Francesco Marone

La dinamica processuale e gli effetti delle decisioni nei giudizi di legittimità costituzionale in via principale

 

versione provvisoriai

 

1. Cenni introduttivi: il difficile adattamento dei principi processuali generali ai giudizi co­stituzionali

 

Autorevole dottrina, nel rispondere all’interrogativo se si possa o meno parlare di diritto processuale costituzionale, afferma: «diritto processuale, si, ma sui generis (anzi: molto sui generis), che comprenda in sé pluralità di prospettive, da ricostruirsi at­torno a beni giuridici plurimi. Un diritto processuale capace di comprendere le ragioni non sempre coincidenti della tutela soggettiva dei diritti costituzionali ma anche le ragioni della tutela oggettiva della Costituzione»[1].

In questo passo sembra sintetizzata la forte caratterizzazione dei giudizi costitu­zio­nali, che necessariamente si riflette sulla configurazione della disciplina proces­suale, in ordine alla quale la pluralità delle fonti di disciplina in uno con la speci­ficità del giudizio costituzionale contribuiscono ad assegnare alla giurispru­denza della Corte un ruolo di assoluta rilevanza.

È noto che sui giudizi costituzionali influisce il tipo di funzioni che la Corte è chiamata a svolgere nel sistema; funzioni che, come da più parti sottoli­neato, la collo­cano in una sorta di interstizio tra la giurisdizione e la poli­tica[2]. A ciò si ag­giunga che l’essenzialità e la genericità della disciplina positiva dei giu­dizi costitu­zionali si presta ad interpretazioni diverse se non, in certi casi, con­traddit­torie. Questi elementi sono valsi «a giu­stificare ed a valorizzare l’ap­porto dato dalla stessa giuri­sprudenza alla identifi­cazione (ed in certi casi alla vera e pro­pria crea­zione) della di­sciplina proces­suale»[3].

Proprio il carattere peculiare dei giudizi costituzionali comporta la ne­cessità che le categorie processuali generali siano modellate dalla giurisprudenza costi­tuzio­nale in modo da renderle compatibili con il ruolo che la Corte assume nel si­stema e con la finalità dei suoi giudizi.

Dall’esame della giurisprudenza costituzionale emerge, com’è noto, un’applicazione dei principi processuali che non sempre offre linee chiare e pre­cise, bensì anche notevoli oscillazioni. Questa tendenza si riscontra anche nei giu­dizi in via principale, nei quali, per la verità, le soluzioni processuali “peculiari” consentono un’osservazione forse privilegiata del pro­cesso costituzionale con ri­ferimento alle finalità che il Giudice costituzionale ri­tiene di conseguire

Al riguardo è consentito, così, operare delle distinzioni che offrono un panorama più articolato del modo di raccordarsi fra la dinamica processuale  e le decisioni che la Corte assume.

 

2. Ipotesi di scelte processuali che non sembrano connesse ad esigenze di sistema

 

Vi sono ipotesi nelle quali, invero, la non rigorosa e pertanto criticata, scelta pro­cessuale non riesce ad essere colta nel suo modo di collegarsi a finalità specifiche o ad esigenze di sistema ben definite.

Si ricordano, a titolo di esempio, la qualificazione del termine di costitu­zione in giudizio della parte resistente come perentorio o il regime delle notifica­zioni, in ordine al quale la Corte ritiene inammissibili i ricorsi notificati presso l’Avvocatura Generale dello Stato.

Sul primo punto, la giurisprudenza costituzionale, com’è noto, è costante nell’affermare che tutti i termini processuali del giudizio principale debbano con­siderarsi come perentori[4]; con specifico riferimento al ter­mine di costituzione in giudizio della parte resi­stente, però, l’analisi della giuri­sprudenza costituzionale rivela la mancanza di una sen­tenza “pilota” cui le deci­sioni successive facciano rinvio. La Corte ha motivato le sue deci­sioni sulla pe­rentorietà del temine di co­stituzione attraverso il richiamo ai suoi precedenti sul punto, dai quali non emerge alcuna motivazione specifica riguardante la natura del temine. Paradig­matica in questo senso è la sentenza 7 ottobre 2003, n. 307[5]; in questa decisione, in­fatti, la Corte costituzionale ha dichiarato inammissibile la co­sti­tuzione in giu­dizio della Re­gione Campania e della Regione Puglia perché in­terve­nuta ol­tre il termine di venti giorni previ­sto dall’art. 23 delle Norme integra­tive, af­fermando che i termini di costitu­zione in giudizio devono essere conside­rati peren­tori.

La motivazione della sentenza si limita a ri­chiamare due pre­cedenti deci­sioni[6] dalle quali si ricave­rebbe un consoli­dato orienta­mento sul punto. In re­altà, però, nelle deci­sioni pre­ce­denti non è dato rinvenire indica­zioni chiare nel senso indi­cato dalla Corte.

Dalla rico­struzione del percorso giurisprudenziale emerge la man­canza di un precedente in tema di perentorietà del termine di co­sti­tuzione in giu­di­zio del resi­stente[7]. La ratio cui è collegato il riconoscimento della perento­rietà dei ter­mini è, in­fatti, quella di salvaguardare l’interesse pubblico a che le si­tua­zioni di ille­gitti­mità costituzionale siano ri­mosse il più rapi­damente possibile; ciò eviden­temente giustifica il configurare peren­tori i termini per ricorrere e per de­posi­tare il ri­corso, che possono effettivamente incidere sui tempi processuali.

Diversamente, l’interesse pubblico alla rapida definizione dei giudizi non sa­rebbe cer­ta­mente leso dalla non perentorietà del termine di costituzione del resistente.

D’altra parte, nel giudizio amministrativo, alle cui regole la legge 87/53 fa rinvio per in­tegrare la disciplina processuale costituzionale, il termine di costitu­zione in giudizio della parte resistente è pacificamente considerato ordinatorio, proprio per la sua non at­titudine ad incidere sui tempi di definizione delle contro­versie. L’orientamento della Corte non offre, dunque, argomenti per una ri­costru­zione appagante. E ciò è dimostrato dalla cir­costanza che le deci­sioni sono sem­pre mo­tivate attraverso il rin­vio a prece­denti pronunce, senza che, ripercor­rendo a ri­troso la giuri­sprudenza costituzionale, sia dato indi­viduare quale sia la ratio giu­stificatrice della diversa con­figurazione della natura del ter­mine di costituzione in questi giudizi rispetto al pro­cesso ammini­strativo.

Non sembra suffi­ciente il rinvio a decisioni che riguardano la sospensione fe­riale dei termini processuali, la cui esclusione nei giudizi co­stituzionali appare pie­na­mente giustificata dall’esigenza di celerità nella risoluzione delle questioni, o alla natura del termine per ricor­rere, la cui perentorietà è anch’essa pienamente coe­rente con l’esigenza pubblicistica di ri­muovere il più rapidamente possibile le si­tuazioni di il­legittimità costituzionale. È facile ve­dere come le stesse argomenta­zioni non val­gano a giu­stificare la perentorietà del ter­mine di costituzione in giu­dizio della parte resistente.

Parimenti evidente appare la mancanza di una convincente giustificazione con ri­feri­mento al re­gime delle notificazioni nei giudizi costituzionali in ordine ai quali l’orientamento della Corte è costante nel ritenere che non si applichino le disposi­zioni di legge alla stregua delle quali i ri­corsi avverso gli organi dello Stato vanno notifi­cati presso l’Avvocatura generale dello Stato, poiché «quando la legge prevede il co­siddetto inter­vento del Presidente del Consiglio dei mi­nistri, legittimato attivamente o passivamente, essa vi ravvisa non il capo di una amministra­zione, ma il rappresentante dello Stato inteso come ordinamento unitario»[8]. La scelta sa­rebbe giustificata inoltre dall’argomento secondo cui l’art. 35 della legge n. 87 del 1953, nella parte in cui prescrive la noti­ficazione del ricorso ex art. 127 Cost. al Presidente del Consiglio dei ministri ed ai Presidenti delle due Camere, fa riferimento non già ad organi di vertice di un ramo della pubblica amministrazione, chiamati in causa in quanto titolari di inte­ressi in con­flitto, ma «come rappresentanti degli organi investiti di sfere di attribuzioni, rispetto alla de­limitazione delle quali possono sorgere le questioni, la cui soluzione è affi­data alla Corte co­stituzionale»[9].

Questa impostazione è stata oggetto di critiche da parte della dottrina già in sede di primo com­mento[10] non ritenendosi condivisibile la esclusione della applica­zione della legge n. 260 del 1958 ai giudizi costituzionali. Si è sostenuto, infatti, che l’art. 20, ultimo comma, della legge n. 87 del 1953 dispone che il Governo, di cui il Presidente del Consiglio dei Ministri dirige, ai sensi dell’art. 95 Cost., la po­litica generale, sia rappre­sentato e di­feso dinanzi alla Corte costituzionale dall’Avvocato generale dello Stato e che questa disposizione non con­sente di fare differenze tra il Governo e le singole amministra­zioni nel senso che solo per que­ste la rappresentanza dell’Avvocatura dello Stato si estenderebbe anche ai giu­dizi co­stituzionali. Con­seguente­mente, essendo anche il Governo rappresentato ex lege dalla Avvocatura erariale, non può non concludersi che an­che per i giudizi costi­tuzionali la notifica del ricorso deve avvenire al Presi­dente del Consiglio dei Mi­nistri presso l’Avvocatura dello Stato[11].

 

3. Ius superveniens costituzionale e giudizi pendenti

 

Un diverso tipo di conclusione si deve prospettare per altre ipotesi in cui il rap­porto tra dinamica processuale ed effetti delle decisioni si caratterizza per la suffi­cientemente chiara ricerca di determinati effetti nel sistema. Ciò è da dirsi, ad esempio, per lo ius superveniens costituzionale, laddove le soluzioni processuali che la Corte costituzionale ha adottato all’indomani dell’entrata in vi­gore del nuovo Titolo V della Costituzione paiono tese a trovare un contempera­mento tra la tutela dell’autonomia regionale da un lato, e il potere del Governo di attivare il controllo sulla legge regionale dall’altro.

Che la questione fosse delicata è apparso immediatamente chiaro, laddove la Corte, subito dopo l’entrata in vigore della legge costituzionale n. 3 del 2001, ha cancellato dal ruolo di udienza i giudizi che, in qualche modo, riguar­davano le Regioni[12].

Non rilevando, ai nostri fini, quali siano le soluzioni adottate dalla Corte per i giudizi inci­dentali e per i conflitti di attribuzioni, si limita l’osservazione all’impugnativa statale di legge regionale ed a quella di legge dello Stato da parte delle Regioni, che, com’è noto, hanno tro­vato nella giurisprudenza costituzionale soluzioni differenti.

Per i casi di ricorsi statali avverso leggi regionali antecedenti l’entrata in vigore della riforma, e dunque proposti avverso una delibera legislativa non ancora en­trata in vigore, la Corte co­stituzionale, con la sentenza n. 17 del 2002[13], ha chiarito che lo ius superveniens costituzionale ha rilievo tanto sul piano sostanziale quanto sul piano processuale, ritenendo però preminente questo secondo aspetto, poiché la radicale modifica delle modalità di impugnazione di una legge regionale non è compatibile con una decisione del Giudice costituzionale che trae ori­gine da un ricorso proposto in un diverso quadro normativo costituzionale.

Più chiaramente, si legge nella motivazione della sentenza 17/2002 che la nuova disciplina costitu­zionale, «avendo espunto dall’ordinamento la sequenza procedimen­tale del rinvio gover­nativo, della riapprovazione della legge regionale, a maggioranza as­soluta dei componenti del Consiglio regionale, e del successivo ricorso innanzi a questa Corte, impedisce che il presente giudizio possa aver ulteriore seguito, non essendo più previsto che la Corte stessa eserciti il sindacato di costituzionalità sulla delibera legislativa regionale prima che quest’ultima sia stata pro­mulgata e pubblicata e, quindi, sia divenuta legge in senso pro­prio». Il ricorso deve quindi dichiararsi improcedibile[14], ferma re­stando la possibi­lità per il Presidente del Consiglio dei Mini­stri di proporre ri­corso entro sessanta giorni dalla pubblicazione della legge regionale, ai sensi del nuovo testo dell’art. 127 della Costituzione.

La tesi della Corte costituzionale è, in sintesi, quella di ritenere che, in ragione della interve­nuta riforma costituzionale, la legge regionale debba essere promul­gata e pubblicata e, solo dopo, sarà possibile l’eventuale controllo[15] da parte del Go­verno attraverso l’impugnativa suc­cessiva della legge.

Questa soluzione è stata oggetto di analisi da parte della dottrina, che ha ipotiz­zato anche la possibilità di percorrere altre vie.

Si è osservato che la modifica dell’art. 127 Cost. rappresenta un’ipotesi di ius su­perveniens di norme processuali, in ordine alle quali, com’è noto, l’applicazione del principio tempus regit actum deve essere particolarmente rigida, dovendosi ri­tenere salve tutte le fasi processuali già concluse e potendosi al più discutere se le fasi successive del processo debbano essere rego­late dalle norme nuove o da quelle vigenti al momento dell’instaurazione del giudizio[16].

In quest’ordine di idee il giudizio dovrebbe ritenersi correttamente incardinato e svolgersi sino alla sua conclusione come un giudizio di legittimità preventivo. Questa impostazione è ulte­riormente giustificata dalla considerazione secondo cui non potrebbe leggersi la nuova for­mulazione dell’art. 127 nel senso di fondare un diritto della Regione a promulgare la legge preventivamente impugnata, poi­ché questa eventualità ri­sultava espressamente esclusa dalla norma costituzionale previgente e non risulta ricavabile neppure implicitamente dal nuovo quadro normativo. Infine, sul piano sostanziale, la decisione dovrebbe fondarsi sul nuovo pa­rametro costituzionale, essendo la legge destinata ad essere pubblicata nel vi­gore delle nuove norme co­stituzionali[17].

Sempre con riferimento all’impugnativa statale di legge regionale, ci si è chiesti come mai la Corte non abbia pensato ad una pronuncia di cessazione della mate­ria del contendere, come di norma si è fatto in caso di ius superveniens legi­slativo, e quali vantaggi vi siano stati nell’utilizzare invece la categoria dell’improcedibilità[18].

Le ragioni che si ipotizza possano aver suggerito alla Corte di optare per l’improcedibilità del ricorso sono due, l’una inerente la posizione della Regione, l’altra quella del Go­verno. In presenza di una pronuncia di cessa­zione della mate­ria del contendere sarebbe stato ipotizzabile ritenere che la delibera legisla­tiva impu­gnata non fosse idonea ad essere promulgata e pubblicata, dovendosi quindi riatti­vare l’intero procedimento legislativo per disciplinare la materia oggetto della delibera impu­gnata, il che avrebbe evidentemente creato un vulnus per l’autonomia regionale, in controten­denza rispetto ad una riforma volta invece ad ampliare la sfera di autonomia delle Regioni. Viceversa si sarebbe potuto ipotiz­zare che la delibera legislativa dovesse considerarsi passi­bile di essere promul­gata e pubblicata im­mediatamente, essendo venuto meno il sistema di controllo preventivo, ma in questo caso la dichiarazione di cessazione della materia del con­tendere avrebbe potuto far credere che il Governo non avesse più la possibilità di impugnare la legge, che sarebbe quindi risultata del tutto sottratta al controllo della Corte, quantomeno in sede di giudizio principale.

Si è cercata, dunque, una soluzione che non pregiudicasse né l’autonomia re­gio­nale, né la possibilità per il Governo di esercitare il controllo sulla legge[19].

Seppur qualche critica alla soluzione adottata dalla Corte costituzionale vi è stata[20], sembra che il giudizio complessivo debba essere positivo. Sul piano stretta­mente processuale le solu­zioni più corrette sarebbero forse state altre, ma in un’ottica di sistema la mediazione degli interessi trovata dalla Corte appare, in­vero, equilibrata, poiché non vi è pregiudizio per la sfera di autonomia della Re­gione, che mantiene la disponibilità di intervenire sulla legge non ancora in vi­gore e che, quindi, potrebbe essere emendata dagli eventuali vizi di legittimità, e neppure è limitata la possibilità per lo Stato di impugnare nuovamente la legge una volta pub­blicata, consentendo così la possibilità di «un’ulteriore valutazione sulla persistenza dell’interesse all’impugnativa, essendo plausibile ritenere che l’innovazione costituzionale abbia ampliato gli ambiti dell’intervento della legge regionale e che, conseguentemente, vizi di legittimità astrattamente ipotizzabili alla stregua del vec­chio parametro nei confronti delle delibere legislative adottate potrebbero non più sussi­stere alla luce del nuovo riparto della competenza legislativa»[21].

La vicenda dei giudizi aventi ad oggetto leggi regionali pendenti al momento dell’entrata in vigore della legge costituzionale n. 3 del 2001 ed il modo in cui la Corte ha affrontato e risolto il problema consente qualche osservazione inerente l’oggetto di queste note.

La soluzione adottata, come detto, se non è del tutto esente da critiche sul piano del rigore processuale, sembra tuttavia tener conto di una più complessiva esi­genza di sistema; sembra cioè tesa più che a tracciare linee di indirizzo proces­suale chiare, a cercare un equilibrio fra tutti i problemi in campo. Si approda, in­fatti, ad una scelta processuale tale da garantire l’autonomia regionale, senza però pregiudicare l’esercizio del potere di impugnativa in via principale dello Stato. In qualche modo la dinamica processuale del giudizio appare connessa agli effetti che la decisione dovrà produrre, ritenendosi prevalente la ricerca di soluzioni processuali che garantiscano l’ottenimento di un punto di ragionevole bilancia­mento tra i valori in gioco, anziché il rigido rispetto dei principi proces­suali[22].

Questo dato sembra confermato anche dall’impostazione, diversa, che la Corte ha dato ai ri­corsi regionali pendenti avverso leggi dello Stato. In questo caso, com’è noto, le questioni di legittimità sono state decise nel merito sulla base del para­metro costituzionale previgente, ri­tenendosi che non rilevasse il sopravvenuto mutamento del quadro costituzionale. Più preci­samente, l’esito del giudizio, svolto alla stregua del parametro vigente al momento della pro­posizione del ri­corso, non pregiudica l’ambito delle competenze statali e regionali definito dalle nuove norme costituzionali, non soltanto, com’è ovvio, «nel caso in cui, con l’accoglimento della questione, la legge dello Stato sia annullata e quindi, per così dire, sia azzerata la situazione normativa in contestazione; ma anche nel caso di rigetto della mede­sima, con la permanente vigenza della norma impugnata anche al di là del momento di en­trata in vigore della legge di riforma costituzionale, permanente vigenza che è conse­guenza della ne­cessaria continuità dell’ordinamento giuridico». Di conseguenza le norme contenute nel nuovo testo del Titolo V della Parte II della Costituzione «po­tranno, di norma, trovare applicazione nel giudizio di costituzionalità promosso dallo Stato contro leggi re­gionali e dalle Regioni  contro leggi statali soltanto in riferimento ad atti di esercizio delle rispettive potestà legislative, successivi alla loro nuova definizione costituzionale»[23].

Risulta chiarissimo dalla lettura di questo passo della decisione della Corte, che la scelta di quale soluzione adottare sia stata dettata dall’esigenza, ritenuta preva­lente, di preservare la continuità dell’ordinamento, mantenendo in vigore la nor­mativa sino all’adozione di atti di esercizio della competenza costituzionale da parte dei soggetti legittimati[24].

Anche con riferimento all’impugnativa di leggi statali l’opzione adottata dalla Corte sembra funzionale ad ottenere uno specifico effetto della sua decisione. La Corte, infatti, ha deciso di giu­dicare nel merito le leggi impugnate, ma sulla base del previgente parametro, giustificando la decisione con la considerazione che in questo modo si preserva la continuità dell’ordinamento giuridico, senza pregiu­dicare la possibilità per i soggetti titolari delle com­petenze legislative di eserci­tarle alla stregua del nuovo quadro costituzionale. Si tratta, come si vede, anche in questo caso di una soluzione che pare equilibrata, tenendo conto di entrambe le esigenze in rilievo; la continuità dell’ordinamento da un lato, l’autonomia regio­nale dall’altro, con una individuazione della scelta operata, che appare, però, moti­vata avendo ri­guardo più agli effetti della decisione nel sistema che non allo stretto rigore delle regole pro­cessuali applicabili.

Vuole dirsi, in sintesi, che seppure l’impostazione della Corte sembra compatibile con quanto suggerivano nella fattispecie i principi processuali in materia di ius superveniens, la scelta ap­pare comunque orientata all’ottenimento di determinati effetti, piuttosto che consequenziale ad uno stretto ragionamento processuale[25].

 

4. Il principio di corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato e gli effetti delle decisioni: in particolare la ridefinizione del parametro e la estensione degli effetti di precedenti deci­sioni

 

Elementi coerenti con le osservazioni appena svolte in ordine alle soluzioni indi­viduate dalla Corte in tema di ius superveniens costituzionale, sembrano emergere dal modo in cui il Giu­dice costituzionale fa applicazione del principio di corri­spondenza tra il chiesto e il pronun­ciato. I giudizi di legittimità costituzionale in via di azione sono, com’è noto, giudizi  di parti e giudizi da ricorso, nei quali la definizione del thema decidendum è attribuita all’atto intro­duttivo, che deve indi­care l’atto che si impugna, il parametro ed i vizi che in relazione a que­sto si ritiene siano configurabili, costruendo un percorso motivazionale che consenta la pre­cisa individuazione dei vizi stessi. È nell’alveo, quindi, di questi “paletti” che deve svolgersi il sindacato di legittimità della Corte costituzionale sulla legge oggetto di impugnazione, poi­ché, diversamente, risulterebbe violato il principio di corri­spondenza tra il chiesto e pronun­ciato, con tutte le conseguenze in termini di cor­retta instaurazione del contraddittorio e di ga­ranzia del diritto di difesa che ne derivano.

Dall’esame della giurisprudenza costituzionale emergono, tuttavia, decisioni nelle quali l’applicazione del principio di corrispondenza tra chiesto e pronun­ciato appare quantomeno elastica, in ragione dell’esigenza di assolvere alla fun­zione di garanzia della legalità costitu­zionale dell’ordinamento, che in uno con la struttura di giudizio di parti caratterizza il giudi­zio in via principale.

Tre casi appaiono emblematici di questa tendenza; i primi due (sentenze nn. 48/2003[26] e 173/2004[27]) integrano ipotesi di ridefinizione del parametro indicato in ricorso da parte della Corte costituzionale[28], il terzo (sentenza 324/2003[29]) è una questione decisa senza indicazione del parametro utilizzato e sulla base di “un’ automatica”  applicazione di un precedente.

La sentenza n. 48 del 2003 decide il ricorso proposto dal Governo avverso la legge regionale della Sardegna n. 10 del 2002 (Adempimenti conseguenti alla istituzione di nuove province, norme sugli amministratori locali e modifiche alla legge re­gionale 2 gennaio 1997, n. 4). Attraverso il ri­chiamo all’art. 3 dello Statuto sardo laddove prevede che la potestà legislativa esclusiva re­gionale si eserciti in armo­nia con la Costituzione, il Go­verno eccepisce la violazione dell’art. 117, comma 2, lett. p), della Costituzione che riserva alla pote­stà esclusiva statale la materia “le­gislazione elettorale, organi di governo e fun­zioni fondamentali di Comuni, Pro­vince e Città metropolitane”. Il parametro che si assume violato, dunque, è sol­tanto il comma 2 dell’art. 117 Cost.

La censura prospettata dal Governo viene implicitamente rigettata dalla Corte, poiché in forza dell’art. 10 della legge costituzionale n. 3 del 2001, le disposizioni del nuovo Titolo V della Costituzione si estendono alle Regioni ad autonomia speciale soltanto nei limiti in cui preve­dano condizioni di autonomia più favore­voli e non anche, quindi, nelle ipotesi in cui gli Sta­tuti speciali attribuiscano alla competenza legislativa esclusiva della Regione ambiti materiali che l’art. 117 no­vellato riserva in via esclusiva allo Stato. Consequenziale a questo percorso logico sarebbe stato il rigetto del ricorso del Governo, non essendo riscontrabile una viola­zione del parametro invocato. La Corte costituzionale, invece, «propone una torsione del meccanismo decisionale»[30], accogliendo il ricorso per violazione dell’art. 3 dello Statuto, che nel porre alla potestà legislativa esclusiva della Regione il li­mite dell’armonia con la Costitu­zione e con i principi dell’ordinamento giuridico della Repubblica, impedisce alla legge re­gionale di disporre in ordine alla durata in carica degli organi elettivi locali.

La Corte decide, quindi, sulla base di un parametro di giudizio estraneo al ricorso del Go­verno, nel quale, come detto, l’art. 3 dello Statuto sardo veniva in rilievo soltanto per rico­struire l’eccepita violazione dell’art. 117, comma 2, della Costitu­zione. Andando certamente oltre il “chiesto” del ricorso governativo la sentenza utilizza quale parametro di giudizio il ge­nerico limite dell’armonia con la Costi­tuzione e con i principi dell’ordinamento, leggendovi il divieto per la legge regio­nale di incidere sulla durata in carica degli organi elettivi[31].

Si tratta di una decisione che dal punto di vista della tecnica decisoria «lascia al­quanto inter­detti, soprattutto se letta alla luce delle motivazioni contenute in altre pro­nunce nelle quali, a garanzia della corretta instaurazione del contraddittorio, la stessa aveva mostrato una note­vole intransigenza proprio in ordine al profilo della esatta defini­zione dei termini della que­stione»[32].

La soluzione adottata dalla Corte non appare del tutto esente da critiche sul piano processuale: per poter co­munque decidere nel senso dell’accoglimento un ricorso che, a stretto rigore, andava rigettato, si viola il principio di corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato. Anche in questo caso, sembra quindi rinvenibile un uti­lizzo delle categorie processuali assai elastico, in qualche modo funzionale agli ef­fetti che si vogliono otte­nere nel sistema. Nella specie, evidentemente, il Giudice co­stituzionale ha inteso garantire il valore “autonomia degli organi rap­pre­senta­tivi” degli enti locali sardi. E ciò anche “forzando” un principio pro­ces­suale gene­rale.

Si può così dire che attraverso la “disapplicazione“ di quel principio la Corte ha potuto trovare un ragionevole punto di bilanciamento tra l’esigenza di affermare la competenza esclusiva della Regione Sardegna sulla materia della legislazione elettorale, che il Governo ne­gava, e contestualmente salvaguardare l’esigenza ri­tenuta evidentemente pari­menti rilevante di garan­tire che la durata in carica degli enti locali non fosse «liberamente disponibile da parte della Regione nei casi concreti».

Analoghe considerazioni valgono per il caso di cui alla sentenza n. 173 del 2004. A fronte di un ricorso del Governo con il quale si chiedeva di dichiarare illegit­tima la legge regionale della Toscana n. 35 del 2002, perché attribuiva al difensore civico regionale poteri sostitutivi nei confronti degli enti locali in violazione di va­rie disposizioni degli artt. 114, 117 e 120 della Costituzione, alla stregua delle quali la disciplina del potere sostitutivo sarebbe riservata in via esclusiva allo Stato, la Corte costituzionale accoglie il ricorso affermando che pur es­sendo rin­venibile nell’art. 120 Cost. la possibilità che la legge regionale attribuisca poteri so­stituivi ad organi regionali, deve comunque rispettarsi il principio per cui il potere sostitutivo deve essere affidato ad un organo di governo della Regione e non al difensore civico, sì da tutelare il valore dell’autonomia degli enti locali.

Anche in questa decisione sembra che la Corte costituzionale abbia, in un certo senso, costruito il parametro del suo giudizio, indipendentemente dal ri­corso go­vernativo. E ciò al fine, dichiarato espressamente, di salvaguardare il va­lore della autonomia degli enti locali, che sarebbe leso qualora l’esercizio del po­tere sostitu­tivo fosse affidato ad organi non di governo della Regione, pur affer­mando in termini generali la legit­timità dell’istituzione di meccanismi di sostitu­zione da parte della legge regionale.

Dei tre casi cui si è fatto cenno in apertura di questo paragrafo, il più significativo appare quello deciso con la sentenza n. 324 del 2003.

Il ricorso del Governo ha ad oggetto la legge regionale della Campania n. 9 del 2002 (Norme in materia di comunicazione ed emittenza radiotelevisiva ed istitu­zione del Comitato Regio­nale per le comunicazioni), nella parte in cui stabilisce che la Giunta regio­nale, in assenza di un atto legislativo del Consi­glio, può con regolamento disciplinare “la lo­calizzazione dei siti di trasmissione delle reti pub­bliche per l’emittenza radiotelevisiva e per le telecomunicazioni”. L’Avvocatura erariale sostiene che, rientrando la materia “ordinamento della co­municazione” tra quelle rimesse alla potestà legislativa concorrente, la legge re­gionale avrebbe dovuto rispettare il principio generale della materia di cui all’art. 2, comma 6, L. 249/97, alla stregua del quale spetta all’Autorità per le garanzie nelle comunica­zioni la fun­zione di redigere un piano nazionale, comprendente la localizzazione degli impianti e l’attribuzione dei siti. La legge regionale della Campania sarebbe dunque viziata perché vio­lerebbe, in materia di potestà legi­slativa concorrente, il principio fondamentale posto dalla legge statale secondo cui la localizzazione dei siti spetta all’Autorità per le garanzie nelle co­munica­zioni e non alla Giunta re­gionale, nulla dicendo in ordine alla tipologia dell’atto nor­mativo abilitato ad in­tervenire.

La Corte chiarisce che la ricostruzione della legislazione vigente fatta dall’Avvocatura dello Stato risulta parziale, poiché non tiene conto dell’evoluzione legislativa successiva che ha ricono­sciuto il ruolo delle Regioni con riferimento alla individuazione dei siti di localizzazione degli impianti di ra­diodiffusione; e conclude affermando che «non può escludersi una competenza della legge regionale in materia, che si rivolga alla disciplina di quegli aspetti della localiz­za­zione e dell’attribuzione dei siti di trasmissione che esulino da ciò che risponde propria­mente a quelle esigenze unitarie alla cui tutela sono preordinate le competenze legislative dello Stato nonché le funzioni affidate all’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni».

Sembrerebbe la motivazione di una sentenza interpretativa di ri­getto, ma nono­stante ciò la Corte conclude per l’accoglimento del ricorso e di­chiara l’illegittimità costituzionale della disposizione impugnata dal Governo. Non può, infatti, sfug­gire, afferma la Corte, che la legge impugnata prevede la competenza a discipli­nare la materia con regolamento della Giunta regionale, mentre «una previ­sione del genere contrasta anzitutto con la mancanza di una nuova di­sciplina statutaria relativa al potere regolamentare delle Regioni, in particolare in quanto esso è attribuito alla Giunta regionale, secondo quanto questa Corte ha già affermato (sen­tenza n. 313 del 2003)».

La legge regionale impugnata, dunque, pur essendo stato rigettato l’unico motivo artico­lato nel ricorso statale, viene annullata senza indicazione di quale sia il pa­rametro violato, in ragione di un vizio non eccepito nel ricorso introduttivo, ma in applicazione, potremmo dire automatica, di un precedente, quello della sentenza 313/2003[33], che appare invero difficilmente estensibile, quantomeno nei termini in cui si è fatto con la sentenza in oggetto.

Nella sentenza 313/2003 la Corte aveva deciso nel senso della illegittimità costi­tuzionale di una legge della Regione Lombardia che attribuiva il potere regola­mentare alla Giunta, sul presup­posto che la modifica dell’art. 121 Cost. lasciasse al legislatore regio­nale questo spazio di discre­zionalità. La Corte in quella circo­stanza ha rite­nuto che la modifica dell’art. 121 abbia sol­tanto eliminato la riserva di compe­tenza re­golamentare in capo al Consiglio, senza automati­camente trasfe­rire il po­tere alla Giunta, ma producendo l’unico effetto di consentire alle Regioni di sce­gliere come allocare quel potere, scelta da operarsi a livello statuta­rio. E poi­ché le soluzioni possibili sono più d’una, fino all’intervento di una modi­fica dello Sta­tuto, vale quanto prevede lo Statuto della Lombardia, che, compati­bilmente con il nuovo quadro costituzionale, attribuisce il potere regolamentare al Consi­glio. Per cui una legge regionale che affidi alla Giunta il potere di adottare rego­lamenti in una certa materia ri­sulta illegittima per violazione dello Statuto regio­nale.

Ora, tralasciando le considerazioni in ordine alla possibilità di rite­nere che la norma statutaria lombarda, perfettamente sovrapponibile a quella precedente­mente prevista dall’art. 121 che si è limitata a ripetere pedissa­quamente, non avendo in materia mar­gini di discrezionalità, poteva considerarsi anch’essa abro­gata[34], non v’è dubbio che la deci­sione della Corte sulla legge regio­nale della Cam­pania sia criticabile sul piano processuale.

La Corte ha deciso sulla base di una sua precedente sentenza, senza chiarire quale fosse il pa­rametro, potendosi solo immaginare che si facesse riferimento allo Sta­tuto della Regione Campania, e ben al di là del thema decidendum definito dal ri­corso governativo. È evidente la lesione del principio di corrispondenza tra il chiesto ed il pronunciato, che ha prodotto una chiara compressione del diritto di difesa della Regione resistente, la cui legge è stata annullata alla stregua di un pa­rametro non indicato né dal ricorrente né dalla stessa Corte ed in applica­zione di una precedente decisione della Corte resa in un giudizio di cui non era parte e nel quale, pur volendo, non avrebbe potuto intervenire.

Delle tre decisioni esaminate questa appare quella in cui è più evidente la torsione della dina­mica processuale finalizzata alla produzione di determinati effetti. Sembra, infatti, piuttosto chiaro che la Corte, pur certamente consapevole della non corretta applicazione dei principi processuali, abbia scelto di annullare la legge della Regione Campania, onde evitare che in quella Regione si potesse in­tervenire a disciplinare una materia con regolamenti di Giunta in assenza di una modifica statutaria. Più semplicemente, rispettare il principio di corrispon­denza tra il chiesto e il pronunciato e, conseguentemente,  garantire il diritto di difesa della Regione avrebbe significato sacrificare l’esigenza, evidentemente rile­vante nella fattispe­cie, di preservare la legalità costituzionale dell’ordinamento, esi­genza che imponeva di affer­mare ancora una volta la illegittimità della attribu­zione del potere regolamentare alla Giunta se non attraverso una modifica dello Statuto.

Anche e soprattutto in questo caso la soluzione proposta dalla Corte sembra cor­retta se letta in un’ottica di sistema, poiché, in effetti, una soluzione differente avrebbe consentito l’adozione di regolamenti di Giunta almeno fino ad un even­tuale giudizio incidentale, in controtendenza rispetto alla decisione più generale già assunta dal Giudice delle leggi in argomento (sent. n. 313/2003), ma lascia naturalmente insoddisfatti sul piano del rigore processuale del giudizio costitu­zionale, risultando, come si è notato, probabilmente paradigmatica «della (forse in parte inevitabile) “schizofrenia” che caratterizza il giudizio in via principale: un po’ giu­dizio di parti, a garanzia delle rispettive sfere di competenza, e un po’ giudizio sulla lega­lità co­stituzionale dell’ordinamento»[35].

L’ipotesi dell’annullamento di una legge regionale che abbia contenuto analogo se non identico a quello di leggi di altre Regioni non impugnate dallo Stato o, come nel caso della sentenza 324/2003 impugnata sotto diverso profilo, sembra rappresentare un punto di osservazione privilegiato della tensione fra la intrin­seca rigidità della griglia processuale e gli effetti delle decisioni della Corte, de­putate ad assolvere principalmente alla funzione di preservare la legalità costitu­zionale dell’ordinamento. Sembra, in effetti, difficile conciliare la struttura del giudizio principale quale giudizio di parti con la necessità di eliminare le leggi in­costituzionali nei casi in cui vi siano più leggi regionali di analogo contenuto, non tutte impugnate. In queste ipotesi si corre il rischio che la Corte annulli una legge, ma altre egualmente viziate rimangano in vigore, con problemi piuttosto visibili anche per le Regioni che si trovano a dover applicare una legge sapendo che la Corte la ritiene viziata. Il problema sembra ancor più rilevante se si considera la circostanza che negli ultimi anni il numero dei giudizi principali è cresciuto note­volmente, assumendo quindi un ruolo importante nell’ottica del controllo di co­stituzionalità.

Siamo probabilmente di fronte ad un punto di tensione intrinseco alla natura del giudizio in via di azione, ma forse una soluzione di questi casi un po’ meno lesiva della logia processuale rispetto a quella utilizzata dalla Corte nel caso della sen­tenza 324/2003 potrebbe ipotizzarsi ragionando in termini di illegittimità costitu­zionale consequenziale[36].

Con riferimento ai giudizi in via di azione, pur non riscontrandosi casi espliciti di illegittimità derivata di leggi di altre Regioni, ma soltanto di leggi della stessa Re­gione, pro­babilmente per ragioni connesse al rispetto del principio del contrad­dittorio, le affermazioni della Corte appaiono piuttosto generali e sembrano la­sciare spazio anche alla eventualità di dichiarare la illegittimità consequenziale di legge di altra Regione avente analogo contenuto[37].

Se, dunque, non è astrattamente da escludere la possibilità di applicare la dichia­razione di il­legittimità ex art. 27, comma 2, L. 87/53 anche con riferimento a leggi di altre Regioni, può immaginarsi una soluzione diversa da quella che la Corte ha utilizzato con riferimento alle questioni decise con le sentenze nn. 313 e 324 del 2003, laddove ha sostanzialmente annullato la legge regionale della Campania perché avente contenuto analogo a quella della Lombardia annullata con la pre­cedente decisione.

L’utilizzo della dichiarazione di ille­gittimità consequenziale potrebbe forse offrire in casi ana­loghi una soluzione più equi­librata, consentendo da un lato di far va­lere lo stesso vizio per tutte le leggi regio­nali che ne siano afflitte e dall’altro di non dover piegare la dinamica del processo fino al punto di sacrificare del tutto il contraddittorio.

Il problema della estensione “automatica” del precedente a leggi regionali di enti che non hanno partecipato al giudizio che ha prodotto la sentenza “pilota”, po­trebbe forse risolversi integrando illegittimità consequenziale ed apertura del contraddittorio. Se, infatti, la Corte ammettesse l’intervento in giudizio delle Re­gioni terze rispetto alle parti principali, gli osta­coli alla eventuale dichiarazione di illegittimità consequenziale sarebbero minori. Le Regioni di fronte alla impugna­tiva statale di una legge di altra Regione avente il medesimo contenuto di una propria potrebbero intervenire in giudizio a difendere quella legge, con­sen­tendo così alla Corte di risolvere, una volta per tutte, la questione in contrad­dittorio tra tutti i soggetti interessati, eventualmente annullando tutte le leggi re­gionali af­fette dal medesimo vi­zio.

Nel più volte citato caso dei regolamenti di Giunta, ad esempio, la Corte ha do­vuto sacrificare il rispetto delle regole processuali per eliminare dall’ordinamento una legge regionale della Campania che attribuiva alla Giunta il potere di adot­tare regolamenti, in aperto contrasto con quanto la stessa Corte aveva deciso in ri­ferimento ad una legge della Lombardia. Se avesse seguito la diversa strada di coniugare apertura del contraddittorio ed illegittimità consequen­ziale, avrebbe ottenuto il medesimo risultato senza però una così eclatante compressione del di­ritto di difesa della Regione Campania. Quest’ultima, infatti, avrebbe probabil­mente spie­gato intervento nel giudizio pendente tra lo Stato e la Regione Lom­bardia, difendendo la le­gittimità dell’attribuzione di potere regolamentare alla Giunta in assenza di una modifica sta­tutaria e la Corte costituzionale avrebbe potuto, nel medesimo giudizio, dichiarare la illegitti­mità consequenziale anche della legge campana, con il doppio vantaggio, da un lato di avere la certezza di aver eliminato un’altra norma illegittima, senza dover attendere l’”occasione” in futuro di poterlo fare, e dall’altro di non privare la Regione della possibilità di esercitare pie­namente il diritto di difesa.

 

5. Conclusioni

 

L’esame della giurisprudenza costituzionale sui giudizi in via di azione conferma le difficoltà di adattamento dei principi pro­ces­suali ai giudizi costituzionali, e se­gnala al contempo come in alcuni casi sia rinve­nibile un nesso tra l’articolarsi della dinamica processuale del giudizio di le­gitti­mità co­stituzionale in via d’azione e gli effetti che le decisioni della  Corte co­stitu­zionale producono nel si­stema. Pur non mancando, come visto, casi in cui le posi­zioni processuali assunte dalla Corte co­stituzionale appaiono criticabili senza che sia dato comprendere a quali esigenze di sistema il “sacrificio processuale” si connetta, sem­bra, però, po­tersi scorgere la tendenza a piegare l’interpretazione dei principi proces­suali in ragione della maggiore o minore inci­sività dell’intervento che i Giudici costitu­zionali ritengano di dover porre in es­sere al fine di preservare la legalità costitu­zionale.

Il rinvenirsi di quest’orientamento giurisprudenziale richiama alla mente il noto dibattito dot­trinale relativo alla bilanciabilità delle regole processuali. Si è infatti discusso in dottrina se le disposizioni processuali debbano farsi rientrare nel bi­lanciamento dei valori che di volta in volta vengono in rilievo nel giudizio costi­tuzionale, o non debbano piuttosto costituire la cor­nice all’interno della quale quella attività di bilanciamento si svolge.

Da parte di alcuni, com’è noto, si sostiene che «il processo costituzionale non è la culla delle coe­renze pro­cessuali poiché in esso si celebra una vicenda che riguarda l’effettività del si­stema di go­verno nel suo complesso, e nel quale si sottopone a una sorta di bilanciamento, espresso, tacito o im­plicito, tutto quanto ha rilievo ai fini di un esito ra­gionevole, non importa se processuale o di merito, delle questioni di costituzionalità»[38]. Si sostiene cioè che anche le regole processuali entrano a far parte di un complessivo bilanciamento di valori che mette capo a tutti i fattori, sostanziali o processuali, che abbiano rilievo nel giudizio, sì da ottenere un esito ragionevole della que­stione, sia essa decisa nel merito o con decisone processuale[39].

Altra parte della dottrina esprime invece un’opposta opinione, ritenendo che le regole proces­suali non possano considerarsi un elemento interno al bilanciamento di valori, poiché questo  equivarrebbe, negando la rigidità delle norme del pro­cesso, a togliere alle stesse qualunque reale significato, laddove, invece, un qua­dro chiaro e certo di disposizioni processuali do­vrebbe costituire la cornice all’interno della quale si svolge l’opera di bilanciamento del giu­dice costituzio­nale[40].

Questa seconda impostazione sembra maggiormente condivisibile, in consi­dera­zione del fatto che, come si è notato, l’apporto della giurisprudenza costitu­zionale alla defini­zione della di­sci­plina processuale non può tradursi nella oscil­lazione tra interpreta­zioni spesso diverse delle norme processuali in rapporto alle singole fattispecie sot­toposte all’at­tenzione della Corte, senza che ciò comporti la perdita di valore delle norme stesse. È vero, infatti, che non può ne­garsi un ruolo in qual­che modo creativo alla giurispru­denza costituzionale per le ra­gioni di cui si è detto, ma è altret­tanto vero che una volta indicata una interpretazione delle dispo­sizioni processuali compa­tibile con il tipo di giudizio demandato alla Corte, questa dovrebbe poi essere ri­spettata se non si vuole che le norme processuali perdano la loro funzione peculiare, ovvero quella di rendere prevedi­bile e certo il comportamento del giudice di fronte a situa­zioni tipiz­zate, che è poi la ragione per cui la giurisdizione si esercita nella forma del pro­ces­so.

La cer­tezza delle forme processuali è, infatti, l’unico mezzo per pre­vedere quale sarà il comportamento del giudice in una data situazione, dal che non può pre­scin­dersi se non con rischio di compromissione dei diritti fatti valere in giudi­zio[41], oltre che della perdita di legit­tima­zione del giudice[42].

In quest’ottica, dunque, pur dovendosi riconoscere alla giurisprudenza della Corte un ruolo importante nella costruzione del processo costituzionale, si può sottolineare che sarebbe auspicabile che una volta individuata una linea applica­tiva di una certa regola processuale, questa sia poi rispettata anche in futuro, poi­ché non sembra ipo­tizzabile che le regole processuali pos­sano recedere dinanzi a valori che in un dato mo­mento appaiono premi­nenti, a meno che la Corte non motivi compiutamente le ra­gioni per le quali ritiene di doversi disco­stare da un pre­cedente e consolidato orien­tamento processuale[43]. E ciò in ragione della fun­zione di garanzia cui le forme processuali assolvono; funzione che sembra poco conciliabile con un’armonizzazione caso per caso della singola regola con gli aspetti sostanziali delle singole questioni.



[1] Cfr. G. Zagrebelsky, Diritto processuale costituzionale?, in AA.VV., Giudizio “a quo” e promovimento del processo costituzionale, Milano, 1990

[2] Cfr., per tutti, G. Zagrebelsky, La Giustizia costituzionale, Bologna,  1988, 61 ss.

[3] Così R. Romboli, La Corte costituzionale e il suo processo, in Foro it., 1995, I, 1090; negli stessi ter­mini Id., Il giudizio di costituzionalità delle leggi in via incidentale, in R. Romboli (a cura di), Ag­gior­namenti in tema di processo costituzionale (1996 – 1998), Torino, 1999, 59 ss.; Id., Significato e valore delle disposizioni rego­lanti il processo davanti alla Corte costituzionale nei più recenti svi­luppi della giu­risprudenza costituzionale, in Qua­derno n. 2 dell’Associazione per gli studi e le ricer­che parlamentari, 1991, 41 ss., spec. 52.

[4] Per tutti E. Malfatti, S. Panizza, R. Romboli, Giustizia costituzionale, Torino, 2003, 179.

[5] In Giur cost., 2003, 2841.

[6] Si tratta delle sentenze nn. 71 del 1982 (in Giur. cost., 1982, 684) e 417 del 2000 (in Giur. cost., 2000, 3107 con nota redazionale di G. Bianco).

[7] Percorrendo a ritroso i richiami fatti dalla Corte ai propri precedenti si giunge sino alla sen­tenza n. 15 del 1967, nella quale la Corte ritenne di non poter applicare ai propri giudizi la so­spensione feriale dei ter­mini processuali in ragione delle esigenze di celerità nella rimozione delle si­tuazioni di ille­gittimità costituzio­nale, esigenze che non consentono in questo caso di estendere ai giudizi costituzionali le norme di procedura del Consiglio di Stato. A questa sentenza fanno riferi­mento le decisioni successive (nn. 18 del 1970 e 30 del 1973) aventi ad oggetto lo stesso problema. Con la sentenza n. 174 del 1974 la Corte costituzionale aggiunge qualcosa, affermando, seppur impli­cita­mente, che i termini per la pro­posi­zione ed il deposito del ricorso devono conside­rarsi perentori. An­che questa affermazione è coe­rente con le sue premesse e cioè con la volontà di preservare l’interesse pubblico ad una rapida defini­zione delle controversie costituzionali. Nella ordinanza n. 109 del 1975 la Corte afferma la perentorietà anche del termine di costituzione in giudizio, limitandosi a dire che il termine è perentorio perché lo sono tutti i termini e richiamando quali precedenti le deci­sioni appena citate. Tutte le deci­sioni succes­sive sul punto si limi­tano a richiamare questi precedenti la cui ratio giu­stificatrice, però, non sembra estensi­bile al termine di costituzione in giudi­zio, proprio perché se è vero che la perentorietà dei ter­mini di proposizione e deposito e la non applicabilità della so­spensione feriale sono coerenti con la ra­pida ri­mozione delle situazioni di illegittimità costituzionale, non si vede come la costituzione tardiva della parte resistente possa incidere sui tempi del giudizio.

[8] Cfr. Sentenza 13/1960, in Giur. Cost., 1960, 123, con nota di V. Andrioli, Intorno all’applicabilità della L. 25 marzo 1958, n. 260, ai giudizi avanti la Corte Costituzionale.

[9] Ibidem

[10] V. Andrioli, op ult. cit.

[11] V. Andrioli, op ult. cit., 128.

[12] Cfr. S. Mangiameli, Corte costituzionale e Titolo V: l’impatto della riforma, in Giur. cost., 2002, 457

[13] In Giur. cost., 2002, 137

[14] Questa possibile soluzione era stata anticipata in dottrina da A. Concaro, Corte costituzionale e ri­forma del Ti­tolo V della Costituzione: spunti di riflessione su alcuni problemi di diritto intertemporale, in Le Regioni, 2001, 1334

[15] La Corte costituzionale fa correttamente riferimento alla reiterazione del controllo e non già del giudi­zio da parte del Governo. Il rischio di una duplicazione del giudizio, che «avrebbe potuto astratta­mente aversi per il caso che la Corte avesse mandato la prima volta assolta la delibera legislativa che, divenuta quindi legge, avrebbe potuto essere nuovamente impugnata con le nuove regole, è stato abilmente scansato dalla Corte col fatto stesso di non esser passata al merito della “questione”». Cfr. A. Ruggeri, La Corte e lo ius su­perveniens costituzionale (a proposito della riforma del titolo V e dei suoi ef­fetti sui giudizi pendenti), in Le Regioni, 2002, 850, il quale si riferisce ad una osservazione di P. Nicosia, Primi passi della Corte costitu­zionale nell’applicazione del nuovo art. 127 della Costituzione, in forum di Quaderni costituzionali, www.forumcostituzionale.it

[16] Cfr. S. Mangiameli, op. ult. cit., 468

[17] Ulteriori osservazioni critiche, traendo spunto dalla sentenza n. 17 del 2002, si appuntano sulla que­stione della promulgazione della legge da parte del Presi­dente della Regione, ipotiz­zando che lo ius superveniens spieghi i suoi effetti anche con riferimento a questo potere del Presidente, il quale po­trebbe astrattamente ritenersi legittimato a non promulgare la legge, rinviandola al Consiglio regio­nale. Cfr. A. Ruggeri, La Corte e lo ius superveniens costituzionale, cit., 846, il quale, osserva che, pur di­chiarandosi scettico sulla possibilità di ricono­scere al Presidente della Regione il potere di rinvio della legge, non rite­nendo «trapianta­bile meccanicamente la “logica” dell’art. 74 Cost. per la evidente diversità di contesti», nel caso di specie una soluzione di tal fatta avrebbe un effetto positivo, consen­tendo al Con­siglio re­gionale di deliberare nuovamente sul testo, adeguandolo al nuovo contesto normativo costitu­zionale, anziché attivare ex novo il procedimento legislativo.

In ordine alla questione teorica generale sulla configurabilità di un potere di rinvio in capo al Presi­dente della Giunta regionale, con specifico riferimento al riproporsi della questione a se­guito della ri­forma costituzionale del 2001, l’Autore richiama la posizione di chi ipotizza una previ­sione espressa degli Statuti in questo senso nell’ottica di preservare la rigidità statutaria. Ci si riferisce, in particolare, a R. Bin, Le potestà legislative regionali, dalla Bassanini ad oggi, e A. Spadaro, I «contenuti» degli statuti re­gionali (con particolare riguardo alle forme di governo), entrambi in A. Ruggeri, G. Silvestri (a cura di), Le fonti di diritto regionale alla ri­cerca di una nuova identità, Milano, 2001, rispettivamente, 150 e 91. Tesi di­versa, pure richiamata da A. Ruggeri, La Corte e lo ius superveniens costituzionale…, cit., è quella pro­spettata T. Groppi, Quale garante per lo Statuto regionale?, in AA.VV., La potestà statutaria re­gionale nella riforma della Costituzione. Temi rile­vanti e profili comparati, Milano, 2001, 293, la quale ipo­tizza l’istituzione di un organo di garanzia.

[18] Cfr. ancora A. Ruggeri, op. ult. cit., 852. La possibilità di addivenire ad una pronuncia di cessazione della mate­ria del contendere era stata ipotizzata da T. Groppi, La legge costituzionale n. 3/2001 tra attua­zione e auto­applicazione, in T. Groppi, M. Olivetti (a cura di), La Repubblica delle autonomie. Regioni ed enti locali nel nuovo titolo V, Torino, 2001, 220

[19] Secondo A. Ruggeri, op. ult. loc. cit., «la soluzione mediana preferita dall’arbitro costituzionale è stata, dun­que, nel senso di spostare temporalmente in avanti e far ripartire da capo la partita, senza pregiudizio per le po­si­zioni di alcuna delle parti in campo».

[20] Si è in particolare notato che, persistendo la possibilità per lo Stato di eccepire qualsiasi vizio di legitti­mità della legge regionale, indipendentemente dalla sussistenza dell’interesse a ricorrere, sa­rebbe stato forse più cor­retto sul piano processuale decidere i ricorsi che non investivano un parame­tro di giudizio oggetto della riforma costituzionale. Cfr. A. Ruggeri, op. ult. loc. cit., 854; V. Cocozza, I profili processuali, in Le Regioni, 2004, 490.

[21] Cfr. V. Cocozza, op. ult. loc. cit.

[22] Sul punto appaiono molto chiare, in senso critico, le affermazioni di A. Ruggeri, La Corte e lo ius super­ve­niens costituzionale, cit., 860, secondo il quale le ragioni delle scelte operate dalla Corte costitu­zionale «si com­prendono agevolmente e non occorre qui esplicitarle; ho, tuttavia, nono pochi dubbi che esse si concilino fino in fondo con l’esigenza, diffusamente avvertita e insistentemente dichiarata, di lineari ed uniformi applicazioni delle regole e delle tecniche decisorie in tema di processo costituzionale».

[23] Corte costituzionale 18 ottobre 2002, n. 422, in Giur. cost., 2002, 3201

[24] cfr. V. Cocozza, op. cit., 491. Lo stesso Autore sottolinea che un punto d’osservazione della sentenza 422/02 «è l’utilizzo, da parte del giudice delle leggi, della formula secondo la quale la soluzione indicata è quella adottabile di norma. Tale formula, secondo cui le norme costituzionali nuove potranno farsi valere di norma esclusivamente nei confronti delle leggi adottate in un tempo successivo al nuovo riparto costituzionale della competenza legislativa, può suscitare qualche perplessità sulla idoneità ad offrire una soluzione precisa e sta­bile perché sembra adombrata la possibilità  anche di spazi decisionali differenti, sebbene la giurisprudenza successiva sembri confermare sul piano applicativo il principio enucleato dalla Corte costituzionale».

[25] Che la soluzione da adottare per i giudizi pendenti aventi ad oggetto leggi statali dovesse essere quella di deci­dere le questioni alla stregua del parametro vigente al momento della proposizione del ricorso era stato ipotizzato in dottrina da S. Mangiameli, op. cit., 463, il quale afferma che «se la que­stione di costituzionalità consiste nella lesione della sfera di competenza materiale della Regione, anche a seguito della revisione costituzionale può sussistere l’interesse alla pronuncia, che dovrebbe essere valutato alla luce delle disposizioni precedenti dell’art. 117 Cost. Infatti, se la norma statale risultava incostituzionale, al momento della proposizione del ri­corso, va annullata, perché non doveva essere emanata». Qualche considerazione proble­matica può leggersi in V. Cocozza, op. cit., 491, il quale, pur condividendo la soluzione adottata dalla Corte costituzionale, sottolinea che «escludere sempre qualunque riferimento all’innovazione costituzionale, può mostrare linee di problemati­cità. Si considerino, in particolare, le ipotesi differenti da quella delle leggi che intervengono a regolamentare ambiti materiali. La notazione è riferita soprattutto alle leggi che allocano compe­tenze. Si considerino, ancora, le ipotesi di impugnative riferite ad atti contenenti discipline destinate a perfezio­narsi o completarsi in tempi di­versi, come accade per i decreti-legge e leggi di conversione o delegazioni legisla­tive e decreti legislativi».

[26] In Giur. cost., 2003, 342

[27] In Giur. cost., 2004, 1787

[28] In questi termini F. Dal Canto, E. Rossi, Il giudizio di costituzionalità delle leggi in via principale, in R. Romboli (a cura di), Aggiornamenti in tema di processo costituzionale (2002 – 2004), Torino, 2005, 195

[29] In Giur. cost., 2003, 3077, con nota di R. Niro, L’«ordinamento della comunicazione» nel nuovo Titolo V: la continuità nel segno della «leale collaborazione» (fra «passione» e «ragione»)

[30] Cfr. V. Cocozza, op. cit., 501

[31] Cfr. V. Cocozza, op. cit., 502

[32] Così F. Dal Canto, E Rossi, op. ult. cit., 195, i quali richiamano le osservazioni critiche di                                            Moneto, Di un palese caso di ultrapetizione nel giudizio in via principale, in Le Regioni, 2003, 883

[33] In Giur. cost., 2003, 2952, con nota di M. Luciani, I regolamenti regionali restano (per ora) ai Consigli, e di G. Tarli Barbieri, La Corte costituzionale «riconsegna» il potere regolamentare ai Consigli regionali, nella «transizione infinita» verso i nuovi Statuti

[34] Cfr. V. Cocozza, op. cit., 504, il quale afferma che «lo Statuto della Lombardia non ha fatto altro che ripor­tare nel testo la formula costituzionale dell’epoca, non potendo svolgere alcuna forma di autonomia. Pur es­sendo la formula assolutamente la medesima (quella costituzionale e quella statutaria ed in presenza del vincolo di contenuto), la Corte non ha precisato perché l’abrogazione della prima non ricada, per logica simmetria, an­che sull’altra».

[35] Cfr. F. Dal Canto, E. Rossi, op. cit., 196.

[36] In ordine ai problemi relativi alla dichiarazione di illegittimità costituzionale consequenziale, si veda di recente e per tutti, G. Brunelli, Significative convergenze: illegittimità derivata di norme analoghe e sentenze manipolative, in AA.VV., Scritti in memoria di Livio Paladin, Napoli, 2004, 345.

[37] Si legge, infatti, nella sentenza n. 2 del 2004, che «la dichiarazione di illegittimità consequenziale può es­sere applicata anche ai giudizi in via principale, in quanto esprime un principio di diritto processuale che è va­lido per tutte le questioni di legittimità costituzionale».

[38] C. Mezza­notte, Processo co­stitu­zionale e forma di governo, in AA.VV., Giudizio “a quo” e promovimento del processo costi­tuzio­nale, Milano, 1990, ….

[39] Di opinione sostanzialmente analoga è G. Zagrebelsky, Diritto processuale costituzionale?, cit., 105.

[40] In questo senso si veda R. Romboli, La Corte costituzionale e il suo processo, in Foro it., 1995, I, 1096, il quale afferma che «rite­nere, come fanno alcuni, il rispetto delle regole proces­suali un va­lore “interno” all’opera di bilancia­mento, significa […] negare l’esistenza di un diritto pro­cessuale costi­tuzio­nale e la funzione in via di princi­pio attri­buita e riconosciuta alle regole processuali, togliendo loro qualsiasi reale significato».

[41] Cfr. G. Chiovenda, Le forme nella difesa giudiziale del diritto, in Saggi di diritto processuale ci­vile (1900 – 1930), I, Roma, 1930, 353. Si tratta della prolusione al corso libero di procedura civile letta nel­l’U­niversità di Roma il 21 gennaio 1901, nella quale l’Autore affermava che «talora la inos­servanza delle forme produce la perdita del diritto. D’altro lato le forme sole rendono possibile la precisa deter­mina­zione dell’oggetto delle contestazioni; tracciando la via che le parti debbono se­guire sostituiscono l’or­di­ne al disor­dine, e se ciò porta ritardi evita ritardi maggiori; escludono la li­cenza dei litiganti e l’arbitrio del giudice, ga­rantendo il libero esercizio della difesa giudiziale, onde Jhering ebbe ad osser­vare che i po­poli che professano il vero culto della libertà, sentono istintiva­mente il valore delle forme come palladio di questa. Pertanto, non vi sarebbe  ra­gione di lagnarsi delle forme più di quello che […] avrebbe ra­gione il colombo di lagnarsi dell’aria che rallenta il suo volo, senza accorgersi che appunto quell’aria gli permette di volare».

[42] Cfr. ancora G. Chiovenda, op. ult. cit., 374, il quale afferma che «il vizio peggiore d’un sistema di forme processuali non è la sua complicazione, non le sue lungaggini; il vizio peggiore delle forme è l’in­cer­tez­za e la di­scutibilità. Entrambe dipendono o dall’imperfetta od oscura formulazione della legge, o dalla sua rilassatezza nella sanzione delle inosservanze formali: l’una e l’altra producono le questioni di for­ma. Ora le questioni di forma sono il vero e proprio danno delle forme. La lite può avere un’alta funzione giuridica e sociale: poiché essa con­duce al ristabilimento del diritto non è solo un atto di giusti­zia in sé, ma è una remora a violazioni fu­ture. Inoltre i giudizi hanno un’influenza di prima importanza sulla elaborazione del diritto. Ma le questioni di forma, che traggono dalla lite, che è mezzo e non scopo, materia di nuove liti; che rendono colui che s’avvicina al tempio della giustizia incerto della via da se­guire per entrarvi; che distraggono l’attività delle parti, dei giu­dici, degli stu­diosi da un lavoro utile; che ritardano e talora interrompono il cammino della giustizia; queste sono un male. Il legislatore deve im­pedire che le forme si violino per oscurità di legge: e provvedere che, se una forma fu violata, l’effetto della inosservanza sia chiaro ed aperto».

[43] Nel senso della necessità di una adeguata motivazione qualora la Corte ritenga di discostarsi da un prece­dente­ orientamento processuale si veda ancora R. Romboli, Il giudizio… cit., 60.