ANDREA LONGO
ALCUNE RIFLESSIONI SUI RAPPORTI TRA L’INTERPRETAZIONE
CONFORME A DIRITTO COMUNITARIO E L’UTILIZZO DEL CANONE DI
EQUILIBRIO FINANZIARIO DA PARTE DELLA CORTE
COSTITUZIONALE
1. Percorrendo la ragnatela - 2. Alcune linee evolutive dell’interpretazione conforme a diritto comunitario - 3.
Interpretazione conforme a diritto comunitario e Corte costituzionale - 4. Il principio di equilibrio finanziario nella giurisprudenza dei
giudici di Palazzo della Consulta.
1. Percorrendo la ragnatela
Le
riflessioni che seguono nascono da un’unica domanda: se e come la Corte costituzionale italiana, nei propri giudizi,
utilizzi il metodo dell’interpretazione conforme a diritto comunitario
nell’applicare il principio dell’equilibrio finanziario.
Un
quesito che già nella sua formulazione appare piuttosto articolato; soprattutto
considerando i numerosi piani di studio che si intersecano
in questa problematica, tra relazioni politico-ordinamentali,
problemi tassonomici, percorsi argomentativi, esiti pratico-giurisprudenziali.
Così un tema come quello in esame che, ictu oculi, parrebbe essere quantitativamente piuttosto
circoscritto e possedere un carattere marcatamente empirico-giurisprudenziale,
si pone, in realtà, al crocevia di percorsi afferenti
all’ermeneutica, alla categorizzazione dogmatica, alla teoria generale. Un vero
e proprio ginepraio di incertezze; una ragnatela che
non può essere toccata in alcuna sua parte, senza che ne tremi l’intera
superficie. E proprio come in una ragnatela, da un unico centro problematico si dipanano, in tutte le direzioni, numerose
linee tematiche che vanno percorse con estrema cautela, prestando la massima
attenzione all’ossimoro rappresentato dalla loro “delicata forza”.
La
complessità del tema pretenderebbe almeno due piani di riflessione uno
descrittivo ed uno valutativo.
Sul piano descrittivo possiamo distinguere
almeno tre linee tematiche che è necessario
approfondire, tre domande alle quali è necessario rispondere:
a)
come si caratterizzi, quale elemento dogmatico, l’interpretazione
conforme al diritto comunitario;
b)
se e come la Corte costituzionale
utilizzi (o forse possa, debba
utilizzare), in generale, il metodo dell’interpretazione conforme a diritto
comunitario;
c)
se e come la Corte costituzionale
utilizzi tale metodo nei giudizi che coinvolgono l’equilibrio finanziario.
Sul piano valutativo emerge una difficoltà ulteriore, un elemento oscuro che può rendere
maggiormente problematica un’analisi effettivamente lucida: esiste una sorta di
sovraccarico politico-ideale che, per
singolare coincidenza, grava su entrambi i poli di questa indagine. Tanto il
meccanismo di interpretazione conforme (inteso nelle
sue molteplici accezioni) tanto il principio di equilibrio finanziario sono
avvertiti da parte (consistente e autorevole) della dottrina come
(l’espressione risulta forte perché vuole essere sintetica) elementi di potenziale perversione dei
meccanismi democratici e dell’ordinamento costituzionale.
E
questo pur nella palese diversità della rispettiva struttura: l’interpretazione
conforme (nelle sue molteplici accezioni), infatti, possiede natura procedurale
e opera in sede giurisdizionale, mentre l’equilibrio finanziario è un principio
squisitamente sostanziale di politica legislativa. Tuttavia è indiscutibile
che, proprio in forza di tale diversità,
tali principi possiedano anche una evidente potenziale
complementarietà: sul piano teorico è di tutta evidenza che i principi
teorici si facciano valere tramite mezzi procedurali e sul piano della pratica ordinamentale (rectius interordinamentale) è
piuttosto noto che l’integrazione europea si è svolta tramite un circuito di
Corti che ha spesso anticipato e spesso sostituito l’azione dei Parlamenti
nazionali.
Così interfacciando
tutti questi elementi e leggendoli nell’ottica critica sopra accennata, si
potrebbe pensare che, negli ambiti nei quali questi due principi si trovano ad operare congiuntamente, avvenga una sorta di
cortocircuito, un’azione sinergica nella quale l’interpretazione conforme
concorra a dare maggiore forza ai limiti che il vincolo di bilancio pone
all’azione legislativa, fino a estromettere il Parlamento da un circuito
decisionale fatto di burocrati e giudici; un ulteriore passo di un percorso volto
a sterilizzare la politica nella tecnica e nell’economia.
Ma questa visione che, rispettosamente, definirei
“apocalittica”, è davvero accurata? Si può davvero affermare che, nelle
argomentazioni della Corte costituzionale, l’interpretazione conforme a diritto
comunitario abbia spinto a valorizzare il principio di equilibrio finanziario fino a livelli
sconosciuti allo spirito della Carta fondamentale[1]?
Certo
è indiscutibile l’esistenza di un nesso causale tra l’integrazione europea e la
valorizzazione di istanze economiciste
all’interno del nostro ordinamento; tuttavia, per evitare di cadere in una
declinazione del classico post hoc propter hoc, è bene interrogarsi sulla portata e sul
senso, addirittura sulla struttura di
questa relazione causale; se essa cioè si veicoli propriamente nelle forme
della cogenza giudiziaria oppure ridondi in esse semplicemente come eco di istanze politiche; ossia se gli obblighi comunitari, in tema di bilancio, siano assunti
dalla Consulta come termine immediatamente vincolante oppure – e questa, lo
diciamo subito è la nostra tesi – come
argomento meramente persuasivo[2].
La
risposta a questa domanda incide, ad avviso di chi scrive, anche su un’altra
questione: quella sulla natura del principio di equilibrio finanziario, sulla
sua collocazione nella assiologia costituzionale; se
esso sia cioè un elemento in certo modo “infiltrato” dall’esterno nel nostro
ordinamento, una sorta di principio cadetto, potenzialmente conflittuale con lo
spirito personalista e pluralista della nostra Carta fondamentale oppure sia un
valore costituzionale pleno iure, segno addirittura di una
coscienza giuridica, pragmatica e, persino, etica maggiormente consapevole. Tuttavia questo secondo
problema appare troppo complesso per essere trattato in questo contesto; lasceremo perciò da parte, almeno in questa sede,
la trattazione del profilo valutativo dell’indagine, concentrandoci
prevalentemente su quello descrittivo.
Per
amore di chiarezza riassumiamo quanto detto in alcune esplicite domande la cui
risposta costituirà l’obiettivo della nostra analisi: Esiste una relazione tra il vincolo di interpretazione
conforme a diritto comunitario e il canone, utilizzato dalla Corte
costituzionale, dell’equilibrio finanziario? O meglio: l’apprezzamento che tale canone ha subito progressivamente nella
giurisprudenza costituzionale possiede o meno una
relazione diretta con il vincolo comunitario di interpretazione conforme?
2. Alcune linee
evolutive dell’interpretazione conforme a diritto comunitario
La species
dell’interpretazione conforme a diritto comunitario[3],
rispetto ad altri tipi ermeneutici appartenenti al medesimo genus[4] (interpretazione
conforme a Costituzione e a CEDU) assume un peculiare tasso di specificità
determinato dalle caratteristiche proprie del multisistema comunitario.
Il primo elemento discretivo è lo scopo
cui è rivolto tale mezzo ermeneutico, originariamente inteso come strumento di
tutela diretta dei cittadini europei, progressivamente elaborato per superare i
limiti della dottrina dell’effetto utile;
principio questo secondo il quale – nella giurisprudenza più risalente della
CGE – veniva riconosciuta efficacia alle direttive non
attuate soltanto in senso verticale, vale a dire a favore dei cittadini nei
confronti dello Stato membro, mentre se ne negava la piena efficacia
orizzontale nei rapporti interprivati. Ovviamente la morfologia di tale sistema
lasciava aperti notevoli spazi nei quali i singoli avrebbero potuto subire un
danno dalla mancata (o inesatta) attuazione di una direttiva comunitaria.
La
soluzione a tale dilemma è stata nel tempo sviluppata,
in via pretoria, dalla CGE imponendo ai giudici
nazionali – in termini via via sempre più ampi e
pregnanti – l’obbligo di interpretare il
diritto interno alla luce del diritto comunitario. Seguendo l’evoluzione della
giurisprudenza comunitaria si nota chiaramente come il principio dell’interpretazione conforme a diritto comunitario si sia
andato progressivamente apprezzando, estendendo da un lato il proprio ambito di
applicazione e, dall’altro, il proprio coefficiente di cogenza, ponendosi
come un strumento di integrazione tanto efficiente da
divenire addirittura una scelta da privilegiare[5].
Se volessimo rappresentare visivamente le
linee di forza di tale evoluzione, potremmo tracciare
due direttrici, una verticale ed una orizzontale: la prima rappresenterebbe i
soggetti in capo ai quali, nel tempo, si è accentrata questa funzione e si
dispiegherebbe secondo un movimento dal basso verso l’alto; la seconda
direttrice potrebbe, invece, rappresentare il profilo oggettivo (quello delle
norme utilizzate) e si muoverebbe nel senso di una progressiva espansione
orizzontale. Questa rappresentazione bidimensionale (talmente inaccurata da essere addirittura
semiseria) vuole mostrare, in estrema sintesi, il progressivo svilupparsi di
due processi complementari: l’apicalizzazione della funzione di interpretazione conforme
nelle mani della Corte di Giustizia (fino alla creazione di una sorta di “nomofilachia europea”) e l’allargamento della normativa ritenuta utilizzabile sotto l’egida
di tale funzione, sia in relazione alle norme oggetto sia in relazione al
parametro invocabile[6].
Esaminiamo
la questione in maggior dettaglio partendo proprio dal profilo oggettivo.
Innanzitutto bisogna notare come, in un primo momento (ad esempio nella
sentenza Von Colson
del 1984), la Corte di giustizia abbia ritenuto che oggetto
dell’interpretazione conforme dovesse essere unicamente la legge nazionale espressamente adottata per l’attuazione della direttiva
comunitaria.
In
seguito questo orientamento è andato decisamente
mutando nel senso di una progressiva espansione. Sul punto l’ovvio riferimento
è la nota sentenza Marleasing[7] nella quale la Corte di Giustizia ha
affermato: “l’obbligo degli Stati membri, derivante da
una direttiva, di conseguire il risultato da questa contemplato, come pure
l’obbligo, loro imposto dall’art. 5 del Trattato, di adottare tutti i provvedimenti
generali o particolari atti a garantire l’adempimento di tale obbligo, valgono
per tutti gli organi degli Stati membri ivi compresi, nell’ambito di loro
competenza, quelli giurisdizionali. Ne consegue che
nell’applicare il diritto nazionale, a prescindere dal fatto che si tratti di
norme precedenti o successive alla direttiva, il giudice nazionale deve
interpretare il proprio diritto nazionale alla luce della lettera e dello scopo
della direttiva, onde conseguire il risultato perseguito da quest’ultima e
conformarsi pertanto all’art. 189, terzo comma, del Trattato”.
Sulla stessa linea, nella sentenza Carbonari del 1997, la Corte di Lussemburgo ebbe modo di
affermare come spettasse al giudice dello Stato membro “valutare in quale
misura l’insieme delle disposizioni nazionali” potesse “essere interpretato,
fin dalla loro entrata in vigore, alla luce della lettera e dello scopo della
direttiva, al fine di conseguire il risultato da essa voluto”. In maniera
ancora più esplicita nella sentenza Pfeiffer
venne detto che “Se è vero che il principio di
interpretazione conforme del diritto nazionale … riguarda in primo luogo le
norme interne introdotte per recepire la direttiva in questione, esso non si
limita, tuttavia all’esegesi di tali norme, bensì esige che il giudice
nazionale prenda in considerazione tutto
il diritto nazionale per valutare in quale misura possa essere applicato in
modo tale da non addivenire ad un risultato contrario a quello cui mira la
direttiva”.
È di evidenza lapalissiana quanto la sentenza
appena riportata abbia esteso l’ambito delle norme individuabili quale oggetto di interpretazione conforme; tuttavia questa decisione si
spinse anche ad allargare il possibile parametro di riferimento: la Corte,
infatti, giunse ad affermare che “l’esigenza di un’interpretazione del diritto
comunitario è inerente” non alla singola direttiva ma “al sistema del Trattato”.
Gli
ultimi due punti di diritto appena riportati ci fanno notare quanto l’atto di interpretare il
diritto interno conformemente a quello comunitario divenga operazione
indiscutibilmente vasta: un giudizio di congruità che non deve porsi tra due norme e nemmeno
tra due sottogruppi istituzionali, ma addirittura tra “tutto il diritto
nazionale” e “l’intero sistema del Trattato”; un confronto questo che, a
rigore, sarebbe talmente complesso da invocare, per il suo corretto
svolgimento, l’Hercules di dworkiniana memoria.
Entrambe
queste linee di tendenza sono, recentemente, state confermate dalla nota
sentenza Pupino,
nella quale come oggetto si è fatto riferimento “alle norme dell’ordinamento
nazionale nel suo complesso” e come parametro è stata individuata una decisione
quadro[8].
Tra parentesi anche l’ambito materiale di quest’ultima decisione è piuttosto
nuovo per il meccanismo dell’interpretazione conforme: esso, infatti, avendo ad oggetto il mandato d’arresto europeo, attiene a quello
che al tempo della pronuncia era il c.d. Terzo pilastro[9],
vale a dire la collaborazione degli stati membri in tema di sicurezza.
Circostanza questa che ha sollevato accese discussioni in dottrina, in merito
al potenziale coefficiente lesivo per le libertà individuali di un simile
orientamento[10].
Passando
ora a discutere del profilo soggettivo (il primo di cui si parlava), la
dottrina ha già notato come, per diversi motivi, il vincolo all’interpretazione
conforme si sia progressivamente trasformato da criterio nazionale che muove “dal basso”, a criterio comunitario, imposto “dall’alto”.
Qui
dobbiamo far riferimento all’origine dell’istituto, che, in certo modo, è più
risalente dello stesso ordinamento comunitario ed
affonda le proprie radici nella presunzione di conformità del diritto interno
al diritto internazionale e, dunque, nella prassi di interpretare il primo in
maniera compatibile al secondo. Così anche prima che la Corte di giustizia
sancisse espressamente l’obbligo delle autorità
competenti di interpretare il proprio diritto conformemente al diritto
comunitario, molti Stati membri autonomamente
avevano avuto modo declinare questa prassi di diritto internazionale in relazione al diritto comunitario[11].
Ed
anche nelle prime decisioni della Corte di giustizia, negli anni ’70 (le
sentenze Haaga,
Bonsignore,
Mazzalai, Sagulo), si
percepiva che la necessità di un’applicazione del diritto interno conforme al
diritto comunitario fosse un’esigenza avvertita dal giudice nazionale e che, in
virtù del rinvio pregiudiziale, si inscriveva in un
modello di collaborazione tra Corti. Diversamente nelle decisioni posteriori
(come Von Colson
e Marleasing)
la Corte di giustizia, sempre di più, venne a trasformare il meccanismo
dell’interpretazione conforme in un proprio dictat[12].
Il
punto di svolta, l’esplicitazione di tale posizione, è rintracciabile, ancora,
nella decisione Marleasing,
quando il giudice comunitario affermò che “nell’applicare il diritto nazionale,
a prescindere dal fatto che si tratti di norme precedenti o successive alla
direttiva, il
giudice nazionale deve interpretare il proprio diritto nazionale alla luce
della lettera e dello scopo della direttiva onde conseguire il risultato
perseguito da quest’ultima” (C-106/89, Marleasing,
in Racc., 1990, I-4135). È bene sottolineare
che questo movimento non si può ridurre ad una mera apicalizzazione soggettiva del principio – nel senso
che la sua “titolarità” semplicemente si sposta dai giudici nazionali a quello
comunitario – ma implica una vera e propria
permutazione, una trasformazione tipologica: da scelta autonoma, improntata, come
detto, ad un modello di collaborazione tra corti, a vero e proprio vincolo di natura giuridica, una metanorma sull’interpretazione
imposta dalla Corte di giustizia ai giudici dei paesi membri.
La
pregnanza e la pervasività di tale processo di apicalizzazione risulta ancor più
evidente considerando che se in linea di principio la Corte di giustizia
persegue una rigida separazione competenziale, avendo
espressamente dichiarato che non è suo compito interpretare la normativa
interna e che non è compito del giudice interno interpretare la normativa
comunitaria[13],
tuttavia in concreto essa è andata ben
oltre, sviluppando una attitudine a prendere indirettamente posizione sulla
interpretazione della disposizione interna conforme al diritto comunitario ed
alla eventuale necessità di una sua disapplicazione per contrasto insanabile
con esso. Così ammette la stessa Corte di giustizia nella pronuncia 18 giugno
1991, Piageme, C-369/89, al punto 7: “secondo giurisprudenza costante, benché non spetti alla
Corte, nell’ambito dell’art. 177 del Trattato, pronunciarsi sulla compatibilità
di una normativa nazionale con il diritto comunitario, essa è però competente a
fornire al giudice nazionale tutti gli elementi d’interpretazione del diritto
comunitario che possano consentirgli di valutare tale compatibilità ai fini
della soluzione della causa della quale è investito”[14].
Il
breve e sommario esame fin qui condotto pare mostrare che la declinazione
comunitaria dell’interpretazione conforme possieda delle caratteristiche fortemente peculiari rispetto ad altri tipi di
interpretazione conforme, accentuandone alcune caratteristiche e attenuandone
altre. Sembra prevalere infatti l’elemento di una rigida traslazione di senso dall’alto
verso il basso, ossia dalla giurisprudenza della CGE verso quella dei giudici
comuni e similmente pare ridursi il tasso
di conciliatività delle decisioni che dovrebbe
nascere da un egalitario confronto tra corti. In questo
ambito, almeno, il cosiddetto dialogo tra le Corti pare essersi evoluto nel senso della
prevalenza di un parlante sull’altro.
3. Interpretazione conforme a diritto
comunitario e Corte costituzionale
Come detto,
l’interpretazione conforme a diritto comunitario nasce come potere-dovere del giudice comune;
dobbiamo ora interrogarci sul “se” e sul “come” tale strumento appartenga anche
alla disponibilità (e agli oneri) della Corte costituzionale: per rispondere a
tali domande è necessario distinguere a seconda del tipo di giudizio e del tipo
di norma comunitaria.
Per
ciò che attiene il giudizio in via incidentale
dobbiamo distinguere due gruppi di ipotesi.
Un primo gruppo riguarda il diritto
comunitario immediatamente applicabile nella triplice declinazione di
regolamenti, direttive self-executing e principi
generali dell’Unione; in linea di principio tali casi si dovrebbero porre in
maniera eccentrica rispetto all’ortodossia dell’interpretazione conforme che
nasce per assicurare l’effetto utile del
diritto non immediatamente applicabile; tuttavia l’ipotesi di porre in essere
l’interpretazione conforme da parte dei giudici comuni in luogo della
disapplicazione non è puramente teorica visto che,
come sottolineato anche dalla dottrina, laddove “il rimedio ermeneutico
consente di risolvere il contrasto con la norma comunitaria direttamente efficace,
esso va preferito rispetto alla più drastica scelta della disapplicazione, alla
quale, peraltro, il più delle volte deve seguire una modifica o un’abrogazione
della norma nazionale disapplicata”[15]; in tal caso siamo di fronte ad una sorta di interpretazione
conforme per così dire impropria che
non supplisce alla mancanza di un effetto
diretto attraverso la produzione di un effetto
utile ma risponde più che altro a ragioni di economica ordinamentale.
Tale possibilità rimane però, in concreto, preclusa alla Consulta la quale
rimane fuori dal circuito di ablazione/conformazione che si esaurisce
all’interno dell’operato del giudice comune; dunque,
non esistendo la possibilità (fin dalla sent. 170/84) di sollevare la questione
di costituzionalità in relazione al diritto UE immediatamente applicabile non
esiste, conseguentemente, la possibilità per il giudice delle leggi di
esercitare (o suggerire) un’interpretazione conforme.
Un secondo gruppo di ipotesi
riguarda il diritto comunitario non direttamente applicabile. In questi casi
lo stato del sistema determina effettivamente al
possibilità che la Corte possa svolgere un’attività di interpretazione conforme
in quanto per giurisprudenza costante il giudice che non ravvisa la possibilità
di interpretare conformemente a diritto comunitario una disposizione interna
deve sollevare la questione di costituzionalità; a quel punto la Consulta
dichiarerà incostituzionale la disposizione, per contrasto con gli artt. 11 e
117 della Costituzione, utilizzando il diritto comunitario come norma
interposta. Tuttavia, si apre anche la possibilità teorica, per la Consulta, di
suggerire, essa stessa, al giudice comune una interpretazione
conforme a diritto comunitario, rigettando così la questione e arrivando a
vestire un ruolo, per così dire, di supplenza
interpretativa. Tale possibilità deriva, dunque, dallo spezzarsi dell’unità soggettiva di disporre tra ablazione e
conformazione che determina una attrazione verso la
Consulta della potestà ablativa e una duplicazione della potestà
interpretativa, condivisa tra il giudice comune e quello delle leggi.
Tali
conclusioni sembrano confortate da alcune recenti decisioni del giudice delle
leggi: ad esempio nella sentenza n. 28 del
2010, è stato dichiarata, a seguito di un ricorso in via incidentale,
l’incostituzionalità di una norma penale di favore contrastante con una
direttiva comunitaria. La peculiarità di questa sentenza deriva dal contesto normativo sul quale essa si è trovata ad operare;
ciò che, infatti, ha innescato il giudizio della Corte è stata proprio l’impossibilità di percorrere da parte del
giudice a quo la consueta alternativa
tra disapplicazione e conformazione ermeneutica:
posto infatti che “interpretazione
conforme proposta” dalla parte privata non è stata ritenuta ammissibile “in quanto contraddice ciò che chiaramente emerge dal testo
della disposizione censurata” e avendo di fronte una norma penale di
favore, non è stata ritenuta “implausibile
la motivazione con cui il giudice rimettente esclude di poter fare diretta applicazione
delle direttive comunitarie, disapplicando di conseguenza la norma censurata,
in quanto ritenuta in conflitto con le prime”[16].
Sulla
medesima scia la già citata sentenza 227/2010[17], in tema di mandato d’arresto europeo, dove ugualmente la
Consulta premette al proprio ragionamento la constatazione dell’impossibilità
per il giudice comune di espletare una delle due strade prospettate dal distico
ablazione/conformazione: “Nel caso in esame, i rimettenti hanno correttamente
valutato, in primo luogo, l’esistenza del contrasto tra la norma impugnata e la
decisione quadro, esplicitando le ragioni che precludono l’interpretazione
conforme. La motivazione sul punto è plausibile, in quanto
numerose decisioni della stessa Corte di cassazione configurano un ‘diritto
vivente’ in ordine all’applicabilità nella specie ed alla portata dell’art. 18,
comma 1, lettera r) in particolare
alla non riferibilità di questa norma allo straniero dimorante o residente in
Italia. Peraltro, tale interpretazione risulta
suffragata sia dalla lettera della disposizione, che dai lavori preparatori …
Ne consegue, anzitutto, che il contrasto tra la normativa di recepimento
e la decisione quadro, insanabile in via interpretativa, non poteva trovare
rimedio nella disapplicazione della norma nazionale da parte del giudice
comune, trattandosi di norma dell’Unione europea priva di efficacia diretta, ma
doveva essere sottoposto alla verifica di costituzionalità di questa Corte”.
Ciò
che interessa maggiormente ai fini del nostro discorso è che, in entrambi i
casi, la Consulta esprime il proprio giudizio circa l’impossibilità di
percorrere la via dell’interpretazione conforme nei riguardi della normativa
impugnata, opponendosi nel primo caso (sent. n. 28/10)
il tenore della disposizione e nel secondo caso (sent. n. 227/10)
anche argomenti ulteriori, quali la formazione di un diritto vivente e il
tenore dei lavori preparatori. Queste constatazioni sembrano dimostrare che la
Corte possa farsi carico del problema e ricomprendere nell’ambito della propria
cognizione il giudizio sulla possibilità e sulla correttezza
dell’interpretazione conforme a diritto comunitario, mettendosi, dunque, nella
posizione di suggerire al giudice comune un’interpretazione adeguatrice,
ove quest’ultimo non l’avesse effettuata o non
l’avesse effettuata correttamente.
Un discorso parzialmente peculiare è
rappresentato dai casi di ricorso in via principale, dove la Corte, da tempo, ha ammesso la propria competenza a dichiarare
l’annullamento del diritto interno contrastante con quello europeo[18].
In tale giudizio il profilo comunitario ha probabilmente subito una sorta di
ulteriore implementazione a seguito della modifica dell’art. 117 Cost. e di una
serie di decisioni nelle quali la Consulta ha dichiarato che la normativa UE
può fungere da norma interposta (e.g. sent. n. 7 e n. 166 del 2004,
n. 406 del 2005,
n. 129 del 2006[19]).
Anche
in questo caso ci troveremmo di fronte ad un tipo di interpretazione
conforme impropria e questo per due
ordini di motivi: in primo luogo (similmente al caso delle norme direttamente
applicabili) l’obiettivo è quello della conservazione dell’esistente giuridico
più che il riempimento di una lacuna tramite la produzione di un effetto utile,
in secondo luogo l’operazione interpretativa si fonda sì su una direttiva
comunitaria ma su una direttiva che è stata attuata con normativa nazionale;
esistendo perciò un doppio canone interpretativo (interno e comunitario) cui
fare riferimento, non si assiste ad una effettiva traslazione di senso
dall’ordinamento comunitario a quello nazionale. La natura spuria (e in fondo attenuata) di quest’operazione ermeneutica vale
probabilmente a superare un’obiezione di principio che potrebbe muoversi;
obiezione secondo la quale un simile utilizzo dell’interpretazione conforme
sarebbe in contrasto con le caratteristiche teleologiche dello stesso vincolo
ermeneutico del quale ci occupiamo, il cui scopo è finora stato quello di
garantire l’efficacia orizzontale del diritto UE non autoapplicativo evitando ai singoli
un vuoto di tutela[20]; eventualità questa che appare piuttosto rara in un
giudizio come quello in via principale che (soprattutto dopo la riforma
dell’art. 127 Cost.) si pone essenzialmente come un giudizio di vindicatio potestatis.
Un
esempio di questo tipo di interpretazione conforme impropria può ricavarsi a nostro avviso dalla già citata sentenza n. 7 del
2004 in materia di produzione e di distribuzione dell’energia elettrica:
dalla norma impugnata[21]
“secondo la prospettazione del ricorrente, sarebbe
desumibile la possibilità, per la Regione, di dettare linee guida per la
realizzazione degli impianti, tali da pregiudicare la compatibilità, da un
punto di vista tecnico, della rete regionale di distribuzione dell’energia
elettrica, con la rete nazionale nonché con le altre
reti europee”. La Corte afferma, invece, nel punto 2
del considerato in diritto, che tale
interpretazione alla luce del quadro normativo di riferimento, sia comunitario
che nazionale non può essere accolta; di seguito viene poi attuata una
interpretazione adeguatrice della norma impugnata in
riferimento sia alla disciplina comunitaria (la direttiva 96/92/CE) sia alla
normativa interna che le dà attuazione (il d.lgs. n. 79 del 1999)[22].
Possiamo parlare in questo caso di interpretazione
conforme a diritto comunitario? Probabilmente non in senso proprio: sicuramente
c’è un’attività ermeneutica tesa a evitare una soluzione ablativa e c’è il
riferimento al diritto comunitario; tuttavia si tratta di diritto comunitario
attuato tramite diritto interno, e l’operazione ermeneutica si muove anche in relazione a tale normativa; manca, dunque la necessità
vera e propria di produrre un effetto
utile. Se, dunque, in omaggio alla presenza del citato parametro
comunitario, non si volesse parlare di interpretazione
adeguatrice tout
court, dovremmo comunque intendere l’argomentazione sopra esposta come una
forma, quantomeno, spuria di
interpretazione conforme.
Esiste
poi un’ulteriore elemento di difficoltà, non
teorico-ricostruttiva ma pratico-consequenzialista,
che taglia trasversalmente, anche se non simmetricamente, i casi sopra
enumerati e attiene al tasso di cogenza delle decisioni interpretative della
Corte costituzionale in relazione al diritto comunitario. Nel nostro
ordinamento alla Consulta viene, infatti, riconosciuta una capacità ermeneutica
vincolante solo in relazione al dettato
costituzionale; molto più discussa è invece la cogenza delle decisioni
interpretative in relazione al diritto primario (con tutta una serie di
problematiche che in passato ha causato la c.d. “Guerra fra le Corti”) e
addirittura assolutamente preclusa è la sua possibilità di interpretare il
diritto comunitario, potestà che appartiene unicamente alla Corte di Giustizia.
Se il vincolo all’interpretazione conforme presuppone la possibilità di
armonizzare scelte ermeneutiche alternative attraverso il confronto di norme
appartenenti a piani (o a ordinamenti) diversi, allora, la capacità interpretativa del Giudice delle leggi si pone in un
punto cieco della relazione tra sistemi ermeneutici distinti apparendo,
addirittura, doppiamente limitata:
limitata nei confronti della legge nazionale che egli dovrebbe interpretare
solo (rectius prevalentemente) in
relazione alla Costituzione e limitata nei confronti del diritto
comunitario che egli non può interpretare affatto, ma che anzi può essere
oggetto di richiamo solo laddove la sua interpretazione sia di per sé “di
chiara evidenza”[23], dovendo, in caso contrario, promuovere la questione
pregiudiziale interpretativa alla Corte di giustizia dell'Unione europea[24].
Com’è
di tutta evidenza e come accennato sopra, tale
elemento problematico non si trova simmetricamente in tutti i tipi di giudizio.
Nel ricorso in via principale il grado di problematicità è in certo senso
attenuato dovendo la Consulta confrontarsi solo con il limite imposto dalla
competenza della Corte di Giustizia. Nel ricorso in via incidentale, invece,
tale problema si fa ancora più pregnante, soprattutto dinnanzi
all’esistenza di un diritto vivente difforme dall’interpretazione prescelta dal
giudice delle leggi. Con un certo amore di paradosso si potrebbe addirittura
sostenere che l’estensione della possibilità ermeneutica della Corte
costituzionale (o meglio la capacità vincolante di tale possibilità)
rappresenta un minus quam anche
rispetto a quella del giudice comune al quale è, invece, riconosciuta la
facoltà (rectius
l’obbligo) di interpretare la legge interna in
relazione al diritto comunitario; facoltà che, soprattutto nel caso della
Cassazione, ridonda in un effettivo vincolo ermeneutico o, quantomeno, in un
vincolo ermeneutico effettivamente riconosciuto dai giudici comuni.
4. Il principio di equilibrio finanziario
nella giurisprudenza dei giudici di Palazzo della
Consulta
Assumiamo
ora l’ultimo elemento del nostro studio: ossia il principio dell’equilibrio
finanziario per come vive nella giurisprudenza della Corte.
Tale
principio, com’è noto, possiede una doppia anima: una interna
al nostro ordinamento e che trova il proprio referente normativo nell'art. 81 co. 4 della Costituzione ed una
comunitaria che nasce nel ‘92 con il Patto
di stabilità e crescita, in un momento in cui ci si rende conto che gli
strumenti “negativi” di integrazione (cioè l’eliminazione dei dazi,
l’eliminazione degli ostacoli alla circolazione di beni e persone) non sono
sufficienti a conformare a pieno il sistema economico, ma sono oramai necessari
degli strumenti “positivi”; si impone, allora, agli Stati membri il rispetto
dei c.d. parametri di Maastricht in relazione ai propri bilanci[25].
È noto che, nel nostro paese, a quello europeo è seguito poi un Patto di stabilità interna con la L.
448/1998, art. 28 con il quale lo Stato impegna gli
enti locali “a pianificare un programma di politica economica volta a
contribuire alla realizzazione degli obiettivi generali di finanza pubblica” e
quindi a ridurre i debiti, ad abbattere i costi di gestione ed a migliorare il
flusso delle entrate[26].
È
quasi pleonastico a questo punto sottolineare che il
sorgere del PSC abbia determinato un deciso apprezzamento,
una valorizzazione del principio interno di equilibrio finanziario, visibile
anche nella giurisprudenza della Corte costituzionale; visibile tanto rispetto
alla c.d. Costituzione dei poteri (in
relazione alla competenza delle regioni), tanto alla c.d. Costituzione dei diritti (nel bilanciamento dei diritti sociali).
Una valorizzazione che, secondo parte della dottrina, sarebbe arrivata ad un punto tale da stravolgere l’originario disegno
costituzionale.
La
domanda, invece, che vogliamo porre in questa sede riguarda non tanto il senso (sistemico, ordinamentale) di questa valorizzazione, quanto, più
semplicemente, il modo nel quale
questa è avvenuta. Intendiamo cioè chiederci se e quanto il meccanismo
dell’interpretazione conforme abbia pesato nelle decisioni della Consulta;
ossia se e quanto la Corte costituzionale si sia rivolta al diritto comunitario
per riempire di un nuovo significato il principio ex art. 81
co. 4, Cost.
È chiaro che la risposta a questa domanda ridonda
anche su un piano soggettivo di concreto esercizio del potere: infatti l’affermazione di un ruolo importante
dell’interpretazione conforme (attraverso cui la Consulta si rivolge “fuori”
dal proprio ordinamento per trovare il senso di un principio interno)
dimostrerebbe che tale permutazione sarebbe avvenuta tramite una sorta
corto-circuito tra la Corte costituzionale e gli organi comunitari,
“bypassando” il Parlamento. In questo senso la valorizzazione del principio di
equilibrio finanziario costituirebbe un’ulteriore
declinazione di quel fenomeno di sterilizzazione della politica, di fuga della
sovranità dagli organi rappresentativi statali a quelli tecnocratici
dell’Unione, su cui parte della dottrina si è a lungo focalizzata.
È
questa la rappresentazione più verosimile della realtà? Chi scrive non crede di
poter essere di questo avviso, e ciò per almeno due
ordini di motivi. Il primo attiene tanto alle caratteristiche del vincolo
comunitario di interpretazione conforme, tanto ai, ben
noti, rapporti tra Corte costituzionale e Corte di Giustizia; il secondo
inerisce alle caratteristiche della giurisprudenza costituzionale in materia di
equilibrio finanziario.
Dunque
per affermare che esista effettivamente un rilevante fenomeno di interpretazione conforme a diritto comunitario in tema di
equilibrio finanziario, dovremmo verificare nelle singole decisioni la presenza
di almeno due elementi:
1.
la presenza di una soluzione non ablativa
che non annulli la disposizione ma ne modifichi il senso; non dovrebbero,
dunque, verificare tale presupposto le decisioni di accoglimento ma solo quelle
di rigetto e di inammissibilità;
2.
una traslazione di senso che proceda
direttamente dalla norma comunitaria alla disposizione legislativa impugnata.
In
realtà come vedremo tra poco non ci pare che le
suddette caratteristiche siano verificate dalle decisioni che si occupano di
equilibrio finanziario; anzi in, questi casi, la Consulta utilizza l’argomento
del richiamo al diritto comunitario in una forma particolarmente debole: vale a
dire come argomento ad adiuvandum[27].
In
questo senso è piuttosto esplicito il tenore letterario degli enunciati
utilizzati: evocando il canone dell’equilibrio finanziario la
Corte costituzionale fa sempre riferimento agli obiettivi nazionali di contenimento della spesa considerati anche in relazione ai vincoli o agli obblighi, comunitari.
Questo
tipo di espressione che prende in considerazione i vincoli comunitari solo
tramite la mediazione degli obbiettivi nazionali è
trasversale a tutta la giurisprudenza in materia di equilibrio finanziario e
ciò non sembra affatto casuale; anzi si riallaccia ad un vecchio leit motiv della giurisprudenza
costituzionale che già dalle prime pronunce in materia (ad esempio dalla 1 del
1966 che pure era una sentenza ampliativa del profilo
giuridico del principio in esame, visto come limite alla discrezionalità del
Parlamento) ha considerato il tema dell’equilibrio finanziario con estrema
cautela, destinato in certo modo a sfuggire dalla pienezza del proprio
sindacato, risolvendosi la scelta sull’allocazione delle risorse in parte in
considerazioni prettamente tecniche e in parte in scelte squisitamente
politiche[28].
Ad
esempio in relazione ai conflitti legislativi tra
Stato e Regione pare che la Corte sia, in certo modo, schiacciata dalla necessità di rispettare due forme di libertà politica:
da un lato la discrezionalità del Parlamento, nell’imposizione di obblighi
finanziari, dall’altra l’autonomia delle Regioni. Infatti, sul punto, il
giudice delle leggi ha consolidato una serie di standard valutativi che, in certo modo, tentano di bilanciare e di
rispettare entrambe queste forme di libertà politica.
Da un
lato la Corte afferma che il legislatore statale può “con una disciplina di
principio”, legittimamente “imporre agli enti autonomi, per ragioni di
coordinamento finanziario connesse ad obiettivi
nazionali, condizionati anche dagli obblighi comunitari, vincoli alle politiche
di bilancio, anche se questi si traducono, inevitabilmente, in limitazioni
indirette dell’autonomia di spesa degli enti” [29].
Dall’altro lato tuttavia si sottolinea che affinché
tali vincoli possano considerarsi rispettosi dell’autonomia delle Regioni e
degli enti locali, essi debbono riguardare l’entità di disavanzo di parte
corrente oppure – ma solo “in via transitoria ed in vista degli specifici
obiettivi di riequilibrio della finanza pubblica perseguiti dal legislatore
statale” – la crescita della spesa corrente degli enti autonomi. In definitiva
la legge statale può stabilire solo “un limite complessivo, che lascia agli
enti stessi ampia libertà di allocazione delle risorse fra i diversi ambiti e
obiettivi di spesa”[30].
Allora la legge dello Stato, per essere costituzionalmente legittima, deve
essere volta al riequilibrio della finanza pubblica attraverso un contenimento generale della spesa corrente; quindi,
attraverso delle misure che non interferiscano nelle singole voci[31].
In
realtà questo discorso lascia aperta, una falla, una zona di incertezza sulla distinzione tra cosa sia un intervento
generale ed uno puntuale, e quindi un intervento legittimo ed uno
illegittimo. Un’incertezza che ovviamente va risolta sul piano ermeneutico e
che, dunque, può essere di qualche interesse per il nostro discorso. Ed in effetti, in alcune decisioni della Corte (ma qui la
giurisprudenza è piuttosto ondivaga fino ad essere casistica), si può ravvisare
una sorta di iato tra un livello più astratto, nel quale vengono affermati i
principi di equilibrio tra controllo della finanza statale e rispetto
dell’autonomia locale ed uno più concreto nel quale la singola questione viene
risolta proprio tramite un atto interpretativo, un atto allocativo di
significato[32].
La
sentenza 169/2007 è un esempio archetipo di questo doppio livello: il profilo
che qui interessa concerneva l’art. 1 n. 198 della l.
23/12/2005 (ossia la finanziaria per il 2006) riguardante un limite alla spesa
del personale (con puntuale riferimento anche a quello assunto a tempo
determinato), di Regioni, enti locali e servizio sanitario nazionale, per il
triennio 2006-2008; ovviamente la Regione aveva opposto che tale intervento
avesse carattere specifico e puntuale e, dunque, non potesse costituire un
principio fondamentale di coordinamento della finanza pubblica. La Corte,
tuttavia, ha affermato che la spesa del personale rappresenta una delle
maggiori cause del disavanzo pubblico, e pertanto il suo contenimento, pur non
riguardando la generalità della spesa corrente è un obiettivo che ha una rilevanza strategica ai fini dell’attuazione
del patto di stabilità interno, e concerne non una
minima voce di spesa, bensì un rilevante aggregato della spesa corrente.
Qui pare fuor di dubbio che la Corte parlando di rilevante aggregato della spesa corrente abbia posto in essere un vero e proprio slittamento di
significato, legittimando quello che effettivamente sembrerebbe essere un
intervento di limitazione puntuale dell’autonomia finanziaria locale.
L’operazione
– sottolineando un “legame strategico” tra l’obiettivo
puntuale perseguito dalla legge e l’attuazione del patto di stabilità nel suo
complesso – avviene attraverso una tecnica ermeneutica che in certo modo
può ricordare l’interpretazione conforme ma che nondimeno se ne distacca. È
simile per la presenza di un vincolo teleologico di natura non formale ma
sostanziale (la prevalenza delle esigenze di equilibrio finanziario che si
traducono in un accentramento delle competenze) e per la soluzione non ablativa
ma conservativa attuata tramite una torsione di significato. È diversa perché
il suddetto vincolo teleologico appare completamente introiettato
nell’ordinamento politico italiano e non afferente ad
una norma comunitaria. Questo dato ridonda sull’operazione interpretativa: in
primo luogo essa non verifica quella traslazione di senso che dall’esterno
dell’ordinamento conduce un significato al suo interno; in secondo luogo
l’oggetto diretto della torsione
ermeneutica non è una disposizione ma la precedente interpretazione data
dalla Corte di quella disposizione, ossia il principio che il legislatore
statale possa o meno limitare le singole voci della
spesa corrente.
In
definitiva, l’operazione ermeneutica ora esaminata pare
atteggiarsi come un atto interpretativo teleologicamente
legato al sostegno di una scelta del legislatore; nell’intera vicenda se gli
obblighi comunitari acquisiscono certamente un peso rilevante dal punto di
vista politico, tuttavia, dal punto di vista giuridico-argomentativo
certamente rimangono sullo sfondo, ancora una volta, come argomento ad adiuvandum.
In questo caso la soluzione pratica, ossia l’ablazione o la conservazione di
una norma appaiono assolutamente secondari (addirittura accidentali) rispetto
alla valorizzazione del principio ed alla conseguente
implementazione delle competenze statali.
A
conferma di questa tendenza possiamo citare la recentissima decisione n. 229
del 2011 nella quale la Consulta riassume alcuni termini della sua
giurisprudenza in materia: la questione riguardava la legittimità
costituzionale dell’articolo 6 della legge della Regione Sardegna 19 novembre
2010, n. 16 (Disposizioni relative al patto di stabilità territoriale),
impugnata dallo Stato e dichiarata dalla Corte illegittima. La norma riguardava
i termini temporali degli obblighi di comunicazione della Regione nei confronti
dello Stato in relazione alla modificazione di alcuni
obiettivi finanziari[33].
Come
detto nel censurare la norma in questione la Consulta ha avuto modo di
riassumere le linee della propria giurisprudenza in relazione
al Patto di stabilità interno affermando, al punto 3 del Considerato in
diritto: “Il punto da definire riguarda l’accertamento della denunciata
violazione, da parte della disposizione impugnata, dei principi fondamentali di
coordinamento della finanza pubblica. A tal fine, bisogna stabilire se le norme
statali richiamate dal ricorrente contengano principi fondamentali idonei a
vincolare il legislatore regionale, anche se trattasi di Regione ad autonomia
speciale. Al riguardo, è utile richiamare la giurisprudenza di questa Corte, la
quale, per un verso, ha elaborato una nozione ampia di principi fondamentali di
coordinamento della finanza pubblica, per altro verso, ha precisato come la
piena attuazione del coordinamento della finanza pubblica possa far sì che la
competenza statale non si esaurisca con l’esercizio del potere legislativo, ma implichi
anche ‘l’esercizio di poteri di ordine amministrativo, di regolazione tecnica,
di rilevazione di dati e di controllo’ (sentenza n. 376 del
2003; in senso conforme, sentenze n. 112 del 2011,
n. 57 del 2010,
n. 190 e n. 159 del 2008).
Questa Corte ha messo pure in rilievo il carattere “finalistico” dell’azione di
coordinamento e, quindi, l’esigenza che ‘a livello centrale’ si possano
collocare anche ‘i poteri puntuali eventualmente necessari perché la finalità
di coordinamento’ venga ‘concretamente realizzata» (sentenza n. 376 del
2003, già citata). Si deve pure ricordare come questa Corte abbia ritenuto,
con giurisprudenza costante, che i principi fondamentali fissati dalla
legislazione statale in materia di coordinamento della finanza pubblica siano
applicabili anche alle Regioni a statuto speciale ed alle Province autonome (ex
plurimis, sentenze n. 120 del 2008,
n. 169 del 2007)”.
Appare
evidente la grande valorizzazione del principio di equilibrio finanziario e la
conseguente estensione delle competenze dello Stato centrale; fenomeno
riassumibile nei tre principi sopra citati:
1.
l’ampliamento delle competenze
statali oltre il piano legislativo;
2.
l’espletamento di poteri puntuali in
ragione del carattere finalistico dell’azione di coordinamento;
3.
l’applicabilità dei due precedenti
principi anche alle Regioni a statuto speciale (ed alle Province autonome).
Ovviamente
pur essendo questa decisione dal punto di vista contenutistico molto prossima a
quella precedentemente esaminata (la n. 169/2007),
non può minimamente parlarsi di interpretazione conforme, opponendosi
l’evidenza di una soluzione ablativa e non conservativa (la sentenza era di
accoglimento). Inoltre, i vincoli comunitari, pur essendo espressamente citati,
rimangono ancora una volta (coerentemente con tutta la giurisprudenza in
materia) sullo sfondo di un’argomentazione tesa ad
implementare l’efficienza della finanza pubblica oltre a valorizzare i poteri
di coordinamento del legislatore nazionale e del Governo[34].
Caratterizzata
da questa forte attenzione per la discrezionalità politica del Parlamento è anche la giurisprudenza che si occupa
dell’altra grande zona di frizione con il principio dell’equilibrio
finanziario: vale a dire i diritti sociali. Diritti, com’è noto, avvinti, nella
giurisprudenza costituzionale, da un apparente paradosso: da un lato
considerati inviolabili e dall’altro, in quanto
diritti ad una prestazione, fortemente condizionati all’attuazione legislativa,
a sua volta condizionata dalla disponibilità delle risorse finanziarie.
Le
caratteristiche di questa giurisprudenza sono da tempo
note alla dottrina[35]:
tra di esse spicca proprio il riconoscimento dell’ampia discrezionalità
riconosciuta al legislatore, ad esempio nell’attuazione del necessario criterio
di gradualità nella tutela dei diritti sociali e, in termini più generali, nel
riconoscimento della sostanziale insindacabilità delle scelte allocative delle
risorse; tale libertà incontra solo il limite della manifesta irragionevolezza,
in realtà integrata prevalentemente dal rispetto del nucleo irriducibile dei
diritti in questione, del loro contenuto
minimo essenziale[36].
Eventualità che ricorre in maniera piuttosto evidente nella giurisprudenza
costituzionale, concretizzandosi nella garanzia di una
prestazione minima almeno alle categorie indigenti; quindi una situazione
caratterizzata, ci pare, da un doppio
profilo tipologico: la tutela nei confronti di un tipo di atto (un tipo di scelta legislativa) particolarmente
compressivo di un diritto (fino ad essere annichilente), nei confronti di un
determinato tipo di soggetto
particolarmente svantaggiato.
Il
rispetto della discrezionalità legislativa si evince anche dagli strumenti
decisionali utilizzati nel caso in cui la Corte decida di intervenire e cassare
la norma impugnata; basti pensare, in relazione alle
c.d. sentenze di spesa, come si sia passati da un modello di additiva di
prestazione secca ad uno di additiva di prestazione di principio[37].
In
questo contesto il richiamo al diritto comunitario è quantitativamente piuttosto scarso (in
una messe così vasta di sentenze, la maggior parte non ne fanno nemmeno
menzione) e, qualitativamente,
permane come argomento ad adiuvandum, mediato dal richiamo ai criteri sopra
esposti (primo fra tutti la discrezionalità legislativa) e che a tali criteri
non pare aggiungere nulla (o ben poco) dal punto dell’argomentazione o della
cogenza.
Anche
in quest’ambito sembra confermarsi che l’apprezzamento
del principio di equilibrio finanziario nella giurisprudenza costituzionale non
possa essere leggibile nei termini di interpretazione
conforme propriamente detta, e forse nemmeno nel senso più debole di un
adeguamento ermeneutico a canoni comunitari. Vi è probabilmente da parte
della Corte il rispetto di un processo politico gigantesco e molto pervasivo
che ha determinato l’introiezione di un nuovo modello di azione pubblica, tanto
da considerare che la necessità del risanamento economico risponda, oramai, a
fini e, forse, a valori consustanziali al nostro sistema costituzionale.
Questo ultimo profilo, vale a dire quello
riguardante il “posto” dell’equilibrio finanziario nella tavola dei nostri
valori costituzionali, è però piuttosto complesso e ricco di spunti
problematici, tanto da richiedere una trattazione autonoma; trattazione che è
lecito rinviare ad altra sede.
[1] Intendiamo
qui, ovviamente, lo spirito oggettualizzato nelle
norme non certo lo spirito
originario del Costituente.
[2] Usiamo qui in maniera impropria e,
semplicemente, allusiva la distinzione proposta dalla
dottrina tra termini, profili e argomenti del giudizio di costituzionalità. Per
approfondimenti, si vedano A. Cerri, Corso di giustizia costituzionale, Milano,
2004, 105 ss. e spec. 116; Id., Il
profilo fra argomento e termine della questione di costituzionalità, in Giurisprudenza
costituzionale, 1978; Id., Motivi,
argomenti, profili della questione di costituzionalità, ivi, 1980;
G.U. Rescigno, Per una distinzione fra questione
di legittimità costituzionale e argomentazioni del giudice a quo, ivi,
1968. Questo al fine di sottolineare il diverso ruolo e il diverso peso che una
ricostruzione o l’altra potrebbero attribuire agli obblighi comunitari
all’interno delle argomentazioni della Consulta.
[3] Cfr. Corte cost., sent.
8 giugno 1984, n. 170, in Giurisprudenza costituzionale, 1984, I,
1098 ss., in cui
[4] La
bibliografia sull’interpretazione conforme è talmente vasta che in questa sede
ci si dovrà limitare a menzionare alcuni contributi essenziali, facendo rinvio,
per un approfondimento dei singoli profili problematici
ad esso connessi, alle indicazioni ivi rinvenibili. Si v., ad esempio, L. Elia, Modeste proposte di segnaletica
giurisprudenziale, in Giurisprudenza costituzionale, 2002, 3688 ss.; E. Lamarque,
Una sentenza «interpretativa di inammissibilità»?, ivi, 1996, 3096 ss.; A. Anzon, Il giudice a quo e
[5] La
dottrina ha già messo in luce come l’interpretazione conforme sia un mezzo di integrazione decisamente preferibile alla disapplicazione
che determina una situazione normativa ambigua alla quale il legislatore è
chiamato a porre rimedio. Cfr. A. Ruggeri,
Ripensando alla natura della Corte costituzionale, alla luce della
ricostruzione degli effetti delle sue pronunzie e nella prospettiva delle
relazioni con le Corti europee, in www.giurcost.org/eventi/scrittistresa/ruggeri.pdf,
14 ss. del dattiloscritto; Id., Corte costituzionale e
Corti europee: il modello, le esperienze, le prospettive, relazione al Convegno del Gruppo di Pisa su Corte costituzionale e sistema istituzionale, Pisa 4-5 giugno
[6] Per ulteriori approfondimenti circa la complessa tematica che
potrà qui essere analizzata solo tangenzialmente e con esclusivo riferimento ai
profili di nostro più specifico interesse, si fa rinvio a L. Ronchetti, Obiettivo
applicazione uniforme: contraddizioni e discriminazioni nella giurisprudenza
comunitaria sulle direttive non trasposte, in Rivista
italiana di diritto pubblico comunitario, 1998, 415
ss.; L.
Daniele, Forme e
conseguenze dell’impatto del diritto comunitario sul diritto processuale
interno, in Il diritto dell'Unione europea, 2001, 71 ss.; A. Ruggeri, Prospettive
metodiche di ricostruzione del sistema delle fonti e carte internazionali dei
diritti, tra teoria delle fonti e teoria dell’interpretazione, in
[7] Corte giust. CE, sent. 13 novembre 1990,
C-106/89.
[8]
Orientamento esplicitamente confermato in CGUE, 3 maggio 2007,
C-303/05, Advocaten voor
de Wereld ed esplicitamente riconosciuto dalla
Corte costituzionale con la sentenza n. 227 del
2010.
[9] Con il
Trattato di Lisbona, entrato in vigore il 1° dicembre del 2009, la cooperazione
giudiziaria in materia penale non è più oggetto di un ambito di competenze
esercitate con metodo intergovernativo, ma è disciplinata dal capo 4, titolo V, del Trattato sul funzionamento dell’Unione
europea (art. 82 e seguenti), quindi oggetto di competenze esercitate con il
metodo comunitario; pertanto, a partire da quel momento, gli atti normativi
comunitari chiamati a disciplinare la materia non sono più le decisioni quadro
bensì le direttive. Si veda, sul tema, P. Salvatelli,
[10] Cfr. V. Mitsilegas, The Constitutional
Implications of Mutual Recognition in Criminal Matters in the EU, in Common Market Law Review, 2006, 1277
ss.; G. De Kerchove, L’Europe
pénale: Bilan et
perspectives, in A. Moore, Police and Judicial Co-operation in The
European Union, Cambridge, 2004, 335 ss.; M. Fletcher, The European
Court of Justice, Carving Itself an Influential Role in the EU’s Third Pillar,
[11] Così ad
esempio, come abbiamo già avuto occasione di notare,
[12] Qualche
attenuazione del vincolo è però rinvenibile nella stessa
giurisprudenza comunitaria poco sopra evocata, che riconosce l’opponibilità di limiti al “dovere” di interpretazione
conforme a diritto comunitario. Cfr., ad esempio, sent. Pupino,
cit.: «il principio di interpretazione
conforme non può servire da fondamento ad un’interpretazione contra
legem del diritto nazionale», o CGE,
sent. 4 luglio 2006, causa C-212/04, Adeneler:
«l’obbligo per il giudice nazionale di fare riferimento al contenuto di una
direttiva nell’interpretazione e nell’applicazione delle norme pertinenti del
suo diritto nazionale trova i suoi limiti nei principi generali del diritto, in
particolare in quelli di certezza del diritto e di non retroattività, e non può
servire da fondamento ad un’interpretazione contra legem del diritto nazionale». Già a partire dalla sentenza Von Colson,
inoltre, si afferma che il giudice nazionale è tenuto ad interpretare
conformemente al diritto comunitario se e nella misura in cui l'ordinamento
nazionale gli offra un margine di discrezionalità in tal senso; affermazione a
più riprese ribadita nella successiva giurisprudenza comunitaria, con varie
modulazioni. Si veda, ad esempio, CGCE, sent. 16
dicembre 1993, C-334/92, Wagner Miret: «Il principio dell'interpretazione conforme vale in modo del tutto
particolare per il giudice nazionale allorché uno
Stato membro ha ritenuto, come nel caso di specie, che le disposizioni
preesistenti del suo diritto nazionale soddisfacessero le prescrizioni della
direttiva considerata. Dall'ordinanza di rinvio sembra emergere che le norme
nazionali non possono essere interpretate in senso conforme alla direttiva
sull'insolvenza dei datori di lavoro e non consentono quindi di assicurare al
personale direttivo le garanzie in essa previste. Se ciò corrisponde al vero,
dalla citata sentenza Francovich e a. discende che lo Stato membro interessato è tenuto a risarcire i danni
subiti dal personale direttivo a causa della mancata attuazione della direttiva
per quel che lo riguarda»; mentre in Id.,
sent. 18 dicembre 2007, C-357/06, Frigerio
Luigi & C. Snc, il margine di discrezionalità
offerto dall'ordinamento acquisisce una connotazione maggiormente impositiva:
il giudice nazionale è tenuto ad interpretare le disposizioni nazionali
conformemente al diritto comunitario, «avvalendosi per intero del margine di
discrezionalità consentitogli dal suo ordinamento nazionale». In quest'ultimo
senso pare orientata la giurisprudenza comunitaria più recente, ove può rinvenirsi la previsione di un onere del giudice
nazionale di fare “quanto più possibile” nel compimento dello sforzo
interpretativo lui richiesto (così, CGE, 5 ottobre 2004, cause riunite da
C-397/01 a C-403/01, Pfeiffer e a.). Il
punto ci pare implicitamente riconosciuto anche dalla Corte costituzionale che,
nella recente sentenza
28 gennaio 2010, n. 28 ha dichiarato incostituzionale una norma interna
configgente con una norma comunitaria non direttamente applicabile sulla scorta
dell'impossibilità di operarne la disapplicazione e di darne un'interpretazione
conforme. A commento della pronuncia si veda A. Celotto, Venisti tandem!
[13] Cfr. CGUE, sent. 29 giugno
[14] Nello stesso senso, si veda anche CGUE, sent. 27 ottobre 1993, Steenhorst-Neerings,
C-338/91. Per alcuni contributi sulla progressiva trasformazione del sindacato
interpretativo della Corte di giustizia, si vedano F. Sorrentino, Profili costituzionali
dell’integrazione comunitaria, Torino, 1996, 34 ss.; G. Tesauro, Diritto comunitario,
Padova, 2005, 296 s.; M. Cartabia,
[15] A. Celotto-G. Pistorio, Interpretazione comunitariamente e
convenzionalmente conformi, in Giur.it, agosto-settembre 2010, Sezione dottrina e attualità
giuridiche, § 2.1.
[16] Infatti, continua
[17] Cfr. nota 9 del presente lavoro.
[18] Già dalla sent. 94 del 1995
dove leggiamo: “poiché nei giudizi di costituzionalità
in via principale l'oggetto del giudizio stesso, non è una norma in quanto
applicabile, ma una norma di per sé lesiva delle competenze costituzionalmente
garantite alle regioni, non si rinviene, come invece nei giudizi in via
incidentale, alcun ostacolo processuale in grado di precludere alla Corte la
piena salvaguardia, con proprie decisioni, del valore costituzionale della
certezza e della chiarezza normativa di fronte a ipotesi di contrasto di una
norma interna con una comunitaria”. Posizione questa
che va incontro all’aporia, più volte rilevata da attenta dottrina, della
ricostruzione della medesima antinomia (tra norma interna e norma comunitaria)
talora nei termini dell’annullamento (id
est, in termini di vizio della norma interna contrastante con quella
comunitaria e, dunque, secondo una prospettiva monista) e talaltra in
termini di disapplicazione (rectius, in-applicazione per impossibilità di una norma “esterna”
all'ordinamento di invalidare una norma ad esso
interna; in prospettiva, dunque, dualista). Cfr. sul punto, oltre quanto già precisato supra, alla nota
[19] A commento
di questa giurisprudenza, si vedano Calvano
R.,
[20] Sul
delicato problema dell'efficacia orizzontale delle direttive comunitarie si fa
rinvio a
[21] L’art. 2, comma 2, lettera i),
della legge regionale del Piemonte 7 ottobre 2002, n. 23 (Disposizioni in campo
energetico. Procedure di formazione del piano regionale energetico-ambientale.
Abrogazione delle leggi regionali 23 marzo 1984, n. 19, 17 luglio 1984, n. 31 e
28 dicembre 1989, n. 79).
[22] Sul
punto
[24] Così
dispone il terzo comma dell'art. 267 TFUE, il quale
prevede l'obbligo per le giurisdizioni di ultima od
unica istanza di sollevare la questione pregiudiziale interpretativa, ove la
normativa comunitaria non sia sufficientemente chiara. Quanto alla modulazione
di quest'obbligo, si v. CGE, 6 ottobre 1982, 283/81, CILFIT; Id., 27 marzo 1963, 28-30/62, Da Costa en Schaake.
Com’è noto a tale disciplina
[25] Come noto,
il Patto di stabilità e crescita nasce nel giugno del 1997, con risoluzione del
Consiglio europeo di Amsterdam, al fine di garantire l'equilibrio delle finanze
pubbliche attraverso l'obiettivo del saldo di bilancio prossimo al pareggio o
positivo e, per tale via, di protezione della moneta unica da situazioni d
instabilità che caratterizzavano alcuni Stati membri che si apprestavano ad entrare nell'area euro. Per uno studio ex professo di
tale strumento, si v. A. Brunila,
M. Buti, D. Franco,
The Stability
and Growth Pact. The Architecture of
Fiscal Policy in EMU, Palgrave, 2001.
[26] Sulle
specifiche problematiche poste in essere dal PSI nelle
relazioni tra Stato, Regioni ed enti periferici, sulle quali in questa sede
sarebbe peregrino dilungarsi, si v. P.L. Geti,
Le «zone franche» dell’interpretazione
conforme al diritto comunitario: il patto di stabilità interno, in M. D’Amico, R. Randazzo (a cura di), Interpretazione
conforme e tecniche argomentative. Atti del convegno di Milano svoltosi il 6-7
giugno 2008, Torino, 2009, 290 ss., nonché le numerose pronunce della Corte
costituzionale: cfr. sent. n. 4 del 2004,
con commenti di M. Barbero, Il patto di stabilità interno all’esame
della Corte costituzionale, in Il
Foro amministrativo C.d.S., 2004, 346 ss.;
Per il momento, con riferimento alla giurisprudenza
riportata, ci interessa solo sottolineare un dato sul
quel dovremo di qui a breve soffermarci, ossia quello dell’utilizzo del
riferimento all’interpretazione conforme a diritto comunitario a solo supporto
di decisioni tutte orientate alla valutazione del rispetto di parametri
interni.
[27] Cfr., in
questo senso, P.L. Geti,
Le «zone franche» dell’interpretazione
conforme al diritto comunitario: il patto di stabilità interno, cit., 298:
«nell’ambito esaminato, il riferimento ad una “interpretazione conforme al
diritto comunitario”, nel senso di valutare la comparabilità delle scelte
legislative anche con riferimento alle regole sovranazionali dei trattati
istitutivi, appare essersi ridotto ad una mera clausola di stile, cui
[28] Si vedano,
per approfondimenti sulla pronuncia che toccano aspetti sui quali dovrò di qui
a breve soffermarmi, C. Anelli, La copertura della spesa pubblica, in Foro amministrativo, 1966, II, 3 ss.; S. Buscema, La copertura degli oneri a carico dei bilanci futuri, in Rivista di diritto finanziario, 1966, II, 208 ss.; C. Chimenti, I
futuri esercizi e l’art. 81 della Costituzione, in Giurisprudenza italiana, I, 365 ss.; L. Jona-Celesia, Obbligo di copertura e spese pluriennali,
ibid., 377 ss.; V. Onida, Portata e limiti dell’obbligo di indicazione
della “copertura” finanziaria nelle leggi che importano nove e maggiori spese,
in Giurisprudenza costituzionale,
1996, 1 ss.
[29] Si pensi,
ad esempio, alle pronunce n. 36 del 2004
e 417 del 2005,
su cui R. Caranta, Appalti
pubblici ed opere pubbliche tra competenza statale e competenza regionale, cit.; C. Pinelli, Patto
di stabilità interno e finanza regionale, cit.; G. Belfiore, Finanza locale fra
autonomia e coordinamento nella recente sentenza Corte cost. n. 417 del
[30] Così,
oltre alle summenzionate sentenze, anche le pronunce n. 449 del 2005
e 88 del 2006.
[31] Per una
prospettiva critica, con particolare riferimento al complesso tema dei rapporti
tra principio di equilibrio finanziario e diritti sociali,
sul quale di qui a breve torneremo, v. G. Ferrara,
Federalismo contro stato sociale, in
E. Pugliese (a cura di), Stato sociale e solidarietà nazionale. Quaderni demotrends,
n. 7, Roma, 2007, il quale sottolinea l’iniquità
intrinseca al federalismo fiscale ove subordina i livelli essenziali delle
prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti
su tutto il territorio nazionale alle diseguaglianze economiche ed alle
capacità fiscali delle singole Regioni; E. Pugliese, Le prestazioni sociali, in M. Ruotolo
(a cura di),
[32] Cfr. A. Brancasi, La controversa, e
soltanto parziale, continuità nella giurisprudenza costituzionale sul
coordinamento finanziario, in Giurisprudenza
costituzionale, 2007, 1648 ss.
[33] La norma
impugnata stabiliva:
“1. Gli enti locali trasmettono le richieste
di modifica di cui all’articolo 3, comma 2, all’Assessorato
regionale degli enti locali, finanze ed urbanistica, entro il 30 settembre di
ciascun anno.
2. In via transitoria, per l’anno 2010, in sede di prima applicazione gli
enti locali trasmettono le richieste di modifica di
cui al comma 1, entro sette giorni dall’entrata in vigore della presente
legge”.
Secondo il ricorrente il censurato art. 6,
recante «Norme attuative e transitorie» in tema di patto di stabilità
territoriale, non era “conforme alle disposizioni statali che fissano le
scadenze entro le quali devono essere effettuate la rimodulazione e la
conseguente comunicazione degli obiettivi dei singoli enti locali al Ministero
dell’economia e delle finanze - Dipartimento della Ragioneria generale dello
Stato.
In particolare, la disciplina impugnata non” avrebbe consentito “il
monitoraggio del patto di stabilità interno, posto a salvaguardia
dell’equilibrio unitario della finanza pubblica complessiva. Infatti,
l’individuazione del termine del 30 settembre di ciascun anno e, in via
transitoria per l’anno 2010, del termine di sette giorni dall’entrata in vigore
della legge regionale in esame, per la comunicazione anzidetta, risulterebbe in contrasto con quanto stabilito dall’art. 7-quater,
comma 7, del decreto-legge 10 febbraio 2009, n. 5 (Misure
urgenti a sostegno dei settori industriali in crisi, nonché disposizioni in
materia di produzione lattiera e rateizzazione del debito nel settore
lattiero-caseario), convertito in legge, con
modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 9 aprile 2009, n. 33
Il citato art. 7-quater, comma 7, dispone
che – ai fini dell’applicazione dell’art. 77-ter, comma 11, del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112 (Disposizioni
urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, la
stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione tributaria), convertito in legge, con modificazioni, dall’art.
1, comma 1, della legge 6 agosto 2008, n. 133 –
Secondo la difesa statale, la comunicazione di cui sopra riguarda «le
modifiche regionali degli obiettivi assegnati agli enti locali al fine di
consentire al Ministero dell’economia e delle finanze di verificare, attraverso
il monitoraggio semestrale, il mantenimento dei saldi di finanza pubblica nel
corso dell’anno».
La disposizione regionale impugnata, invece, prevedendo termini successivi
al 31 maggio per la suddetta comunicazione, non consentirebbe al Ministero
dell’economia di effettuare, nel corso dell’anno 2010
e di quelli successivi, il monitoraggio, diretto non solo alla verifica degli
adempimenti relativi al patto, ma anche all’acquisizione di elementi
informativi utili per la finanza pubblica (ex art. 77-bis, comma
14, del d.l. n. 112 del 2008)”.
[34] Sul punto
[35] Si vedano
per tutti, G. Scaccia, Gli “strumenti” della ragionevolezza nel
giudizio costituzionale, Milano, 2000, 309 ss.; M.
Luciani,
Sui diritti sociali, in R. Romboli (a cura di), La
tutela dei diritti fondamentali davanti alle Corti costituzionali, Torino,
1994, 105 ss. e F. Modugno, La ragionevolezza nella giustizia
costituzionale, Napoli, 2007.
[36] Così, tra
le altre, le decisioni nn.
88, 184
e 243 del 1993
e n. 309 del
1999. Sul punto, si vedano altresì R. Alesse, La tutela
assistenziale e il recupero sociale degli invalidi: un nuovo e puntuale
intervento della Corte costituzionale,
in Giurisprudenza costituzionale, 1993, 2924 ss.; A. Anzon, Un’additiva di
principio con termine per il legislatore, in Giurisprudenza
costituzionale, 1993, 1785 ss.; G. Bognetti,
[37] Sul punto
si vedano, proprio con riferimento alle pronunce della Corte costituzionale in
tema di equilibrio finanziario, C. Pinelli, Titano,
l’eguaglianza e un nuovo tipo di “additiva di principio”, cit. e R. Romboli, Dichiarazione di incostituzionalità
con delega al Parlamento, in Foro
italiano, 1993, parte I, 1732 ss.