risolversi nell'annullamento dell'atto»[33]. In effetti, risulta un po' artificiosa l'affermazione che l'oggetto della decisione è la competenza (seppur in concreto), se poi la decisione non fa stato neppure per una vicenda identica, nel rapporto fra le stesse parti. E, verosimilmente, è proprio la difficoltà di limitare in modo così drastico l'efficacia della sentenza sul conflitto che ha indotto Crisafulli a negare l'applicabilità del giudicato alle sentenze sui conflitti: volendo restare coerente alla tesi della competenza come oggetto primario del conflitto ma non volendo accettare le conseguenze derivanti dall'autorità di cosa giudicata su quell'oggetto, la conclusione è stata quella di rifiutare la trasposizione dell'istituto processualistico alle decisioni costituzionali. E anche Zagrebelsky, che accoglie la tesi prevalente del doppio oggetto del conflitto, dimostra che, «dal punto di vista pratico», essa si distingue da quella «che vede nella pronuncia sull'atto la risoluzione del conflitto» solo facendo riferimento alle sentenze di rigetto. Dunque, l'assunto secondo il quale il giudicato non varrebbe per ulteriori atti di esercizio della medesima competenza sembra porsi in contrasto con la tesi che vede nella competenza (in concreto) l'oggetto della sentenza.

Ma, in realtà (e in secondo luogo), la posizione della dottrina prevalente e della Corte non pare coerente neppure assumendo l'atto come oggetto del conflitto. Il giudizio amministrativo ha ad oggetto la legittimità di un atto ma è pacifico che, se l'Amministrazione reitera l'atto nei confronti dello stesso soggetto e con gli stessi vizi, quell'atto viola il giudicato[34] (pare pacifico che atti come quelli oggetto della sent. n. 21/2006 e dell'ord. n. 152/2006 sarebbero considerati contrastanti con il dictum della sent. n. 27/2004). Anche il giudizio di costituzionalità ha ad oggetto la legittimità di una legge ma si ritiene che il legislatore violi il giudicato quando «ricrea... un assetto identico a quello già accertato come incostituzionale dalla Corte, ovvero... qualora riproduca il medesimo oggetto del precedente giudizio di costituzionalità»[35].

La legge n. 15/2005 ha, poi (come visto), eliminato le incertezze che regnavano sulle varie ipotesi di violazione del giudicato e sulle sue conseguenze, accomunando ogni caso nel regime della nullità.

Dunque, la giurisprudenza costituzionale e la dottrina prevalente vanificano l'efficacia oggettiva delle sentenze di accoglimento dei conflitti intersoggettivi, sulla base di un'impostazione teorica che non sembra sostenibile né considerando la competenza (in concreto) come oggetto del conflitto né considerando l'atto come oggetto del conflitto.

La conclusione è che, se l'ente soccombente reitera l'atto annullato nei confronti dell’ente vittorioso senza emendarlo dei vizi rilevati dalla Corte, tale atto – secondo i principi attuali del diritto amministrativo– è da considerarsi in contrasto con il giudicato costituzionale e, dunque, nullo[36].

Naturalmente, la violazione del giudicato non è scontata, dovendo verificarsi che permanga la stessa situazione di fatto e di diritto sulla quale si è basata la sentenza della Corte; vengono in rilievo, a questo proposito, i limiti cronologici del giudicato, cioè il fatto che esso vincola con riferimento alla situazione di fatto e di diritto esistente al momento della sua formazione (v. § 1). Però, se il vizio sussiste ancora, sotto il profilo del fatto (nel caso dell'Ente Parco, perché non erano state avviate le trattative per la nomina del Presidente) e del diritto, ciò vuol dire che l'ente soccombente non ha rispettato il dictum della Corte e ha adottato un atto che non aveva – permanendo quella situazione – il potere di adottare.

Da questo punto di vista, il fatto che il nuovo atto valga per un periodo di tempo diverso rispetto a quello annullato (come accade di regola) o sia addirittura riferito al medesimo periodo cui si riferiva il precedente atto non è decisivo in relazione alla violazione del giudicato: la seconda evenienza rileva solo nel senso di facilitare la verifica di cui sopra, dato che l'unico elemento innovativo potrebbe essere l'avvenuto annullamento (dopo il giudicato) delle norme (ad es., regolamentari) sulla base delle quali la Corte ha accolto il conflitto[37]. Il fatto che il nuovo atto retroagisca, però, potrebbe rilevare in relazione alla regola generale secondo la quale i provvedimenti amministrativi possono retroagire solo sulla base di una espressa disposizione di legge o per attuare, «ora per allora», sentenze del giudice amministrativo[38].

Ancora, non è decisiva la distinzione tra atti identici e atti analoghi: quello che conta è che il nuovo atto rispetti o meno la regola di diritto enunciata nella sentenza. Nel caso dell’Ente Parco, anche l’atto con cui è stato nominato commissario (subito dopo la sent. n. 27/2004) una persona diversa dal dott. Barbetti violava il giudicato, pur non essendo identico a quello annullato dalla Corte, perché comunque vanificava l’effetto conformativo della sentenza della Corte, in base alla quale il commissario poteva essere nominato solo se erano state avviate le trattative per la nomina del presidente[39]. Dunque, il giudizio sulla nullità dell’atto analogo a quello annullato va svolto caso per caso, valutando se il nuovo atto contrasti o meno con il giudicato, in base ai criteri del diritto amministrativo[40].

È chiaro che, per ragioni di certezza, l'ente vittorioso avrà spesso interesse a far ribadire in via giudiziale le proprie ragioni[41], ma pare importante tener fermo che l'atto contrastante con il giudicato potrebbe essere direttamente disapplicato. Se si decide di adire nuovamente la Corte costituzionale, a rigore bisognerebbe chiedere l'accertamento della lesività del comportamento consistente nell'adozione di un atto identico o analogo a quello annullato e la dichiarazione della nullità dell'atto stesso: tale conflitto non dovrebbe essere dichiarato inammissibile in quanto privo di oggetto, perché l'adozione di un atto contrastante con il giudicato (e, dunque, nullo) comunque concreta un comportamento lesivo ed anche i comportamenti significanti, come noto, possono dare luogo ad un conflitto di attribuzioni. Se, invece, l'ente vittorioso solleva il secondo conflitto negli stessi termini del primo, chiedendo l'annullamento dell'atto, la Corte – a rigore – dovrebbe dichiararlo inammissibile in quanto l'atto da annullare non c'è e per violazione del ne bis in idem. Peraltro, se la Corte è adita, ragioni di certezza sconsigliano pronunce di inammissibilità e consigliano sentenze di accoglimento[42].

La vicenda dell'Ente Parco, poi, conferma quello che si è detto nel § 1 quanto al fatto che, se il regime della nullità può creare incertezza, ciò vale anche per il regime dell'annullabilità: il periculum indicato dalla Corte a fondamento della sospensione dell'atto di conferma del commissario («la perdurante operatività del decreto impugnato comporta una situazione di patente illegittimità dell'attività dell'attuale commissario») è chiaramente riconducibile al principio di certezza delle situazioni giuridiche.

Per far luce sulla «zona d'ombra» sopra evidenziata sembra necessaria, quindi, una correzione della giurisprudenza costituzionale, oltre ad una presa di coscienza – da parte delle parti confliggenti – della possibilità di disapplicare l'atto amministrativo contrastante con il giudicato. Dopo la legge n. 15 del 2005, invece, non pare che ci si possa lamentare di lacune normative.

 

3. (segue) Le sentenze di rigetto

3.1 Il carattere vincolante delle sentenze di rigetto sui giudizi amministrativi aventi stesse parti e stesso oggetto

Il rilievo dell'efficacia di giudicato delle sentenza di rigetto emerge soprattutto in relazione all'eventualità che il medesimo atto oggetto del conflitto sia stato impugnato davanti al giudice amministrativo, per lesione della competenza costituzionale[43]. Quali condizionamenti produce la sentenza di rigetto della Corte nei confronti del giudice amministrativo?

È noto che, nella prassi, i giudici amministrativi sospendono il proprio giudizio in attesa della pronuncia della Corte, alla quale poi si adeguano[44]. Tale prassi rappresenta un riconoscimento del ruolo centrale della Corte nel giudicare del rispetto delle competenze costituzionali, del suo carattere di giudice speciale dei rapporti fra Stato e Regioni. Quello che, però, occorre stabilire è se i TAR siano vincolati o meno dalle sentenze di rigetto della Corte[45].

Consideriamo l’ipotesi che le parti del giudizio amministrativo coincidano con quelle del conflitto e che davanti al TAR sia fatto valere (anche) il vizio di incompetenza costituzionale che è stato denunciato in sede di conflitto. Si tratta di un caso ben conosciuto nella prassi, dato che, quando una Regione dubita del «tono costituzionale» del conflitto o quando dubita che l’atto lesivo sia meramente esecutivo di una legge non impugnata, spesso agisce contemporaneamente su due fronti, impugnando l’atto davanti al TAR e sollevando il conflitto davanti alla Corte. Di fronte al giudice amministrativo, infatti, non si pongono problemi di «tono costituzionale» ed è possibile sollevare questione di costituzionalità in via incidentale in relazione alla legge applicata dall’atto impugnato, qualora questo sia considerato esecutivo della legge.

Secondo la dottrina e la giurisprudenza prevalenti i due giudizi sono autonomi, perché il conflitto si svolge sul piano «intersoggettivo del riequilibrio dell’assetto di competenza tra Stato e Regione», mentre il giudizio davanti al TAR si svolge «sul piano oggettivo di verifica della legalità dell’azione amministrativa»[46]. Dunque, se il giudice amministrativo annullasse per lesione di competenza un atto fatto salvo dalla Corte, non ci sarebbe un contrasto di giudicati in senso tecnico[47]. Altra dottrina non esclude una possibile utilità dell’applicazione del giudicato nel rapporto tra la sentenza della Corte e quella del giudice amministrativo[48], mentre altri Autori arrivano a sostenere che, in caso di rigetto del ricorso per conflitto di attribuzioni tra Stato e Regioni, il giudice amministrativo sarebbe vincolato dalla decisione costituzionale anche se non c’è identità di parti[49].

Se (come visto) si ritiene che le decisioni della Corte abbiano autorità di cosa giudicata, la sentenza di rigetto del conflitto dovrebbe vincolare il giudice amministrativo, esistendo identità di soggetti ed oggetto fra i due giudizi[50]. Non pare possibile negare l'identità oggettiva osservando che il conflitto ha per oggetto la competenza in concreto, mentre il giudizio amministrativo ha per oggetto la validità dell'atto impugnato. Se il vizio dedotto è, in entrambi i casi, la lesione di competenza costituzionale, sarebbe formalistico affermare una diversità oggettiva fra i due giudizi. Se c'è un atto all'origine del conflitto, l'oggetto di questo comprende anche la validità dell'atto (seppure in via conseguenziale rispetto all'accertamento di competenza; del resto, è lo stesso art. 39 legge n. 87/1953 che evidenzia la complessità dell'oggetto del conflitto, parlando sia di «regolamento di competenza» sia di «atto impugnato»); d’altro canto, il giudice amministrativo può pronunciare l’annullamento solo se ha accertato l’esistenza della legittimazione e dell’interesse della Regione ricorrente e se ha accertato, nel merito, l’esistenza della lesione di competenza: dunque, anche il giudizio amministrativo ha una componente di accertamento[51]. In definitiva, il petitum del giudizio amministrativo corrisponde – sostanzialmente – a quello del conflitto.

Fra l’altro, la tesi dell’autonomia fra giudizio amministrativo e conflitto, per la loro diversità di oggetto, è sostenuta da alcuni Autori che – come visto – sminuiscono gli effetti di giudicato delle sentenze di accoglimento del conflitto accentuando il fatto che esse sono strettamente collegate alla vicenda concreta giudicata dalla Corte, cioè allo specifico atto annullato: pare, dunque, che l’efficacia delle sentenze di accoglimento e di rigetto dei conflitti di attribuzione sia circoscritta con argomentazioni di cui è dubbia la coerenza.

Il carattere vincolante delle sentenze di rigetto dei conflitti (nei confronti del giudizio amministrativo avente stesse parti e stesso oggetto), oltre a discendere dall’efficacia di giudicato che abbiamo visto potersi riconoscere alle sentenze della Corte sui conflitti, soddisfa anche diverse esigenze sostanziali: quella di economia dei giudizi, quella di evitare decisioni contrastanti e quella di dare prevalenza alla decisione dell’organo che – oltre ad avere una posizione assai peculiare nell’ordinamento[52] - ha, in relazione al vizio di lesione di competenza costituzionale, una giurisdizione speciale e prevista dalla Costituzione[53].

Non sembra possibile, però, arrivare a sostenere la necessità di sospensione del processo amministrativo ex art. 295 c.p.c.[54], nel caso sia pendente un conflitto di attribuzioni sullo stesso atto. Tale tesi è stata sostenuta sia considerando l'efficacia vincolante della sentenza della Corte[55] sia ravvisando un nesso di pregiudizialità tra il conflitto di attribuzioni ed il giudizio amministrativo[56], ma pare inconciliabile con il modo in cui l'art. 295 c.p.c. è inteso dalla dottrina processualcivilistica e dalla giurisprudenza della Cassazione. Infatti, le questioni pregiudiziali che impongono la sospensione del processo sono quelle che costituiscono antecedente logico della causa principale e che non possono essere decise incidenter tantum ma devono essere decise con efficacia di giudicato in altro processo, in modo che – senza sospensione - potrebbe verificarsi contrasto di giudicati. La questione pregiudiziale è una questione diversa da quella oggetto del processo principale[57]. Invece, nel caso che stiamo esaminando, il processo amministrativo ed il conflitto di attribuzioni hanno ad oggetto la medesima questione, cioè l’accertamento della lesione della competenza costituzionale, e tale accertamento non è riservato alla Corte costituzionale, secondo l’orientamento prevalente[58], per cui esso può essere compiuto direttamente dal giudice amministrativo. Concettualmente, il caso della sovrapposizione fra giudizio amministrativo e conflitto di attribuzioni non andrebbe inquadrato nell’ambito della pregiudizialità ma in quello della litispendenza (art. 39 c.p.c.).

La conclusione è che la sentenza con cui la Corte costituzionale respinge il conflitto di attribuzioni fa stato nel processo amministrativo pendente tra le stesse parti, e che il giudice amministrativo può (ma non deve) sospendere il proprio giudizio[59].

 

3.2 Gli effetti delle sentenze di rigetto sui giudizi penali e civili

3.2.1 Il caso del conflitto ex art. 122, 4° comma, Cost.; la questione dell'ambito oggettivo del giudicato costituzionale

 Può capitare che un giudice ordinario debba decidere una causa che dipende, logicamente, dalla sentenza della Corte: se viene instaurato un giudizio civile o penale avente ad oggetto la responsabilità di un consigliere regionale per diffamazione e la Regione di appartenenza del consigliere solleva conflitto contro un atto di quel processo (il caso non è certo di scuola, come noto), quale vincolo si produce a carico del giudice se la Corte dichiara che le opinioni espresse dal consigliere regionale non sono coperte dall’immunità di cui all’art. 122, 4° comma, Cost. [60]?

È chiaro che, in questo caso, il conflitto ed il giudizio comune sono profondamente diversi, sia per parti che per oggetto. Occorrerebbe, dunque, verificare se le sentenze di rigetto del conflitto tra Stato e Regioni possono avere un effetto vincolante anche su giudizi aventi diverse parti e diverso oggetto[61]. Una trattazione completa della questione richiederebbe, da un lato, di affrontare temi propri del diritto processuale civile e penale (in che limiti le parti di un giudizio civile o penale possono essere vincolate da un giudicato formatosi in un giudizio avente parti diverse), dall'altro di verificare in che misura, nella prassi, le sentenze di rigetto nei conflitti (tra Stato e Regioni ma anche in quelli tra poteri sollevati ex art. 68, 1° comma, Cost.) siano ritenute vincolanti dai giudici civili e penali. Entrambe le operazioni esulano dalle possibilità di questo lavoro, per cui ci si limita, in questa sede, a tracciare un percorso con il quale si potrebbe arrivare a dare una risposta.

La questione centrale sembra essere la seguente: il giudicato copre solo l'accertamento del potere del giudice di compiere l'atto impugnato o si estende all'affermazione del potere statale di giudicare sulla condotta del consigliere in quanto non riconducibile alla sua attività di consigliere? Nel primo caso, l’unico effetto preclusivo sarebbe quello di impedire al giudice di rimettere in discussione l’atto impugnato per il vizio ritenuto insussistente dalla Corte, ma nelle successive fasi del processo l’organo giurisdizionale (quello autore dell’atto impugnato o un altro giudice) potrebbe anche ritenere che la condotta del consigliere sia “scriminata” ex art. 122 Cost.; nel secondo caso, la questione dell’applicabilità dell’art. 122, 4° comma, sarebbe ormai chiusa in senso negativo, per cui – in virtù della sentenza di rigetto della Corte - nessun giudice potrebbe negare di avere giurisdizione sulla condotta del consigliere e anche questi non potrebbe più invocare la prerogativa dell’insindacabilità.

Per scegliere la prima o la seconda soluzione occorre determinare con esattezza l’ambito oggettivo del giudicato[62]. Benché in dottrina[63] si ritrovi, talora, l’affermazione secondo la quale il giudicato si forma sul decisum ma non sulla ratio decidendi (che avrebbe solo forza di precedente), pare pacifico che, corrispondendo l’oggetto del giudicato all’oggetto del giudizio, l’ambito oggettivo del giudicato va definito in relazione sia al petitum (che si trova immancabilmente espresso nel dispositivo) che alla causa petendi[64] (che, invece, spesso emerge dalla motivazione). L’affermazione secondo la quale il giudicato non copre la ratio decidendi può essere accolta, dunque, solo nel senso che il giudicato non si estende alle argomentazioni utilizzate dal giudice, ma non nel senso che esso non comprende i motivi della decisione[65].

Gli elementi che suffragano tale conclusione sono numerosi. Si pensi al principio secondo il quale “il giudicato copre il dedotto ed il deducibile”[66], che presuppone chiaramente l’estensione del giudicato ai motivi fatti valere; al fatto che, se una sentenza si fonda su due distinti motivi e viene impugnata solo in relazione ad uno di essi, essa passa in giudicato[67]; al fatto che l’ambito del giudicato delle sentenze dei giudici amministrativi si determina in relazione ai vizi accertati come esistenti (in quanto l’effetto conformativo della sentenza impedisce all’amministrazione di riadottare l’atto con quei vizi[68]) o come inesistenti (perché il giudicato di rigetto impedisce alla p.a. di annullare d’ufficio l’atto per i vizi dichiarati insussistenti nella sentenza[69]); all'esistenza dei limiti cronologici del giudicato[70]; infine, al fatto che l'effetto di giudicato riconosciuto in misura maggiore o minore alle sentenze emesse dalla Corte costituzionale nei vari giudizi di sua competenza è sempre “letto” in relazione allo specifico vizio denunciato[71].

Dunque, l'ambito oggettivo del giudicato corrisponde all'oggetto del giudizio e, come noto, in caso di conflitti aventi ad oggetto atti giurisdizionali, la causa petendi non può essere un error in judicando ma solo un difetto del potere del giudice di compiere l'atto in questione[72]. Nel caso di conflitti ex art. 122, 4° comma, quindi, la Corte costituzionale si pronuncia sì sulla lesività dell'atto impugnato ma per una ragione (l'esistenza o meno del potere giurisdizionale sulla condotta del consigliere, in relazione all'applicabilità o meno dell'art. 122, 4° comma, Cost.) che non è limitabile a quello specifico atto. Il motivo che deve essere necessariamente dedotto nei conflitti su atti giurisdizionali fa sì che il baricentro del giudizio non sia la valutazione del singolo atto ma l'accertamento del potere giurisdizionale statale, attraverso la valutazione del carattere “funzionale” o meno della condotta del consigliere.

Il fatto che, nei conflitti su atti giurisdizionali, l'accertamento del potere giurisdizionale (in generale) non appartenga al mero iter argomentativo ma componga direttamente l'oggetto del conflitto risulta chiaramente dalla giurisprudenza costituzionale. Si può ricordare, innanzi tutto, la sent. n. 76/2001, che per la prima volta ha ammesso l'intervento del privato diffamato dal consigliere in virtù della considerazione che “la valutazione sull’esistenza della garanzia svolta dalla Corte in sede di conflitto finirebbe per sovrapporsi all’analoga valutazione demandata al giudice del processo comune”, e che il conflitto ha ad oggetto “la risoluzione di un tema del tutto “pregiudiziale” [rispetto al giudizio comune], quale è quello relativo alla sussistenza o meno nel caso concreto del potere di agire”. Risulta chiaramente che l'oggetto del conflitto non è tanto la spettanza del potere di compiere lo specifico atto impugnato quanto piuttosto la valutazione della riconducibilità della condotta del consigliere all'art. 122, 4° comma Cost., e, dunque, l'accertamento dell'esistenza o meno del potere giurisdizionale statale.

Ma si possono fare altri esempi. Di fronte a tre conflitti promossi da una Regione speciale avverso tre provvedimenti giudiziari emessi in materia di incompatibilità e di conseguente decadenza dalla carica di consigliere regionale, la Corte ha osservato che “la controversia... non ha ad oggetto sostanziale la sussistenza o meno della causa di incompatibilità... né la conseguente decadenza del consigliere”, dando atto che il motivo “che sorregge tutti tre i ricorsi della Regione poggia sulla tesi secondo cui giudicare sui casi di ineleggibilità e di incompatibilità dei membri del Consiglio regionale sardo... spetterebbe esclusivamente alla competenza del Consiglio regionale medesimo”. L'intera motivazione della sentenza riguarda l'esistenza o meno del potere giurisdizionale statale in materia di incompatibilità e, in quel caso, anche il dispositivo “dichiara che spetta allo Stato, e per esso ai competenti organi giurisdizionali, giudicare in sede giurisdizionale sulla sussistenza di cause sopravvenute di incompatibilità con la carica di membro del Consiglio regionale sardo e sulla conseguente decadenza del consigliere”[73].

Un altro esempio può essere dato dalla sent. n. 292/2001: i conflitti erano sorti a seguito di due decreti della Corte dei conti,­ sezione giurisdizionale per il Trentino-Alto Adige, con i quali era stato prescritto all’agente contabile del Consiglio della Regione Trentino-Alto Adige e del Consiglio della Provincia autonoma di Trento il deposito dei conti giudiziali relativi alle gestioni degli anni 1996, 1997 e 1998, ma la Corte individua più in generale il “tema, cui unicamente ha riguardo il presente giudizio”, nella “spettanza alla Corte dei conti del potere di sottoporre gli agenti contabili dei consigli al giudizio di conto”[74].

Per una recente conferma si può ricordare la sentenza n. 416/2006, in tema di conflitti tra poteri ex art. 68 Cost.: “oggetto del presente giudizio sul conflitto di attribuzione sollevato dal Tribunale di Brescia non è la valutazione dell’offensività delle dichiarazioni del parlamentare imputato, ma solo l’estensione della copertura offerta dal primo comma dell’art. 68 Cost. alle dichiarazioni che hanno dato origine alla querela, non spettando a questa Corte stabilire se, nel caso sottoposto al suo esame, ricorrano o meno gli estremi del reato di diffamazione”[75].

Come si vede, in tutti i casi esaminati la lesività degli specifici atti impugnati è solo l'occasione di un giudizio che ha ad oggetto principale l'esistenza del potere giurisdizionale o su una fattispecie in generale (sent. n. 29/2003 e sent. n. 292/2001) o su una condotta determinata (sent. n. 76/2001 e sent. n. 416/2006); in questi ultimi casi, quindi, il conflitto verte sull'invocabilità o meno della prerogativa dell'insindacabilità.

Si può anche segnalare che, di fronte a due conflitti promossi – ex art. 122, 4° comma - da una Regione contro due distinti atti giurisdizionali, emessi da organi diversi nell'ambito del medesimo procedimento, la Corte ha disposto la “riunione dei giudizi, avuto riguardo alla sostanziale coincidenza dell’oggetto dei due ricorsi” (sent. n. 221/2006): dando, dunque, chiara prevalenza alla condotta rispetto all'atto impugnato ai fini della definizione dell'oggetto del conflitto .

 

3.2.2 Il carattere vincolante della sentenza di rigetto sul “seguito” del giudizio penale o civile

Dunque, nel caso di conflitto intersoggettivo ex art. 122, 4° comma, Cost., la sentenza di rigetto della Corte non incide tanto sull’oggetto del giudizio ordinario (l'esistenza o meno della responsabilità del consigliere regionale) quanto piuttosto sul presupposto di esso, cioè sulla giurisdizione.

 Da ciò discende che, nel momento in cui la Corte respinge il conflitto sollevato dalla Regione, essa afferma che al giudice in questione spetta il potere di compiere l'atto impugnato perché la condotta del consigliere non è riconducibile all’art. 122, 4° comma, Cost.; le parti del giudizio (Stato e Regione) sono vincolate da questa statuizione, per cui non possono più mettere in discussione la non riconducibilità della condotta de qua all'art. 122, 4° comma, Cost. In sostanza, la sentenza di rigetto si traduce nel riconoscimento allo Stato del potere di giudicare su quella condotta. La Regione aveva contestato il difetto del potere giurisdizionale, per effetto dell’art. 122, 4° comma; la Corte ha statuito che il potere sussiste; il regolamento di competenza operato dalla Corte fa stato nei rapporti tra Stato e Regione, per cui gli organi giudiziari statali non possono più dubitare della propria giurisdizione in ragione dell'art. 122, 4° comma, Cost.; in quel giudizio la sussistenza del potere del giudice non può più essere discussa, con conseguente impossibilità, per il consigliere regionale, di appellarsi all’art. 122, 4° comma, Cost. [76].

Questa conclusione non rappresenta una deroga ai limiti soggettivi del giudicato: la sentenza della Corte vale per lo Stato e per la Regione ma ciò basta ad impedire al giudice che aveva dato origine al conflitto, procedendo contro il consigliere (e ai giudici che dovessero intervenire in seguito), di affrontare nuovamente la questione dell’invocabilità dell’art. 122, 4° comma. La sentenza della Corte non pregiudica la valutazione del giudice civile o penale sugli elementi costitutivi dell’illecito ma solo quella dell’esistenza del suo potere: l'applicabilità dell'art. 122, 4° comma, Cost. è l’oggetto specifico della sentenza della Corte e su di esso la decisione di rigetto non può non fare stato. Opinando diversamente, si dovrebbe anche ammettere che, se la Corte respinge un conflitto relativo ad un atto di un procedimento amministrativo dichiarando che spetta all’ente resistente svolgere quel procedimento, la sentenza non vincoli l’ente vittorioso a ritenersi competente e a proseguire il procedimento (salve valutazioni di altro tipo). La differenza tra il giudizio ed il procedimento amministrativo non sembra, in questo caso, rilevante: la Corte ha attuato le norme costituzionali nel caso concreto e sia i giudici che la p.a. sono tenuti ad applicare quelle norme così come «precisate» dalla Corte, essendo destinatari della sentenza. Si possono estendere ai conflitti (sia su atti amministrativi che su atti giurisdizionali) le chiare parole scritte da Nigro a proposito della sentenza amministrativa di rigetto: “il giudicato di rigetto non preclude l'ulteriore attività delle parti e del giudice (o dei giudici), ma solo se questa abbia fondamento in censure che investano aspetti dell'episodio di vita totalmente diversi da quelli già esaminati dal giudice; la preclude invece quando essa pretenda di fondarsi sulle censure già esaminate e respinte e anche su censure che a queste si colleghino così strettamente da contribuire alla stessa rappresentazione dell'episodio di vita”[77]. Le parti del giudizio comune, dunque, non subiscono gli «effetti riflessi» del giudicato perché il loro rapporto è legato a quello oggetto del conflitto ma perché sono coinvolti dall’esercizio di un’attività e la parte del conflitto (lo Stato) non può discutere l’esistenza del potere di compiere quell'attività in relazione all'art. 122, 4° comma, Cost.

Del resto, nella sent. n. 76/2001 la stessa Corte costituzionale ha ammesso (con affermazioni svolte in generale, non con riferimento al caso di specie) che la sentenza di accoglimento del conflitto vincola il giudice ordinario[78] e, proprio in ragione di ciò, si è ammesso l'intervento nel conflitto del terzo diffamato dal consigliere. Ora, il vincolo a carico del giudice comune non discende necessariamente dal fatto che la sentenza di accoglimento annulla l'atto impugnato. Occorre distinguere fra l'effetto della sentenza e l'autorità di cosa giudicata: il primo implica il venir meno dell'atto ma è il secondo che impedisce di ridiscutere l'accertamento contenuto della sentenza[79]. Se la sentenza di accoglimento non facesse stato tra le parti, l'annullamento di un atto giurisdizionale non impedirebbe al giudice di riadottare l'atto (e l'annullamento di un atto non essenziale per il processo non impedirebbe al giudice di proseguire comunque il giudizio[80]), in contrasto con la sentenza della Corte (andando incontro, ovviamente, all'eventualità di un nuovo conflitto). Nella sent. n. 76/2001, invece, la Corte esclude questa eventualità e dimostra di attribuire alle proprie decisioni autorità di cosa giudicata. Ora, in base al principio generale secondo il quale l'efficacia di giudicato non cambia secundum eventum litis[81], anche la sentenza di rigetto deve produrre il medesimo vincolo a carico del giudice.

L'inoppugnabilità dell'accertamento compiuto dalla Corte risulta anche da una vicenda in materia di segreto di Stato, che ha originato addirittura tre conflitti tra poteri ed un giudizio in via incidentale[82]. La Corte, dopo aver chiarito con la sent. n. 110/1998 che l’opposizione del segreto di Stato da parte del Presidente del Consiglio dei ministri ha l’effetto di inibire all’autorità giudiziaria di utilizzare gli elementi di conoscenza e di prova coperti dal segreto (ragion per cui la sent. n. 110/1998 annullò alcuni atti di indagine ed una richiesta di rinvio a giudizio presentata dalla Procura di Bologna), torna sulla medesima vicenda con la sent. n. 410/1998, dato che il p.m. aveva reiterato la richiesta di rinvio a giudizio utilizzando nuovamente i documenti illegittimamente acquisiti; la Corte dichiarò che non spetta al pubblico ministero rinnovare la richiesta di rinvio a giudizio utilizzando fonti di prova acquisite in violazione del segreto di Stato già accertata con sentenza della Corte costituzionale, e annullò la seconda richiesta di rinvio a giudizio. A seguito di ciò, il p.m. formulò richiesta di archiviazione, ma il g.i.p. sollevò questione di costituzionalità in relazione all'art. 256 c.p.p., nella parte in cui consente di opporre il segreto di Stato anche in relazione ad atti privi del connotato della segretezza in quanto già contenuti ed acquisiti al fascicolo processuale. La Corte precisò di aver già “inoppugnabilmente definito la controversia in merito all’utilizzabilità degli stessi atti, sui quali è stato opposto e confermato il segreto di Stato, cui fa riferimento il giudice a quo”, e che, “derivando inequivocabilmente, e in via definitiva, la sanzione dell’inutilizzabilità degli atti di cui si tratta, non già dall’art. 256 cod. proc. pen., bensì dalle due citate sentenze della Corte costituzionale, sottratte dall’art. 137, ultimo comma, della Costituzione, a qualsiasi forma, anche indiretta o impropria, di impugnazione, il giudice a quo avrebbe dovuto rilevarla d’ufficio”[83].

Tale decisione è interessante perché mostra che non è il meccanismo dell'annullamento che può giustificare una diversa efficacia delle sentenze di accoglimento rispetto a quelle di rigetto. Nel caso di specie, il g.i.p. non era affatto vincolato dal venir meno della richiesta di rinvio a giudizio (annullata dalla sent. n. 410/1998) perché si trovava a decidere su una richiesta di archiviazione: eppure, la Corte ha ritenuto che esso fosse vincolato dal giudicato costituzionale (giudicato di carattere sostanziale, nonostante l'improprio riferimento operato dall'ordinanza all'art. 137, 3° comma, Cost.).

 Nella sent. n. 487/2000, pronunciata sempre su un conflitto tra poteri sollevato dal Presidente del Consiglio in ordine alla medesima vicenda, la Corte ha precisato che “rispetto alla valutazione circa l’inutilizzabilità dei documenti di cui si tratta non compete [al g.i.p.], in questo caso, alcun potere decisorio in ordine alla adozione di determinazioni ulteriori e diverse dal rilievo d’ufficio della inutilizzabilità di tali documenti,... non residuando nel procedimento penale a quo alcuno spazio per fare applicazione, ai fini dell’identificazione degli atti non utilizzabili, dell’art. 256 cod. proc. pen.”[84]. Qui la Corte rende chiaro che la propria precedente sentenza ha prodotto il tipico effetto del giudicato sostanziale, cioè quello di consumare il potere giurisdizionale su una certa questione[85].

 La Corte, dunque, ha considerato l'accertamento contenuto in una propria decisione vincolante nel seguito del giudizio (anche nei confronti di un organo diverso da quello parte del precedente giudizio): da un lato, anche in questo caso si conferma che l'oggetto del giudicato non è limitato agli specifici atti impugnati ma comprende la ratio decidendi, dall'altro non si vede perché l'accertamento contenuto nella sentenza di rigetto non dovrebbe vincolare analogamente, nel “seguito” giudiziario, gli organi del soggetto (lo Stato) che è stato parte del conflitto intersoggettivo.

Se tale conclusione è esatta, nel caso del conflitto ex art. 122, 4° comma, Cost., il consigliere regionale sarebbe danneggiato da una sentenza (di rigetto) emessa su un giudizio al quale non ha partecipato: di qui la necessità di ammettere l’intervento del consigliere davanti alla Corte costituzionale, necessità che risulta – ovviamente – assai pressante in caso di giudizio penale, dato che non si può negare all’indagato (o imputato) la possibilità di difendersi su una questione che può essere decisiva ai fini del giudizio finale[86]. Né sembra possibile svalutare quest'esigenza facendo notare che il consigliere è difeso indirettamente dalla Regione[87]: la difesa è un diritto inviolabile e ogni soggetto deve poterla esercitare personalmente e direttamente, senza dipendere dalla condotta processuale di altri soggetti.

Può essere interessante notare, in conclusione, che – se la tesi sopra esposta è esatta – la Corte svolgerebbe una funzione di «regolamento di giurisdizione», nei rapporti tra giudici ordinari e consigli regionali, analoga a quella svolta dalla Cassazione nei rapporti tra giudici ordinari e giudici speciali e tra giudici ordinari e pubblica amministrazione: ma ciò non deve stupire più di tanto, se si rammenta, da un lato, che la competenza della Corte sui conflitti di attribuzione tra poteri è stata «estratta» proprio dalla competenza della Cassazione sulle questioni di giurisdizione, che in origine comprendevano anche le questioni di attribuzione tra giudici e altri poteri pubblici[88], dall’altro che il conflitto intersoggettivo relativo ad atti giurisdizionali nasconde un conflitto tra poteri.

 

4. I limiti soggettivi della decisione

4.1 Considerazioni generali

I punti fin qui fissati (applicabilità del giudicato sostanziale alle decisioni sui conflitti Stato-Regioni, limiti del giudicato, collegamento fra portata della decisione e motivo di essa) consentono di svolgere qualche breve osservazione anche sul tema dell’ambito soggettivo delle sentenze con cui la Corte decide i conflitti tra Stato e Regioni. In questa materia vale la regola processualistica generale, per cui esse valgono solo per gli enti che hanno partecipato al processo, salvi gli effetti dell'eventuale annullamento, il cui ambito soggettivo coincide con quello dell'atto annullato[89] (a parte i casi di limitazione dell'annullamento alla Regione ricorrente, sui quali v. infra).

In dottrina si distingue, peraltro, giustamente, tra efficacia soggettiva dell'annullamento (che, appunto, dipende dall'atto annullato) ed efficacia soggettiva del giudicato[90], ma, nel caso dei conflitti Stato-Regioni, è dubbio il rilievo pratico di tale distinzione. Infatti, se la conseguenza di essa consiste nel fatto che il divieto di adottare un atto identico a quello annullato “non potrebbe in nessun modo valere con riferimento a soggetti che non hanno partecipato al giudizio”[91], è da osservare che ciò vale quando l’atto annullato è di una Regione[92], ma in questo caso anche gli effetti dell’annullamento rimangono circoscritti a quella Regione.

Quanto alle sentenze di rigetto, la limitazione soggettiva del giudicato fa sì che una Regione possa impugnare davanti alla Corte l’atto statale già contestato senza successo da un’altra Regione (naturalmente, se per la prima non era decorso il termine di impugnazione), anche per gli stessi motivi: in questo caso, la sentenza di rigetto opererà come precedente ma, in astratto, la Corte potrebbe mutare orientamento.

Sempre in virtù dei limiti del giudicato, se un privato impugna un atto regionale o statale facendo valere il vizio di incompetenza già dedotto, senza successo, davanti alla Corte in sede di conflitto, oppure se un atto statale fatto salvo dalla Corte è impugnato, per lo stesso motivo, davanti al TAR da una Regione diversa, il giudice amministrativo non è giuridicamente vincolato dalla sentenza della Corte[93]. La sentenza della Corte non fa stato (se fosse altrimenti, il privato o la Regione si troverebbero condizionati da una sentenza emessa in un giudizio al quale non hanno partecipato), ma è chiaro che costituirà un precedente autorevole, provenendo dall’organo specializzato nella materia in questione.

 

4.2 La limitazione soggettiva dell’annullamento

Qualora l'atto generale oggetto del conflitto sia viziato solo in relazione alla Regione ricorrente (o, comunque, ad alcune Regioni), la Corte limita l'ambito soggettivo della propria sentenza alla Regione stessa (o alle Regioni in questione)[94].

Il caso tipico è quello del conflitto sollevato da una Regione speciale, che fa valere una prerogativa ad essa peculiare, in quanto prevista dal proprio Statuto speciale (o dalle relative norme di attuazione).

In dottrina si è segnalato che, talora, in casi di questo tipo, la Corte non limita l'accoglimento alla Regione ricorrente ma annulla l’atto in generale[95]. In realtà, in tutti i casi indicati la Corte ha annullato tout court l’atto impugnato perché il vizio non era limitato alla Provincia autonoma ricorrente, venendo in rilievo una competenza spettante anche alle Regioni ordinarie (e alle altre Regioni speciali)[96]. Si potrebbe osservare che la dimensione dell’annullamento deve corrispondere alla dimensione del vizio e che, quindi, opportunamente la Corte – in quei casi – non si è fermata alla specialità del motivo di ricorso (che, ovviamente, faceva riferimento allo Statuto speciale) ma ha tenuto conto della generalità del vizio accertato. Resta, però, la discrasia fra motivo del ricorso e motivo (implicito) della decisione, il che suscita perplessità dal punto di vista di vari principi processuali: quello della corrispondenza tra chiesto e pronunciato, quello per cui il giudice non deve procedere d'ufficio (la Corte costituzionale dovrebbe verificare autonomamente se l’atto impugnato viola anche il Titolo V e/o gli altri Statuti speciali) e quello del contraddittorio, dato che l’Avvocatura non potrebbe difendersi in relazione a parametri inespressi. D’altro canto, la stretta corrispondenza della sentenza alla causa petendi sacrificherebbe altri importanti principi: quello della legalità costituzionale, quello di economia processuale (se l’atto può essere contestato dalle altre Regioni) e quello della certezza del diritto (soprattutto se l’atto è la base di altri atti). Complessivamente, dunque, la giurisprudenza costituzionale sopra citata non sembra criticabile.

Ugualmente, e sempre per lo stretto collegamento esistente tra vizio accertato e portata della decisione, risultano condivisibili quelle sentenze che limitano l’accoglimento alla Regione speciale ricorrente pur quando l’atto è impugnato per violazione di norme “generali” (ad es., il principio di legalità), con conseguente menomazione di competenze statutarie. Secondo alcuni, in questo caso sarebbe speciale solo la competenza di cui si chiede tutela, non il vizio e,“pur se il vizio accertato ha natura per così dire 'generale', nondimeno la Corte valorizza il requisito dell'interesse a sollevare il conflitto, requisito che presuppone l'incidenza dell'atto sulle attribuzioni del ricorrente”[97]. In realtà, nei casi di “triangolazione” il parametro è composto anche dallo Statuto speciale (altrimenti, il conflitto sarebbe inammissibile), per cui il vizio è speciale[98]. Il fatto che sia affermata la lesione delle competenze statutarie non dovrebbe mettere in gioco l'interesse al ricorso ma la legittimazione, perché quella lesione è il motivo che deve essere necessariamente dedotto per sollevare il conflitto[99].

In base ai medesimi criteri, si potrebbe giustificare la limitazione dell’annullamento alla Regione ordinaria ricorrente, qualora la lesione consista nella sovrapposizione dell’atto impugnato ad una disciplina adottata dalla ricorrente (e non dalle altre Regioni). Anche in questo caso, la limitazione sarebbe giustificata dalla specialità del vizio perché, se la competenza statale è esclusa non dall’astratta competenza regionale ma dal concreto esercizio di questa, l’atto statale è del tutto legittimo in relazione alle Regioni prive di disciplina, per cui la limitazione dell’accoglimento alla Regione ricorrente corrisponde al fatto che l’atto è lesivo solo in relazione ad essa[100].



* Rielaborazione di un intervento programmato svolto al convegno di Modena su “Le zone d'ombra della giustizia costituzionale - I conflitti di attribuzioni” e destinato alla pubblicazione nei relativi atti per i tipi di Giappichelli, Torino, a cura di R. Pinardi

 

[1] Art. 324 c.p.c., Cosa giudicata formale: «S’intende passata in giudicato la sentenza che non è più soggetta né a regolamenti di competenza, né ad appello, né a ricorso per cassazione, né a revocazione per i motivi di cui ai numeri 4 e 5 dell’articolo 395».

[2] L’esperibilità della revocazione straordinaria e dell’opposizione di terzo, invece, non impediscono il passaggio in giudicato della sentenza.

[3] Art. 2909 c.c., Cosa giudicata: «L’accertamento contenuto nella sentenza passata in giudicato fa stato a ogni effetto tra le parti, i loro eredi o aventi causa».

[4] Su ciò si veda la fondamentale voce di G. Pugliese, voce Giudicato civile (dir. vig.), in Enc. dir., Milano, 1969, 800 ss; v. poi, anche per ulteriori citazioni, A. Chizzini, Art. 2909, in G. Cian – A. Trabucchi (a cura di), Commentario breve al codice civile, Padova, 2004, 3230; C. Mandrioli, Diritto processuale civile, I, Torino, 2005, 146 ss.; E.T. Liebman, Manuale di diritto processuale civile - Principi, Milano, 2002, 265 ss.

[5] V. A. Chizzini, op. cit., 3232 ss.; G. Pugliese, op. cit., 862 ss.

[6] In base alla sent. n. 29/1998, l’art. 137, 3° comma, «non si limita ad interdire gravami devoluti ad altri giudici, giacché non è configurabile un giudizio superiore rispetto a quello dell’unico organo di giurisdizione costituzionale, ma impedisce anche il ricorso alla stessa Corte contro le decisioni che essa ha emesso»; l’art. 137, 3° comma, vieta «qualsiasi tipo di impugnazione, qualunque sia lo strumento con il quale è richiesto il sindacato sulle decisioni della Corte cost. …[sicché è]… così inibita ogni domanda diretta ad incidere su di una sentenza pronunciata dalla Corte e proposta per ottenerne l’annullamento o la riforma, anche solo nella motivazione, ovvero ad eliderne gli effetti». Parla di giudicato formale, in riferimento all’art. 137, 3° comma, P. Costanzo, Il dibattito sul giudicato costituzionale nelle pagine di Giurisprudenza costituzionale (note sparse su un tema di perdurante attualità), in A. Pace (a cura di), Corte costituzionale e processo costituzionale, Milano, 2006, 218.

[7] V. A. Pizzorusso, Art. 137 – IX, in G. Branca (a cura di), Commentario della Costituzione, Bologna-Roma, 1981, 695 ss., per il quale l'art. 137, 3° comma, non esclude neppure la possibilità di applicare al processo costituzionale l'istituto della revocazione di cui all'art. 395 c.p.c.; M.R. Morelli, Art. 137, in V. Crisafulli – L. Paladin (a cura di), Commentario breve della Costituzione, Padova, 1990, 808; sull’art. 137, 3° comma, v. anche M. Perini, Il seguito e l’efficacia delle decisioni costituzionali nei conflitti fra poteri dello Stato, Milano, 2003, 160 ss.

[8] V. F. Dal Canto, voce Giudicato costituzionale, in Enc. dir., V aggiornamento, Milano, 2001, 434, e R. Manfrellotti, Effetti del giudicato costituzionale reso in sede di conflitto intersoggettivo e validità degli atti amministrativi, in Giur. cost., n. 1/2006, 169. Dal Canto supporta questa interpretazione dell’art. 137, 3° comma, Cost. citando la sent. n. 29/1998 della Corte costituzionale, che, però, come visto nella nota 6, sembra escludere ricorsi volti ad incidere sul giudicato formale più che presupporre l’intangibilità degli effetti sostanziali della sentenza.

[9] V. G. Pugliese, op. cit., 803.

[10] Per A. Chizzini, op. cit., 3230, il giudicato formale è il solo presupposto del giudicato sostanziale, per «imprescindibili esigenze di certezza del diritto».

[11] In questo senso si era espresso già M. Cappelletti, Pronunce di rigetto nel processo costituzionale delle libertà e cosa giudicata, in Riv. dir. proc., 1956, 149 e 155; v. poi, per tutti, M.R. Morelli, Art. 134, in V. Crisafulli – L. Paladin (a cura di), op. cit., 803, L. Paladin, Diritto costituzionale, Padova, 1998, 775 ss., V. Crisafulli, Lezioni di diritto costituzionale, t. II, Padova, 1984, 394, e, in senso critico rispetto all’orientamento prevalente, A. Ruggeri, Storia di un “falso” - L’efficacia inter partes delle sentenze di rigetto della Corte costituzionale, Milano, 1990, 27 ss.

[12] L'art. 37 legge TAR regola i “ricorsi... diretti ad ottenere lo adempimento dell'obbligo dell'autorità amministrativa di conformarsi al giudicato degli organi di giustizia amministrativa”; inoltre, il riconoscimento dell'autorità di cosa giudicata alle sentenze amministrative è ricavato anche, a contrariis, dall'art. 28 r.d. n. 1054/1924, che autorizza il Consiglio di Stato «a decidere di tutte le questioni pregiudiziali od incidentali relative a diritti», precisando che «su dette questioni..., tuttavia, la efficacia della cosa giudicata rimane limitata alla questione principale decisa nel caso»: v. E. Ferrari, Art. 28, in A. Romano (a cura di), Commentario breve alle leggi sulla giustizia amministrativa, Padova, 2001, 441. All'”inesecuzione del giudicato amministrativo”, infine, fa riferimento l'art. 26 dPR n. 3/1957. Sul giudicato amministrativo ci si limita a rinviare – oltre che alle monografie di M. Clarich, Giudicato e potere amministrativo, Padova, 1989, e P.M. Vipiana, Contributo allo studio del giudicato amministrativo, Milano, 1990 - a F. Benvenuti, voce Giudicato (dir. amm.), in Enc. dir., Milano, 1969, 893 ss.; M. Nigro, Giustizia amministrativa, Bologna, 1994, 297 ss.; A.M. Sandulli, Manuale di diritto amministrativo, vol. 2, Napoli, 1989, 1515 ss.; G. Abbamonte – R. Laschena, Giustizia amministrativa, in G. Santaniello (a cura di), Trattato di diritto amministrativo, Padova, 1997, 383 ss.; A. Travi, Lezioni di giustizia amministrativa, Torino, 2006, 325 ss., per il quale il giudicato «esterno» comporta «un vincolo anche rispetto a giudizi diversi, che possano instaurarsi fra le medesime parti, nei quali assuma rilevanza la medesima questione»; F.G. Scoca (a cura di), Giustizia amministrativa, Torino, 2006, 455 ss.; C.E. Gallo, Manuale di giustizia amministrativa, Torino, 2005, 247 ss.; E. Ferrari, Art. 45, in A. Romano (a cura di), op. cit., 545 ss., che evidenzia come la forza di giudicato fu vista sin dalla fine dell'800 come un corollario del riconoscimento della natura giurisdizionale delle decisioni della IV sezione; E. Ferrari, Art. 26, in A. Romano (a cura di), op. cit., 888 ss., ove si precisa che la forza di giudicato riguarda sia gli effetti demolitori sia quelli ripristinatori sia quelli conformativi prodotti dalla sentenza di annullamento.

[13] Secondo A.M. Sandulli, Natura, funzione ed effetti delle pronunce della Corte costituzionale sulla legittimità delle leggi, in AA. VV., Studi in onore di Emilio Betti, Milano, 1962, e ripubblicato in AA. VV., 1956-2006Cinquant'anni di Corte costituzionale, t. I, Roma, 2006, 460, il giudicato sostanziale «è proprio di tutte le pronunce giurisdizionali inoppugnabili intervenute in processi di cognizione autonomi»; in relazione ai conflitti tra poteri, M. Perini, op. cit., 192 s., nota che l’estensione del giudicato alle sentenze della Corte si giustifica per la «concordanza di scopo» tra i due istituti, in quanto essi servono a «stabilizzare una data fattispecie in modo da evitare future controversie».

[14] «In vari tempi e in vari ordinamenti si è riconosciuta l’esistenza di casi, in cui l’interesse alla decisione esatta e giusta appariva, per l’importanza primaria dei relativi valori, socialmente superiore all’esigenza della certezza e induceva ad accantonare o negare l’autorità del giudicato»: G. Pugliese, op. cit., 850; sulla non essenzialità del giudicato sostanziale per la funzione giurisdizionale v. già M. Cappelletti, op. cit., 140.

[15] Parlano espressamente di «giudicato», con riferimento alle decisioni dei conflitti di attribuzioni tra Stato e Regioni, C. Mortati, Istituzioni di diritto pubblico, t. II, Padova, 1976, 1447; A. Pizzorusso, voce Conflitto, in Novissimo Digesto italiano, Appendice, vol. II, Torino, 1981, 382; G. Zagrebelsky, La giustizia costituzionale, Bologna, 1988, 360 s.; A. Cerri, Corso di giustizia costituzionale, Milano, 2004, 341 ss.; A. Ruggeri – A. Spadaro, Lineamenti di giustizia costituzionale, Torino, 2004, 268 s.; G. Volpe, Art. 137 – IV – La disciplina del procedimento nel conflitto tra enti, in G. Branca (a cura di), Commentario alla Costituzione, Bologna-Roma, 1981, 421; P. Bianchi, Il conflitto di attribuzioni tra Stato e Regioni, in R. Romboli (a cura di), Aggiornamenti in tema di processo costituzionale, Torino, 1996, 324; L. Mannelli, Il conflitto di attribuzioni tra Stato e Regioni, in R. Romboli (a cura di), Aggiornamenti in tema di processo costituzionale, Torino, 1999, 319 ss.; F. Dal Canto, op. cit., 463, che, però, si limita ad invocare l'art. 137, 3° comma, Cost. (nel medesimo senso v. E. Malfatti – S. Panizza – R. Romboli, Giustizia costituzionale, Torino, 2003, 210); G. Chiarelli, I conflitti di attribuzione, in G. Maranini (a cura di), La giustizia costituzionale, Firenze, 1966, 60 e 67; G. Belli, Il sindacato di costituzionalità delle leggi regionali ed i conflitti di attribuzioni fra Stato e Regioni e tra le Regioni, in AA. VV., La Corte costituzionale, Roma, 1957, 476 e 483; per M.R. Morelli, op. cit., 790, «la decisione fa stato solo in riferimento alla fattispecie concreta individuata nel processo concluso». Sull’efficacia di giudicato delle sentenze emesse sui conflitti tra poteri v., anche per ulteriori citazioni, M. Perini, op. cit., 40 ss. e 188 ss.; A. Pisaneschi, I conflitti di attribuzione tra i poteri dello Stato, Milano 1992, 403 ss.; M. Mazziotti, I conflitti di attribuzione fra i poteri dello Stato, Milano 1972, 61 s. e 187 ss.; L.A. Mazzarolli, Sull’efficacia delle decisioni della Corte costituzionale sui conflitti di attribuzione tra potere legislativo e autorità giurisdizionale e sui riflessi delle stesse sulla posizione delle parti processuali e sulle successive determinazioni del giudice, in AA.VV., Scritti in onore di Livio Paladin, Napoli, 2004, t. III, 1318.

[16] V. V. Crisafulli, op. cit., 452.

[17] In senso simile v. R. Manfrellotti, op. cit., 169, che, però, attribuisce valore sostanziale al giudicato formale di cui all'art. 137, 3° comma, Cost. e fa coincidere l'efficacia della sentenza con l'immutabilità degli effetti (la pronuncia sul conflitto “o non ha alcuna rilevanza giuridica, o non può che avere efficacia di cosa giudicata”), oltre a ritenere il giudicato requisito imprescindibile di ogni pronuncia giurisdizionale (170).

[18] V. G. Pugliese, op. cit., 827 e 835; A. Chizzini, op. loc. cit.; F. Dal Canto, Il giudicato costituzionale nel giudizio sulle leggi, Torino, 2002, 30 ss., cui si rinvia anche per citazioni dottrinali in materia di certezza del diritto.

[19] V. N. Jaeger, Sui limiti di efficacia delle decisioni della Corte costituzionale, in Riv. dir. proc., 1964, 364 ss., e ripubblicato in AA. VV., 1956-2006Cinquant'anni di Corte costituzionale, t. I, Roma, 2006, 358 s. Può restare occasionalmente insoddisfatta sia l'esigenza di giustizia formale (cioè, l'esatta applicazione della legge) sia quella di giustizia sostanziale (per inadeguatezza della norma applicata, in generale o in relazione alla specifica fattispecie).

[20] Oltre a Crisafulli, anche A. Cerri, op. cit., 341 s., considera nulli-inesistenti gli atti contrastanti con il giudicato ma, a differenza del primo Autore, accetta tale conseguenza, anche se la limita all’«atto meramente riproduttivo (esecutivo-confermativo) di quello oggetto già di censura».

[21] Così A. Travi, op. cit., 336.

[22] V. Foro it., 1984, III, 331.

[23] V. anche le sentt. TAR Roma, n. 6776/2005, TAR Napoli, n. 4485/2001 e Cons. Stato, ad. plen., n. 7/1995.

[24] V. F.G. Scoca, op. cit., 469; V. A. Travi, op. cit., 337; L. Verrienti, Art. 27, sez. II, in A. Romano (a cura di), op. cit., 420 ss. Per la giurisprudenza, v., ad es., Cons. Stato, sez. VI, 20 luglio 2004, n. 5251: «il ricorso per ottemperanza è ammissibile in ogni caso, anche dopo l’adozione di atti esecutivi a contenuto discrezionale, senza necessità di operare la tradizionale dicotomia concettuale tra elusione ovvero violazione del giudicato, qualora il petitum sostanziale del ricorso attenga all’oggetto proprio del giudizio d’ottemperanza, e miri cioè a far valere non già la difformità dell’atto sopravvenuto rispetto alla legge sostanziale (in tal caso occorrendo esperire l’ordinaria azione d’annullamento), bensì la difformità specifica dell’atto stesso rispetto all’obbligo (processuale) di attenersi esattamente all’accertamento contenuto nella sentenza da eseguire».

[25] V. F. Benvenuti, op. cit., 902.

[26] In base al 2° comma, «le questioni inerenti alla nullità dei provvedimenti amministrativi in violazione o elusione del giudicato sono attribuite alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo». Sul nuovo art. 21-septies v. A. Susca, L’invalidità del provvedimento amministrativo dopo le leggi n. 15/2005 e n. 80/2005, Milano, 2005, 77 ss.; A. Travi, op. cit., 337; F.G. Scoca, op. cit., 469 ss.; C.E. Gallo, op. cit., 272; G. Falcon, Lezioni di diritto amministrativo, vol. I, Padova, 2005, 144 ss.; D. Sorace, Diritto delle amministrazioni pubbliche, Bologna, 2005, 345 s.; G. Corso, Manuale di diritto amministrativo, Torino, 2006, 292 ss..

[27] V. il punto 6 del Diritto. Come detto, la Regione non aveva impugnato la nomina del 6.4.2004, ma solo le proroghe del 18.11.2004 e dell’8.6.2005. La decisione di merito ha assorbito quella sull’istanza cautelare (ed è intervenuta 5 mesi dopo l’inizio del processo).

[28] Su ciò ci si limita a rinviare a L. Paladin, op. cit., 803; G. Zagrebelsky, op. cit., 334 e 361; V. Crisafulli, op. cit., 449; S. Grassi, Il giudizio costituzionale sui conflitti di attribuzione tra Stato e Regioni e tra Regioni, Milano, 1985, 176 ss.; S. Grassi, Conflitti costituzionali, in Digesto disc. pubbl., III, Torino, 1989, 374 s.

[29] V. L. Paladin, op. cit., 803 nota 42; G. Zagrebelsky, op. cit., 361 s.; A. Cerri, op. cit., 341, che fa valere esigenze di certezza del diritto; A. Ruggeri – A. Spadaro, op. cit., 269; E. Malfatti – S. Panizza – R. Romboli, op. cit., 210; G. Volpe, op. loc. cit.; T. Martines – A. Ruggeri – C. Salazar, Lineamenti di diritto regionale, Milano, 2005, 339; M.R. Morelli, op. cit., 790; F. Dal Canto, voce Giudicato costituzionale, cit., 463; G. Chiarelli, op. cit., 60.

[30] V. A. Mangia, L'accesso nei conflitti intersoggettivi, in A. Anzon. - P. Caretti. - S. Grassi, Prospettive di accesso alla giustizia costituzionale, Torino, 2000, 328.

[31] Degli autori citati nella nota 29 solo Cerri (p. 342) e Dal Canto (p. 463, nota 234) distinguono atti identici e atti analoghi a quello annullato, ritenendo che i primi violino il giudicato (e i secondi no); v., per l’opinione di Cerri, la nota 20. C. Mortati, op. loc. cit., riferisce che la giurisprudenza ritiene necessario un nuovo giudizio sia in caso di reiterazione dell'atto annullato sia in caso di nuovo atto afferente alla stessa competenza ma riguardante soggetti diversi o situazioni di fatto diverse.

[32] V. F. Benvenuti, op. cit., 902 ss.; per l'A. «ogni potere pubblico contiene... quel minimo di originarietà che respinge effetti giuridici diretti da parte della manifestazione di altro potere» (nota 31); «la presenza del nuovo atto... funziona anche da schermo frapposto fra il giudicato di prima e l'eventuale giudizio di poi, per modo che la nuova attività del giudice viene condizionata dal precedente giudicato in modo del tutto indiretto» (904). Su tale teoria v., criticamente, C.E. Gallo, op. cit., 249 ss., M. Nigro, op. cit., 302 s., e M. Clarich, op. cit., 51 ss.

[33] V. C. Mortati, op. loc. cit.

[34] Per A.M. Sandulli, Manuale, cit., 1515 s., «l’accoglimento del ricorso importa… che l’Amministrazione non possa, senza incorrere in inosservanza del giudicato nei confronti delle parti in causa…, emanare di nuovo l’atto senza averne eliminato i vizi che ne determinarono la caducazione, e senza attenersi alla ‘regola di diritto’ enunciata dal giudice nel provvedere»; sull’«effetto conformativo» delle sentenze di annullamento v. la dottrina citata nella nota 12. In giurisprudenza v., ad es., la sent. TAR Roma, n. 6776/2005: «l’obbligo di ottemperanza [al giudicato]… non può ritenersi soddisfatto in presenza di un provvedimento dal contenuto oggettivamente elusivo, che non recepisca le ragioni dell’intervenuto annullamento in quanto reiteri motivazioni già dichiarate illegittime, o contenga irrituali contestazioni della sentenza: un provvedimento, quello del tipo indicato, da ritenersi “tamquam non esset”, ovvero nullo per violazione del giudicato (giurisprudenza pacifica: cfr., fra le tante, Cons. St., sez. V, 7.3.2001, n. 216 e 11.10.1996, n. 1231; sez. IV, 20.3.1992, n. 304; TAR Toscana, 9.8.2001, n. 1330) ».

[35] V. F. Dal Canto, op. ult. cit., 451.

[36] Invece, non ci sarebbe violazione del giudicato, dati – se non altro - i suoi limiti soggettivi, se lo Stato soccombente adottasse un atto del tutto analogo a quello annullato nei confronti di una Regione diversa o se una Regione diversa da quella soccombente adottasse un atto del tutto analogo a quello annullato; in questo caso, ovviamente, la sentenza della Corte agirebbe come “precedente”. Anche per R. Manfrellotti, op. cit., 175, l'atto oggetto della sent. n. 21/2006 era nullo in virtù dell'art. 21-septies legge n. 241/1990.

[37] Dunque, si concorda con F. Dal Canto, op. ult. cit., 451 s., là dove afferma che la violazione del giudicato – da parte del legislatore – si determina anche se la normativa annullata è riprodotta solo per il futuro, ma non là dove afferma che, se la riproduzione avviene per il passato, la verifica di permanenza del vizio originario è scontata (452), perché potrebbe esserci stato, dopo il giudicato, un annullamento retroattivo della norma-parametro.

[38] V., per tutti, G. Falcon, op. cit., 161 s.

[39] Un altro esempio può essere tratto dalla sent. n. 207/1996, che ha dichiarato la non spettanza allo Stato, «in mancanza di intesa con la Regione», del potere di collocare fuori ruolo un dipendente della Regione «per le urgenti necessità operative dei Servizi tecnici nazionali della Presidenza del Consiglio dei Ministri», e ha annullato «il d.P.C.M. 27 maggio 1995 nella parte relativa a personale della Regione Sardegna». Se il Presidente del Consiglio dei ministri avesse adottato un nuovo decreto, senza intesa con la Regione, collocando fuori ruolo un dipendente diverso, il nuovo atto comunque avrebbe violato il giudicato costituzionale.

[40] Nel diritto amministrativo, ad es., se è stato annullato con effetto di giudicato un atto di conferimento di incarichi dirigenziali perché l’Amministrazione non ha svolto una certa procedura comparativa, è chiaro che – se l’Amministrazione adotta un nuovo atto di conferimento a favore di persone diverse, ma sempre escludendo i ricorrenti, senza svolgere la procedura prescritta nella sentenza - il nuovo atto viola il giudicato, contrastando con l’effetto conformativo della sentenza.

[41] Per certa dottrina (v. ad es. F.G. Scoca, op. cit., 471), in caso di nullità l’azione di ottemperanza è imprescrittibile, come è tipico delle azioni volte a far valere la nullità, mentre altra dottrina sostiene l’applicabilità del termine ordinario di prescrizione (10 anni): v. su ciò A. Susca, op. cit., 79 s.; naturalmente, se si segue di nuovo la strada del conflitto di attribuzioni davanti alla Corte, resta fermo il termine di 60 giorni.

[42] La situazione, cioè, è simile a quella che si presenta in relazione alle leggi precedenti alla Costituzione: se il giudice solleva la questione, la Corte– anche per ragioni di certezza – non valuta se la legge è stata abrogata dalla Costituzione (il che renderebbe la questione irrilevante e, dunque, inammissibile), ma decide nel merito la questione.

[43] Il giudicato preclude anche all'ente soccombente «la possibilità di sollevare un nuovo conflitto, lamentando la violazione della stessa attribuzione e impugnando il medesimo atto» (F. Dal Canto, op. ult. cit., 463, e, nel medesimo senso, E. Malfatti – S. Panizza – R. Romboli, op. cit., 210), ma pare che tale possibilità sia preclusa, ancor prima, dal decorso del termine.

[44] V. V. Crisafulli, op. cit., 454; è da segnalare che la sospensione del giudizio comune era menzionata già nel 1961 da A. Pensovecchio Li Bassi, voce Conflitti fra regioni e Stato, in Enc. dir., Milano, 1961, 1024.

[45] Quanto alle sentenze di accoglimento, è ovvio che esse, facendo venir meno l’oggetto del processo amministrativo, dovranno essere tenute in considerazione dal giudice amministrativo, così come l’annullamento dell’atto da parte del TAR si rifletterà automaticamente sul conflitto avente ad oggetto quel medesimo atto, nel senso che la Corte dichiarerà la cessazione della materia del contendere.

[46] V. M.R. Morelli, op. cit., 790; nel medesimo senso v. L. Paladin, op. cit., 803; A. Pizzorusso, Conflitto, cit., 368 s.; S. Grassi, Conflitti costituzionali, cit., 387; S. Grassi, Il giudizio, cit., 341 (per il quale non c’è «prevalenza necessaria del giudicato della Corte proprio perché la tutela della Corte è suppletiva e perché le sue decisioni hanno natura diversa»); E. Malfatti – S. Panizza – R. Romboli, op. cit., 210; G. Volpe, op. cit., 431; G. Grottanelli De’ Santi, Conflitti di attribuzioni e Regioni, in AA. VV., Giustizia e Regioni, Padova, 1990, 105; F.S. Marini, Appunti di giustizia costituzionale, Torino, 2005, 129. Per la giurisprudenza v. le citazioni in Volpe, in F. Sorrentino, La giurisprudenza della Corte costituzionale nei conflitti tra Stato e Regioni, in le Regioni, n. 5/1986, 978 ss., in G. Zagrebelsky, op. cit., 363, e in L. Mannelli, op. cit., 319.

[47] V. M.R. Morelli, op. cit., 791.

[48] V. Crisafulli, op. cit., 454, (che, come visto, dubita dell’applicabilità del giudicato alle sentenze sui conflitti) osserva che, in relazione al problema dell’interferenza tra conflitto e giudizio amministrativo, «a nulla servirebbe richiamarsi ai principi del giudicato, poiché… questo opera tra le parti che erano in giudizio e non coprirebbe perciò l’intera area del problema»: dal che pare possibile dedurre che, in caso di identità di parti, il giudicato costituzionale vincolerebbe il TAR.

[49] V. G. Zagrebelsky, op. cit., 363, per il quale, in caso di rigetto del conflitto, «la decisione della Corte, assumendo forza di giudicato sul punto della spettanza del potere in relazione al singolo atto in questione, vincolerà tutti gli altri soggetti, i giudici comuni in primo luogo» (361); peraltro, a proposito delle sentenze di accoglimento, l’A. sembra escludere un effetto di giudicato per i rapporti intercorrenti tra soggetti diversi; per C. Mortati, op. cit., 1450, «in mancanza di apposite norme ed allo scopo di evitare pronuncie fra loro contrastanti, ragioni di buon senso dovrebbero condurre... alla sospensione del giudizio [amministrativo]... fino alla pronuncia della corte, la quale dovrebbe fare stato anche nell'altro giudizio»; anche per A. Cerri, op. cit., 347, «si tende a riconoscere una prevalente efficacia del giudizio della Corte (in ipotesi di motivi comuni), a nulla rilevando l'eventuale diversità delle parti nei due giudizi»; G. Chiarelli, op. cit., 67, suggerisce di prevedere normativamente la sospensione del processo amministrativo, dato che la sentenza della Corte avrebbe efficacia di giudicato nel processo amministrativo; per A. Ruggeri – A. Spadaro, Lineamenti di giustizia costituzionale, Torino, 2001, 362, ci può essere «contrasto tra giudicati»: il che presuppone una possibile identità di oggetto tra i due giudizi; L. Mannelli, op. cit., 321 ipotizza – nel caso in cui la sentenza del giudice amministrativo contrasti con il giudicato costituzionale – che essa possa essere impugnata davanti alla Corte in sede di conflitto di attribuzioni (intersoggettivo, se è la Regione soccombente, e tra poteri se è lo Stato soccombente); sulla questione v. anche A. Mangia, op. cit., 329 ss., e F. Pierandrei, voce Corte costituzionale, in Enc. dir., Milano, 1962, 1005.

[50] Si concorda, quindi, con F. Dal Canto, op. ult. cit., 464, per il quale il giudicato costituzionale «potrebbe... ritenersi operante soltanto ove coincidessero le parti costituite in entrambi i giudizi».

[51] V., per tutti, F.G. Scoca, op. cit., 458 s.; l’accertamento è presente, come noto, anche nelle azioni di condanna e costitutive.

[52] Oltre alla posizione generale della Corte, è da valutare che essa può annullare le sentenze del giudice amministrativo, mentre questo non può incidere sulle sentenze costituzionali. Per P. Bianchi, Il conflitto di attribuzioni tra Stato e Regioni e tra Regioni, in R. Romboli (a cura di), Aggiornamenti in tema di processo costituzionale, Torino, 2005, 292, in caso di giudizi paralleli il rischio è che «la definizione di uno pregiudichi la soluzione dell’altro»: ma il problema è forse rappresentato dal rischio opposto, cioè dalla possibilità di contrasto tra decisioni e, dunque, di incertezza giuridica.

[53] Nel senso del necessario adeguamento del giudice amministrativo alle sentenze della Corte sui conflitti v. L. Vandelli, I difficili rapporti tra conflitto di attribuzione e giurisdizione amministrativa (a proposito di atti di controllo sull’amministrazione regionale), in Giur. cost., 1977, 1815.

[54] Art. 295 c.p.c.: «Il giudice dispone che il processo sia sospeso in ogni caso in cui egli stesso o altro giudice deve risolvere una controversia, dalla cui definizione dipende la decisione della causa». Sui presupposti di applicazione dell'art. 295 c.p.c. nel processo amministrativo v., ad es., la sent. Cons. Stato, sez. V, n. 7/2006, la sent. Cons. Stato, sez. IV, n. 2290/2006, e, in dottrina, F.G. Scoca, op. cit., 392 ss.

[55] V. G. Zagrebelsky, op. cit., 363, che afferma la necessità della sospensione anche qualora il giudizio amministrativo sia stato promosso da un soggetto diverso da quello che ha sollevato il conflitto.

[56] V. L. Vandelli, op. cit., 1814 ss.; L. Mannelli, op. cit., 321.

[57] V., per tutti, A. Giussani, Art. 295, in F. Carpi – M. Taruffo (a cura di), Commentario breve al codice di procedura civile, Padova, 2002, 920 ss.; in giurisprudenza v. la sent. Cass., sez. un., n. 3354/1994.

[58] V., ad es., G. Volpe, op. cit., 430, che pure nega la pregiudizialità della decisione della Corte. Esiste, però, qualche caso in cui il giudice amministrativo ha declinato la giurisdizione di fronte a ricorsi con cui si faceva valere il vizio di lesione di competenza costituzionale, «per la funzione esclusiva di risolvere un tal genere di conflitti accordata alla Corte costituzionale» (così, ad es., Cons. Stato, sez. IV, n. 868/1996; v. anche Cons. Stato, sez. IV, n. 264/1988 e G. Zagrebelsky, op. cit., 364, e L. Mannelli, op. cit., 319 s.).

[59] La situazione ricorda quella dei rapporti tra processo civile e processo penale, dato che, in base all’art. 3 c.p.p., il giudice penale può sospendere il processo fino al passaggio in giudicato della sentenza civile che risolve una questione pregiudiziale sullo stato di famiglia o di cittadinanza, e la sentenza civile ha efficacia di giudicato nel processo penale. Per L. Paladin, op. cit., 803, V. Crisafulli, op. cit., 454, A. Ruggeri – A. Spadaro, op. cit., 2004, 259, la sospensione del processo amministrativo non è necessaria; per S. Grassi, Conflitti, cit., 386, la sospensione è necessaria se si dimostra il nesso di pregiudizialità; sui possibili mezzi di coordinamento tra i due giudizi v. L. Vandelli, op. cit., 1801 ss.

[60] Il rapporto fra conflitto di attribuzioni e processo civile può venire in rilievo perché il giudice civile non deve attendere la sentenza penale per accertare il diritto al risarcimento di danni provocati da fatti che costituiscono reato: v., ad es., Cass., sez. III, 21 ottobre 2005, n. 20355.

[61]Il rapporto fra le decisioni del conflitto di attribuzioni ed i giudizi ordinari (civili o penali) non è stato oggetto di grande attenzione da parte della dottrina, che si è concentrata più sulle interferenze tra conflitto e giudizio amministrativo: v., comunque, G. Grasso, Il conflitto di attribuzioni tra le Regioni e il potere giudiziario, Milano, 2001, 173 ss., e, per qualche accenno, A. Mangia, op. cit., 336 (per il quale i “soggetti privati coinvolti nella decisione impugnata” subiscono “conseguenze precise dalla soluzione del conflitto”), e F. Sorrentino, I rapporti tra lo Stato e le Regioni nella giurisprudenza della Corte costituzionale sui conflitti di attribuzione, in Quad. reg., 1987, 404; per un’analisi del rapporto fra conflitto e giudizi “comuni” in generale v. G. Volpe, op. cit., 427 ss.

[62] Si possono ricordare, ad es., le parole di A. Pizzorusso, Effetto di “giudicato” ed effetto di “precedente” delle sentenze della Corte costituzionale, in Giur. cost., 1966, 1979: “per stabilire in che cosa consista l’effetto di giudicato delle sentenze della Corte è prima di tutto necessario determinare quale sia l’oggetto delle medesime”.

[63] V., ad es., A. Pizzorusso, Gli effetti delle decisioni della Corte costituzionale nei giudizi ordinari, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1987, 910 s., e A. Anzon, Il valore del precedente nel giudizio sulle leggi, Milano, 1995, 142.

[64]V., anche per ulteriori citazioni, R. Villata, L'esecuzione delle decisioni del Consiglio di Stato, Milano, 1971, 563 ss.

[65] V. le sentt. Cass., sez. trib., 28 ottobre 2004, n. 20885; Cons. Stato, sez. V, 20 aprile 2000, n. 2424; Cass., sez. lav., 13 febbraio 1993, n. 1811.

[66] Sul quale v., ad es., A. Attardi, voce Preclusione, in Enc. dir., Milano 1985, 899; A. Papalia, in C. Consolo – F.P. Luiso (a cura di), Codice di procedura civile commentato, Milano, 2000, 1574; A. Chizzini, op. cit., 3234; G. Pugliese, op. cit., 864 s.; nel processo amministrativo l’applicazione di tale principio è discussa in relazione al “deducibile”: v. E. Ferrari, Art. 26, cit., 900, per il quale è comunque pacifico che “il giudicato, anche in questa ipotesi, si forma in relazione ai motivi posti a fondamento della domanda”; v. anche F. Benvenuti, op. cit., 904 nota 36; M. Clarich, op. cit., 150 s., M. Nigro, op. cit., 309 s., R. Villata, op. cit., 581 ss., e M.P. Vipiana, op. cit., 152.

[67] V., ad es., le sentt. Cass., sez. III, 13 luglio 2005, n. 14740; Cass., sez. III, 7 novembre 2005, n. 21490.

[68] V. la dottrina citata nella nota 12; sul ruolo dei motivi di ricorso ai fini del giudicato e sull'effetto conformativo v., in particolare, M. Clarich, op. cit., 137 ss., P.M. Vipiana, op. cit., 155, M. Nigro, op. cit., 300 ss. (che ricorda come la dottrina abbia valorizzato “la motivazione della pronuncia come utile a stabilire il contenuto della sentenza quanto e più del dispositivo”), R. Villata, op. cit., 535 ss. e 561 ss., e E. Capaccioli, Per la effettività della giustizia amministrativa, in AA. VV. Il processo amministrativo, Milano, 1979, 213 ss.

[69] V. A.M. Sandulli, Manuale, cit., 1516; P.M. Vipiana, op. cit., 154; M. Clarich, op. cit., 152; M. Nigro, op. cit., 310. Si può anche ricordare che, “dopo una sentenza che abbia dichiarato la cessazione della materia del contendere in considerazione degli effetti di un provvedimento sopravvenuto, l'Amministrazione non potrebbe adottare atti sul presupposto che il provvedimento sopravvenuto nei confronti del ricorrente non produca gli effetti che invece il giudice nella sentenza ha accertato sussistenti”: così A. Travi, op. cit., 326.

[70] In base ai quali esso vincola con riferimento alla situazione di fatto e di diritto esistente al momento della sua formazione: il che presuppone che gli elementi di fatto e diritto posti a base della sentenza compongono il giudicato.

[71] Su ciò basti il rinvio a F. Dal Canto, op. ult. cit., passim (in particolare, 436, 441, 451).

[72] La sent. n. 276/2003 ha ricordato che, “perché sia dunque ammissibile un conflitto di attribuzione, quando a base della vindicatio sia posto un atto giurisdizionale, è necessario che da parte del potere o dell’ente – che da quell’atto pretende di aver subito una lesione nella propria sfera di attribuzioni costituzionali – «sia contestata radicalmente la riconducibilità dell’atto che determina il conflitto alla funzione giurisdizionale...ovvero sia messa in questione l’esistenza stessa del potere giurisdizionale nei confronti del soggetto ricorrente»” (punto 2 del Diritto); v. anche le sentt. n. 27/1999 e n. 326/2003.

[74] Punto 5 del Diritto.

[75] V. il punto 3.2 del Diritto.

[76] Diversamente A. Ambrosi, I consiglieri regionali, in R. Orlandi – A. Pugiotto (a cura di), Immunità politiche e giustizia penale, Torino, 2005, 238, per il quale la sentenza della Corte «non può fare stato», per cui il rigetto del ricorso regionale non impedisce all'imputato di difendersi nel giudizio penale; anche R. Romboli, Immunità per le opinioni espresse dai parlamentari e dai consiglieri regionali e tutela del terzo danneggiato: un importante mutamento della giurisprudenza costituzionale, in attesa di un altro più significativo, in Giur. cost., 2001, 507, sembra escludere un effetto vincolante della sentenza della Corte, dato che afferma che «il parlamentare potrà… esercitare con pienezza il suo diritto di difesa» dopo la decisione della Corte favorevole al giudice. A sostegno della posizione di questi Autori potrebbe forse essere invocata la sent. n. 225/2001 della Corte costituzionale, che, nel dichiarare inammissibile l'intervento di Previti nel conflitto tra poteri sollevato dalla Camera contro il g.i.p. del Tribunale di Milano, ha osservato che «tali diritti inerenti alla qualità di imputato non sono direttamente coinvolti, né sono suscettibili di essere pregiudicati, nel presente giudizio per conflitto, nel quale la Corte è chiamata esclusivamente a decidere in ordine alle denunciate lesioni delle attribuzioni costituzionali della Camera dei deputati ad opera delle ordinanze medesime» (punto 2 del Diritto). Nella successiva sent. n. 451/2005 (emessa sulla medesima vicenda), la Corte ha ribadito che “il principio generale secondo cui nel giudizio per conflitto la legittimazione spetta soltanto agli organi dei poteri confliggenti subisce un’unica deroga quando (ma non è il caso di specie) l’esito di tale giudizio possa definitivamente pregiudicare le posizioni di un soggetto ad esso estraneo”, e che “il prosieguo del giudizio penale – dopo l’annullamento, da parte di questa Corte, delle ordinanze del giudice dell’udienza preliminare – sotto nessun profilo può considerarsi come “giudizio di ottemperanza” del giudicato costituzionale, ostando a tale configurazione le differenze oggettive e soggettive esistenti fra il processo costituzionale e quello penale”; dalla “distinzione fra i due giudizi – e in particolare dal rilievo che in quello per conflitto la Corte è chiamata esclusivamente a decidere in ordine alle denunciate lesioni delle attribuzioni costituzionali della Camera, ad opera dei provvedimenti impugnati... discende direttamente l’inammissibilità degli interventi spiegati avanti a questa Corte dal parlamentare assoggettato a processo penale” (punto 4 del Diritto). A tali affermazioni della Corte si potrebbe obiettare che la diversità fra due cause non preclude, di per sé, il carattere vincolante della decisione adottata nella prima causa: l’identità delle cause è necessaria per impedire la trattazione della seconda lite (cioè, in realtà, di una lite già decisa) ma non se si vuole che la prima decisione costituisca solo un presupposto della seconda (v. G. Pugliese, op. cit., 870 ss.; come ricorda F. Dal Canto, Il giudicato costituzionale, cit., 34, al giudicato “si riconosce solitamente una funzione negativa, che si identifica con la regola del ne bis in idem,... e una funzione positiva, che si riferisce invece al dovere del giudice, nel corso di un successivo processo avente un oggetto diverso, ma in vario modo dipendente da quello ove si è formato il giudicato, di assumere la statuizione su cui quest'ultimo si è prodotto come incontestabile”). Del resto, il meccanismo della trasformazione delle questioni pregiudiziali in cause pregiudiziali mira proprio a far sì che un giudizio si basi su una sentenza adottata su una causa diversa.

[77] Così M. Nigro, op. cit., 310.

[78] “La valutazione sull’esistenza della garanzia svolta dalla Corte in sede di conflitto finirebbe per sovrapporsi all’analoga valutazione demandata al giudice del processo comune. Ove dunque si ritenesse precluso l’intervento nel giudizio costituzionale, finirebbe per risultare in concreto compromessa la stessa possibilità per la parte di agire in giudizio a tutela dei suoi diritti. La conclusione alla quale occorre ora pervenire, d’altra parte, è ulteriormente avvalorata dalla circostanza che l’esigenza del contraddittorio - fortemente riaffermata dalla nuova formulazione del secondo comma dell’art. 111 della Costituzione – si riflette anche sul piano della partecipazione al giudizio riservato a questa Corte, derivando da esso la risoluzione di un tema del tutto “pregiudiziale”, quale è quello relativo alla sussistenza o meno nel caso concreto del potere di agire”; nella sent. n. 225/2001, punto 2 del Diritto, la Corte ricorda di aver ammesso l'intervento del privato con la sent. n. 76/2001, “in quanto l'esito del conflitto era suscettibile di condizionare la stessa possibilità che il giudizio comune avesse luogo”. Che l'esito del conflitto possa condizionare il giudizio ordinario sembra risultare anche dalla sent. n. 276/2003, che ha ribadito l’impossibilità di impugnare un atto giurisdizionale per errores in judicando, al fine di evitare che il conflitto assuma le connotazioni di un mezzo di impugnazione atipico: una eventualità, quest’ultima, la cui evidente patologia risulterebbe aggravata dalla circostanza che lo scrutinio, in tal modo impropriamente richiesto a questa Corte, finirebbe per sovrapporsi a quello già operato in sede giurisdizionale, con un perimetro decisorio peraltro neppure coincidente e nel quadro di un contrasto tra enti, diversi dalle parti del procedimento nel quale è stato adottato l’atto posto a base del conflitto (punto 2 del Diritto). Per M. Perini, op. cit., 172 s., nel caso di conflitto sollevato da giudici, l’art. 137, 3° comma, Cost. preclude al giudice «nel corso del medesimo processo la possibilità di rimettere in discussione la questione risolta dalla Corte»; sempre M. Perini, Il seguito delle decisioni costituzionali in materia di conflitti di attribuzione tra poteri, in R. Bin – G. Brunelli – A. Pugiotto – P. Veronesi (a cura di), “Effettività” e “seguito” delle tecniche decisorie della Corte costituzionale, Napoli, 2006, 312, afferma, in generale, che nei conflitti tra poteri “l’a.g. ha l’obbligo di concludere il procedimento che ha originato il conflitto ponendo in essere gli adempimenti processuali conseguenti alla decisione costituzionale”.

[79] Sulla distinzione fra effetti della sentenza e irretrattabilità degli effetti v., per i conflitti tra Stato e Regioni, F. Dal Canto, op. ult. cit., 463, e G. Volpe, op. cit., 421 s.; in generale v. E.T. Liebman, op. cit., 250 e 267, A. Papalia, op. cit., 1571.

[80] Significativa, a questo proposito, è la già citata sent. n. 451/2005 (caso Previti), con cui la Corte ha ritenuto di non poter sindacare la valutazione del giudice, che aveva ritenuto ininfluente l'annullamento di precedenti atti giurisdizionali operato dalla Corte con la sent. n. 225/2001 (v. il punto 8 del Diritto : “il giudice ha adottato una motivazione di tipo processuale, il cui sindacato compete esclusivamente al giudice del processo penale”; v. anche i punti 13 e 15). Analogamente, la sent. n. 263/2003 (caso Matacena) stabilì che “alla constatazione dell’avvenuta lesione consegue l’annullamento del provvedimento impugnato, fermo restando che spetterà alle competenti autorità giurisdizionali investite del processo (essendosi questo nel frattempo concluso in primo grado) valutare le eventuali conseguenze di tale annullamento sul piano processuale» (punto 5 del Diritto).

[81] Su tale principio v. F. Dal Canto, op. ult. cit., 432; A. Travi, op. cit., 321; M. Nigro, op. cit., 309; sull'identità dell'effetto delle sentenze di accoglimento e di rigetto nei conflitti tra poteri v. M. Perini, 171 e 173.

[82] Peraltro, si ricorda che le sentenze emesse sul caso “Previti” confortano la tesi opposta alla nostra, ma gli argomenti da esse utilizzati non sembrano risolutivi: v. la nota 76.

[83] V. l'ord. n. 344/2000, corsivi aggiunti.

[84] Punto 7 del Diritto.

[85] V., per tutti, A. Chizzini, op. cit., 3231.

[86] Nella sent. n. 76/2001 la Corte ha ammesso l’intervento nel conflitto della parte civile, cioè del soggetto leso, perché il conflitto poteva precludergli la possibilità di agire in giudizio, ma non è detto che ad uguale conclusione la Corte arriverebbe se spiegasse intervento il consigliere regionale. A. Ambrosi, op. cit., 237 s., e A. Concaro, Conflitti costituzionali e immunità: anche le parti private vanno tutelate nel giudizio dinanzi alla Corte?, in Giur. cost., 2001, 520 s., auspicano che venga ammesso l'intervento del consigliere (e del parlamentare) soprattutto in relazione all'esigenza di completezza del contraddittorio, ai fini di una migliore ricostruzione dei fatti; sulla necessità di un ampliamento del contraddittorio v. anche G. Grasso, op. cit., 176 ss.

[87] R. Romboli, Immunità, cit., 507, distingue la posizione del parlamentare da quella del terzo danneggiato per la “tutela garantita al parlamentare dalla presenza della camera di appartenenza”.

[88] V. G. Gioia, I regolamenti di giurisdizione, in corso di pubblicazione; R. Lucifredi, voce Attribuzioni (conflitto di), in Enc. dir., Milano, 1959, 291; G. Gemma, Conflitti di attribuzione fra poteri dello Stato e sindacato sugli atti giurisdizionali, in Riv. dir. proc., 1997, 457. Del resto, il regolamento di giurisdizione comprenderebbe ancora il conflitto tra amministrazione e giudice: in base al (pressoché inapplicato) art. 41, 2° comma, c.p.c., «la pubblica amministrazione che non è parte in causa può chiedere in ogni stato e grado del processo che sia dichiarato dalle sezioni unite della Corte di cassazione il difetto di giurisdizione del giudice ordinario a causa dei poteri attribuiti dalla legge all'amministrazione stessa, finché la giurisdizione non sia stata affermata con sentenza passata in giudicato». Sulla possibile sovrapposizione di questo istituto e dei conflitti fra poteri dello Stato v. G. Zagrebelsky, op. cit., 371, e A. Pizzorusso, Conflitto, cit., 370.

[89] V. A. Pizzorusso, Art. 134– III, in G. Branca (a cura di), Commentario della Costituzione, Bologna-Roma, 1981, 131; V. Crisafulli, op. cit., 451 s.; G. Volpe, op. cit., 421; A. Cerri, op. cit., 341 ss.; E. Malfatti - S. Panizza – R. Romboli, op. cit., 210; F. Dal Canto, op. cit., 463 s.; C. Mortati, op. cit., 1448; S. Grassi, Conflitti, cit., 375; A. Mangia, op. cit., 301 e 329. Se la sentenza di accoglimento ha ad oggetto un atto generale, dunque, non sembra verificarsi in senso proprio un'“estensione degli effetti della decisione della Corte” (così A. Ruggeri– A. Spadaro, op. cit., 2004, 269).

[90] V. G. Volpe, op. cit., 421 s.

[91] Così F. Dal Canto, op. loc. ult. cit.

[92] Se è annullato un atto generale statale, è ovvio che il divieto di riproduzione vale solo per lo Stato, non esistendo un altro soggetto in grado di reiterare l’atto annullato.

[93] Nella nota 49, però, si sono citati diversi Autori che ritengono il giudice amministrativo vincolato dalla sentenza di rigetto anche se non c’è identità di parti.

[94] V. F. Bertolini, Osservazioni in tema di conflitti di attribuzione accolti “nei confronti” della Regione ricorrente, in Giur. cost., n. 2/1999, 1489 ss.; A. Ruggeri – A. Spadaro, op. cit., 2004, 269; A. Cerri, op. cit., 341; L. Mannelli, Il conflitto di attribuzione tra Stato e Regione e tra Regioni, in R. Romboli (a cura di), Aggiornamenti in tema di processo costituzionale, Torino 1993, 248; A. D’Atena, Conflitto di attribuzione e annullamento dell’atto invasivo, limitatamente alla Regione ricorrente, in Giur. cost., 1991, 1447 s.;F. Dimora, Limitazione degli effetti di annullamento di atto statale alla sola Regione ricorrente, in le Regioni, 1992, 529 ss. Non sono da considerare casi di vera limitazione dell'annullamento quelli in cui l'atto impugnato era rivolto a tutte le Regioni ma, in realtà, le considerava distintamente, per cui era scomponibile in tanti atti rivolti alle singole Regioni: così, la sent. n. 242/1997 ha giudicato di un atto (dPCm 21.12.1995), che individua – Regione per Regione - le aree demaniali marittime escluse dalla delega alle Regioni di cui all’art. 59 dPR n. 616/1977,e l’ha annullato solo nella parte riguardante la Regione Liguria, per la mancanza del parere della Regione stessa; per un caso simile v. la sent. n. 207/1996.

[95] V. F. Bertolini, op. cit., 1494, nota 11.

[96]Nel caso della sent. n. 341/1992 le competenze lese erano quelle in materia di formazione professionale e sanità; nel caso della sent. n. 135/1992, la materia incisa era la sanità e la motivazione della sentenza fa a un certo punto riferimento indistinto al rango costituzionale dell’autonomia delle “regioni o province autonome”; anche la sent. n. 507/1991 (sanità) e n. 517/1991 (inquinamento acustico) hanno riconosciuto la lesione di competenze comuni alle Regioni ordinarie e non hanno fatto valere speciali prerogative delle Province ricorrenti; infine, l’ultima sentenza segnalata da Bertolini (la n. 834/1988) limita accoglimento al “territorio della Provincia di Bolzano”.

[97] V. F. Bertolini, op. cit., 1496 ss.

[98] Delle sentenze citate da Bertolini nella nota 13, la n. 263/1997 fa diversi riferimenti all’autonomia speciale della Provincia e questa aveva invocato varie competenze di rango primario, per cui il vizio era “speciale”; la sent. n. 61/1997, invece, accoglie il conflitto solo in relazione alla Provincia di Trento benché il vizio fosse riscontrabile anche in relazione alle Regioni ordinarie (un regolamento ministeriale aveva disciplinato la materia della sanità); infine, nel caso della sent. 69/1995, il vizio sembra interamente speciale perché la Corte - oltre a valorizzare la competenza primaria della Provincia in materia di fiere e le norme di attuazione in materia di atti indirizzo e coordinamento – sottolinea sì la “mancanza di valida base legislativa” ma nel senso che la legge alla base dell’atto impugnato non intendeva innovare il riparto di competenze tra Stato e Province autonome.

[99] Sulla distinzione tra interesse al ricorso e legittimazione sia consentito il rinvio a C. Padula, La Corte costituzionale e l’interesse a ricorrere nei conflitti tra Stato e Regioni, in le Regioni, n. 2/2000, 449, e C. Padula, L’asimmetria nel giudizio in via principale, Padova, 2005, 173 ss.

[100] In dottrina si segnala la sent. n. 174/1991 come esempio di limitazione dell’accoglimento del conflitto alla Regione ordinaria ricorrente: v. A. Cerri, op. cit., 341, e F. Bertolini, op. cit., 1499 ss., per il quale anche in questo caso rileva l'interesse ad agire, nel senso che solo chi ha disciplinato la materia ha interesse all'annullamento; in realtà, si è evidenziato che, in casi del genere (v., ad es., i primi ricorsi regionali fatti negli anni '70 contro leggi statali), il ricorso della Regione che non ha esercitato la competenza non è privo di interesse ma proprio infondato, perché, se la Regione non ha disciplinato la materia, lo Stato può intervenire (v., anche per ulteriori citazioni, C. Padula, op. ult. cit., 180 nota 37).