CONSULTA ONLINE 

 

ALESSANDRO PACE

LA SVOLTA DELLA CORTE COSTITUZIONALE IN TEMA DI LEGITTIMO IMPEDIMENTO E L’AMBIGUO RICHIAMO ALL’ART. 138 COST. *

 

1. Due sono i motivi di riflessione che suscita la sent. n. 23 del 2011: il primo è dato dalla svolta giurisprudenziale a proposito dell’ambito applicativo dell’art. 420-ter c.p.p., il secondo riguarda l’ambiguità del richiamo all’art. 138 oltre che all’art. 3 Cost., come norma-parametro violata dall’art. 1 comma 4 l. n. 51 del 2010.

 

2. Sul primo punto. E’ di tutta evidenza che la Corte costituzionale, respingendo la q.l.c. dell’art. 1 comma 1 della l. n. 51 del 2010, ancorché a prezzo di una severa interpretazione adeguatrice, abbia contraddetto quanto dalla stessa Corte affermato nella sent. n. 262 del 2009 con specifico riferimento all’applicabilità dell’art. 420-ter c.p.p. anche alle alte cariche dello Stato.

In quell’importante decisione, con la quale fu dichiarata l’incostituzionalità della l. n. 124 del 2008, la Corte sottolineò, con riferimento all’art. 420-ter c.p.p., che esso costituisce «uno strumento processuale posto a tutela del diritto di difesa di qualsiasi imputato, come tale legittimamente previsto da una legge ordinaria come il codice di rito penale, anche se tale strumento, nella sua pratica applicazione, va modulato in considerazione dell’entità dell’impegno addotto dall’imputato»[1]. Pertanto «…il legittimo impedimento a comparire ha già rilevanza nel processo penale e non sarebbe stata necessaria la norma denunciata per tutelare, sotto tale aspetto, la difesa dell’imputato impedito a comparire nel processo per ragioni inerenti all’alta carica da lui rivestita. Come questa Corte ha rilevato, la sospensione del processo per legittimo impedimento a comparire disposta ai sensi del codice di rito penale contempera il diritto di difesa con le esigenze dell’esercizio della giurisdizione, differenziando la posizione processuale del componente di un organo costituzionale solo per lo stretto necessario, senza alcun meccanismo automatico e generale»[2].

Ma v’è di più. Subito dopo la prima delle due frasi qui trascritte, la Corte avvertiva Parlamento e Governo che «sarebbe intrinsecamente irragionevole e sproporzionata, rispetto alla suddetta finalità, la previsione di una presunzione legale assoluta di legittimo impedimento derivante dal solo fatto della titolarità della carica»[3].

Alla luce di queste puntualizzazioni si era perciò giustamente concluso, dai commentatori della sent. n. 262 del 2009, che «non sembrano rimanere spazi aperti per l’introduzione del legittimo impedimento assoluto»[4].

 

2. Avendo ritenuto ragionevole l’adozione, da parte del legislatore ordinario, di una normativa integrativa dell’art. 420-ter c.p.p. disposta specificamente per il Presidente del Consiglio e per i Ministri, la Corte, nella decisione annotata, ha invece argomentato diversamente quanto alla portata “generale” della norma codicistica.

Pur riconoscendo che, in prima battuta, l’interpretazione dell’art. 1 comma 1 dei giudici a quibus era corretta - e quindi, in quei termini, la relativa q.l.c avrebbe dovuto essere accolta - la Corte ha optato per un’interpretazione adeguatrice dell’art. 1 comma 1 l. n. 51 nel senso che esso, non prevedendo una presunzione assoluta di legittimo impedimento, non imporrebbe ai giudici alcun automatismo[5].

Secondo la Corte, il giudice, nonostante tutto, conserverebbe infatti, «anche per le attività “preparatorie e consequenziali”», «sia il potere di valutare la prova della sussistenza in fatto dell’impedimento, sia quello di accertare che tale impedimento “rientri fra le ipotesi previste dalle disposizioni di cui ai commi 1 e 2 della legge censurata”», sia infine «il carattere assoluto e attuale» dell’impedimento.

Vale però la pena di ricordare che, nel giudizio a quo di cui all’ord. n. 180 del 2010, anche il p.m. aveva prospettato «una interpretazione logica e sistematica della disciplina censurata, tale da consentire al giudice di valutare l’assolutezza dell’impedimento a comparire dedotto dal Presidente del Consiglio dei ministri»[6]. Ma il Tribunale di Milano aveva respinto tale tesi - con la quale il p.m. si era opposto alla richiesta di rinvio dell’udienza da parte dell’imputato Berlusconi - adducendo che un’eventuale interpretazione adeguatrice avrebbe stravolto la voluntas legislatoris intesa, in effetti, ad istituire una presunzione assoluta, con conseguente illegittima disapplicazione, da parte del giudice comune, della legge in questione [7].

Del resto, che la l. n. 51 del 2010 non fosse suscettibile di un’interpretazione adeguatrice derivava - sempre secondo l’ord. n. 180 del 2010 - dall’ultima parte dell’art. 2 comma 1 «ove si legge che le nuove disposizioni si applicano “al fine di consentire al presidente del consiglio dei ministri e ai ministri il sereno svolgimento delle funzioni loro attribuite dalla Costituzione e dalla legge”», conseguentemente prevedendo, sia pure incostituzionalmente, una nuova prerogativa[8].

Non diversamente, le altre due ordinanze nn. 173 e 304 del 2010 rilevavano in tal senso che l’art. 2 comma 1 è indicativo, anche per il «carattere temporaneo» della l. n. 51 del 2010, della «sua funzione di legge ponte in vista della “entrata in vigore della legge costituzionale recante la disciplina organica delle prerogative del Presidente del Consiglio dei Ministri e dei Ministri” così rendendo esplicita la ratio di anticipazione di una disciplina innovativa in materia che deve necessariamente essere introdotta con procedimento costituzionale» [9].

Deve allora ritenersi che la Corte, nell’affermare che «una disposizione legislativa può essere dichiarata illegittima solo quando non sia possibile attribuire ad essa un significato compatibile con la Costituzione - e cioè, nella fattispecie in esame, ove non sia possibile ricondurla nel solco della disciplina comune, interpretandola in conformità con l’istituto processuale generale di cui è espressione l’art. 420-ter c.p.p.»[10] - evidentemente non ha preso in considerazione questo dato, di per sé risolutivo, circa la “non” riconducibilità della l. n. 51 all’art. 420-ter c.p.p. Né tale mancata considerazione può essere giustificata per il fatto che la censura dell’art. 2 cit. fosse presente soltanto nel dispositivo dell’ord. n. 180 del 2010 e che essa sia stata ritenuta inammissibile dalla Corte perché immotivata.

 Ai fini di una corretta esegesi di un enunciato normativo è, infatti, ineliminabile la valutazione del suo contesto (ciò che, una volta, si chiamava interpretazione sistematica) e, per procedervi, l’interprete può - e anzi deve - estendere la sua attenzione anche alle disposizioni non indubbiate d’incostituzionalità (come appunto ha fatto il Tribunale di Milano nelle ordd. nn. 173 e 304 del 2010 rivolgendo la sua attenzione al citato art. 2 pur non lamentandone l’incostituzionalità). Del resto la mancata indicazione di una disposizione nell’ordinanza di rinvio non ne esclude il suo coinvolgimento nell’eventuale pronuncia d’incostituzionalità ai sensi dell’art. 27 della l. n. 87 del 1953.

Ma c’è un ulteriore argomento da prendere in considerazione, anche se, dai sostenitori dell’attuale Premier, esso sarebbe sicuramente tacciato di “unilateralismo”.

Poiché l’introduzione di un siffatto privilegio da parte della l. n. 51 - così come le “sospensioni processuali” previste dal c.d. lodo Schifani, dal c.d. lodo Alfano e dal d.d.l. cost. n. 2180 AS - ha un nome e un cognome che anche i proponenti dei progetti e dei disegni di legge non si sono mai peritati di nascondere (è significativo che in tutte queste leggi soltanto la persona che ricopre la carica di Presidente del Consiglio risulti sempre tutelata al contrario delle altre)[11], è evidente che la l. n. 51 del 2010, anche alla luce della sua provvisorietà, è una legge ad personam. Trattandosi, quindi, di una legge-provvedimento, ciò avrebbe dovuto implicare, da parte della Corte costituzionale, uno scrutinio particolarmente rigoroso[12], che invece è stato eluso preferendosi addirittura una sentenza di rigetto ancorché interpretativa.

 

3. C’è però anche un altro modo di leggere la sentenza in commento.

Se si condivide la scelta di fondo della Corte costituzionale: di non dichiarare l’incostituzionalità in toto della l. n. 51 del 2010, come invece aveva fatto per l’art. 1 l. n. 140 del 2003 e per la l. n. 124 del 2009; di ricondurre l’art. 1 comma 1 della l. n. 51 «nel solco della disciplina comune, interpretandola in conformità con l’istituto processuale generale di cui è espressione l’art. 420-ter c.p.p.»[13]; di ritenere anzi che la l. n. 51 del 2010 esplichi «un effetto di chiarificazione della portata dell’istituto processuale comune, nelle ipotesi in cui esso debba trovare applicazione in riferimento ad impedimenti consistenti nell’esercizio di funzioni di governo»[14], si potrebbe affermare che la motivazione, assai ben redatta, sia addirittura condivisibile.

Si potrebbe cioè ritenere che la Corte, decidendo collegialmente la q.l.c., abbia ritenuto, nella sua larga maggioranza, di non contrapporsi ancora una volta al legislatore in maniera netta[15] - ciò che non aveva sortito alcun effetto pratico nei confronti della maggioranza di governo -, ma di affrontare il legislatore in maniera più duttile: da un lato dichiarando l’incostituzionalità testuale solo dell’art. 1 comma 4, assolutamente indigeribile, dall’altro limitandosi ad un’interpretativa di rigetto quanto al comma 1 e ad un’interpretativa di accoglimento quanto al comma 3 (dato che in esso mancava del tutto il richiamo all’art. 420-ter c.p.p., invece presente nel comma 1).

Da questo angolo visuale dovremmo quindi chiederci: cosa resta, della l. n. 51, una volta garantito al giudice, anche con riferimento alle attività preparatorie e consequenziali, il triplice potere di valutare la prova della sussistenza in fatto dell’impedimento, di accertare che l’impedimento rientri fra le ipotesi previste dall’art. 1 commi 1 e 2 della l. n. 51 purché riconducibili «ad una attribuzione coessenziale alla funzione di governo» e di accertare che l’impedimento abbia un carattere assoluto e attuale?

Ebbene, anche se non tutto, qualcosa purtroppo resta.

In primo luogo, per quanto reinterpretato dalla Corte, l’art. 1 comma 1 della l. n. 51 non prevede quella «articolata previsione di ipotesi, rigorosamente definite e circoscritte» che la più autorevole dottrina aveva ritenuto necessaria qualora il legislatore avesse ritenuto di introdurre «una apposita disciplina volta a tipizzare le situazioni di legittimo impedimento»[16].

In secondo luogo, il fatto che la Corte, per incidere sul contenuto normativo dell’art. 1 comma 1, abbia scelto un’interpretativa di rigetto (anziché un’interpretativa di accoglimento esplicante ex art. 136 Cost. effetti erga omnes) indubbiamente indebolisce la portata pratica dell’intervento della Corte, soprattutto se si pone mente alla genericità delle disposizioni della l. n. 400 del 1988 e del regolamento interno del Consiglio dei ministri richiamate dall’art. 1 comma 1. Di talché non sarà certamente facile, per il magistrato, tanto più senza l’ausilio di una pronuncia di accoglimento, farlo valere nei confronti del Premier che continuasse, come prima, nelle schermaglie con i Tribunali e con le Procure inventandosi, anche all’ultimo minuto, indifferibili impedimenti di governo.

Infine, resta il forte dubbio che, nei processi nei confronti dei Ministri, la l. n. 51 possa (o debba) continuare ad applicarsi tout court, fino alla rimessione di una nuova q.l.c., avendo la Corte ritenuto inammissibile la q.l.c. dell’art. 1 comma 2.

Diversamente dagli altri inconvenienti, il problema delle “schermaglie” tra Premier e Procura della Repubblica (e giudice) è stato avvertito dalla Consulta. E’ infatti a questo proposito che la Corte ha giustamente evocato il «canone della leale collaborazione»[17].

Un principio, quest’ultimo, che è però diventato una formula di rito nei rapporti tra i soggetti del nostro sistema politico-istituzionale, ma il cui rispetto, nel nostro ordinamento, è concretamente esigibile solo a seguito di un ricorso per conflitto tra poteri, e quindi, nel caso che sia il magistrato a doversi lamentare, avviene a prezzo di un’ulteriore perdita di tempo, peraltro ben voluta da quei componenti del Governo che si preoccupano di difendersi “dal” processo anziché “nel” processo.

Il che ci conduce a dover meditare su uno dei punti critici del nostro mal funzionante sistema politico-istituzionale, ulteriormente aggravato da una legge elettorale che esclude la rappresentatività degli eletti. Alludo alla responsabilità politica, che è una parola ormai vuota di significato, essendosi nella prassi progressivamente, ma ormai integralmente, appiattita sulla responsabilità giuridica.

 

4. Pur dovendo onestamente avvertire che l’inconveniente della persistente difesa “dal” processo da parte del Premier e dei Ministri sarebbe tranquillamente continuato quand’anche la Corte avesse annullato in toto la l. n. 51, deve però essere sottolineato che è comunque errato ritenere che la scelta della Corte di mantenere in vita buona parte della legge contestata non sia indolore dal punto di vista ordinamentale.

Anche se, a mio parere, un qualsiasi giudice, purché privo di preconcetti, sarebbe potuto pervenire, in forza del solo art. 420-ter c.p.p., nella gran parte delle ipotesi, alle stesse conclusioni applicative derivanti dall’art. 1 della l. n. 51 così come interpretato dalla Corte, è però fuor di dubbio che, d’ora in poi, e fino alla scadenza di tale legge - il cui termine di vigenza (9 ottobre 2011) sarà più agevolmente prorogabile dal legislatore a seguito della sentenza annotata - la norma applicabile ai membri del Governo sarà ovviamente l’art. 1 comma 1 della l. n. 51 e non l’art. 420-ter c.p.p.

Però, dal punto di vista costituzionalistico, e a prescindere dai rilievi fatti nel precedente paragrafo, ciò non è la stessa cosa, in quanto solo la declaratoria d’incostituzionalità pura e semplice avrebbe ribadito senza ambiguità quel «principio della parità di trattamento di tutti i cittadini rispetto alla giurisdizione» [18] che la Corte costituzionale aveva esaltato nella sent. n. 24 del 2004 e ribadito nella sent. n. 262 del 2009. E non è un caso che tale differenza sia stata evidenziata dalla Corte suprema di cassazione - Ufficio centrale per il referendum nell’ord. 1° febbraio 2011[19].

Chiamata a pronunciarsi sull’eventuale blocco del referendum abrogativo della l. n. 51 del 2010 a seguito della sentenza annotata, la S.C. ha infatti sottolineato che, come già affermato dalla Corte costituzionale con la sent. n. 29 del 2011 (che aveva ritenuto ammissibile il referendum abrogativo della l. n. 51 del 2010), «la matrice razionalmente unitaria del quesito referendario rivela chiaramente l’intento dei promotori di ripristinare l’applicabilità ai titolari di cariche governative della disciplina comune di cui all’art. 420-ter c.p.p. senza le integrazioni o specificazioni recate dalla legge abroganda».

Dopo di che la S.C. ha rilevato «che, a parte l’annullamento del comma 4 della legge 7 aprile 2010, n. 51, detta legge, pur a seguito dell’ulteriore intervento additivo e dell’orientamento interpretativo raccomandato, comporta tuttavia una considerazione differenziata della posizione dei titolari di cariche governative, rispetto alla disciplina comune recata dal codice di rito in materia di legittimo impedimento».

In altre parole, per la stessa S.C. il principio della parità di trattamento di tutti i cittadini rispetto alla giurisdizione è diverso a seconda che venga in considerazione l’art. 420-ter c.p.p. o la l. n. 51 del 2010. E quand’anche questa differenza fosse minima o solo meramente simbolica, è indiscutibile che ciò avrebbe comunque un peso indiscutibile sull’immaginario collettivo a danno del “valore” del principio di eguaglianza nel nostro ordinamento.

 

5. Passo ora al secondo motivo di riflessione che suscita la sentenza in commento, e cioè la rilevanza pratica del richiamo all’art. 138, oltre che all’art. 3 Cost., quale parametro costituzionale violato dall’art. 1 comma 4 della l. n. 51 del 2010.

      Su tale profilo della motivazione si è subito osservato, con argomenti condivisibili, che il richiamo all’art. 138 Cost. «è inutile se viene compiuto accanto al richiamo di altre disposizioni che si assumono violate», come appunto l’art. 3 Cost. nel caso di specie (o gli artt. 3, 68, 96, 111 e 112 Cost., nel caso del lodo Alfano). Esso «diventa erroneo qualora (…) si ritenga che l’art. 3, in quanto prescrivente un principio supremo, non tolleri alcuna deroga neppure da parte di leggi costituzionali. In questo secondo caso, inoltre, può essere fuorviante sul piano politico e dei media (…) in quanto suscettibile di essere interpretato nel senso di una sorta di via libera senza condizioni da parte della Corte costituzionale all’introduzione di nuove prerogative con lo strumento della legge costituzionale»[20] contro quanto statuito nella famosa sent. n. 1146 del 1988.

      Per chiarire le ragioni per le quali, in questi ultimi tempi, è stato ripetutamente evocato l’art. 138 Cost. a proposito delle prerogative costituzionali, bisogna però fare un passo indietro. E’ infatti necessario ricordare i termini del vasto e vivace dibattito che sollevarono, nei mesi di giugno e luglio 2008, due contemporanee iniziative legislative della maggioranza, che tendevano, l’una, a bloccare i processi penali per reati commessi prima del 30 giugno 2002 tranne quelli puniti con la pena della reclusione superiore a dieci anni; l’altra, a reintrodurre, sia pure con talune modifiche secondarie, l’immunità temporanea per il Presidente della Repubblica, i Presidenti delle Camere e il Presidente del Consiglio, già prevista dall’art. 1 della l. n. 140 del 2003 dichiarato incostituzionale con sent. n. 24 del 2004.

 Mentre dai critici di tale seconda iniziativa si affermava che una simile legge, in quanto istitutiva di una prerogativa costituzionale, urtava contro l’art. 3 Cost. e quindi non poteva comunque essere approvata dal legislatore ordinario (e ciò quand’anche si fosse ritenuto ammissibile introdurla con il procedimento previsto dall’art. 138 Cost.), invece dai suoi sostenitori si affermava che la Corte costituzionale, nel dichiarare l’incostituzionalità del Schifani ai sensi degli artt. 3 e 24 Cost. (sent. n. 24 del 2004), aveva omesso di indicare, tra le norme violate, l’art. 138 Cost. come identificativo della forma corretta da seguire per introdurre nuove prerogative costituzionali. Pertanto - aggiungevano i sostenitori del lodo Alfano - la Corte aveva implicitamente ammesso che una semplice legge ordinaria avrebbe potuto disporre la sospensione dei processi penali delle alte cariche dello Stato ancorché concernenti reati extrafunzionali, e cioè ancorché relativi a reati per i quali la carica istituzionale non viene minimamente in considerazione.

Rinvio a quanto diffusamente ricordato altrove a proposito degli argomenti usati nel dibattito e dei suoi numerosi protagonisti, tra cui ben cinque giudici costituzionali che avevano preso parte alla sent. n. 24 del 2004[21], i quali si schierarono sui fronti opposti: due in favore del lodo Alfano e tre contro, ai quali si aggiunse con la sua autorevolezza Leopoldo Elia.

Quanto ai termini dello scontro esso proseguì come era iniziato. Da parte dei critici si continuò sia a sottolineare che le prerogative, in quanto derogatorie del principio costituzionale d’eguaglianza, potessero essere esclusivamente previste a livello costituzionale, sia a negare che al silenzio sulla violazione dell’art. 138 Cost. nella sent. n. 24 del 2004 potesse essere data una qualsivoglia importanza, non essendo risolutivo né in un senso, né nell’altro [22]. Da parte dei sostenitori, si ribadì invece, l’importanza determinante della mancata menzione dell’art. 138 Cost. tra le norme che sarebbero state violate dal lodo Schifani, con la conseguente possibilità del legislatore ordinario di prevedere la sospensione dei processi penali per reati extrafunzionali per garantire il sereno svolgimento delle funzioni inerenti alle alte cariche dello Stato.

Gli argomenti prospettati dai critici erano esatti, e la sent. n. 262 l’avrebbe confermato. Ma l’argomento inoppugnabile, e veramente risolutivo, era un altro. E cioè che la sent. n. 24 del 2004 era una decisione di accoglimento, e quindi la Corte, statuendo che il lodo Schifani aveva violato gli artt. 3 e 24 Cost., aveva nel contempo riconosciuto a tali disposizioni la qualità di norme-parametro, ribadendone così la superiorità gerarchica rispetto alle disposizioni dichiarate incostituzionali[23]. Pertanto avrebbe dovuto essere chiara a tutti l’insostenibilità della tesi che una legge ordinaria - e cioè un atto-fonte analogo al lodo Schifani dichiarato incostituzionale - potesse avere la forza normativa necessaria e sufficiente per introdurre prerogative (rectius privilegi personali) in deroga all’art. 3 Cost.

In altre parole, in ogni dispositivo di accoglimento di una q.l.c. c’è sempre - quand’anche i giudici costituzionali non se ne rendano conto (come appunto accadde nella sent. n. 24 del 2004) - la riaffermazione della “superiorità normativa” della nostra Costituzione. La quale si designa abitualmente come “rigidità”, in quanto qualificante uno “speciale” e “irripetibile” atto normativo che “si pone” formalmente e sostanzialmente come superiore nei confronti di tutti gli atti pubblici costitutivi dell’ordinamento (siano essi legislativi, amministrativi e giudiziari) nonché di tutti gli atti e i comportamenti privati.

 

6. Ciò nonostante, la tesi secondo la quale il silenzio nella sent. n. 24 del 2004 a proposito dell’avvenuta violazione, da parte del lodo Schifani, dell’art. 138 Cost. «avrebbe aperto un’autostrada ad una nuova legge ordinaria in materia»[24] esplicò la conseguenza che nelle controversie giudiziarie nelle quali era coinvolto il lodo Alfano, tutte le ordinanze di rimessione alla Corte evocarono, oltre alla violazione di altre norme costituzionali - tra cui, da solo o con altri, l’art. 3 [25]-, la violazione dell’art. 138, sia pure avvertendo che tale richiamo, contestuale alla violazione dell’art. 3, era puramente tuzioristico (e cioè prospettato con ogni salvezza del principio d’eguaglianza in quanto principio supremo dell’ordinamento)[26].

Va inoltre rammentato che tutte tali ordinanze evocavano la violazione dell’art. 138 partendo dalla stessa premessa, e cioè che le prerogative delle alte cariche dello Stato, essendo derogatorie dell’art. 3 comma 1 Cost., sono previste (e devono essere previste) esclusivamente da norme di rango costituzionale, modificabili, a tutto voler concedere, solo con legge costituzionale, ma giammai introducibili nel nostro ordinamento con una legge ordinaria.

A tal riguardo va pure ricordato che nel giudizio davanti alla Corte costituzionale, l’Avvocatura generale dello Stato eccepì l’inammissibilità, relativamente al lodo Alfano, della q.l.c. ex art. 138 Cost. osservando che esso «si limita a disciplinare il procedimento di adozione ed approvazione delle leggi di revisione costituzionale e delle altre leggi costituzionali». Ma la Corte replicò, sul punto, che i giudici a quibus erano andati ben oltre avendo sollevato «una questione specifica e di carattere sostanziale», vale a dire «la violazione del principio di eguaglianza facendo espresso riferimento alle prerogative degli organi costituzionali»[27].

Ne segue che, sulla base di tali ultime considerazioni, la Corte costituzionale, nel pronunciarsi sul lodo Alfano, avrebbe dovuto avvertire che, nei termini nei quali la violazione dell’art. 138 era stata prospettata in tutte le ordinanze del Tribunale di Milano, essa era meramente “rafforzativa” della violazione dell’art. 3, posto che l’art. 138 in tanto presuppone che le prerogative delle alte cariche dello Stato «abbiano copertura costituzionale», in quanto esse siano derogatorie dell’art. 3.

In altre parole, se è il principio costituzionale d’eguaglianza “formale” a dover essere rispettato in termini generali e se è ancora il principio generale d’eguaglianza ad implicare che eventuali deroghe debbano essere previste a livello costituzionale[28], ne deriva che, una volta che la Corte aveva ritenuto che il lodo Alfano fosse in contrasto con l’art. 3, la q.l.c. ex art. 138 doveva considerarsi automaticamente “assorbita”. Dopo aver stabilito che il lodo Alfano era incostituzionale per violazione dell’art. 3, non aveva infatti alcun senso affermare che la modifica del sistema delle prerogative costituzionali era incostituzionale anche alla luce dell’art. 138.

Anzi, come ricordato all’inizio del n. 4, una tale aggiunta poteva indurre a ritenere - come appunto è accaduto - che ciò che non era consentito al legislatore ordinario avrebbe potuto essere posto in essere con una legge costituzionale, di cui però erano state violate le forme (di qui la violazione dell’art. 138). Con il che, venendo così in gioco la possibile modifica della disciplina facente capo al principio supremo di cui all’art. 3 Cost., si finiva per contraddire, come già detto, la sent. n. 1146 del 1988.

 

7. Non avendo la Corte costituzionale, nella sent. n. 262 del 2009, preso posizione sulla correttezza della evocazione di tale parametro, l’art. 138 è rimasto saldamente nella memoria dei magistrati milanesi, per essere utilizzato anche nelle successive controversie di merito, tra cui quelle relative all’applicabilità della l. n. 51 del 2010.

Anzi, a tal punto l’art. 138 Cost. è stato…memorizzato, che, delle tre ordinanze di rimessione alla Corte della l. n. 51 del 2010 da parte del Tribunale penale di Milano, ben due di esse - e cioè le ordinanze nn. 173 e 304 del 2010 - si limitano paradossalmente ad esplicitarlo, nel dispositivo, addirittura da solo!

E’ bensì vero che la Corte, nell’incipit del «considerato in diritto» della sentenza in commento, afferma che l’art. 3 risulterebbe evocato anche in queste ordinanze, quanto meno implicitamente. Onestamente, a me sembra il contrario, e cioè che in entrambe le ordinanze i giudici a quibus si siano limitati ad evidenziare che la l. n. 51 del 2010 pretendeva di poter introdurre, in deroga al regime processuale comune, una nuova prerogativa in favore di un organo costituzionale, disciplinabile esclusivamente con legge costituzionale: che è il consueto argomento relativo all’art. 138 utilizzato anche a proposito del lodo Alfano. Non è però questo il problema che intendo qui affrontare.

Mi chiedo, invece, quale implicazione abbia sul problema della rilevanza del richiamo dell’art. 138 Cost. in un’ordinanza di rinvio, il fatto che tale disposizione venga evocata da sola e che neanche implicitamente sia stata evocata alcun’altra norma “sostanziale” della Costituzione.

Fermo restando il mio giudizio negativo circa la rilevanza pratica della indicazione, nelle ordinanze di rinvio, della violazione “complementare” dell’art. 138 Cost., in quanto non aggiunge nulla di più alla violazione della norma costituzionale “sostanziale” di cui si assume la violazione (in altre parole, il livello “formale” di violazione è lo stesso sia che si assuma la violazione del solo art. 3, sia che si assuma la violazione degli artt. 3 e 138 o quella del combinato disposto dell’art. 3 con l’art. 138)[29], aggiungo queste poche considerazioni conclusive.

Mentre il richiamo dell’art. 138 insieme con l’art. 3 si limita, tutt’al più, a “rafforzare”, come già detto al n. 6, la tesi della violazione del principio costituzionale d’eguaglianza in quanto evidenzia gli stravolgimenti che l’introduzione di un dato privilegio, sotto la mentita spoglia di una prerogativa, determinerebbe a livello di fonti (con la conseguenza, dianzi sottolineata, che l’accoglimento della q.l.c. ex art. 3 “assorbe” la q.l.c. dell’art. 138), il richiamo, nel dispositivo dell’ordinanza di rimessione, dell’art. 138 come unica disposizione costituzionale violata è corretto solo nell’ipotesi che si lamentino eventuali vizi procedimentali con riferimento all’approvazione di una legge alla quale si ritenga applicabile tale disposizione [30].

A prescindere da questa ipotesi, l’evocazione del “solo” art. 138 rende invece inammissibile la q.l.c. [31]. Avendo il richiamo dell’art. 138 una funzione tutt’al più rafforzativa della violazione di un’altra norma costituzionale (“sostanziale”), l’omesso richiamo di tale norma (“sostanziale”) non rafforzerebbe un bel nulla.



* per gentile concessione della Rivista “Giurisprudenza Costituzionale”

[1] Ivi, n. 7.3.1.

 

[2] Corte cost., sent. n. 262 del 2009, cons. in dir., n. 7.3.2.1. Al riguardo la Corte cita i precedenti di cui alle sentenze nn. 451 del 2005, 391 del 2004 e 225 del 2001.

 

[3] Ivi, n. 7.3.2.1.

 

[4] L. Carlassare, Indicazioni sul “legittimo impedimento” e punti fermi sulla posizione del Presidente del Consiglio in una decisione prevedibile, in questa Rivista, 2009, 3708. Ma v. anche G. Marinucci, Un nuovo “Lodo Alfano” e/o un “Mini-lodo Casini-Vietti”?, in www.forumcostituzionale (27 novembre 2009); Id., Impedimento a comparire del Presidente del Consiglio dei Ministri: davvero legittimo?, in www.forumcostituzionale (25 marzo 2010).

 

[5] Nel senso che la l. n. 51 del 2010 potesse essere salvata con un’interpretazione adeguatrice v. G. Guzzetta, Legittimo impedimento: un’interpretazione della l. n. 51/2010 conforme a Costituzione è possibile e non inutile, in www.forumcostituzionale,it (5 gennaio 2011), con argomentazioni comunque smentite dalla sentenza in commento (l’assolutezza dell’impedimento non è infatti desumibile dall’art. 1 comma 1, ma è stata imposta dalla Corte; la possibilità del giudice di accertare la sussistenza in fatto dell’impedimento è stata anch’essa imposta dalla Corte, e non è desumibile dall’art. 1 comma 1, tant’è vero che sia l’Avvocatura generale dello Stato che la difesa dell’on. Berlusconi avevano sostenuto che un siffatto accertamento avrebbe implicato un “sindacato di merito” dell’attività di governo!).

Guzzetta è perfino giunto a sostenere la legittimità costituzionale dell’art. 1 comma 4 (che la stessa Corte ha ritenuto doveroso caducare integralmente) sostenendo che esso non prevedeva una presunzione assoluta di non impedimento, in quanto il giudice, in ultima analisi, avrebbe potuto sollevare un conflitto di attribuzione tra poteri (il che invece costituisce la conferma che la presunzione ex art. 1 comma 4 era assoluta). In effetti, l’art. 1 comma 4, come giustamente rilevato da G. Marinucci, Impedimento a comparire del Presidente, cit., costituiva la chiave di volta del sistema della l. n. 51. In altre parole tale comma faceva intuire “come” le attestazioni ex art. 1 comma 1 sarebbero state effettuate.

 

[6] Corte cost., sent. n. 262 del 2009, rit. in fatto, n. 1.1.

 

[7] Trib. Milano, sez. I penale, ord. 19 aprile 2010, in Foro it., 2010, II, 357 (ord. n. 180 del 2010). Nello stesso senso v. A. Pugiotto, Inutile o incostituzionale. (Sul destino della legge n. 51 del 2010), in Corr. giur., n.10 del 2010.

 

[8] G. Guzzetta, Legittimo impedimento, cit., prospetta un’interpretazione adeguatrice anche dell’art. 2, negando, contro i rilievi dello stesso proponente on. Vietti, che si sarebbe trattato di una legge-ponte. Al riguardo Vietti aveva infatti parlato di un “ponte tibetano” (v. G. Marinucci, Un nuovo “Lodo Alfano” e/o un “Mini-lodo Casini-Vietti”?, in www.forumcostituzionale (27 novembre 2009), dimenticando così che nei ponti di corde sospesi nel vuoto i due estremi sono posti alla stessa altezza dal suolo (e non un estremo cento metri più in basso dell’altro, come nel rapporto tra legge ordinaria e legge costituzionale!).

Invece G. Guzzetta, Legittimo impedimento, cit. nega non solo che si tratterebbe di una legge-ponte, ma anche che l’art. 2 implicitamente ammetterebbe che la l. n. 51 si muova «in una materia riservata alla legislazione costituzionale». Tale legge, per il mio critico, intendeva piuttosto collegarsi con la legislazione “ordinaria” attuativa dell’emananda legge costituzionale. Con il che non solo egli sembra ignorare l’ingombrante esistenza del d.d.l. cost. n. 2180 AS a cui tutti – proponenti, parlamentari e organi di stampa - facevano riferimento allorquando si parlava della legge sul legittimo impedimento, ma non si avvede che, senza il collegamento della legge ordinaria attuativa della legge costituzionale con una legge costituzionale, il ponte tibetano non solo è fortemente sbilanciato da un lato, ma addirittura pende nel vuoto mancando l’innesto sul versante opposto. E che l’innesto a livello costituzionale sul versante opposto debba comunque esserci, contro quanto opina Guzzetta nel terzo cpv. del n. 7 del suo saggio, discende dalla portata derogatoria dell’art. 3 comma 1 Cost. di tutte le prerogative incidenti sul principio costituzionale d’eguaglianza formale (sia relative a reati funzionali che extrafunzionali), come sottolineato dalla Corte costituzionale nelle sentenze nn. 24 del 2004, 262 del 2009 e 23 del 2011. Tutto ciò con salvezza di quanto si dirà nei successivi nn. 5, 6 e 7 con riferimento all’immodificabilità dell’art. 3 Cost. in quanto principio supremo dell’ordinamento.

 

[9] Così Trib. Milano, sez. I penale, 19 aprile 2010 (ord. n. 173 del 2010). Analogamente GIP Trib. Milano, ord. 24 giugno 2010 (ord. n. 304 del 2010), circa il carattere della temporaneità.

 

[10] Corte cost., sent. n. 23 del 2011, cons. in dir., n. 5.1.

 

[11] Sul punto, per un’accurata disamina, v. il mio Le immunità penali extrafunzionali del Presidente della Repubblica e dei membri del Governo in Italia, in Studi in onore di F. Modugno, vol. III, Napoli, 2011, 2424.

 

[12] In tal senso è la giurisprudenza costante della Corte costituzionale. V. da ultimo le sentenze nn. 267 del 2007, 241 del 2008 e 289 del 2010.

 

[13] Corte cost., sent. n. 23 del 2011, cons. in dir., n. 5.1.

 

[14] Corte cost., sent. n. 23 del 2011, cons. in dir., n. 5.1, in fine.

 

[15] In questo senso v. anche M. Villone, Impedimenti illegittimi e cerchiobottismi istituzionali, in Astrid-Rassegna, n.2/2011, n. 2 (27 gennaio 2011).

 

[16] V. Grevi, Sulla idoneità della legge ordinaria a disciplinare regime processuali differenziati per la tutela delle funzioni di organi costituzionali (A proposito dell’incostituzionalità del c.d. “lodo Alfano”, in Cass. pen., 2009, 4539.

 

[17] Corte cost., sent. n. 23 del 2011, cons. in dir., n. 5.2. Ritengono che l’evocazione del dovere di leale collaborazione costituisca il punto nodale della sentenza G. Guzzetta, Una sentenza equilibrata per una legge comunque utile, in www.forumcostituzionale,it (11 febbraio 2011) e A. Sperti, Separazione dei poteri e «leale collaborazione» tra di essi nella pronuncia sul legittimo impedimento, infra

 

[18] Nello stesso senso v. M. Villone, Impedimenti illegittimi e cerchiobottismi istituzionali, cit..

 

[19] La cit. ordinanza dell’Ufficio Centrale per il referendum è riportata in questa Rivista.

 

[20] V. soprattutto S.M. Cicconetti, L’equivoco dell’art. 138 come parametro di legittimità costituzionale, in Giur. it., 2011, nonché in Consulta Online (12 marzo 2011). Ma v. anche F. Gabriele, Ancora sull’art. 138 Cost. come parametro violato (questa volta dal legittimo impedimento), in www.forumcostituzionale (19 marzo 2011).

 

[21] «Cinque pezzi facili»: l’incostituzionalità della legge Alfano, ora in I limiti del potere, Napoli, 2008, 177 ss.

 

[22] V. soprattutto l’audizione informale resa da Leopoldo Elia, mercoledì 16 luglio 2008, quale ex presidente della Corte costituzionale, alle Commissioni riunite (Affari costituzionali e Giustizia) del Senato della Repubblica, pubblicata sul sito www.associazionedeicostituzionalisti.it col titolo Sul c.d. lodo Alfano.

 

[23] V. ancora il mio «Cinque pezzi facili», cit., 182.

 

[24] Così ancora, con la consueta ironia, L Elia nella citata audizione informale

 

[25] Non così l’ord. del Tribunale di Milano, sez. I pen., 26 settembre 2008 (ord. n. 397 del 2008) che evocava soltanto gli artt. 136 e 138 Cost., con la conseguenza che, a rigore, avrebbe dovuto essere dichiarata inammissibile, come si dirà nelle battute conclusive di questo scritto.

 

[26] Così sia Tribunale di Milano, sez. I pen., ord. 26 settembre 2008 (reg. ord. n. 397 del 2008); sez. X pen., 4 ottobre 2008 (reg. ord. n. 398 del 2008) che il GIP Tribunale di Roma, 26 settembre 2009 (reg. ord. n. 9 del 2009).

 

[27] Corte cost., sent., n. 262 del 2009, cons. in dir., n. 7.1.

 

[28] In questo senso v. gli insuperati e decisivi rilievi di C. Esposito, Eguaglianza e giustizia nell’art. 3 della Costituzione, in Id., La Costituzione italiana. Saggi, Padova, 1954, 30 ss.

[29] Di qui l’esattezza del rilievo di S.M. Cicconetti, L’equivoco dell’art. 138, cit., circa l’inutilità del richiamo all’art. 138 accanto a quello di altre disposizioni che si assumono violate. Giustamente F. Gabriele, Ancora sull’art. 138 come parametro violato, cit., parla di promozione sine titulo dell’art. 138 Cost.

 

[30] Su tale problematica v. F. Gabriele, Riflessioni sulla violazione (e sulla violabilità) dell’art. 138 della Costituzione, negli Studi in onore di F. Modugno, vol. II, 1591 ss., 1620 ss..

 

[31] In senso analogo v. M. Cecchetti, Appunti sulle questioni sottoposte alla Corte e sui possibili esiti dei giudizi di legittimità costituzionale del “lodo Alfano”, in R. Bin e altri (cur.), Il lodo ritrovato, Torino, 2009, 81 s.