ALESSANDRO PACE
LA SVOLTA DELLA CORTE COSTITUZIONALE IN TEMA DI LEGITTIMO IMPEDIMENTO E L’AMBIGUO RICHIAMO ALL’ART. 138 COST. *
1. Due
sono i motivi di riflessione che suscita la sent. n. 23 del
2011: il primo è dato dalla svolta giurisprudenziale a proposito
dell’ambito applicativo dell’art. 420-ter
c.p.p., il secondo riguarda l’ambiguità del richiamo
all’art. 138 oltre che all’art. 3 Cost., come norma-parametro violata dall’art.
1 comma 4 l. n. 51 del 2010.
2. Sul
primo punto. E’ di tutta evidenza che
In
quell’importante decisione, con la quale fu dichiarata l’incostituzionalità
della l. n. 124 del 2008,
Ma v’è di più. Subito dopo la prima delle due frasi qui
trascritte,
Alla
luce di queste puntualizzazioni si era perciò giustamente concluso, dai
commentatori della sent. n. 262 del
2009, che «non sembrano rimanere spazi aperti per l’introduzione del
legittimo impedimento assoluto»[4].
2.
Avendo ritenuto ragionevole l’adozione, da parte del legislatore ordinario, di
una normativa integrativa dell’art. 420-ter
c.p.p. disposta specificamente per il Presidente del
Consiglio e per i Ministri,
Pur
riconoscendo che, in prima battuta, l’interpretazione dell’art. 1 comma 1 dei
giudici a quibus
era corretta - e quindi, in quei termini, la relativa q.l.c
avrebbe dovuto essere accolta -
Secondo
Vale
però la pena di ricordare che, nel giudizio a
quo di cui all’ord.
n. 180 del 2010, anche il p.m. aveva prospettato «una interpretazione
logica e sistematica della disciplina censurata, tale da consentire al giudice
di valutare l’assolutezza dell’impedimento a comparire dedotto dal Presidente
del Consiglio dei ministri»[6].
Ma il Tribunale di Milano aveva respinto tale tesi - con la quale il p.m. si
era opposto alla richiesta di rinvio dell’udienza da parte dell’imputato
Berlusconi - adducendo che un’eventuale interpretazione adeguatrice
avrebbe stravolto la voluntas legislatoris
intesa, in effetti, ad istituire una presunzione
assoluta, con conseguente illegittima disapplicazione, da parte del giudice
comune, della legge in questione [7].
Del
resto, che la l. n. 51 del 2010 non fosse suscettibile di un’interpretazione adeguatrice derivava - sempre secondo l’ord. n. 180 del 2010 -
dall’ultima parte dell’art. 2 comma 1 «ove si legge che le nuove disposizioni
si applicano “al fine di consentire al presidente del consiglio dei ministri e
ai ministri il sereno svolgimento delle funzioni loro attribuite dalla
Costituzione e dalla legge”», conseguentemente prevedendo, sia pure incostituzionalmente, una nuova prerogativa[8].
Non
diversamente, le altre due ordinanze nn.
173 e 304 del 2010
rilevavano in tal senso che l’art. 2 comma 1 è indicativo, anche per il
«carattere temporaneo» della l. n. 51 del 2010, della «sua funzione di legge
ponte in vista della “entrata in vigore della legge costituzionale recante la
disciplina organica delle prerogative del Presidente del Consiglio dei Ministri
e dei Ministri” così rendendo esplicita la ratio
di anticipazione di una disciplina innovativa in materia che deve
necessariamente essere introdotta con procedimento costituzionale» [9].
Deve
allora ritenersi che la Corte, nell’affermare che «una disposizione legislativa
può essere dichiarata illegittima solo quando non sia
possibile attribuire ad essa un significato compatibile con la Costituzione - e
cioè, nella fattispecie in esame, ove non sia possibile ricondurla nel solco
della disciplina comune, interpretandola in conformità con l’istituto
processuale generale di cui è espressione l’art. 420-ter c.p.p.»[10]
- evidentemente non ha preso in considerazione questo dato, di per sé risolutivo,
circa la “non” riconducibilità della l. n. 51 all’art. 420-ter c.p.p. Né tale mancata considerazione
può essere giustificata per il fatto che la censura dell’art. 2 cit. fosse
presente soltanto nel dispositivo dell’ord. n. 180 del 2010 e
che essa sia stata ritenuta inammissibile dalla Corte perché immotivata.
Ai fini di una corretta esegesi di un
enunciato normativo è, infatti, ineliminabile la valutazione del suo contesto
(ciò che, una volta, si chiamava interpretazione sistematica) e, per
procedervi, l’interprete può - e anzi deve - estendere la sua attenzione anche
alle disposizioni non indubbiate d’incostituzionalità
(come appunto ha fatto il Tribunale di Milano nelle ordd.
nn.
173 e 304 del 2010
rivolgendo la sua attenzione al citato art. 2 pur non lamentandone
l’incostituzionalità). Del resto la mancata indicazione di una disposizione
nell’ordinanza di rinvio non ne esclude il suo coinvolgimento nell’eventuale
pronuncia d’incostituzionalità ai sensi dell’art. 27
della l. n. 87 del 1953.
Ma c’è
un ulteriore argomento da prendere in considerazione,
anche se, dai sostenitori dell’attuale Premier,
esso sarebbe sicuramente tacciato di “unilateralismo”.
Poiché
l’introduzione di un siffatto privilegio da parte della l. n. 51 - così come le
“sospensioni processuali” previste dal c.d. lodo Schifani, dal c.d. lodo Alfano
e dal d.d.l. cost. n. 2180 AS
- ha un nome e un cognome che anche i proponenti dei progetti e dei disegni di
legge non si sono mai peritati di nascondere (è significativo che in tutte
queste leggi soltanto la persona che ricopre la carica di Presidente del Consiglio
risulti sempre tutelata al contrario delle altre)[11], è evidente che la l. n. 51 del 2010, anche alla luce della
sua provvisorietà, è una legge ad personam. Trattandosi, quindi, di una
legge-provvedimento, ciò avrebbe dovuto implicare, da parte della Corte
costituzionale, uno scrutinio particolarmente rigoroso[12],
che invece è stato eluso preferendosi addirittura una sentenza di rigetto
ancorché interpretativa.
3. C’è
però anche un altro modo di leggere la sentenza in commento.
Se si
condivide la scelta di fondo della Corte
costituzionale: di non dichiarare l’incostituzionalità in toto della l. n. 51 del 2010, come invece aveva fatto per l’art.
Si
potrebbe cioè ritenere che
Da questo angolo visuale dovremmo quindi chiederci: cosa resta,
della l. n. 51, una volta garantito al giudice, anche con riferimento alle
attività preparatorie e consequenziali, il triplice potere di valutare la prova
della sussistenza in fatto dell’impedimento, di accertare che l’impedimento
rientri fra le ipotesi previste dall’art. 1 commi 1 e 2 della l. n. 51 purché
riconducibili «ad una attribuzione coessenziale alla funzione di governo» e di
accertare che l’impedimento abbia un carattere assoluto e attuale?
Ebbene,
anche se non tutto, qualcosa purtroppo resta.
In
primo luogo, per quanto reinterpretato dalla Corte, l’art. 1 comma 1 della l.
n. 51 non prevede quella «articolata previsione di ipotesi,
rigorosamente definite e circoscritte» che la più autorevole dottrina aveva
ritenuto necessaria qualora il legislatore avesse ritenuto di introdurre «una
apposita disciplina volta a tipizzare le situazioni di legittimo impedimento»[16].
In
secondo luogo, il fatto che la Corte, per incidere sul contenuto normativo
dell’art. 1 comma 1, abbia scelto un’interpretativa di rigetto (anziché
un’interpretativa di accoglimento esplicante ex art. 136 Cost. effetti erga
omnes) indubbiamente indebolisce la portata
pratica dell’intervento della Corte, soprattutto se si pone mente alla
genericità delle disposizioni della l. n. 400 del 1988 e del regolamento
interno del Consiglio dei ministri richiamate
dall’art. 1 comma 1. Di talché non sarà certamente facile, per il magistrato,
tanto più senza l’ausilio di una pronuncia di accoglimento, farlo valere nei
confronti del Premier che
continuasse, come prima, nelle schermaglie con i Tribunali e con le Procure
inventandosi, anche all’ultimo minuto, indifferibili impedimenti di governo.
Infine,
resta il forte dubbio che, nei processi nei confronti dei Ministri, la l. n. 51
possa (o debba) continuare ad applicarsi tout
court, fino alla rimessione di una nuova q.l.c.,
avendo la Corte ritenuto inammissibile la q.l.c. dell’art. 1 comma 2.
Diversamente
dagli altri inconvenienti, il problema delle “schermaglie” tra Premier e Procura della Repubblica (e
giudice) è stato avvertito dalla Consulta. E’ infatti
a questo proposito che
Un
principio, quest’ultimo, che è però diventato una formula di rito nei rapporti
tra i soggetti del nostro sistema politico-istituzionale, ma il cui rispetto,
nel nostro ordinamento, è concretamente esigibile solo a seguito di un ricorso
per conflitto tra poteri, e quindi, nel caso che sia il magistrato a doversi
lamentare, avviene a prezzo di un’ulteriore perdita di
tempo, peraltro ben voluta da quei componenti del Governo che si preoccupano di
difendersi “dal” processo anziché “nel” processo.
Il che
ci conduce a dover meditare su uno dei punti critici del nostro mal funzionante
sistema politico-istituzionale, ulteriormente aggravato da una legge elettorale
che esclude la rappresentatività degli eletti. Alludo alla responsabilità
politica, che è una parola ormai vuota di significato,
essendosi nella prassi progressivamente, ma ormai integralmente, appiattita
sulla responsabilità giuridica.
4. Pur
dovendo onestamente avvertire che l’inconveniente della persistente difesa
“dal” processo da parte del Premier e dei Ministri sarebbe tranquillamente
continuato quand’anche
Anche
se, a mio parere, un qualsiasi giudice, purché privo
di preconcetti, sarebbe potuto pervenire, in forza del solo art. 420-ter c.p.p.,
nella gran parte delle ipotesi, alle stesse conclusioni applicative derivanti
dall’art. 1 della l. n. 51 così come interpretato dalla Corte, è però fuor di
dubbio che, d’ora in poi, e fino alla scadenza di tale legge - il cui termine
di vigenza (9 ottobre 2011) sarà più agevolmente prorogabile dal legislatore a
seguito della sentenza annotata - la norma applicabile ai membri del Governo
sarà ovviamente l’art. 1 comma 1 della l. n. 51 e non l’art. 420-ter c.p.p.
Però,
dal punto di vista costituzionalistico, e a prescindere dai rilievi fatti nel
precedente paragrafo, ciò non è la stessa cosa, in quanto
solo la declaratoria d’incostituzionalità pura e semplice avrebbe ribadito
senza ambiguità quel «principio della parità di trattamento di tutti i
cittadini rispetto alla giurisdizione» [18]
che
Chiamata
a pronunciarsi sull’eventuale blocco del referendum abrogativo della l. n. 51
del
Dopo
di che la S.C. ha rilevato «che, a parte l’annullamento del comma 4 della legge 7 aprile 2010, n. 51, detta legge, pur a
seguito dell’ulteriore intervento additivo e dell’orientamento interpretativo
raccomandato, comporta tuttavia una considerazione differenziata della
posizione dei titolari di cariche governative, rispetto alla disciplina comune
recata dal codice di rito in materia di legittimo impedimento».
In
altre parole, per la stessa S.C. il principio della parità di trattamento di tutti i cittadini rispetto alla giurisdizione è diverso a
seconda che venga in considerazione l’art. 420-ter c.p.p. o la l. n. 51 del 2010. E
quand’anche questa differenza fosse minima o solo meramente simbolica, è
indiscutibile che ciò avrebbe comunque un peso
indiscutibile sull’immaginario collettivo a danno del “valore” del principio di
eguaglianza nel nostro ordinamento.
5.
Passo ora al secondo motivo di riflessione che suscita
la sentenza in commento, e cioè la rilevanza pratica del richiamo all’art. 138,
oltre che all’art. 3 Cost., quale parametro costituzionale violato dall’art. 1
comma 4 della l. n. 51 del 2010.
Su tale profilo della motivazione si è
subito osservato, con argomenti condivisibili, che il richiamo all’art. 138
Cost. «è inutile se viene compiuto accanto al richiamo
di altre disposizioni che si assumono violate», come appunto l’art. 3 Cost. nel
caso di specie (o gli artt. 3, 68, 96, 111 e 112 Cost., nel caso del lodo
Alfano). Esso «diventa erroneo qualora (…) si ritenga che l’art. 3, in quanto prescrivente un principio supremo, non tolleri
alcuna deroga neppure da parte di leggi costituzionali. In questo secondo caso,
inoltre, può essere fuorviante sul piano politico e dei media (…) in quanto suscettibile di essere
interpretato nel senso di una sorta di via libera senza condizioni da parte
della Corte costituzionale all’introduzione di nuove prerogative con lo
strumento della legge costituzionale»[20]
contro quanto statuito nella famosa sent. n. 1146 del
1988.
Per chiarire le ragioni per le quali, in
questi ultimi tempi, è stato ripetutamente evocato
l’art. 138 Cost. a proposito delle prerogative costituzionali, bisogna però
fare un passo indietro. E’ infatti necessario ricordare i termini del vasto e
vivace dibattito che sollevarono, nei mesi di giugno e luglio 2008, due
contemporanee iniziative legislative della maggioranza, che tendevano, l’una, a
bloccare i processi penali per reati commessi prima del 30 giugno 2002 tranne
quelli puniti con la pena della reclusione superiore a dieci anni; l’altra, a
reintrodurre, sia pure con talune modifiche secondarie, l’immunità temporanea
per il Presidente della Repubblica, i Presidenti delle Camere e il Presidente
del Consiglio, già prevista dall’art. 1 della l. n. 140 del 2003 dichiarato
incostituzionale con sent. n. 24 del
2004.
Mentre dai critici di tale seconda iniziativa
si affermava che una simile legge, in quanto istitutiva di una prerogativa
costituzionale, urtava contro l’art. 3 Cost. e quindi non poteva comunque
essere approvata dal legislatore ordinario (e ciò quand’anche si fosse ritenuto
ammissibile introdurla con il procedimento previsto dall’art. 138 Cost.),
invece dai suoi sostenitori si affermava che
Rinvio
a quanto diffusamente ricordato altrove a proposito degli argomenti usati nel
dibattito e dei suoi numerosi protagonisti, tra cui ben cinque giudici
costituzionali che avevano preso parte alla sent. n. 24 del
2004[21], i quali si schierarono sui fronti opposti: due in favore
del lodo Alfano e tre contro, ai quali si aggiunse con la sua autorevolezza
Leopoldo Elia.
Quanto
ai termini dello scontro esso proseguì come era
iniziato. Da parte dei critici si continuò sia a sottolineare che le
prerogative, in quanto derogatorie del principio costituzionale d’eguaglianza,
potessero essere esclusivamente previste a livello costituzionale, sia a negare
che al silenzio sulla violazione dell’art. 138 Cost. nella sent. n. 24 del
2004 potesse essere data una qualsivoglia importanza, non essendo
risolutivo né in un senso, né nell’altro [22].
Da parte dei sostenitori, si ribadì invece,
l’importanza determinante della mancata menzione dell’art. 138 Cost. tra le
norme che sarebbero state violate dal lodo Schifani, con la conseguente
possibilità del legislatore ordinario di prevedere la sospensione dei processi
penali per reati extrafunzionali per garantire il sereno svolgimento delle
funzioni inerenti alle alte cariche dello Stato.
Gli argomenti
prospettati dai critici erano esatti, e la sent. n. 262
l’avrebbe confermato. Ma l’argomento inoppugnabile, e
veramente risolutivo, era un altro. E cioè che la sent. n. 24 del
2004 era una decisione di accoglimento, e quindi
In
altre parole, in ogni dispositivo di accoglimento di una q.l.c.
c’è sempre - quand’anche i giudici costituzionali non se ne rendano conto (come
appunto accadde nella sent. n. 24 del
2004) - la riaffermazione della “superiorità normativa” della nostra
Costituzione. La quale si designa abitualmente come “rigidità”, in quanto qualificante uno “speciale” e “irripetibile” atto
normativo che “si pone” formalmente e sostanzialmente come superiore nei
confronti di tutti gli atti pubblici costitutivi dell’ordinamento (siano essi
legislativi, amministrativi e giudiziari) nonché di tutti gli atti e i
comportamenti privati.
6. Ciò
nonostante, la tesi secondo la quale il silenzio nella sent. n. 24 del
2004 a proposito dell’avvenuta violazione, da parte del lodo Schifani,
dell’art. 138 Cost. «avrebbe aperto un’autostrada ad
una nuova legge ordinaria in materia»[24]
esplicò la conseguenza che nelle controversie
giudiziarie nelle quali era coinvolto il lodo Alfano, tutte le ordinanze di
rimessione alla Corte evocarono, oltre alla violazione di altre norme
costituzionali - tra cui, da solo o con altri, l’art. 3 [25]-,
la violazione dell’art. 138, sia pure avvertendo che
tale richiamo, contestuale alla violazione dell’art. 3, era puramente
tuzioristico (e cioè prospettato con ogni salvezza del principio d’eguaglianza
in quanto principio supremo dell’ordinamento)[26].
Va
inoltre rammentato che tutte tali ordinanze evocavano la violazione dell’art.
138 partendo dalla stessa premessa, e cioè che le prerogative delle alte
cariche dello Stato, essendo derogatorie dell’art. 3
comma 1 Cost., sono previste (e devono essere previste) esclusivamente da norme
di rango costituzionale, modificabili, a tutto voler concedere, solo con legge
costituzionale, ma giammai introducibili nel nostro ordinamento con una legge
ordinaria.
A tal
riguardo va pure ricordato che nel giudizio davanti alla Corte costituzionale,
l’Avvocatura generale dello Stato eccepì l’inammissibilità, relativamente
al lodo Alfano, della q.l.c. ex art. 138 Cost. osservando che esso
«si limita a disciplinare il procedimento di adozione ed approvazione delle
leggi di revisione costituzionale e delle altre leggi costituzionali». Ma la
Corte replicò, sul punto, che i giudici a
quibus erano andati ben oltre avendo sollevato
«una questione specifica e di carattere sostanziale», vale a dire «la
violazione del principio di eguaglianza facendo espresso riferimento alle
prerogative degli organi costituzionali»[27].
Ne
segue che, sulla base di tali ultime considerazioni,
la Corte costituzionale, nel pronunciarsi sul lodo Alfano, avrebbe dovuto
avvertire che, nei termini nei quali la violazione dell’art. 138 era stata
prospettata in tutte le ordinanze del Tribunale di Milano, essa era meramente
“rafforzativa” della violazione dell’art. 3, posto che l’art. 138 in tanto
presuppone che le prerogative delle alte cariche dello Stato «abbiano copertura
costituzionale», in quanto esse siano derogatorie dell’art. 3.
In
altre parole, se è il principio costituzionale d’eguaglianza “formale” a dover
essere rispettato in termini generali e se è ancora il principio generale
d’eguaglianza ad implicare che eventuali deroghe
debbano essere previste a livello costituzionale[28],
ne deriva che, una volta che la Corte aveva ritenuto che il lodo Alfano fosse
in contrasto con l’art. 3, la q.l.c. ex art. 138 doveva considerarsi
automaticamente “assorbita”. Dopo aver stabilito che il lodo Alfano era
incostituzionale per violazione dell’art. 3, non aveva
infatti alcun senso affermare che la modifica del sistema delle prerogative
costituzionali era incostituzionale anche alla luce dell’art. 138.
Anzi,
come ricordato all’inizio del n. 4, una tale aggiunta poteva indurre a ritenere
- come appunto è accaduto - che ciò che non era consentito
al legislatore ordinario avrebbe potuto essere posto in essere con una legge
costituzionale, di cui però erano state violate le forme (di qui la violazione
dell’art. 138). Con il che, venendo così in gioco la possibile modifica della
disciplina facente capo al principio supremo di cui all’art. 3 Cost., si finiva
per contraddire, come già detto, la sent. n. 1146 del
1988.
7. Non
avendo la Corte costituzionale, nella sent. n. 262 del
2009, preso posizione sulla correttezza della evocazione di tale parametro,
l’art. 138 è rimasto saldamente nella memoria dei magistrati milanesi, per
essere utilizzato anche nelle successive controversie di merito, tra cui quelle
relative all’applicabilità della l. n. 51 del 2010.
Anzi,
a tal punto l’art. 138 Cost. è stato…memorizzato, che,
delle tre ordinanze di rimessione alla Corte della l. n. 51 del 2010 da parte
del Tribunale penale di Milano, ben due di esse - e cioè le ordinanze nn.
173 e 304 del 2010
- si limitano paradossalmente ad esplicitarlo, nel dispositivo, addirittura da
solo!
E’
bensì vero che la Corte, nell’incipit del «considerato in diritto» della sentenza in commento,
afferma che l’art. 3 risulterebbe evocato anche in queste ordinanze, quanto
meno implicitamente. Onestamente, a me sembra il contrario, e cioè che in
entrambe le ordinanze i giudici a quibus si siano limitati ad evidenziare
che la l. n. 51 del 2010 pretendeva di poter introdurre, in deroga al regime
processuale comune, una nuova prerogativa in favore di un organo
costituzionale, disciplinabile esclusivamente con legge costituzionale: che è
il consueto argomento relativo all’art. 138 utilizzato anche a proposito del
lodo Alfano. Non è però questo il problema che intendo qui affrontare.
Mi
chiedo, invece, quale implicazione abbia sul problema della rilevanza del
richiamo dell’art. 138 Cost. in un’ordinanza di rinvio, il fatto che tale
disposizione venga evocata da sola e che neanche
implicitamente sia stata evocata alcun’altra norma “sostanziale” della
Costituzione.
Fermo restando il mio giudizio negativo circa la rilevanza
pratica della indicazione, nelle ordinanze di rinvio,
della violazione “complementare” dell’art. 138 Cost., in quanto non aggiunge
nulla di più alla violazione della norma costituzionale “sostanziale” di cui si
assume la violazione (in altre parole, il livello “formale” di violazione è lo
stesso sia che si assuma la violazione del solo art. 3, sia che si assuma la
violazione degli artt. 3 e 138 o quella del combinato disposto dell’art. 3 con
l’art. 138)[29], aggiungo queste poche considerazioni conclusive.
Mentre il richiamo dell’art. 138 insieme con l’art. 3 si limita, tutt’al più, a “rafforzare”, come già detto al n.
6, la tesi della violazione del principio costituzionale d’eguaglianza in
quanto evidenzia gli stravolgimenti che l’introduzione di un dato privilegio,
sotto la mentita spoglia di una prerogativa, determinerebbe a livello di fonti
(con la conseguenza, dianzi sottolineata, che l’accoglimento della q.l.c. ex art. 3
“assorbe” la q.l.c. dell’art. 138), il richiamo, nel
dispositivo dell’ordinanza di rimessione, dell’art. 138 come unica disposizione
costituzionale violata è corretto solo nell’ipotesi che si lamentino eventuali
vizi procedimentali con riferimento all’approvazione di una legge alla quale si
ritenga applicabile tale disposizione [30].
A prescindere da questa ipotesi, l’evocazione del “solo”
art. 138 rende invece inammissibile la q.l.c.
[31].
Avendo il richiamo dell’art. 138 una funzione tutt’al
più rafforzativa della violazione di un’altra norma costituzionale
(“sostanziale”), l’omesso richiamo di tale norma (“sostanziale”) non
rafforzerebbe un bel nulla.
* per gentile concessione della Rivista “Giurisprudenza
Costituzionale”
[1] Ivi, n. 7.3.1.
[2] Corte
cost., sent. n. 262 del 2009, cons. in dir., n.
7.3.2.1. Al
riguardo la Corte cita i precedenti di cui alle sentenze nn.
451 del 2005, 391
del 2004 e 225
del 2001.
[3] Ivi, n. 7.3.2.1.
[4] L.
Carlassare, Indicazioni
sul “legittimo impedimento” e punti fermi sulla posizione del Presidente del
Consiglio in una decisione prevedibile, in questa Rivista, 2009, 3708. Ma v. anche G. Marinucci, Un nuovo “Lodo Alfano” e/o un “Mini-lodo Casini-Vietti”?,
in www.forumcostituzionale (27
novembre 2009); Id., Impedimento a comparire del Presidente del
Consiglio dei Ministri: davvero legittimo?, in www.forumcostituzionale (25 marzo
2010).
[5] Nel senso che la l. n. 51 del 2010
potesse essere salvata con un’interpretazione adeguatrice
v. G. Guzzetta, Legittimo impedimento: un’interpretazione
della l. n. 51/2010 conforme a Costituzione è possibile e non inutile, in www.forumcostituzionale,it (5
gennaio 2011), con argomentazioni comunque smentite dalla sentenza in commento
(l’assolutezza dell’impedimento non è infatti desumibile dall’art. 1 comma 1,
ma è stata imposta dalla Corte; la possibilità del giudice di accertare la
sussistenza in fatto dell’impedimento è stata anch’essa imposta dalla Corte, e
non è desumibile dall’art. 1 comma 1, tant’è vero che sia l’Avvocatura generale
dello Stato che la difesa dell’on. Berlusconi avevano sostenuto che un siffatto
accertamento avrebbe implicato un “sindacato di merito” dell’attività di
governo!).
Guzzetta è
perfino giunto a sostenere la legittimità costituzionale dell’art. 1 comma 4
(che la stessa Corte ha ritenuto doveroso caducare
integralmente) sostenendo che esso non prevedeva una presunzione assoluta di
non impedimento, in quanto il giudice, in ultima
analisi, avrebbe potuto sollevare un conflitto di attribuzione tra poteri (il
che invece costituisce la conferma che la presunzione ex art. 1 comma 4 era
assoluta). In effetti, l’art. 1 comma 4, come giustamente rilevato da G. Marinucci,
Impedimento a comparire del Presidente,
cit., costituiva la chiave di volta del sistema della
l. n. 51. In altre parole tale comma faceva intuire “come” le attestazioni ex
art. 1 comma 1 sarebbero state effettuate.
[6] Corte cost., sent. n. 262 del 2009, rit. in fatto, n. 1.1.
[7] Trib. Milano, sez. I penale, ord. 19
aprile
[8] G.
Guzzetta,
Legittimo impedimento, cit., prospetta un’interpretazione adeguatrice anche dell’art. 2,
negando, contro i rilievi dello stesso proponente on. Vietti,
che si sarebbe trattato di una legge-ponte. Al riguardo Vietti
aveva infatti parlato di un “ponte tibetano” (v. G. Marinucci, Un nuovo “Lodo Alfano” e/o un “Mini-lodo Casini-Vietti”?,
in www.forumcostituzionale (27
novembre 2009), dimenticando così che nei ponti di corde sospesi nel vuoto i
due estremi sono posti alla stessa altezza dal suolo (e non un estremo cento
metri più in basso dell’altro, come nel rapporto tra legge ordinaria e legge
costituzionale!).
Invece G. Guzzetta, Legittimo impedimento, cit. nega non
solo che si tratterebbe di una legge-ponte, ma anche che l’art. 2 implicitamente ammetterebbe che la l. n. 51 si muova «in
una materia riservata alla legislazione costituzionale». Tale legge, per il mio
critico, intendeva piuttosto collegarsi con la legislazione “ordinaria”
attuativa dell’emananda legge costituzionale. Con il
che non solo egli sembra ignorare l’ingombrante esistenza del d.d.l. cost. n. 2180 AS a cui
tutti – proponenti, parlamentari e organi di stampa - facevano riferimento
allorquando si parlava della legge sul legittimo impedimento, ma non si avvede
che, senza il collegamento della legge ordinaria attuativa della legge
costituzionale con una legge costituzionale, il ponte tibetano non solo è
fortemente sbilanciato da un lato, ma addirittura pende nel vuoto mancando
l’innesto sul versante opposto. E che l’innesto a livello costituzionale sul
versante opposto debba comunque esserci, contro quanto opina Guzzetta nel terzo cpv. del n. 7 del suo saggio, discende
dalla portata derogatoria dell’art. 3 comma 1 Cost. di tutte le prerogative
incidenti sul principio costituzionale d’eguaglianza formale (sia relative a
reati funzionali che extrafunzionali), come sottolineato dalla Corte
costituzionale nelle sentenze nn. 24 del 2004, 262 del 2009 e 23 del 2011. Tutto
ciò con salvezza di quanto si dirà nei successivi nn. 5, 6 e 7 con riferimento
all’immodificabilità dell’art. 3 Cost. in quanto
principio supremo dell’ordinamento.
[9] Così Trib.
Milano, sez. I penale, 19 aprile 2010 (ord. n. 173 del 2010).
Analogamente GIP Trib. Milano, ord. 24 giugno 2010 (ord. n. 304 del 2010),
circa il carattere della temporaneità.
[10] Corte
cost., sent. n. 23 del 2011, cons. in dir., n.
5.1.
[11] Sul punto, per
un’accurata disamina, v. il mio Le
immunità penali extrafunzionali del Presidente della Repubblica e dei membri
del Governo in Italia, in Studi in onore di F. Modugno, vol. III, Napoli, 2011, 2424.
[12] In tal senso è la giurisprudenza
costante della Corte costituzionale. V. da ultimo le sentenze nn. 267 del 2007, 241 del 2008 e 289 del 2010.
[13] Corte
cost., sent. n. 23 del 2011, cons. in dir., n.
5.1.
[14] Corte cost., sent. n. 23 del 2011, cons. in dir., n. 5.1, in
fine.
[15] In questo senso v.
anche M. Villone,
Impedimenti illegittimi e cerchiobottismi istituzionali, in Astrid-Rassegna, n.2/2011, n. 2
(27 gennaio 2011).
[16] V.
Grevi, Sulla idoneità della legge
ordinaria a disciplinare regime processuali differenziati
per la tutela delle funzioni di organi costituzionali (A proposito
dell’incostituzionalità del c.d. “lodo Alfano”, in Cass. pen., 2009, 4539.
[17] Corte
cost., sent. n. 23 del 2011, cons. in dir., n. 5.2. Ritengono che l’evocazione del dovere
di leale collaborazione costituisca il punto nodale della sentenza G. Guzzetta, Una sentenza equilibrata per una legge
comunque utile, in www.forumcostituzionale,it
(11 febbraio 2011) e A. Sperti, Separazione
dei poteri e «leale collaborazione» tra di essi nella pronuncia sul legittimo
impedimento, infra
[18] Nello stesso senso v. M. Villone, Impedimenti illegittimi e cerchiobottismi istituzionali, cit..
[19] La cit. ordinanza dell’Ufficio
Centrale per il referendum è riportata in questa Rivista.
[20] V. soprattutto S.M. Cicconetti, L’equivoco
dell’art. 138 come parametro di legittimità costituzionale, in Giur. it., 2011,
nonché in Consulta Online (12 marzo 2011). Ma v.
anche F. Gabriele, Ancora sull’art. 138 Cost. come parametro
violato (questa volta dal legittimo impedimento), in www.forumcostituzionale (19 marzo
2011).
[21] «Cinque
pezzi facili»: l’incostituzionalità della legge Alfano, ora in I limiti del potere, Napoli, 2008, 177
ss.
[22] V. soprattutto l’audizione informale resa da Leopoldo Elia, mercoledì 16
luglio 2008, quale ex presidente della Corte costituzionale, alle Commissioni
riunite (Affari costituzionali e Giustizia) del Senato della Repubblica, pubblicata
sul sito www.associazionedeicostituzionalisti.it col titolo Sul c.d. lodo Alfano.
[23] V. ancora il mio «Cinque pezzi facili», cit., 182.
[24] Così ancora, con la consueta ironia,
L Elia nella
citata audizione informale
[25] Non così l’ord.
del Tribunale di Milano, sez. I pen., 26 settembre
2008 (ord. n. 397
del 2008) che evocava soltanto gli artt. 136 e 138 Cost., con la
conseguenza che, a rigore, avrebbe dovuto essere dichiarata inammissibile, come
si dirà nelle battute conclusive di questo scritto.
[26] Così sia Tribunale di Milano, sez. I
pen., ord. 26 settembre 2008 (reg. ord. n. 397 del
2008); sez. X pen., 4 ottobre 2008 (reg. ord. n. 398 del
2008) che il GIP Tribunale di Roma, 26 settembre 2009 (reg. ord. n. 9 del 2009).
[27] Corte
cost., sent., n. 262 del 2009, cons.
in dir., n. 7.1.
[28] In questo senso v. gli insuperati e
decisivi rilievi di C. Esposito, Eguaglianza e giustizia nell’art. 3 della Costituzione, in Id., La Costituzione
italiana. Saggi,
Padova, 1954, 30 ss.
[29] Di qui l’esattezza del rilievo di S.M. Cicconetti, L’equivoco
dell’art. 138, cit., circa l’inutilità del richiamo all’art. 138 accanto a
quello di altre disposizioni che si assumono violate. Giustamente F. Gabriele, Ancora sull’art. 138 come parametro violato, cit., parla di
promozione sine titulo
dell’art. 138 Cost.
[30] Su tale problematica v. F. Gabriele, Riflessioni sulla violazione (e sulla violabilità) dell’art. 138 della
Costituzione, negli Studi in onore di
F. Modugno, vol. II, 1591 ss.,
1620 ss..
[31] In senso analogo v. M. Cecchetti,
Appunti sulle questioni sottoposte alla
Corte e sui possibili esiti dei giudizi di legittimità costituzionale del “lodo
Alfano”, in R. Bin e altri (cur.), Il lodo ritrovato, Torino, 2009, 81 s.