Il falso in bilancio fra Corte di giustizia e Corte costituzionale italiana (passando attraverso i principi supremi dell’ordinamento costituzionale…)

 

di Luca Mezzetti

professore ordinario di Diritto pubblico comparato

nella Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Udine

 

 

1. - Nell’ambito delle cause riunite C-387/02, C-391/02 e C-403/02 presso la Corte di giustizia dell’Unione europea, le conclusioni dell’avvocato generale Julianne Kokott, presentate il 14 ottobre 2004 e relative a procedimento pregiudiziale instaurato da giudici italiani sulla base dell’art. 234 (ex art. 177) del Trattato comunitario e aventi ad oggetto, in generale, gli effetti di una violazione delle direttive comunitarie da parte delle disposizioni dello Stato membro sui procedimenti penali pendenti davanti ai giudici del rinvio, i limiti dell’applicazione delle direttive comunitarie nei procedimenti penali e, in particolare, la questione della compatibilità con il diritto comunitario degli artt. 2621 e 2622, secondo il tenore innovativo introdotto ad opera del d.legis. n. 61 del 2002 (in particolare la questione se ai sensi delle direttive comunitarie sul diritto societario la pubblicazione di una falsa comunicazione sociale vada equiparata alla sua omessa pubblicazione e la questione relativa alla interpretazione da attribuire a sanzioni adeguate per le false comunicazioni sociali), rappresentano l’ultimo (per ora) significativo episodio del gioco a rimpiattino fra i giudici nazionali, la Corte costituzionale italiana e la Corte di giustizia europea in materia di falso in bilancio.

Si riconosce in tali conclusioni che la Corte di giustizia UE non può statuire, ai sensi dell’art. 234 del Trattato comunitario, sulla compatibilità di una norma di diritto nazionale con il diritto comunitario o pronunciarsi sull’interpretazione di disposizioni nazionali. Si ammette altresì che non rientra nella competenza della Corte di giustizia esprimersi sull’interpretazione della Costituzione di uno Stato membro o esaminare la conformità di una norma giuridica nazionale con la stessa, essendo compito della Corte quello di garantire, attraverso la sua giurisprudenza, l’attuazione uniforme ed effettiva del diritto comunitario in tutti gli Stati membri: a mente di tali principi, la Corte non potrebbe pertanto in alcun caso pronunciarsi sull’entità della pena di cui al nuovo art. 2621 c.c., ma sarebbe unicamente competente a fornire ai giudici del rinvio gli elementi per l’interpretazione del diritto comunitario che permettano ai giudici medesimi di pronunciarsi sulla compatibilità o meno del diritto nazionale con il diritto comunitario nelle cause dinanzi a loro pendenti, fermo restando il dovere di questi ultimi di sollevare, nella seconda delle ipotesi prospettate, questione di legittimità costituzionale ai fini della dichiarazione di incostituzionalità della norma interna non pienamente conforme alle norme comunitarie.

L’art. 6 della prima direttiva si limita ad obbligare gli Stati membri ad adottare adeguate sanzioni per l’ipotesi di violazione dell’obbligo di pubblicità menzionato in precedenza : ora, richiamato il potere discrezionale del legislatore nazionale in merito alla scelta delle sanzioni, da esercitarsi in ogni caso in considerazione dell’obbligo incombente agli Stati membri di vegliare affinché le violazioni del diritto comunitario  siano accompagnate, sotto il profilo sostanziale e procedurale, in termini  analoghi a quelli previsti per le violazioni del diritto interno da sanzioni simili per natura e gravità, nonché di conferire alle sanzioni stesse caratteri di efficacia, proporzionalità e capacità dissuasiva, affermare – come fa l’avvocato generale - che il problema se una disposizione di diritto nazionale contenga una sanzione efficace, proporzionata e dissuasiva deve essere esaminato, in tutti i casi in cui sorge, tenendo conto del ruolo di detta norma nell’ordinamento giuridico complessivo, ivi compreso lo svolgimento della procedura e delle peculiarità di quest’ultima dinanzi alle diverse autorità nazionali, significa sotto un primo profilo dischiudere una prospettiva di ricorso al metodo analogico – rigorosamente non praticabile nel diritto penale – pericolosamente gravida di inaccettabili conseguenze sul versante dei principi di legalità e tassatività della disciplina giuridica dei reati e delle pene.

Il problema non si risolve altresì ipotizzando che in capo ai giudici del rinvio insorga l’obbligo, derivante dal diritto comunitario, in particolare ai sensi degli artt. 10 e 249 del Trattato comunitario, di dare applicazione, nei procedimenti penali dinanzi ad essi pendenti, ai precetti contenuti nelle direttive sul diritto societario senza necessità di una preventiva pronuncia della Corte costituzionale italiana sulla possibile incostituzionalità del d. legis. n. 61 del 2002. Il menzionato obbligo di applicazione diretta delle norme di diritto comunitario – che, come è noto, sussiste solo con riferimento ai regolamenti comunitari e, con molte cautele, con riferimento alle direttive dettagliate, non sorge infatti con riferimento a direttive di natura non dettagliata, quali appaiono essere le direttive sul diritto societario. Ma anche laddove si intendesse forzare il dato testuale annettendo tale natura (di direttive dettagliate) alle direttive comunitarie in oggetto, immaginandosi la applicabilità diretta delle rispettive disposizioni ad opera dei giudici nazionali in via surrogatoria rispetto alle norme contenute nel d. legis. 61 del 2002, osterebbe alla piena applicabilità (diretta) delle medesime la configurazione meramente generica delle sanzioni auspicate dal legislatore comunitario quanto alla loro concreta identificazione e quantificazione da parte del legislatore nazionale nell’esercizio delle sue prerogative (pienamente) sovrane in  tale direzione.

Non vale affermare in contrario - come pure si spinge a fare l’avvocato generale – che, indipendentemente dalla effettuazione del controllo di costituzionalità da parte della Corte costituzionale italiana e indipendentemente dalla conformità o meno del d.legis. n. 61 del 2002 alla Costituzione italiana, i giudici del rinvio debbano già disapplicare, nel caso concreto, tale decreto legislativo nelle parti in cui le norme apportate non risultino conformi al diritto comunitario, ritenendo invece applicabile la legge nazionale nella sua versione in vigore all’epoca dei fatti contestati (gli originari artt. 2621 e 2622 c.c.). La validità di tale affermazione merita infatti di essere sottoposta ad attento vaglio e non può non divenire oggetto di deciso rigetto alla luce di una serie di controargomentazioni.

E’ la stessa giurisprudenza comunitaria, come del resto concede lo stesso avvocato generale, ad avere chiarito che una direttiva comunitaria non può avere l’effetto, di per sé e indipendentemente da una legge interna di uno Stato membro adottata per la sua attuazione, di stabilire o di aggravare la responsabilità penale di coloro che agiscono in violazione delle sue disposizioni (sentenze 11.6.1987, in causa 14/86, 26.9.1996, in causa C-168/95 e 7.1.2004, in causa C-60/02). Il fondamento di tale affermazione è stato individuato dalla Corte di giustizia nel principio della legalità della pena, rientrante fra le tradizioni costituzionali comuni degli Stati membri e sancito, oltre che in seno a vari strumenti internazionali (fra gli altri, la CEDU), dalla stessa Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea): tale principio vieta l’interpretazione estensiva di norme penali a sfavore dell’interessato e implica la sottoposizione dell’interpretazione conforme alle direttive nel processo penale a limiti rigorosi (cfr. in tal senso la sentenza 12.12.1996, in cause riunite C-74/95 e C-129/95).

Il principio della certezza del diritto nonché il principio di legalità della fattispecie di reato e della pena risulterebbero gravemente compromessi ove si accedesse alla ipotizzata reviviscenza delle norme contenute negli artt. 2621 e 2622 c.c. nel testo anteriormente vigente. Le perplessità sorgono, in  particolare, su due versanti. In primo luogo, la disapplicazione delle due norme contenute negli articoli del codice civile da ultimo menzionati e la ipotizzata conseguente reviviscenza delle norme precedentemente vigenti non pregiudicherebbe – si deve immaginare – la permanenza in vigore delle restanti parti del d. legis. n. 61 del 2002 e produrrebbe di conseguenza il determinarsi di un anomalo “regime misto” della materia, fondato “a macchia di leopardo” in parte sulla nuova ed in parte sulla vecchia normativa. In secondo luogo, ne deriverebbe una grave violazione del principio che implica la applicazione del trattamento penale più favorevole apportato nei confronti dell’imputato ad opera di norma entrata in vigore in un momento temporale successivo alla commissione dei fatti ascrittigli (art. 2, comma 3 c.p.). Osta tuttavia alla configurazione della automatica reviviscenza delle norme precedentemente vigenti rispetto a quelle ritenute non conformi ai dettami del diritto comunitario la considerazione relativa alla impossibilità di identificare e sovrapporre – a meno di non incorrere in una grave svista giuridica e di dare luogo ad una sorta di strabismo ermeneutico – gli istituti della abrogazione-annullamento da una parte, dotati come è noto di effetti tipici loro propri – e l’istituto della disapplicazione dall’altra, a sua volta tipizzato negli effetti, che tuttavia non possono farsi arbitrariamente coincidere con quelli derivanti dall’abrogazione-annullamento, in particolare per quanto concerne la sopravvivenza della norma disapplicata, che non viene completamente devitalizzata ed entra semmai in un “sonno” giuridico limitato – quanto meno potenzialmente – sia sul versante della applicazione temporale che su quello materiale e del novero dei destinatari della medesima.

Tuttavia, l’argomento che appare decisivo al fine di ritenere improponibile la reviviscenza delle norme abrogate auspicata dall’avvocato generale si fonda sulla considerazione della erosione del principio della applicazione retroattiva della legge penale più favorevole che si produrrebbe in ragione della predetta reviviscenza. Ora, se è vero che gli imputati all’epoca dei fatti contestati non potevano fare affidamento sul fatto che i reati loro ascritti sarebbero stati puniti in modo meno severo rispetto al vecchio art. 2621 c.c. o che non sarebbero stati puniti per nulla, è altresì vero che tale principio, oltre ad essere riconosciuto nella maggior parte degli ordinamenti giuridici degli Stati membri dell’Unione europea, risulta codificato anche in seno a strumenti di diritto comunitario ed internazionale. Il principio della applicazione retroattiva della legge penale più favorevole, corollario del principio della riserva di legge in materia penale proclamato dall’art. 25, c. 2 Cost. (principio oggi contemplato anche dalla Carta di Nizza dei diritti fondamentali dell’Unione europea – art. 49 - e confluito nell’art. II-109 del Trattato costituzionale europeo firmato a Roma il 29 ottobre 2004), deve ritenersi penetrato all’interno dell’ordinamento costituzionale italiano, al di là e oltre la sua esplicita previsione da parte dell’art. 2, comma 3 c.p. e qualora non se ne ritenesse sufficiente la enunciazione ad opera di una norma di legge ordinaria (secondo quanto ritenuto dall’avvocato generale Kokott), attraverso l’art. 7 della Convenzione di Roma per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali del 1950, resa esecutiva in Italia con legge n. 848/1955, nonché attraverso l’art. 15 del Patto internazionale sui diritti civili e politici di New York del 1966, reso esecutivo in Italia con legge n. 881/1977) e, in  forza della copertura costituzionale offerta dagli artt. 10 e 11 Cost. alle norme internazionali in precedenza citate, tale da rivestire un rango ed un ruolo pienamente assimilabile rispetto ai principi supremi dell’ordinamento costituzionale dello Stato, in particolare per quanto concerne i diritti inviolabili dell’uomo. Si è dunque in presenza di una concorrenza fra il principio della applicazione retroattiva della legge penale più favorevole, da una parte, e il principio della primazia del diritto comunitario, la cui copertura costituzionale parimenti si fa risalire all’art. 11 Cost., dall’altra : si tratta peraltro di concorrenza-conflitto destinata a risolversi necessariamente a favore del primo dei principi menzionati in ragione della natura di principio supremo dell’ordinamento (ovvero di corollario applicativo fondamentale di principio  supremo dell’ordinamento quale è la riserva di legge in materia penale). In quanto tale, il principio individuato come prevalente non si presta a tollerare erosioni o ad essere circostanziato in conseguenza dell’operare di norme comunitarie, in particolare se non direttamente applicabili. A tali conclusioni, peraltro, è pervenuta la stessa Corte costituzionale (cfr. sentenze 183/1973, 232/1989, 509/1995) laddove ha ammesso che le limitazioni di cui all’art. 11 (nella direzione del primato del diritto comunitario) non consentono la rinuncia alla applicazione e tutela dei principi fondamentali dell’ordinamento italiano e dei diritti inalienabili della persona (dottrina dei controlimiti alla prevalenza del diritto comunitario) e si è quindi riservata la garanzia del sindacato di costituzionalità sulla legge di autorizzazione del trattato che consentisse la operatività nell’ordinamento italiano di atti comunitari che pongano in pericolo tali principi e garanzie. In tal senso la giurisprudenza costituzionale italiana ha individuato l’esistenza, fra ordinamento comunitario e ordinamento italiano, di un rapporto di separazione e di coordinamento, nel contesto del quale alla evidenziazione del principio della preminenza delle fonti comunitarie in base ad una riserva di competenza a loro favore si accompagna la assegnazione alle fonti comunitarie di rango primario ma non costituzionale (cfr. sentt. 117/1994 e 461/1995), dotate di preferenza rispetto alle fonti nazionali con loro incompatibili ma con l’importante limite della salvaguardia dei principi fondamentali dell’ordinamento e dei diritti inalienabili della persona, essendosi la Corte italiana riservata la competenza a sindacare le leggi di autorizzazione alla ratifica ed esecuzione dei trattati ove tali principi e diritti potessero soffrire un pregiudizio ad opera delle fonti comunitarie abilitate da tali leggi (cfr. in tal senso, oltre alle pronunce precedentemente citate, le sentt. 168/1991 e 115/1993).

Il principio della applicazione retroattiva della legge penale più favorevole quale corollario del principio fondamentale nullum crimen nulla poena sine lege è stato del resto qualificato tale anche dalla giurisprudenza costituzionale laddove ha riconosciuto che “il principio in argomento si pone come superiore principio di civiltà (della stessa civiltà nella quale la nostra Costituzione si inserisce). Quanto al suo contenuto, il principio, identificandosi o collegandosi con quello della tendenziale libertà della persona dalla riprovazione e dalla repressione penali – riservate in definitiva alla legge ordinaria, ma pur sempre soltanto a questa, e non necessariamente finalizzate all’esclusiva protezione dei valori costituzionali e degli stessi valori di civiltà – appresta alla persona stessa una garanzia di copertura dalle (mediante l’attribuzione ad essa di una posizione di indifferenza rispetto alle) vicende di inasprimento della legislazione penale considerate nei loro effetti generali” (sentenza n. 51 del 1985).

Non vale rilevare, a tale proposito, che il principio della applicazione retroattiva della legge penale più favorevole non riveste nella maggior parte degli ordinamenti giuridici rango costituzionale, ma solo di norma ordinaria.

E’ pertanto di tutta evidenza che leggi penali più favorevoli vanno applicate retroattivamente anche quando non siano pienamente conformi al diritto comunitario derivato non direttamente applicabile, come nel caso delle direttive comunitarie, e fino a quando tali direttive non siano divenute oggetto di recepimento in seno al diritto nazionale ovvero fino al momento in cui sia intervenuta una pronuncia di incostituzionalità della Corte costituzionale italiana che riconosca tale assenza di conformità.

L’affermazione dell’avvocato generale secondo la quale dal primato del diritto comunitario deriva che i giudici del rinvio, nei procedimenti penali pendenti, devono osservare il diritto comunitario, nonché in particolare i precetti ed i giudizi di valore del legislatore comunitario che emergono dalle direttive sul diritto societario, appare dunque parziale e priva di una sua proposizione fondamentale e deve quindi essere circostanziata ed integrata nel senso di doversi ritenere sussistente tale obbligo solo se e nella misura in cui le direttive medesime siano state recepite dal legislatore nazionale che abbia provveduto, in sede di esercizio della propria piena sovranità politica, a declinare e a tradurre tali giudizi di valore in norme nazionali direttamente ed immediatamente vincolanti.

Si deve inoltre aggiungere che l’obbligo del giudice nazionale di applicare il proprio diritto nazionale quanto più possibile alla luce della lettera e dello scopo della direttiva per conseguire il risultato perseguito dalla medesima e conformarsi pertanto all’art. 189, comma 3 del Trattato comunitario, è stato circostanziato ad opera della stessa giurisprudenza comunitaria laddove ha ammesso che tale interpretazione incontra i suoi limiti in particolare nel caso in cui la stessa abbia l’effetto di determinare o aggravare, in base alla direttiva ed indipendentemente da una legge adottata per la sua attuazione, la responsabilità penale di coloro che agiscono in violazione delle sue disposizioni (Corte di giustizia, sentenza 8.10.1987, in causa 80/86, Kolpinghuis Njimegen, in Raccolta, p. 3969, punto 13).

L’applicazione da parte del giudice italiano delle norme nazionali di nuova formulazione in ossequio ai principi comunitari non potrebbe comunque avvenire che con riferimento a fatti commessi dopo l’entrata in vigore delle norme medesime. Si tratta, in altri termini, di ricondurre tale fattispecie alla sua giusta dimensione, che è quella di un normale ed ordinario rapporto di successione temporale fra norme nazionali (delle quali l’una originariamente non conforme al diritto comunitario, l’altra forgiata dal legislatore nazionale in linea con i precetti comunitari), una relazione, in altri termini, fra I) le norme attualmente vigenti che, sebbene (eventualmente) non ottemperanti ai precetti comunitari, sono tuttavia destinate a rimanere in vigore fino al momento della entrata in vigore delle II) norme predisposte dal legislatore italiano in ottemperanza agli obblighi comunitari ed in conformità alla interpretazione fornita dalla Corte di giustizia europea della portata da attribuirsi alle norme comunitarie ovvero in seguito ad una pronuncia di incostituzionalità della Corte costituzionale italiana della normativa precedentemente vigente.

Quale norma dovrà dunque applicarsi all’imputato nei confronti del quale sia stata esercitata l’azione penale medio tempore, ossia durante la permanenza in vigore delle norme nazionali non (pienamente) ottemperanti agli obblighi comunitari e tuttavia più favorevoli all’imputato rispetto alla disciplina previgente della medesima materia (e in attesa della pronuncia interpretativa della Corte di giustizia nonché dell’imprescindibile intervento riformatore-adeguatore del legislatore nazionale)? L’applicazione delle norme penali più favorevoli sembra imporsi in forza del principio di cui all’art. 2, comma 3 c.p. : con riferimento specifico alle fattispecie rese oggetto di indagine in questa sede, si deve pertanto ritenere che agli imputati accusati della commissione di fatti risalenti all’epoca della vigenza del vecchio testo degli artt. 2621 e 2622 c.c. si debba oggi applicare la nuova disciplina scaturente dal testo novellato delle norme da ultimo menzionate in quanto norme penali più favorevoli; si dovrà inoltre ritenere che tale norma accompagni lo svolgimento del processo nella sua interezza e fino alla sua conclusione, e debba ispirare la decisione del giudice quale unico criterio di riferimento. In conclusione, la applicazione della norma successiva più sfavorevole, concepita dal legislatore in ottemperanza agli obblighi comunitari quali declinati da pronuncia interpretativa della Corte di giustizia, non potrà dunque avvenire a carico dell’imputato medesimo in ragione del divieto di applicazione retroattiva delle norme penali (sfavorevoli).

 

2. – Se concentriamo in particolare la nostra attenzione sui rimedi giurisdizionali di cui dispone l’ordinamento comunitario al fine di accertare ed eventualmente eliminare le violazioni degli obblighi di tutela penale configurati dal medesimo, ed abbiamo cura di porre tali rimedi in correlazione con il ruolo e le funzioni ascrivibili al sistema di giustizia costituzionale nell’ordinamento interno, cercando di intercettare in modo corretto la dialettica capace di instaurarsi fra i due sistemi, non mancheranno di emergere conferme a favore della ricostruzione in precedenza proposta.

I due rimedi che il Trattato comunitario offre ai fini descritti devono identificarsi con il procedimento disciplinato dagli artt. 226-228 del Trattato (ricorso in infrazione) e con la procedura disciplinata dall’art. 234 del Trattato medesimo (ricorso attraverso il rinvio pregiudiziale), che – è bene sottolinearlo - dispiegano effetti diversi e comunque non direttamente incidenti sulla sorte delle norme nazionali configgenti con le norme comunitarie.

Nel primo dei ricorsi menzionati la Corte di giustizia accerta in sede giurisdizionale l’inadempimento agli obblighi comunitari posto in essere dal legislatore nazionale, ma non può indurre lo Stato membro ad adottare un provvedimento normativo di (corretta) attuazione del diritto comunitario e tanto meno può procedere all’annullamento delle norme interne configgenti con il medesimo. In questo primo caso, essendo la scelta dei giusti mezzi di esecuzione degli obblighi internazionali rimessa alla libertà degli Stati, l’adempimento dell’obbligo di adeguamento della normativa interna ai contenuti della sentenza comunitaria dipende in ultima istanza dalla buona volontà dello Stato membro. In particolare, nel caso in cui dalla sentenza comunitaria possano derivare conseguenze penali in malam partem, il giudice nazionale non può disapplicare le norme nazionali configgenti con il diritto comunitario in quanto le norme (comunitarie) oggetto di violazione risultano sprovviste del requisito della diretta applicabilità. A fronte della “latitanza” del legislatore nazionale che persista nella propria attitudine omissiva  l’ordinamento comunitario potrà unicamente avvalersi di una seconda procedura di infrazione, che la Corte di giustizia potrà concludere con una sentenza dichiarativa della violazione del diritto comunitario che ribadirà l’obbligo a carico dello Stato di adottare i provvedimenti resi impliciti dalla esecuzione della precedente sentenza comunitaria e condannerà lo Stato membro facendo insorgere nei confronti del medesimo una obbligazione pecuniaria. Sul piano squisitamente giuridico, il sistema si arresta a questo punto e non va oltre.

Nel secondo dei casi menzionati – il ricorso in via pregiudiziale – la Corte di giustizia interpreta il diritto comunitario ed offre ai giudici nazionali i criteri da seguire ai fini della corretta applicazione del medesimo in seno all’ordinamento nazionale. La sentenza della Corte comunitaria non risulta in ogni caso direttamente applicabile, essendo tale effetto riconoscibile solo in capo alle sole pronunce interpretative di disposizioni comunitarie direttamente applicabili ovvero che riconoscano diritti in capo ai singoli in funzione di limite alla potestà punitiva dello Stato (tale caratteristica non è propria della direttiva 68/151 in materia di diritto societario). In questo caso il giudice nazionale disapplica il diritto interno – originario o sopravvenuto – ed applica il diritto comunitario provvisto della caratteristica della diretta applicabilità; diversamente, nel caso che ci riguarda e qui in analisi, ove derivino effetti penali in malam partem, il giudice nazionale non può disapplicare la normativa nazionale contrastante con il diritto comunitario. Ancora una volta deve ritenersi che il rapporto di tensione che viene ad instaurarsi fra l’obbligo di interpretazione conforme al diritto comunitario e l’obbligo di interpretazione conforme alla Costituzione – entrambi gravanti sul giudice nazionale - debba risolversi nel caso di specie a favore del secondo dei principi menzionati (principio espresso in seno alla sentenza della Corte costituzionale n. 356 del 1996). In questo secondo caso, il giudice nazionale non potrà dare seguito agli obblighi comunitari a pena di violazione del principio costituzionale della riserva di legge; incombendo contestualmente sul giudice interno, in quanto “autorità nazionale che deve adottare tutti i provvedimenti atti a garantire l’adempimento dei precetti comunitari” (Corte di giustizia, sentenza Mearlising del 13.11.1990, in causa C- 106/89), l’obbligo di sottoporre il quesito di legittimità costituzionale al sindacato della Corte costituzionale adducendo la violazione dell’art. 11 della Costituzione (parametro diretto della questione di costituzionalità) con riferimento alla norma comunitaria (parametro interposto) contenente l’obbligo di tutela nel senso chiarito dalla Corte di giustizia. Nella ipotesi qui oggetto di considerazione deve inoltre sottolinearsi che, anche nel caso in cui la Corte costituzionale ritenga fondata la questione di “legittimità comunitaria”, gli effetti della pronuncia costituzionale non potrebbero comunque prodursi in malam partem (se non “nell’unica direzione della caducazione di limiti palesemente ingiustificati alla corretta espansione di norme incriminatici, già autonomamente vigenti per la generalità dei cittadini, nei confronti di soggetti arbitrariamente privilegiati”): l’intervento manipolativo che ne deriverebbe risulterebbe infatti capace di creare “effetti concreti di nuova, più grave ed irragionevole disparità sanzionatoria in relazione alle restanti ipotesi di reato”; la censura di globale inadeguatezza della disciplina sottoposta a sindacato di costituzionalità si configurerebbe d’altra parte inammissibile in quanto si tradurrebbe in una istanza di intervento in malam partem in violazione del principio della riserva di legge in materia penale sancito dall’art. 25, comma 2 Cost.; la sentenza costituzionale che giungesse a dichiarare la illegittimità costituzionale “comunitaria” della normativa sottoposta a controllo non potrebbe infine determinare la reviviscenza della normativa precedentemente vigente, in quanto “vanificherebbe tutte le scelte del legislatore in materia di ridefinizione delle figure di reato, implicando un riassetto di tutto il sistema penale in  materia, secondo una linea criminale diversa da quella adottata dalla legge” (cfr. sentenza Corte cost. n. 49 del 2002). A tale conclusione sembra doversi pervenire anche in considerazione della impossibilità di aderire ad una concezione rigida ed unidirezionale della relazione, sul versante del sistema delle fonti, fra norme costituzionali e trattati comunitari, che – come si visto in precedenza - non sembra doversi e potersi improntare, pur alla luce del combinato disposto degli art. 11 e 117 Cost., alla meccanica affermazione del principio della primazia del diritto comunitario e che è ben lungi dal rappresentare una garanzia di automatica declaratoria di incostituzionalità nei confronti delle norme nazionali che non si conformino agli atti comunitari non direttamente applicabili.

 

3.- Il seguito che la sentenza della Corte di giustizia – che sarà resa in sede di ricorso pregiudiziale con riferimento alla interpretazione della normativa comunitaria in relazione agli artt. 2621 e 2622 c.c. - troverà in seno all’ordinamento italiano non potrà non risultare in larga misura condizionato dalla pronuncia intervenuta medio tempore in materia ad opera della Corte costituzionale italiana (sentenza 26 maggio – 1 giugno 2004, n. 161).

Si tratta infatti di una pronuncia solo apparentemente dichiarativa della manifesta inammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale sottopostele dai giudici del rinvio. Certo, la Corte ribadisce il proprio self restraint di fronte alla invocazione di pronuncia alla cui adozione “osta, tuttavia, il secondo comma dell’art. 25 Cost., il quale — per costante giurisprudenza di questa Corte [il riferimento è in particolare alle sentenze n. 49 del 2002; n. 183, n. 508 e n. 580 del 2000; n. 411 del 1995, n.d.r.] — nell’affermare il principio secondo cui nessuno può essere punito se non in forza di una legge entrata in vigore prima del fatto commesso, esclude che la Corte costituzionale possa introdurre in via additiva nuovi reati o che l’effetto di una sua sentenza possa essere quello di ampliare o aggravare figure di reato già esistenti, trattandosi di interventi riservati in via esclusiva alla discrezionalità del legislatore”.

Contrariamente a quanto sostiene il giudice a quo, non vale richiamarsi in senso opposto, ad avviso della Corte, all’orientamento che ha ritenuto suscettibili di sindacato di costituzionalità, anche in malam partem, le c.d. norme penali di favore: ossia le norme che stabiliscano, per determinati soggetti o ipotesi, un trattamento penalistico più favorevole di quello che risulterebbe dall’applicazione di norme generali o comuni (il riferimento è, tra le altre, alle sentenze n. 25 del 1994; n. 167 e n. 194 del 1993; n. 148 del 1983). “Orientamento, questo, fondato — quanto all’esigenza di rispetto del principio di legalità — essenzialmente sul rilievo che l’eventuale ablazione della norma di favore si limita a riportare la fattispecie già oggetto di ingiustificato trattamento derogatorio alla norma generale, dettata dallo stesso legislatore (fermo restando, altresì, il divieto di applicazione retroattiva del regime penale più severo ai fatti commessi sotto il vigore della norma di favore rimossa)”.

La “valutazione legislativa in termini di “meritevolezza” ovvero di “bisogno” di pena, idonea a caratterizzare una precisa scelta politico-criminale”, pur potendo presentare “più o meno ampi margini di opinabilità, avuto riguardo alla natura degli interessi coinvolti ed agli effetti indotti dalla concreta architettura delle soglie di punibilità a carattere percentuale”, resta pur sempre una scelta sottratta al sindacato della Corte, “la quale non potrebbe, senza esorbitare dai propri compiti ed invadere il campo riservato dall’art. 25, secondo comma, Cost. al legislatore, sovrapporre ad essa — tramite l’intervento ablativo invocato — una diversa strategia di criminalizzazione, volta ad ampliare l’area di operatività della sanzione prevista dalla norma incriminatrice”.

In tal senso, giova ripeterlo, la sentenza n. 161 del 2004 si pone in un solco di continuità rispetto alla precedente dottrina del giudice delle leggi. Si tratta tuttavia, per altro verso, come si è anticipato, di pronuncia che sembra spingersi oltre offrendo criteri interpretativi della vigente disciplina contenuta negli artt. 2621 e 2622 c.c. che non potranno non venire in rilievo nell’ambito delle prossime “puntate” della vicenda.

La Corte costituzionale evidenzia infatti, da un lato, le lacune delle ordinanze di rimessione dei giudici a quo in punto di motivazione sulla rilevanza, che determinano l’inammissibilità delle questioni. Analoga inammissibilità, tuttavia, viene motivata dalla Corte anche sulla base dall’assunto secondo il quale “il giudice a quo — nel dolersi del fatto che le norme impugnate abbiano modificato il regime anteriore delle false comunicazioni sociali in punto di prescrizione, in maniera tale da rendere praticamente impossibile l’esaurimento delle attività processuali prima dell’estinzione del reato — chiede (…) a questa Corte di sottoporre la figura contravvenzionale di cui all’art. 2621 cod. civ. ad un termine di prescrizione diverso e più lungo rispetto a quello stabilito per la generalità delle contravvenzioni punite con l’arresto dall’art. 157, primo comma, numero 5), cod. pen., e coincidente, in specie, con il termine di prescrizione dell’abrogata fattispecie delittuosa già prevista dall’originario art. 2621, numero 1), cod. civ.”

La soluzione auspicata — segnala la Corte – “lungi dal potersi considerare costituzionalmente obbligata, nella stessa prospettiva del rimettente — avrebbe carattere non solo spiccatamente “creativo”, ma addirittura totalmente “eccentrico”, in una cornice di sistema. Tale soluzione implicherebbe difatti una frattura, extra ordinem, tra natura dell’illecito e regime della prescrizione, attraverso la quale il “declassamento” delle false comunicazioni sociali da delitto a contravvenzione (in assenza del danno patrimoniale per i soci o i creditori), attuato dalla riforma del 2002, si accompagnerebbe al mantenimento, per la nuova ipotesi contravvenzionale, del termine di prescrizione già proprio del delitto”. La riduzione del termine di prescrizione deve piuttosto configurarsi quale “conseguenza ‘naturale’ dell’opzione, fatta ‘a monte’ dal legislatore, per il modulo contravvenzionale: ed è questa opzione che assume, semmai, una valenza derogatoria rispetto alle linee generali del sistema sanzionatorio, tenuto conto sia delle particolari e complesse note di disvalore che contrassegnano la condotta costitutiva del reato in parola; sia del fatto che esso richiede un dolo intenzionale-specifico a contenuto plurimo (animus decipiendi et lucrandi)”.

La parziale (con riferimento ai riflessi sui termini di prescrizione) neutralizzazione della scelta derogatoria “a monte” (adozione dello schema contravvenzionale per un fatto che presenta i tratti ordinariamente propri del delitto) tramite una pronuncia della Corte tale da introdurre una anomalia “a valle” (applicazione ad una contravvenzione del termine di prescrizione valevole per un delitto ormai abrogato), è intervento che, secondo la Corte, “certamente esorbita dai limiti del sindacato di costituzionalità”.

Analoghe considerazioni vengono svolte dalla Consulta in merito alle censure sollevate con riferimento alle soglie di punibilità a carattere percentuale, “finalizzate ad ottenere una pronuncia che — tramite la rimozione delle soglie stesse — estenda l’ambito di applicazione della norma incriminatrice di cui all’art. 2621 cod. civ. a fatti che attualmente non vi sono compresi”. La errata riconduzione delle soglie di punibilità contemplate dall’art. 2621 c.c. alla categoria delle norme penali di favore – assunto che legittimerebbe la configurazione della sottoponibilità a sindacato di costituzionalità delle norme che stabiliscano, per determinati soggetti o ipotesi, un trattamento penalistico più favorevole di quello che risulterebbe dall’applicazione di norme generali o comuni – è ragionamento che – ad avviso della Corte – “porta invero a confondere le norme penali di favore con gli elementi di selezione dei fatti meritevoli di pena che il legislatore ritenga di introdurre in sede di descrizione della fattispecie astratta, nell’esercizio di scelte discrezionali “primarie” di politica criminale, di sua esclusiva spettanza”.

In conclusione, se i rilievi e le osservazioni della signora Kokott assomigliano più ad una “requisitoria” di un pubblico ministero piuttosto che alle conclusioni di un avvocato generale presso la Corte di giustizia, e sembrano eccessivamente proiettate alla questione di merito sottostante alla causa del rinvio piuttosto che a quella interpretativa delle norme comunitarie, fino a fare apparire la soluzione della seconda strumentalmente finalizzata ad una sorta di decisione anticipata della prima già in sede comunitaria, la posizione della Corte costituzionale si propone come un misto di cautela e di fermezza, non tralasciando di fissare alcuni punti fermi cui il legislatore nazionale futuro potrà utilmente appellarsi e rispetto ai quali potrà decidere di non arretrare di fronte alle pretese comunitarie, se e quando emergerà la necessità di conformarsi ai criteri ermeneutici delle direttive comunitarie indicati dalla Corte di giustizia in sede di ricorso del rinvio pregiudiziale ad essa sottoposto.