Francesco Marone
versione provvisoriai
1. Cenni introduttivi: il difficile adattamento dei principi processuali
generali ai giudizi costituzionali
Autorevole dottrina, nel rispondere
all’interrogativo se si possa o meno parlare di diritto processuale
costituzionale, afferma: «diritto processuale, si, ma sui generis
(anzi: molto sui generis), che comprenda in sé pluralità di prospettive,
da ricostruirsi attorno a beni giuridici plurimi. Un diritto processuale
capace di comprendere le ragioni non sempre coincidenti della tutela soggettiva
dei diritti costituzionali ma anche le ragioni della tutela oggettiva della
Costituzione»[1].
In questo passo sembra sintetizzata la
forte caratterizzazione dei giudizi costituzionali, che necessariamente si
riflette sulla configurazione della disciplina processuale, in ordine alla
quale la pluralità delle fonti di disciplina in uno con la specificità del giudizio
costituzionale contribuiscono ad assegnare alla giurisprudenza della Corte un
ruolo di assoluta rilevanza.
È noto che sui giudizi costituzionali
influisce il tipo di funzioni che
Proprio il carattere peculiare dei giudizi costituzionali
comporta la necessità che le categorie processuali generali siano modellate
dalla giurisprudenza costituzionale in modo da renderle compatibili con il
ruolo che
Dall’esame della giurisprudenza
costituzionale emerge, com’è noto, un’applicazione dei principi processuali che
non sempre offre linee chiare e precise, bensì anche notevoli oscillazioni.
Questa tendenza si riscontra anche nei giudizi in via principale, nei quali,
per la verità, le soluzioni processuali “peculiari” consentono un’osservazione
forse privilegiata del processo costituzionale con riferimento alle finalità
che il Giudice costituzionale ritiene di conseguire
Al riguardo è consentito, così,
operare delle distinzioni che offrono un panorama più articolato del modo di
raccordarsi fra la dinamica processuale
e le decisioni che
2. Ipotesi di scelte processuali che non sembrano connesse ad esigenze di
sistema
Vi sono ipotesi nelle quali, invero,
la non rigorosa e pertanto criticata, scelta processuale non riesce ad essere
colta nel suo modo di collegarsi a finalità specifiche o ad esigenze di sistema
ben definite.
Si ricordano, a titolo di esempio, la
qualificazione del termine di costituzione in giudizio della parte resistente come
perentorio o il regime delle notificazioni, in ordine al quale
Sul primo punto, la giurisprudenza
costituzionale, com’è noto, è costante nell’affermare che tutti i termini
processuali del giudizio principale debbano considerarsi come perentori[4]; con
specifico riferimento al termine di costituzione in giudizio della parte resistente,
però, l’analisi della giurisprudenza costituzionale rivela la mancanza di una
sentenza “pilota” cui le decisioni successive facciano rinvio.
La motivazione della sentenza si
limita a richiamare due precedenti decisioni[6] dalle
quali si ricaverebbe un consolidato orientamento sul punto. In realtà, però,
nelle decisioni precedenti non è dato rinvenire indicazioni chiare nel
senso indicato dalla Corte.
Dalla ricostruzione del percorso
giurisprudenziale emerge la mancanza di un precedente in tema di perentorietà
del termine di costituzione in giudizio del resistente[7]. La ratio
cui è collegato il riconoscimento della perentorietà dei termini è, infatti,
quella di salvaguardare l’interesse pubblico a che le situazioni di illegittimità
costituzionale siano rimosse il più rapidamente possibile; ciò evidentemente
giustifica il configurare perentori i termini per ricorrere e per depositare
il ricorso, che possono effettivamente incidere sui tempi processuali.
Diversamente, l’interesse pubblico
alla rapida definizione dei giudizi non sarebbe certamente leso dalla non
perentorietà del termine di costituzione del resistente.
D’altra parte, nel giudizio
amministrativo, alle cui regole la legge 87/53 fa rinvio per integrare la
disciplina processuale costituzionale, il termine di costituzione in giudizio
della parte resistente è pacificamente considerato ordinatorio, proprio per la
sua non attitudine ad incidere sui tempi di definizione delle controversie. L’orientamento
della Corte non offre, dunque, argomenti per una ricostruzione appagante. E
ciò è dimostrato dalla circostanza che le decisioni sono sempre motivate
attraverso il rinvio a precedenti pronunce, senza che, ripercorrendo a ritroso
la giurisprudenza costituzionale, sia dato individuare quale sia la ratio
giustificatrice della diversa configurazione della natura del termine di
costituzione in questi giudizi rispetto al processo amministrativo.
Non sembra sufficiente il rinvio a
decisioni che riguardano la sospensione feriale dei termini processuali, la
cui esclusione nei giudizi costituzionali appare pienamente giustificata
dall’esigenza di celerità nella risoluzione delle questioni, o alla natura del
termine per ricorrere, la cui perentorietà è anch’essa pienamente coerente
con l’esigenza pubblicistica di rimuovere il più rapidamente possibile le situazioni
di illegittimità costituzionale. È facile vedere come le stesse argomentazioni
non valgano a giustificare la perentorietà del termine di costituzione in
giudizio della parte resistente.
Parimenti evidente appare la mancanza
di una convincente giustificazione con riferimento al regime delle
notificazioni nei giudizi costituzionali in ordine ai quali l’orientamento
della Corte è costante nel ritenere che non si applichino le disposizioni di
legge alla stregua delle quali i ricorsi avverso gli organi dello Stato vanno
notificati presso l’Avvocatura generale dello Stato, poiché «quando la legge prevede il cosiddetto
intervento del Presidente del Consiglio dei ministri, legittimato attivamente
o passivamente, essa vi ravvisa non il capo di una amministrazione, ma il
rappresentante dello Stato inteso come ordinamento unitario»[8]. La
scelta sarebbe giustificata inoltre dall’argomento secondo cui l’art. 35 della
legge n. 87 del 1953, nella parte in cui prescrive la notificazione del ricorso
ex art. 127 Cost. al Presidente del
Consiglio dei ministri ed ai Presidenti delle due Camere, fa riferimento non
già ad organi di vertice di un ramo della pubblica amministrazione, chiamati in
causa in quanto titolari di interessi in conflitto, ma «come rappresentanti degli organi investiti di sfere di attribuzioni, rispetto
alla delimitazione delle quali possono sorgere le questioni, la cui soluzione
è affidata alla Corte costituzionale»[9].
Questa impostazione è stata oggetto
di critiche da parte della dottrina già in sede di primo commento[10] non
ritenendosi condivisibile la esclusione della applicazione della legge n. 260
del 1958 ai giudizi costituzionali. Si è sostenuto, infatti, che l’art. 20, ultimo
comma, della legge n. 87 del 1953 dispone che il Governo, di cui il Presidente
del Consiglio dei Ministri dirige, ai sensi dell’art. 95 Cost., la politica
generale, sia rappresentato e difeso dinanzi alla Corte costituzionale
dall’Avvocato generale dello Stato e che questa disposizione non consente di fare
differenze tra il Governo e le singole amministrazioni nel senso che solo per
queste la rappresentanza dell’Avvocatura dello Stato si estenderebbe anche ai
giudizi costituzionali. Conseguentemente, essendo anche il Governo rappresentato
ex lege dalla Avvocatura erariale, non può non concludersi che anche
per i giudizi costituzionali la notifica del ricorso deve avvenire al Presidente
del Consiglio dei Ministri presso l’Avvocatura dello Stato[11].
3. Ius
superveniens costituzionale e giudizi
pendenti
Un diverso tipo di conclusione si
deve prospettare per altre ipotesi in cui il rapporto tra dinamica processuale
ed effetti delle decisioni si caratterizza per la sufficientemente chiara
ricerca di determinati effetti nel sistema. Ciò è da dirsi, ad esempio, per lo ius
superveniens costituzionale, laddove le soluzioni processuali che
Che la questione fosse delicata è
apparso immediatamente chiaro, laddove la Corte, subito dopo l’entrata in
vigore della legge costituzionale n. 3 del 2001, ha cancellato dal ruolo di
udienza i giudizi che, in qualche modo, riguardavano le Regioni[12].
Non rilevando, ai nostri fini, quali
siano le soluzioni adottate dalla Corte per i giudizi incidentali e per i
conflitti di attribuzioni, si limita l’osservazione all’impugnativa statale di
legge regionale ed a quella di legge dello Stato da parte delle Regioni, che,
com’è noto, hanno trovato nella giurisprudenza costituzionale soluzioni
differenti.
Per i casi di ricorsi statali avverso
leggi regionali antecedenti l’entrata in vigore della riforma, e dunque
proposti avverso una delibera legislativa non ancora entrata in vigore, la
Corte costituzionale, con la sentenza n. 17 del 2002[13], ha
chiarito che lo ius superveniens
costituzionale ha rilievo tanto sul piano sostanziale quanto sul piano
processuale, ritenendo però preminente questo secondo aspetto, poiché la
radicale modifica delle modalità di impugnazione di una legge regionale non è
compatibile con una decisione del Giudice costituzionale che trae origine da
un ricorso proposto in un diverso quadro normativo costituzionale.
Più chiaramente, si legge nella
motivazione della sentenza 17/2002 che la nuova disciplina costituzionale, «avendo espunto dall’ordinamento la sequenza
procedimentale del rinvio governativo, della riapprovazione della legge
regionale, a maggioranza assoluta dei componenti del Consiglio regionale, e
del successivo ricorso innanzi a questa Corte, impedisce che il presente
giudizio possa aver ulteriore seguito, non essendo più previsto che la Corte
stessa eserciti il sindacato di costituzionalità sulla delibera legislativa
regionale prima che quest’ultima sia stata promulgata e pubblicata e, quindi,
sia divenuta legge in senso proprio». Il ricorso deve quindi dichiararsi
improcedibile[14], ferma restando la possibilità
per il Presidente del Consiglio dei Ministri di proporre ricorso entro sessanta
giorni dalla pubblicazione della legge regionale, ai sensi del nuovo testo
dell’art. 127 della Costituzione.
La tesi della Corte costituzionale è,
in sintesi, quella di ritenere che, in ragione della intervenuta riforma
costituzionale, la legge regionale debba essere promulgata e pubblicata e,
solo dopo, sarà possibile l’eventuale controllo[15] da
parte del Governo attraverso l’impugnativa successiva della legge.
Questa soluzione è stata oggetto di
analisi da parte della dottrina, che ha ipotizzato anche la possibilità di
percorrere altre vie.
Si è osservato che la modifica
dell’art. 127 Cost. rappresenta un’ipotesi di ius superveniens di norme processuali, in ordine alle quali, com’è
noto, l’applicazione del principio tempus
regit actum deve essere particolarmente rigida, dovendosi ritenere salve
tutte le fasi processuali già concluse e potendosi al più discutere se le fasi
successive del processo debbano essere regolate dalle norme nuove o da quelle
vigenti al momento dell’instaurazione del giudizio[16].
In quest’ordine di idee il giudizio
dovrebbe ritenersi correttamente incardinato e svolgersi sino alla sua
conclusione come un giudizio di legittimità preventivo. Questa impostazione è
ulteriormente giustificata dalla considerazione secondo cui non potrebbe
leggersi la nuova formulazione dell’art. 127 nel senso di fondare un diritto
della Regione a promulgare la legge preventivamente impugnata, poiché questa
eventualità risultava espressamente esclusa dalla norma costituzionale
previgente e non risulta ricavabile neppure implicitamente dal nuovo quadro
normativo. Infine, sul piano sostanziale, la decisione dovrebbe fondarsi sul
nuovo parametro costituzionale, essendo la legge destinata ad essere pubblicata
nel vigore delle nuove norme costituzionali[17].
Sempre con riferimento
all’impugnativa statale di legge regionale, ci si è chiesti come mai la Corte
non abbia pensato ad una pronuncia di cessazione della materia del contendere,
come di norma si è fatto in caso di ius
superveniens legislativo, e quali vantaggi vi siano stati nell’utilizzare
invece la categoria dell’improcedibilità[18].
Le ragioni che si ipotizza possano
aver suggerito alla Corte di optare per l’improcedibilità del ricorso sono due,
l’una inerente la posizione della Regione, l’altra quella del Governo. In
presenza di una pronuncia di cessazione della materia del contendere sarebbe
stato ipotizzabile ritenere che la delibera legislativa impugnata non fosse
idonea ad essere promulgata e pubblicata, dovendosi quindi riattivare l’intero
procedimento legislativo per disciplinare la materia oggetto della delibera
impugnata, il che avrebbe evidentemente creato un vulnus per l’autonomia regionale, in controtendenza rispetto ad
una riforma volta invece ad ampliare la sfera di autonomia delle Regioni.
Viceversa si sarebbe potuto ipotizzare che la delibera legislativa dovesse
considerarsi passibile di essere promulgata e pubblicata immediatamente,
essendo venuto meno il sistema di controllo preventivo, ma in questo caso la
dichiarazione di cessazione della materia del contendere avrebbe potuto far
credere che il Governo non avesse più la possibilità di impugnare la legge, che
sarebbe quindi risultata del tutto sottratta al controllo della Corte,
quantomeno in sede di giudizio principale.
Si è cercata, dunque, una soluzione
che non pregiudicasse né l’autonomia regionale, né la possibilità per il
Governo di esercitare il controllo sulla legge[19].
Seppur qualche critica alla soluzione
adottata dalla Corte costituzionale vi è stata[20],
sembra che il giudizio complessivo debba essere positivo. Sul piano strettamente
processuale le soluzioni più corrette sarebbero forse state altre, ma in
un’ottica di sistema la mediazione degli interessi trovata dalla Corte appare,
invero, equilibrata, poiché non vi è pregiudizio per la sfera di autonomia
della Regione, che mantiene la disponibilità di intervenire sulla legge non
ancora in vigore e che, quindi, potrebbe essere emendata dagli eventuali vizi
di legittimità, e neppure è limitata la possibilità per lo Stato di impugnare
nuovamente la legge una volta pubblicata, consentendo così la possibilità di «un’ulteriore valutazione sulla persistenza
dell’interesse all’impugnativa, essendo plausibile ritenere che l’innovazione
costituzionale abbia ampliato gli ambiti dell’intervento della legge regionale
e che, conseguentemente, vizi di legittimità astrattamente ipotizzabili alla
stregua del vecchio parametro nei confronti delle delibere legislative
adottate potrebbero non più sussistere alla luce del nuovo riparto della competenza
legislativa»[21].
La vicenda dei giudizi aventi ad
oggetto leggi regionali pendenti al momento dell’entrata in vigore della legge
costituzionale n. 3 del 2001 ed il modo in cui la Corte ha affrontato e risolto
il problema consente qualche osservazione inerente l’oggetto di queste note.
La soluzione adottata, come detto, se
non è del tutto esente da critiche sul piano del rigore processuale, sembra
tuttavia tener conto di una più complessiva esigenza di sistema; sembra cioè
tesa più che a tracciare linee di indirizzo processuale chiare, a cercare un
equilibrio fra tutti i problemi in campo. Si approda, infatti, ad una scelta
processuale tale da garantire l’autonomia regionale, senza però pregiudicare
l’esercizio del potere di impugnativa in via principale dello Stato. In qualche
modo la dinamica processuale del giudizio appare connessa agli effetti che la
decisione dovrà produrre, ritenendosi prevalente la ricerca di soluzioni
processuali che garantiscano l’ottenimento di un punto di ragionevole bilanciamento
tra i valori in gioco, anziché il rigido rispetto dei principi processuali[22].
Questo dato sembra confermato anche
dall’impostazione, diversa, che
Risulta chiarissimo dalla lettura di
questo passo della decisione della Corte, che la scelta di quale soluzione
adottare sia stata dettata dall’esigenza, ritenuta prevalente, di preservare
la continuità dell’ordinamento, mantenendo in vigore la normativa sino
all’adozione di atti di esercizio della competenza costituzionale da parte dei
soggetti legittimati[24].
Anche con riferimento all’impugnativa
di leggi statali l’opzione adottata dalla Corte sembra funzionale ad ottenere
uno specifico effetto della sua decisione. La Corte, infatti, ha deciso di giudicare
nel merito le leggi impugnate, ma sulla base del previgente parametro,
giustificando la decisione con la considerazione che in questo modo si preserva
la continuità dell’ordinamento giuridico, senza pregiudicare la possibilità
per i soggetti titolari delle competenze legislative di esercitarle alla
stregua del nuovo quadro costituzionale. Si tratta, come si vede, anche in
questo caso di una soluzione che pare equilibrata, tenendo conto di entrambe le
esigenze in rilievo; la continuità dell’ordinamento da un lato, l’autonomia regionale
dall’altro, con una individuazione della scelta operata, che appare, però, motivata
avendo riguardo più agli effetti della decisione nel sistema che non allo
stretto rigore delle regole processuali applicabili.
Vuole dirsi, in sintesi, che seppure
l’impostazione della Corte sembra compatibile con quanto suggerivano nella
fattispecie i principi processuali in materia di ius superveniens, la scelta appare comunque orientata
all’ottenimento di determinati effetti, piuttosto che consequenziale ad uno
stretto ragionamento processuale[25].
4. Il principio di corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato e gli
effetti delle decisioni: in particolare la ridefinizione del parametro e la
estensione degli effetti di precedenti decisioni
Elementi coerenti con le osservazioni
appena svolte in ordine alle soluzioni individuate dalla Corte in tema di ius superveniens costituzionale,
sembrano emergere dal modo in cui il Giudice costituzionale fa applicazione
del principio di corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato. I giudizi di
legittimità costituzionale in via di azione sono, com’è noto, giudizi di parti e giudizi da ricorso, nei quali la
definizione del thema decidendum è
attribuita all’atto introduttivo, che deve indicare l’atto che si impugna, il
parametro ed i vizi che in relazione a questo si ritiene siano configurabili,
costruendo un percorso motivazionale che consenta la precisa individuazione
dei vizi stessi. È nell’alveo, quindi, di questi “paletti” che deve svolgersi
il sindacato di legittimità della Corte costituzionale sulla legge oggetto di
impugnazione, poiché, diversamente, risulterebbe violato il principio di corrispondenza
tra il chiesto e pronunciato, con tutte le conseguenze in termini di corretta
instaurazione del contraddittorio e di garanzia del diritto di difesa che ne derivano.
Dall’esame della giurisprudenza
costituzionale emergono, tuttavia, decisioni nelle quali l’applicazione del
principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato appare quantomeno
elastica, in ragione dell’esigenza di assolvere alla funzione di garanzia
della legalità costituzionale dell’ordinamento, che in uno con la struttura di
giudizio di parti caratterizza il giudizio in via principale.
Tre casi appaiono emblematici di
questa tendenza; i primi due (sentenze nn. 48/2003[26] e
173/2004[27]) integrano ipotesi di
ridefinizione del parametro indicato in ricorso da parte della Corte
costituzionale[28], il terzo (sentenza
324/2003[29]) è una questione decisa
senza indicazione del parametro utilizzato e sulla base di “un’ automatica” applicazione di un precedente.
La sentenza n. 48 del 2003 decide il
ricorso proposto dal Governo avverso la legge regionale della Sardegna n. 10
del 2002 (Adempimenti conseguenti alla istituzione di nuove province, norme
sugli amministratori locali e modifiche alla legge regionale 2 gennaio 1997,
n. 4). Attraverso il richiamo all’art. 3 dello Statuto sardo laddove prevede
che la potestà legislativa esclusiva regionale si eserciti in armonia con
La censura prospettata dal Governo
viene implicitamente rigettata dalla Corte, poiché in forza dell’art. 10 della
legge costituzionale n. 3 del 2001, le disposizioni del nuovo Titolo V della
Costituzione si estendono alle Regioni ad autonomia speciale soltanto nei
limiti in cui prevedano condizioni di autonomia più favorevoli e non anche,
quindi, nelle ipotesi in cui gli Statuti speciali attribuiscano alla
competenza legislativa esclusiva della Regione ambiti materiali che l’art. 117
novellato riserva in via esclusiva allo Stato. Consequenziale a questo
percorso logico sarebbe stato il rigetto del ricorso del Governo, non essendo riscontrabile
una violazione del parametro invocato. La Corte costituzionale, invece, «propone una torsione del meccanismo
decisionale»[30], accogliendo il ricorso
per violazione dell’art. 3 dello Statuto, che nel porre alla potestà legislativa
esclusiva della Regione il limite dell’armonia con la Costituzione e con i
principi dell’ordinamento giuridico della Repubblica, impedisce alla legge regionale
di disporre in ordine alla durata in carica degli organi elettivi locali.
La Corte decide, quindi, sulla base
di un parametro di giudizio estraneo al ricorso del Governo, nel quale, come
detto, l’art. 3 dello Statuto sardo veniva in rilievo soltanto per ricostruire
l’eccepita violazione dell’art. 117, comma 2, della Costituzione. Andando
certamente oltre il “chiesto” del ricorso governativo la sentenza utilizza
quale parametro di giudizio il generico limite dell’armonia con la Costituzione
e con i principi dell’ordinamento, leggendovi il divieto per la legge regionale
di incidere sulla durata in carica degli organi elettivi[31].
Si tratta di una decisione che dal
punto di vista della tecnica decisoria «lascia
alquanto interdetti, soprattutto se letta alla luce delle motivazioni
contenute in altre pronunce nelle quali, a garanzia della corretta
instaurazione del contraddittorio, la stessa aveva mostrato una notevole
intransigenza proprio in ordine al profilo della esatta definizione dei
termini della questione»[32].
La soluzione adottata dalla Corte non
appare del tutto esente da critiche sul piano processuale: per poter comunque
decidere nel senso dell’accoglimento un ricorso che, a stretto rigore, andava
rigettato, si viola il principio di corrispondenza tra il chiesto e il
pronunciato. Anche in questo caso, sembra quindi rinvenibile un utilizzo delle
categorie processuali assai elastico, in qualche modo funzionale agli effetti
che si vogliono ottenere nel sistema. Nella specie, evidentemente, il Giudice
costituzionale ha inteso garantire il valore “autonomia degli organi rappresentativi”
degli enti locali sardi. E ciò anche “forzando” un principio processuale generale.
Si può così dire che attraverso la
“disapplicazione“ di quel principio
Analoghe considerazioni valgono per
il caso di cui alla sentenza n. 173 del 2004. A fronte di un ricorso del
Governo con il quale si chiedeva di dichiarare illegittima la legge regionale
della Toscana n. 35 del 2002, perché attribuiva al difensore civico regionale
poteri sostitutivi nei confronti degli enti locali in violazione di varie
disposizioni degli artt. 114, 117 e 120 della Costituzione, alla stregua delle
quali la disciplina del potere sostitutivo sarebbe riservata in via esclusiva
allo Stato, la Corte costituzionale accoglie il ricorso affermando che pur essendo
rinvenibile nell’art. 120 Cost. la possibilità che la legge regionale attribuisca
poteri sostituivi ad organi regionali, deve comunque rispettarsi il principio
per cui il potere sostitutivo deve essere affidato ad un organo di governo della
Regione e non al difensore civico, sì da tutelare il valore dell’autonomia
degli enti locali.
Anche in questa decisione sembra che
la Corte costituzionale abbia, in un certo senso, costruito il parametro del
suo giudizio, indipendentemente dal ricorso governativo. E ciò al fine,
dichiarato espressamente, di salvaguardare il valore della autonomia degli
enti locali, che sarebbe leso qualora l’esercizio del potere sostitutivo
fosse affidato ad organi non di governo della Regione, pur affermando in
termini generali la legittimità dell’istituzione di meccanismi di sostituzione
da parte della legge regionale.
Dei tre casi cui si è fatto cenno in
apertura di questo paragrafo, il più significativo appare quello deciso con la
sentenza n. 324 del 2003.
Il ricorso del Governo ha ad oggetto
la legge regionale della Campania n. 9 del 2002 (Norme in materia di
comunicazione ed emittenza radiotelevisiva ed istituzione del Comitato Regionale
per le comunicazioni), nella parte in cui stabilisce che la Giunta regionale,
in assenza di un atto legislativo del Consiglio, può con regolamento disciplinare
“la localizzazione dei siti di trasmissione delle reti pubbliche per
l’emittenza radiotelevisiva e per le telecomunicazioni”. L’Avvocatura erariale
sostiene che, rientrando la materia “ordinamento della comunicazione” tra
quelle rimesse alla potestà legislativa concorrente, la legge regionale
avrebbe dovuto rispettare il principio generale della materia di cui all’art.
2, comma 6, L. 249/97, alla stregua del quale spetta all’Autorità per le
garanzie nelle comunicazioni la funzione di redigere un piano nazionale,
comprendente la localizzazione degli impianti e l’attribuzione dei siti. La
legge regionale della Campania sarebbe dunque viziata perché violerebbe, in
materia di potestà legislativa concorrente, il principio fondamentale posto
dalla legge statale secondo cui la localizzazione dei siti spetta all’Autorità
per le garanzie nelle comunicazioni e non alla Giunta regionale, nulla
dicendo in ordine alla tipologia dell’atto normativo abilitato ad intervenire.
La Corte chiarisce che la
ricostruzione della legislazione vigente fatta dall’Avvocatura dello Stato
risulta parziale, poiché non tiene conto dell’evoluzione legislativa successiva
che ha riconosciuto il ruolo delle Regioni con riferimento alla individuazione
dei siti di localizzazione degli impianti di radiodiffusione; e conclude
affermando che «non può escludersi una
competenza della legge regionale in materia, che si rivolga alla disciplina di
quegli aspetti della localizzazione e dell’attribuzione dei siti di trasmissione
che esulino da ciò che risponde propriamente a quelle esigenze unitarie alla
cui tutela sono preordinate le competenze legislative dello Stato nonché le funzioni
affidate all’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni».
Sembrerebbe la motivazione di una
sentenza interpretativa di rigetto, ma nonostante ciò la Corte conclude per
l’accoglimento del ricorso e dichiara l’illegittimità costituzionale della
disposizione impugnata dal Governo. Non può, infatti, sfuggire, afferma la
Corte, che la legge impugnata prevede la competenza a disciplinare la materia con
regolamento della Giunta regionale, mentre «una
previsione del genere contrasta anzitutto con la mancanza di una nuova disciplina
statutaria relativa al potere regolamentare delle Regioni, in particolare in
quanto esso è attribuito alla Giunta regionale, secondo quanto questa Corte ha
già affermato (sentenza n. 313 del 2003)».
La legge regionale impugnata, dunque,
pur essendo stato rigettato l’unico motivo articolato nel ricorso statale,
viene annullata senza indicazione di quale sia il parametro violato, in
ragione di un vizio non eccepito nel ricorso introduttivo, ma in applicazione,
potremmo dire automatica, di un precedente, quello della sentenza 313/2003[33], che
appare invero difficilmente estensibile, quantomeno nei termini in cui si è
fatto con la sentenza in oggetto.
Nella sentenza 313/2003 la Corte
aveva deciso nel senso della illegittimità costituzionale di una legge della
Regione Lombardia che attribuiva il potere regolamentare alla Giunta, sul
presupposto che la modifica dell’art. 121 Cost. lasciasse al legislatore regionale
questo spazio di discrezionalità. La Corte in quella circostanza ha ritenuto
che la modifica dell’art. 121 abbia soltanto eliminato la riserva di competenza
regolamentare in capo al Consiglio, senza automaticamente trasferire il potere
alla Giunta, ma producendo l’unico effetto di consentire alle Regioni di scegliere
come allocare quel potere, scelta da operarsi a livello statutario. E poiché
le soluzioni possibili sono più d’una, fino all’intervento di una modifica
dello Statuto, vale quanto prevede lo Statuto della Lombardia, che, compatibilmente
con il nuovo quadro costituzionale, attribuisce il potere regolamentare al
Consiglio. Per cui una legge regionale che affidi alla Giunta il potere di
adottare regolamenti in una certa materia risulta illegittima per violazione
dello Statuto regionale.
Ora, tralasciando le considerazioni
in ordine alla possibilità di ritenere che la norma statutaria lombarda,
perfettamente sovrapponibile a quella precedentemente prevista dall’art. 121
che si è limitata a ripetere pedissaquamente, non avendo in materia margini
di discrezionalità, poteva considerarsi anch’essa abrogata[34], non
v’è dubbio che la decisione della Corte sulla legge regionale della Campania
sia criticabile sul piano processuale.
La Corte ha deciso sulla base di una
sua precedente sentenza, senza chiarire quale fosse il parametro, potendosi
solo immaginare che si facesse riferimento allo Statuto della Regione
Campania, e ben al di là del thema
decidendum definito dal ricorso governativo. È evidente la lesione del principio
di corrispondenza tra il chiesto ed il pronunciato, che ha prodotto una chiara
compressione del diritto di difesa della Regione resistente, la cui legge è
stata annullata alla stregua di un parametro non indicato né dal ricorrente né
dalla stessa Corte ed in applicazione di una precedente decisione della Corte
resa in un giudizio di cui non era parte e nel quale, pur volendo, non avrebbe
potuto intervenire.
Delle tre decisioni esaminate questa
appare quella in cui è più evidente la torsione della dinamica processuale
finalizzata alla produzione di determinati effetti. Sembra, infatti, piuttosto
chiaro che la Corte, pur certamente consapevole della non corretta applicazione
dei principi processuali, abbia scelto di annullare la legge della Regione
Campania, onde evitare che in quella Regione si potesse intervenire a
disciplinare una materia con regolamenti di Giunta in assenza di una modifica
statutaria. Più semplicemente, rispettare il principio di corrispondenza tra
il chiesto e il pronunciato e, conseguentemente, garantire il diritto di difesa della Regione
avrebbe significato sacrificare l’esigenza, evidentemente rilevante nella
fattispecie, di preservare la legalità costituzionale dell’ordinamento, esigenza
che imponeva di affermare ancora una volta la illegittimità della attribuzione
del potere regolamentare alla Giunta se non attraverso una modifica dello Statuto.
Anche e soprattutto in questo caso la
soluzione proposta dalla Corte sembra corretta se letta in un’ottica di
sistema, poiché, in effetti, una soluzione differente avrebbe consentito
l’adozione di regolamenti di Giunta almeno fino ad un eventuale giudizio
incidentale, in controtendenza rispetto alla decisione più generale già assunta
dal Giudice delle leggi in argomento (sent. n. 313/2003), ma lascia
naturalmente insoddisfatti sul piano del rigore processuale del giudizio
costituzionale, risultando, come si è notato, probabilmente paradigmatica «della (forse in parte inevitabile)
“schizofrenia” che caratterizza il giudizio in via principale: un po’ giudizio
di parti, a garanzia delle rispettive sfere di competenza, e un po’ giudizio
sulla legalità costituzionale dell’ordinamento»[35].
L’ipotesi dell’annullamento di una
legge regionale che abbia contenuto analogo se non identico a quello di leggi
di altre Regioni non impugnate dallo Stato o, come nel caso della sentenza
324/2003 impugnata sotto diverso profilo, sembra rappresentare un punto di
osservazione privilegiato della tensione fra la intrinseca rigidità della
griglia processuale e gli effetti delle decisioni della Corte, deputate ad
assolvere principalmente alla funzione di preservare la legalità costituzionale
dell’ordinamento. Sembra, in effetti, difficile conciliare la struttura del
giudizio principale quale giudizio di parti con la necessità di eliminare le
leggi incostituzionali nei casi in cui vi siano più leggi regionali di analogo
contenuto, non tutte impugnate. In queste ipotesi si corre il rischio che la
Corte annulli una legge, ma altre egualmente viziate rimangano in vigore, con
problemi piuttosto visibili anche per le Regioni che si trovano a dover
applicare una legge sapendo che la Corte la ritiene viziata. Il problema sembra
ancor più rilevante se si considera la circostanza che negli ultimi anni il
numero dei giudizi principali è cresciuto notevolmente, assumendo quindi un
ruolo importante nell’ottica del controllo di costituzionalità.
Siamo probabilmente di fronte ad un
punto di tensione intrinseco alla natura del giudizio in via di azione, ma
forse una soluzione di questi casi un po’ meno lesiva della logia processuale
rispetto a quella utilizzata dalla Corte nel caso della sentenza 324/2003 potrebbe
ipotizzarsi ragionando in termini di illegittimità costituzionale
consequenziale[36].
Con riferimento ai giudizi in via di
azione, pur non riscontrandosi casi espliciti di illegittimità derivata di
leggi di altre Regioni, ma soltanto di leggi della stessa Regione, probabilmente
per ragioni connesse al rispetto del principio del contraddittorio, le affermazioni
della Corte appaiono piuttosto generali e sembrano lasciare spazio anche alla
eventualità di dichiarare la illegittimità consequenziale di legge di altra
Regione avente analogo contenuto[37].
Se, dunque, non è astrattamente da
escludere la possibilità di applicare la dichiarazione di illegittimità ex art. 27, comma 2, L. 87/53 anche con
riferimento a leggi di altre Regioni, può immaginarsi una soluzione diversa da
quella che la Corte ha utilizzato con riferimento alle questioni decise con le
sentenze nn. 313 e 324 del 2003, laddove ha sostanzialmente annullato la legge
regionale della Campania perché avente contenuto analogo a quella della
Lombardia annullata con la precedente decisione.
L’utilizzo della dichiarazione di
illegittimità consequenziale potrebbe forse offrire in casi analoghi una
soluzione più equilibrata, consentendo da un lato di far valere lo stesso
vizio per tutte le leggi regionali che ne siano afflitte e dall’altro di non
dover piegare la dinamica del processo fino al punto di sacrificare del tutto
il contraddittorio.
Il problema della estensione
“automatica” del precedente a leggi regionali di enti che non hanno partecipato
al giudizio che ha prodotto la sentenza “pilota”, potrebbe forse risolversi
integrando illegittimità consequenziale ed apertura del contraddittorio. Se, infatti,
la Corte ammettesse l’intervento in giudizio delle Regioni terze rispetto alle
parti principali, gli ostacoli alla eventuale dichiarazione di illegittimità
consequenziale sarebbero minori. Le Regioni di fronte alla impugnativa statale
di una legge di altra Regione avente il medesimo contenuto di una propria
potrebbero intervenire in giudizio a difendere quella legge, consentendo così
alla Corte di risolvere, una volta per tutte, la questione in contraddittorio
tra tutti i soggetti interessati, eventualmente annullando tutte le leggi regionali
affette dal medesimo vizio.
Nel più volte citato caso dei
regolamenti di Giunta, ad esempio, la Corte ha dovuto sacrificare il rispetto
delle regole processuali per eliminare dall’ordinamento una legge regionale
della Campania che attribuiva alla Giunta il potere di adottare regolamenti,
in aperto contrasto con quanto la stessa Corte aveva deciso in riferimento ad
una legge della Lombardia. Se avesse seguito la diversa strada di coniugare
apertura del contraddittorio ed illegittimità consequenziale, avrebbe ottenuto
il medesimo risultato senza però una così eclatante compressione del diritto
di difesa della Regione Campania. Quest’ultima, infatti, avrebbe probabilmente
spiegato intervento nel giudizio pendente tra lo Stato e la Regione Lombardia,
difendendo la legittimità dell’attribuzione di potere regolamentare alla
Giunta in assenza di una modifica statutaria e la Corte costituzionale avrebbe
potuto, nel medesimo giudizio, dichiarare la illegittimità consequenziale
anche della legge campana, con il doppio vantaggio, da un lato di avere la
certezza di aver eliminato un’altra norma illegittima, senza dover attendere
l’”occasione” in futuro di poterlo fare, e dall’altro di non privare la Regione
della possibilità di esercitare pienamente il diritto di difesa.
5. Conclusioni
L’esame della giurisprudenza
costituzionale sui giudizi in via di azione conferma le difficoltà di
adattamento dei principi processuali ai giudizi costituzionali, e segnala al
contempo come in alcuni casi sia rinvenibile un nesso tra l’articolarsi della dinamica
processuale del giudizio di legittimità costituzionale in via d’azione e gli
effetti che le decisioni della Corte costituzionale
producono nel sistema. Pur non mancando, come visto, casi in cui le posizioni
processuali assunte dalla Corte costituzionale appaiono criticabili senza che
sia dato comprendere a quali esigenze di sistema il “sacrificio processuale” si
connetta, sembra, però, potersi scorgere la tendenza a piegare
l’interpretazione dei principi processuali in ragione della maggiore o minore
incisività dell’intervento che i Giudici costituzionali ritengano di dover
porre in essere al fine di preservare la legalità costituzionale.
Il rinvenirsi di quest’orientamento
giurisprudenziale richiama alla mente il noto dibattito dottrinale relativo
alla bilanciabilità delle regole processuali. Si è infatti discusso in dottrina
se le disposizioni processuali debbano farsi rientrare nel bilanciamento dei valori
che di volta in volta vengono in rilievo nel giudizio costituzionale, o non
debbano piuttosto costituire la cornice all’interno della quale quella
attività di bilanciamento si svolge.
Da parte di alcuni, com’è noto, si
sostiene che «il processo costituzionale non è la culla delle coerenze processuali
poiché in esso si celebra una vicenda che riguarda l’effettività del sistema
di governo nel suo complesso, e nel quale si sottopone a una sorta di
bilanciamento, espresso, tacito o implicito, tutto quanto ha rilievo ai fini
di un esito ragionevole, non importa se processuale o di merito, delle
questioni di costituzionalità»[38]. Si sostiene cioè che anche le regole processuali
entrano a far parte di un complessivo bilanciamento di valori che mette capo a
tutti i fattori, sostanziali o processuali, che abbiano rilievo nel giudizio,
sì da ottenere un esito ragionevole della questione, sia essa decisa nel
merito o con decisone processuale[39].
Altra parte
della dottrina esprime invece un’opposta opinione, ritenendo che le regole
processuali non possano considerarsi un elemento interno al bilanciamento di
valori, poiché questo equivarrebbe,
negando la rigidità delle norme del processo, a togliere alle stesse qualunque
reale significato, laddove, invece, un quadro chiaro e certo di disposizioni
processuali dovrebbe costituire la cornice all’interno della quale si svolge
l’opera di bilanciamento del giudice costituzionale[40].
Questa seconda impostazione sembra
maggiormente condivisibile, in considerazione del fatto che, come si è
notato, l’apporto della giurisprudenza costituzionale alla definizione della
disciplina processuale non può tradursi nella oscillazione tra interpretazioni
spesso diverse delle norme processuali in rapporto alle singole fattispecie sottoposte
all’attenzione della Corte, senza che ciò comporti la perdita di valore delle
norme stesse. È vero, infatti, che non può negarsi un ruolo in qualche modo
creativo alla giurisprudenza costituzionale per le ragioni di cui si è detto,
ma è altrettanto vero che una volta indicata una interpretazione delle disposizioni
processuali compatibile con il tipo di giudizio demandato alla Corte, questa dovrebbe
poi essere rispettata se non si vuole che le norme processuali perdano la loro
funzione peculiare, ovvero quella di rendere prevedibile e certo il
comportamento del giudice di fronte a situazioni tipizzate, che è poi la
ragione per cui la giurisdizione si esercita nella forma del processo.
La certezza delle forme processuali
è, infatti, l’unico mezzo per prevedere quale sarà il comportamento del
giudice in una data situazione, dal che non può prescindersi se non con rischio
di compromissione dei diritti fatti valere in giudizio[41],
oltre che della perdita di legittimazione del giudice[42].
In quest’ottica, dunque, pur
dovendosi riconoscere alla giurisprudenza della Corte un ruolo importante nella
costruzione del processo costituzionale, si può sottolineare che sarebbe auspicabile
che una volta individuata una linea applicativa di una certa regola
processuale, questa sia poi rispettata anche in futuro, poiché non sembra ipotizzabile
che le regole processuali possano recedere dinanzi a valori che in un dato momento
appaiono preminenti, a meno che la Corte non motivi compiutamente le ragioni
per le quali ritiene di doversi discostare da un precedente e consolidato
orientamento processuale[43]. E
ciò in ragione della funzione di garanzia cui le forme processuali assolvono;
funzione che sembra poco conciliabile con un’armonizzazione caso per caso della
singola regola con gli aspetti sostanziali delle singole questioni.
[1] Cfr. G.
Zagrebelsky, Diritto processuale costituzionale?, in AA.VV., Giudizio
“a quo” e promovimento del processo costituzionale, Milano, 1990
[2] Cfr., per tutti, G. Zagrebelsky,
[3] Così R.
Romboli,
[4] Per tutti E. Malfatti, S. Panizza, R. Romboli, Giustizia costituzionale, Torino, 2003, 179.
[5] In Giur
cost., 2003, 2841.
[6] Si tratta delle sentenze nn. 71 del 1982
(in Giur. cost., 1982, 684) e 417 del
2000 (in Giur. cost., 2000, 3107 con nota redazionale di G. Bianco).
[7] Percorrendo a ritroso i richiami fatti
dalla Corte ai propri precedenti si giunge sino alla sentenza n. 15 del 1967,
nella quale
[8] Cfr. Sentenza 13/1960, in Giur. Cost., 1960, 123, con nota di V. Andrioli, Intorno all’applicabilità della L. 25 marzo 1958, n. 260, ai giudizi
avanti
[9] Ibidem
[10] V.
Andrioli, op ult. cit.
[11] V.
Andrioli, op ult. cit., 128.
[12] Cfr. S. Mangiameli,
Corte costituzionale e Titolo V:
l’impatto della riforma, in Giur.
cost., 2002, 457
[13] In Giur.
cost., 2002, 137
[14] Questa possibile soluzione era stata
anticipata in dottrina da A. Concaro,
Corte costituzionale e riforma del Titolo
V della Costituzione: spunti di riflessione su alcuni problemi di diritto
intertemporale, in Le Regioni,
2001, 1334
[15]
[16] Cfr. S.
Mangiameli, op. ult. cit., 468
[17] Ulteriori osservazioni critiche, traendo
spunto dalla sentenza n. 17 del 2002, si appuntano sulla questione della
promulgazione della legge da parte del Presidente della Regione, ipotizzando
che lo ius superveniens spieghi i
suoi effetti anche con riferimento a questo potere del Presidente, il quale potrebbe
astrattamente ritenersi legittimato a non promulgare la legge, rinviandola al
Consiglio regionale. Cfr. A. Ruggeri,
In ordine alla questione teorica generale sulla configurabilità
di un potere di rinvio in capo al Presidente della Giunta regionale, con
specifico riferimento al riproporsi della questione a seguito della riforma
costituzionale del 2001, l’Autore richiama la posizione di chi ipotizza una
previsione espressa degli Statuti in questo senso nell’ottica di preservare la
rigidità statutaria. Ci si riferisce, in particolare, a R. Bin, Le potestà
legislative regionali, dalla Bassanini ad oggi, e A. Spadaro, I
«contenuti» degli statuti regionali (con particolare riguardo alle forme di
governo), entrambi in A. Ruggeri, G.
Silvestri (a cura di), Le fonti di
diritto regionale alla ricerca di una nuova identità, Milano, 2001,
rispettivamente, 150 e 91. Tesi diversa, pure richiamata da A. Ruggeri,
[18] Cfr. ancora A. Ruggeri, op. ult.
cit., 852. La possibilità di addivenire ad una pronuncia di cessazione
della materia del contendere era stata ipotizzata da T. Groppi, La legge
costituzionale n. 3/2001 tra attuazione e autoapplicazione, in T. Groppi, M. Olivetti (a cura di),
[19] Secondo A.
Ruggeri, op. ult. loc. cit., «la soluzione mediana preferita dall’arbitro
costituzionale è stata, dunque, nel senso di spostare temporalmente in avanti
e far ripartire da capo la partita, senza pregiudizio per le posizioni di
alcuna delle parti in campo».
[20] Si è in particolare notato che, persistendo
la possibilità per lo Stato di eccepire qualsiasi vizio di legittimità della
legge regionale, indipendentemente dalla sussistenza dell’interesse a
ricorrere, sarebbe stato forse più corretto sul piano processuale decidere i
ricorsi che non investivano un parametro di giudizio oggetto della riforma
costituzionale. Cfr. A. Ruggeri, op. ult. loc. cit., 854; V. Cocozza, I profili processuali, in Le
Regioni, 2004, 490.
[21] Cfr. V.
Cocozza, op. ult. loc. cit.
[22] Sul punto appaiono molto chiare, in senso
critico, le affermazioni di A. Ruggeri,
[23] Corte costituzionale 18 ottobre 2002, n.
[24] cfr. V.
Cocozza, op. cit., 491. Lo
stesso Autore sottolinea che un punto d’osservazione della sentenza 422/02 «è l’utilizzo, da parte del giudice delle
leggi, della formula secondo la quale la soluzione indicata è quella adottabile
di norma. Tale formula, secondo cui
le norme costituzionali nuove potranno farsi valere di norma esclusivamente nei confronti delle leggi
adottate in un tempo successivo al nuovo riparto costituzionale della competenza
legislativa, può suscitare qualche perplessità sulla idoneità ad offrire una
soluzione precisa e stabile perché sembra adombrata la possibilità anche di spazi decisionali differenti,
sebbene la giurisprudenza successiva sembri confermare sul piano applicativo il
principio enucleato dalla Corte costituzionale».
[25] Che la soluzione da adottare per i giudizi
pendenti aventi ad oggetto leggi statali dovesse essere quella di decidere le
questioni alla stregua del parametro vigente al momento della proposizione del
ricorso era stato ipotizzato in dottrina da S.
Mangiameli, op. cit., 463, il
quale afferma che «se la questione di
costituzionalità consiste nella lesione della sfera di competenza materiale
della Regione, anche a seguito della revisione costituzionale può sussistere
l’interesse alla pronuncia, che dovrebbe essere valutato alla luce delle
disposizioni precedenti dell’art. 117 Cost. Infatti, se la norma statale
risultava incostituzionale, al momento della proposizione del ricorso, va
annullata, perché non doveva essere emanata». Qualche considerazione problematica
può leggersi in V. Cocozza, op. cit., 491, il quale, pur
condividendo la soluzione adottata dalla Corte costituzionale, sottolinea che «escludere sempre qualunque riferimento
all’innovazione costituzionale, può mostrare linee di problematicità. Si
considerino, in particolare, le ipotesi differenti da quella delle leggi che
intervengono a regolamentare ambiti materiali. La notazione è riferita
soprattutto alle leggi che allocano competenze. Si considerino, ancora, le
ipotesi di impugnative riferite ad atti contenenti discipline destinate a
perfezionarsi o completarsi in tempi diversi, come accade per i decreti-legge
e leggi di conversione o delegazioni legislative e decreti legislativi».
[26] In Giur. cost., 2003, 342
[27] In Giur. cost., 2004, 1787
[28] In questi termini F. Dal Canto, E. Rossi, Il
giudizio di costituzionalità delle leggi in via principale, in R. Romboli (a cura di), Aggiornamenti in tema di processo
costituzionale (2002 – 2004), Torino, 2005, 195
[29] In Giur. cost., 2003, 3077, con nota di R. Niro, L’«ordinamento della comunicazione» nel nuovo Titolo V: la continuità nel segno della «leale collaborazione» (fra «passione» e «ragione»)
[30] Cfr. V. Cocozza,
op. cit., 501
[31] Cfr. V. Cocozza,
op. cit., 502
[32] Così F.
Dal Canto, E Rossi, op. ult. cit.,
195, i quali richiamano le osservazioni critiche di
Moneto, Di un palese caso di
ultrapetizione nel giudizio in via principale, in Le Regioni, 2003, 883
[33] In Giur. cost., 2003, 2952, con nota di M.
Luciani, I regolamenti regionali restano
(per ora) ai Consigli, e di G. Tarli Barbieri,
[34] Cfr. V. Cocozza,
op. cit., 504, il quale afferma che «lo Statuto della Lombardia non ha fatto
altro che riportare nel testo la formula costituzionale dell’epoca, non
potendo svolgere alcuna forma di autonomia. Pur essendo la formula
assolutamente la medesima (quella costituzionale e quella statutaria ed in
presenza del vincolo di contenuto),
[35] Cfr. F.
Dal Canto, E. Rossi, op. cit.,
196.
[36] In ordine ai problemi relativi alla
dichiarazione di illegittimità costituzionale consequenziale, si veda di
recente e per tutti, G. Brunelli,
Significative convergenze: illegittimità derivata di norme analoghe e
sentenze manipolative, in AA.VV., Scritti in memoria di Livio Paladin,
Napoli, 2004, 345.
[37] Si legge, infatti, nella sentenza n. 2 del
2004, che «la dichiarazione di
illegittimità consequenziale può essere applicata anche ai giudizi in via
principale, in quanto esprime un principio di diritto processuale che è valido
per tutte le questioni di legittimità costituzionale».
[38] C.
Mezzanotte, Processo costituzionale e forma di governo, in AA.VV., Giudizio “a quo” e
promovimento del processo costituzionale, Milano, 1990, ….
[39] Di opinione sostanzialmente analoga è G. Zagrebelsky, Diritto processuale
costituzionale?, cit., 105.
[40] In questo senso si veda R. Romboli,
[41] Cfr. G. Chiovenda,
Le forme nella difesa giudiziale del diritto, in Saggi di
diritto processuale civile (1900 – 1930), I, Roma, 1930, 353. Si tratta
della prolusione al corso libero di procedura civile letta nell’Università di
Roma il 21 gennaio 1901, nella quale l’Autore affermava che «talora la inosservanza
delle forme produce la perdita del diritto. D’altro lato le forme sole rendono
possibile la precisa determinazione dell’oggetto delle contestazioni;
tracciando la via che le parti debbono seguire sostituiscono l’ordine al
disordine, e se ciò porta ritardi evita ritardi maggiori; escludono la licenza
dei litiganti e l’arbitrio del giudice, garantendo il libero esercizio della
difesa giudiziale, onde Jhering ebbe ad osservare che i popoli che professano
il vero culto della libertà, sentono istintivamente il valore delle forme come
palladio di questa. Pertanto, non vi sarebbe
ragione di lagnarsi delle forme più di quello che […] avrebbe ragione
il colombo di lagnarsi dell’aria che rallenta il suo volo, senza accorgersi che
appunto quell’aria gli permette di volare».
[42] Cfr. ancora G. Chiovenda, op. ult. cit., 374, il quale afferma che «il
vizio peggiore d’un sistema di forme processuali non è la sua complicazione,
non le sue lungaggini; il vizio peggiore delle forme è l’incertezza e la discutibilità.
Entrambe dipendono o dall’imperfetta od oscura formulazione della legge, o
dalla sua rilassatezza nella sanzione delle inosservanze formali: l’una e
l’altra producono le questioni di forma. Ora le questioni di forma sono il
vero e proprio danno delle forme. La lite può avere un’alta funzione giuridica
e sociale: poiché essa conduce al ristabilimento del diritto non è solo un
atto di giustizia in sé, ma è una remora a violazioni future. Inoltre i
giudizi hanno un’influenza di prima importanza sulla elaborazione del diritto.
Ma le questioni di forma, che traggono dalla lite, che è mezzo e non scopo,
materia di nuove liti; che rendono colui che s’avvicina al tempio della
giustizia incerto della via da seguire per entrarvi; che distraggono
l’attività delle parti, dei giudici, degli studiosi da un lavoro utile; che
ritardano e talora interrompono il cammino della giustizia; queste sono un
male. Il legislatore deve impedire che le forme si violino per oscurità di
legge: e provvedere che, se una forma fu violata, l’effetto della inosservanza
sia chiaro ed aperto».
[43] Nel senso della necessità di una adeguata
motivazione qualora