ANDREA LONGO
ANCORA UN (CONDIVISIBILE) INTERVENTO DELLA CONSULTA IN TEMA DI “CONTESTAZIONI A CATENA”
1. Con la decisione n. 233
del 2011
2. La disciplina delle misure cautelari nel nostro
ordinamento si pone in un delicato crocevia di norme costituzionali,
internazionali e legislative. L’art 13 comma 5 della Costituzione dispone che
sia la legge a fissare i limiti massimi della carcerazione preventiva, mentre
l’articolo 5 § 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo prevede che la
persona arrestata o detenuta debba essere “al più presto” condotta davanti ad
un giudice che verifichi le condizioni della restrizione oltre ad aver diritto ad essere giudicata “in un tempo congruo” oppure rimessa in
libertà durante il corso del procedimento. La ricaduta legislativa di tale
complesso di principi si ritrova nel nostro codice di procedura penale negli
artt. 303 e 304 che sanciscono i termini massimi di custodia cautelare;
disposizioni alla cui lettura va aggiunto l’art. 297, comma 1,
il quale stabilisce come il termine di inizio della custodia cautelare debba coincidere con il
momento della cattura, dell’arresto o del fermo mentre, per le altre misure,
decorra dal momento in cui l’ordinanza è stata notificata. In tal modo si
stabilisce il principio dell’autonoma decorrenza dei termini
cautelari; principio, però, suscettibile di abuso nel momento in cui
l’autorità inquirente decidesse, artatamente o per semplice negligenza, di
notificare un’ulteriore misura cautelare in prossimità
della scadenza della prima (cosiddetta prassi
delle contestazioni a catena). Proprio al fine di prevenire una simile
eventualità, il legislatore ha previsto, al terzo comma del suddetto art. 297,
una serie di casi nei quali, in presenza di più
istanze cautelari nei confronti di un medesimo soggetto, il computo dei termini
vada retrodatato alla prima di queste[1]. Proprio
tale norma è l’oggetto della decisione che oggi si commenta.
La notevole complessità e l’elevato tenore tecnico di tale
argomento pretende che, prima di entrare nel merito
della decisione, si svolga un inquadramento dell’istituto sia sotto il profilo
del suo attuale stato dogmatico sia sotto quello della sua lunga e tormentata
evoluzione. Evoluzione segnata dal
dibattito circa due ordini di problemi: in primo luogo quello sulla possibile
estensione del suo ambito di applicabilità, in secondo luogo quello sugli spazi
di valutazione da parte del giudice circa l’effettivo comportamento
dell’autorità inquirente nel disporre le contestazioni a catena; ossia quanto
la sanzione di retrodatazione dipenda da criteri automatici e
quanto dalla convinzione del giudice circa la recensibilità
delle scelte poste in essere dal pubblico ministero.
Proprio in relazione a tali
problemi la storia dell’istituto ha seguito due direttrici astrattamente
distinguibili ma sostanzialmente coerenti ad un unico disegno garantista: da un
lato si è assistito – ad opera del legislatore e della giurisprudenza – ad un ampliamento dell’ambito di applicazione
della sanzione di retrodatazione, dall’altro tale applicazione è divenuta sempre più automatica e sempre più
slegata dalla discrezionale valutazione dell’autorità giudiziaria.
Arginare la prassi delle contestazioni a catena è un
problema non certo recente: in tal senso, un primo intervento legislativo – che
tra l’altro recepì le istanze sollevate dalla dottrina[2] e
dalla giurisprudenza – si ebbe con la legge n. 398 del 1984[3]
il cui art. 2 modificò l’art. 271 del codice di
procedura penale del 1930, introducendo, al terzo comma, l’istituto della
retrodatazione in ordine a provvedimenti
che riguardassero un fatto – anche se diversamente circostanziato o qualificato
– per il quale un soggetto fosse già sottoposto a misura cautelare; norma che
poi venne dichiarata applicabile anche nei casi di concorso formale e
continuazione di cui all’art. 81 c.p.[4].
Con l’entrata in vigore dell’attuale codice di rito, tale
materia venne disciplinata dall’art. 297 al comma 3,
il quale ai casi di retrodatazione già previsti dall’abrogato art. 271,
aggiunse quelli di aberratio ictus e aberratio
delicti plurioffensivi,
trascurando però di disciplinare le ipotesi di connessione e continuazione. Per
supplire a tale omissione legislativa si sviluppò un orientamento della
giurisprudenza di legittimità volto ad applicare la regola della retrodatazione
anche ai casi in cui i provvedimenti restrittivi fossero disposti per fatti
diversi, sempre che: a) tali fatti fossero legati da
connessione o vincolo teleologico, b) fossero già configurabili al momento
della prima ordinanza, c) fosse ravvisabile una colpevole inerzia dell’organo
inquirente nel verificare i presupposti indiziari degli ultimi fatti contestati
e, dunque, nell’emettere una nuova misura. In tal senso il supremo giudice di
legittimità ebbe modo di osservare che “l’ingiustificata scissione delle
diverse contestazioni con emissione ‘a catena’ di successivi provvedimenti
cautelari, nonostante i fatti fossero noti sin dall’inizio
comporta conseguenze identiche a quelle di cui all’art. 297 comma 3 c.p.p. (identico all’art. 271 comma 3 dell’abrogato c.p.p.), cioè la decorrenza del termine di custodia
cautelare dal giorno dell’esecuzione del primo provvedimento”[5].
Elemento essenziale affinché operasse la retrodatazione nei casi non
esplicitamente previsti dalla norma era che “gli indizi originariamente a
disposizione dell’autorità giudiziaria fossero già tali da consentire
l’emissione di un unico provvedimento”[6].
Per quanto, invece, riguardava le fattispecie espressamente previste dall’art.
297, 3 comma, la giurisprudenza riteneva che la
retrodatazione operasse automaticamente “prescindendo da ogni valutazione in
ordine alla ragione della pluralità di contestazioni”[7].
Proprio sulla scorta di tale giurisprudenza si giunse con
la l. n. 332 del 1995 ad una riforma del terzo comma
dell’art. 297, estendendone la portata ai casi di fatti diversi collegati ai
sensi dell’art. 12, comma 1, lettere b e c (ma solo in relazione ai reati commessi
per eseguirne altri); in sostanza all’ipotesi di concorso formale vennero
aggiunte quelle di reato continuato e di reati legati da un nesso teleologico.
Particolarmente importante l’ultimo periodo che sancisce espressamente il principio della necessaria desumibilità, secondo il quale “la disposizione non si
applica relativamente alle ordinanze per fatti non
desumibili dagli atti prima del rinvio a giudizio disposto per il fatto con il
quale sussiste connessione ai sensi del presente comma.”
3. Pur tra le numerose perplessità
espresse dalla dottrina[8],
a valle di questa riforma, dunque, potevano dirsi confermati gli elementi
salienti della disciplina, sia sotto il profilo teleologico che sotto quello
strumentale: lo scopo della norma
appariva univoco quanto evidente: evitare la reiterazione della medesima misura
cautelare[9]
attraverso l’emanazione di una o più ordinanze emesse successivamente alla
scadenza della prima, così da aggirare i termini massimi previsti dal codice di
procedura penale e, dunque, violare in concreto la garanzia costituzionale di
cui all’art. 13 comma 5. Il mezzo per
l’attuazione di un simile obiettivo era (ed è), appunto, quello della “retrodatazione dei termini”, in forza
della quale anche per i successivi provvedimenti “i termini decorrono dal
giorno in cui è stata eseguita o notificata la prima ordinanza”.
Tuttavia, a fronte di una ratio così chiara, permanevano (e
permangono) una serie di ambiguità – di non facile
risoluzione e, al tempo stesso, di notevole valore pratico – riguardo alla
concreta portata dei presupposti in
grado di far scattare il meccanismo della retrodatazione.
Già il tenore testuale della disposizione distingue, in
realtà, due diverse fattispecie corrispondenti ad altrettante discipline. In
primo luogo vi è il caso dell’identità
del fatto contestato (anche se diversamente circostanziato
e qualificato) dove la retrodatazione
opera sempre automaticamente. In secondo luogo vi è il caso in cui i fatti siano diversi, però legati da
connessione qualificata; qui la
norma prevede due ulteriori
requisiti affinché possa operare la retrodatazione: da un lato la sussistenza dei fatti anteriormente alla prima ordinanza,
dall’altro che tali fatti e le relative
esigenze cautelari fossero desumibili dagli atti prima del rinvio a giudizio.
Proprio questa seconda fattispecie ha dato adito a numerosi contrasti interpretativi sia
in relazione alla possibile estensione della norma oltre le fattispecie
espressamente citate, sia rispetto alla valutazione del requisito della desumibilità.
Per ciò che attiene il primo aspetto, diversi dubbi sono
sorti in relazione alla possibilità di far operare la
retrodatazione nelle ipotesi previste dalla giurisprudenza precedente ma non
contemplate nella norma, ossia in quei
casi in cui manca una connessione qualificata, ma sono presenti al momento dell’emissione del primo provvedimento
gli atti posti alla base dei provvedimenti successivi; il problema risultava
particolarmente evidente per quei casi nei quali veniva “in discussione
l’esistenza della continuazione, essendo controverso che i reati oggetto dei
successivi provvedimenti fossero tutti compresi, fin dall’inizio, in un
medesimo disegno criminoso”[10].
Esempio archetipo di tale problematica è stato costituito dai reati associativi i quali, secondo
l’orientamento prevalente, non sempre danno vita ad
una relazione di connessione ex. Art. 297 co. 3;
addirittura, nella generalità dei casi, la giurisprudenza sostiene la mancanza
di un legame di continuazione tra reato associativo e singoli reati[11].
Per ciò che attiene al secondo profilo (quello della desumibilità), lo stesso tenore letterale della norma ha
posto un problema di non poco momento: quello del coordinamento tra la prima
parte – in cui sono previste la connessione qualificata e l’anteriorità dei
fatti rispetto alla prima ordinanza – e la sua seconda parte che introduce
appunto il requisito della desumibilità dagli atti,
ancorandolo però a un elemento, il rinvio a giudizio, che non sussiste
necessariamente in tutte le ipotesi in cui siano verificati i presupposti di
connessione qualificata e anteriorità previsti nella prima parte dell’enunciato[12]. Insomma ci si è chiesti se la desumibilità fosse requisito generale in tutti i casi di
connessione automatica o se fosse rilevante solo nei casi in cui vi fosse stato
rinvio a giudizio per uno dei fatti connessi.
Ulteriore problematica, trasversale a entrambi i profili, riguardava poi la possibilità di qualificare come
contestazioni a catena (e dunque emettere la sanzione della retrodatazione)
ordinanze poste in essere in procedimenti
diversi e se, in tali casi, “si dovesse intendere la desumibilità
come conoscibilità concreta (a seguito di trasmissione) o astratta (per la
semplice presenza dell’atto) da parte dell’A.G. procedente nel procedimento in
cui veniva emessa la misura successiva”[13].
Anche,
La nota decisione Atene[15],
delle Sezioni unite, nel tentativo di sanare i vari contrasti giurisprudenziali
sorti sul punto, arrivò a considerare la desumibilità
come un requisito generale da considerarsi anche nei casi nei quali non vi
fosse stato rinvio a giudizio con la precisazione che in quest’ultimo caso la
sussistenza di tale requisito doveva intendersi a far data della prima
ordinanza (e non dunque dal momento del rinvio a giudizio). Il supremo giudice di legittimità ebbe modo
di osservare “come ‘la desumibilità degli atti’,
espressamente richiamata nel terzo periodo del comma 3,
vada a costituire criterio applicativo
dell’intera previsione del comma 3 dell’art 297, ad essa conferendo
razionalità e certezza”(corsivi nostri). Un criterio che andrebbe inteso in
senso oggettivo e non soggettivo, “sicché qualsiasi riferimento all’artificio o
alla malizia per connotare l’inerzia o la manipolazione dell’autorità
procedente appare … una ‘superfetazione’ del tutto inutile e fuorviante”.
Come detto, in tale decisione, la desumibilità
veniva a connotarsi quale criterio generale per la retrodatazione e le due parti
della norma, così interpretata, si distinguevano solo
il momento rispetto al quale doveva vagliarsi tale requisito: l’ordinanza più
risalente (per quanto atteneva alla prima parte della norma) o il rinvio a
giudizio (per la seconda). La decisione si espresse anche sugli elementi che
andavano concretamente individuati negli atti: non fu, infatti, considerato
sufficiente “che entro i limiti temporali di cui al primo e al secondo periodo
del comma 3 dell’art. 297, sia stata acquisita e
risulti dagli atti la mera notizia di fatto-reato, essendo invece
indispensabile che sussista il quadro legittimante l’adozione della misura
cautelare sin dall’epoca della prima ordinanza (ovvero all’epoca del rinvio a
giudizio: art. 297, comma 3, ultima parte c.p.p.)”.
La sentenza Atene fu un tentativo di limitare l’innescarsi
automatico della sanzione di retrodatazione estendendo (anche oltre la lettera
della legge) sia l’ambito di
applicazione sia i requisiti materiali della desumibilità
e, dunque, sottoponendo la sanzione processuale ad un vaglio discrezionale
dell’autorità giudicante.
Questo tentativo delle SS.UU. se
aveva il pregio di unificare il profilo applicativo della fattispecie
attraverso la lente del criterio di desumibilità
inteso come elemento di razionalità e
certezza, aveva però anche lo svantaggio di una interpretazione
tutt’altro che rispettosa della lettera della disposizione e piuttosto distante
da quella fornita dal Giudice delle leggi.
La giurisprudenza di
legittimità tentò un riavvicinamento a quella di costituzionalità con la altrettanto nota sentenza Rahulia
del 22 marzo 2005 che segnò una svolta radicale rispetto al precedente
orientamento, affrontando due importanti problemi circa il regime della desumibilità in relazione: a) ai casi di fatti legati da
vincolo ai sensi del 297 co. 3, b)
ai casi di fatti non legati da connessione e, dunque, in teoria non
disciplinati dalla norma in questione.
Distaccandosi dalla
decisione Atene il supremo giudice di legittimità ebbe modo di criticarne il
percorso argomentativo e le conclusioni ermeneutiche così distanti dalla
lettera della disposizione: “effettivamente la
sentenza delle Sezioni unite contiene due passaggi che nei dati testuali non
trovano giustificazione: 1) l’estensione alla prima parte della disposizione
del limite dei ‘fatti non desumibili dagli atti’, contenuto solo nella seconda
parte, per il caso in cui la questione della retrodatazione si ponga rispetto a
reati che formano oggetto di un procedimento diverso; 2) la trasformazione del
concetto di ‘fatto desumibile dagli atti’ in quello di ‘quadro legittimante
l’adozione della misura cautelare’ desumibile dagli atti, vale a dire in quello
di ‘gravi indizi di colpevolezza’ desumibili dagli atti”.
Con un’operazione ermeneutica maggiormente letterale ma non
per questo restrittiva la sentenza Rahulia, inquadrò
la ratio
della norma (e dell’evoluzione dell’intero contesto
normativo) proprio nel meccanismo di automatica
retrodatazione per ciò che concerne
i casi di fatti legati da vincolo contenutistico anche se in procedimenti
diversi, giungendo a concludere che “nel caso di emissione nei confronti di un
imputato di più ordinanze che dispongono la medesima misura cautelare per fatti
diversi, commessi anteriormente all’emissione della prima ordinanza, legati da
concorso formale, da continuazione o da connessione teleologica, la
retrodatazione della decorrenza dei termini delle misure disposte con ordinanze
successive, prevista dall’art. 297 comma 3 c.p.p., opera indipendentemente dalla possibilità di
desumere dagli atti l’esistenza di elementi idonei a giustificare le relative
misure e, a maggior ragione, indipendentemente
dalla possibilità di desumere dagli atti l’esistenza degli elementi idonei a
giustificare le relative misure” (corsivi nostri).
Questo regime di automatismo non vale però nei casi non
espressamente disciplinati dall’art. 297 co.
3, ossia quelli in cui fatti rilevanti esistevano al momento della prima ordinanza ma non erano legati da vincoli di connessione; per
tali casi la retrodatazione opera solo se al momento della emissione della
prima ordinanza “erano desumibili dagli atti gli elementi che hanno
giustificato le ordinanze successive”.
Se non si può che essere d’accordo con lo spirito
garantista di tale sentenza, tuttavia non si può nemmeno trascurare come
l’operazione ermeneutica posta alla sua base incontri censure simili a quella
sottesa alla sentenza Atene, per ciò che attiene l’attinenza al testo della
disposizione. Infatti, pur se con spirito e risultati opposti, anche la sentenza
Rahulia pose in essere un’interpretazione che travalicava
nettamente i dati testuali estendendo la sanzione della retrodatazione oltre i
casi disciplinati dalla norma; in questo modo i casi i cui fatti non fossero
legati da vincolo di connessione risultavano legislativamente fuori dal regime
della retrodatazione ma vi erano inseriti in forza di un atto ermeneutico; atto
che ovviamente poteva essere disatteso dal giudice di merito.
Quasi per porre riparo a tale incongruenza formale,
L’intervento
manipolativo della Consulta si manifestò come indispensabile per sanare i
contrasti giurisprudenziali che permanevano sul punto: a riprova di ciò basti
notare come il giudice delle leggi – nel confutare un’eccezione di inammissibilità sollevata dall’Avvocatura di Stato –
avesse fatto sì riferimento alla sentenza Rahulia ma
considerandola espressione di un orientamento tanto minoritario e recente da
non poter essere qualificato come “diritto vivente”[16].
4. Nel contesto appena delineato
si va ad inserire la sentenza che oggi si commenta e che riguarda l’ulteriore
profilo “delle interferenze tra la disciplina delle ‘contestazioni a catena’ e
il giudicato di condanna formatosi in rapporto ai reati oggetto del primo
provvedimento cautelare”[17].
Coerentemente con la propria passata giurisprudenza (e con l’evoluzione
legislativa dell’istituto), il Giudice delle leggi pone in essere una decisione
additiva che amplia ulteriormente l’ambito di applicazione del meccanismo di
retrodatazione, affermando, nel dispositivo, “l’illegittimità costituzionale
dell’art. 297 comma 3, del codice di procedura penale, nella parte in cui – con
riferimento alle ordinanze che dispongono misure cautelari per fatti diversi –
non prevede che la regola in tema di decorrenza dei termini in esso stabilita
si applichi anche quando, per i fatti contestati con la prima ordinanza,
l’imputato sia stato condannato con sentenza passata in giudicato anteriormente all’adozione della seconda misura”.
Nella parte motiva
In realtà, sul punto, la giurisprudenza di legittimità
aveva avuto modo di dividersi dando vita a due
distinti orientamenti. Il primo, maggiormente garantista ma minoritario,
sosteneva che il requisito della
contestualità delle misure cautelari non fosse necessario affinché potesse
operare il meccanismo della retrodatazione e, dunque, non fosse richiesto
che nel momento in cui viene adottata la seconda
ordinanza sia ancora in corso di esecuzione la prima e non sia stato definito
il relativo procedimento[18];
tale orientamento valorizzava l’assunto della Corte costituzionale, espresso
nell’ultima sentenza che abbiamo sopra ricordato, in forza del quale
“l’identico regime di garanzia dovrà operare per tutti i casi in cui, pur
potendo i diversi provvedimenti coercitivi essere adottati in un unico contesto
temporale, per qualsiasi causa l’autorità giudiziaria abbia invece prescelto
momenti diversi per l’adozione delle singole ordinanze”[19].
In definitiva “le sorti del primo procedimento e financo
la pronuncia all’esito del giudizio di cognizione di
una sentenza divenuta irrevocabile, non sarebbero dirimenti ai fini della
retrodatazione dei termini custodiali[20].
Il secondo orientamento, maggioritario e più restrittivo, sosteneva,
invece, che la “cristallizzazione”, con sentenza definitiva di condanna, del
giudizio sui fatti oggetto della prima istanza custodiale impedisse l’applicazione della disciplina
dettata dall’art. 297 c.p.p. comma 3, venendo meno in
tal caso la necessaria “contestualità” o “coesistenza delle misure”[21].
A porre fine a tali divergenze sono intervenute di recente
le Sezioni unite della Corte di cassazione con la
sentenza n. 20780/2009, la quale ha aderito al secondo degli orientamenti
appena richiamati.
Tale decisione è particolarmente importante per comprendere
il percorso dialettico e la concreta portata della pronuncia di
costituzionalità che oggi si commenta, rappresentandone un ideale contraltare
argomentativo. Non è un caso che nelle motivazioni delle due pronunce si
ritrovi una sorta di specularità tematica, essendo
entrambe articolate (pur con una lettura di segno opposto) intorno ai medesimi
argomenti; tuttavia mentre le argomentazioni delle SS.UU.
sembrano ispirate ad un’impostazione formalista, tesa a valorizzare una forma
di coerenza letterale e sistematica, le argomentazioni della Consulta si
muovono, invece, su un piano più squisitamente consequenzialista
attento alla implementazione dei valori costituzionali.
Schematicamente possiamo affermare che l’argomentazione
delle Sezioni unite ruoti intorno a tre nuclei interpretativi: a) uno letterale, b)
uno teleologico, c) uno sistematico.
Per ciò che attiene al primo ordine di argomenti
le SS.UU. sostengono una sorta di permutazione logico-semantica del titolo restrittivo che
impedisce al periodo di riduzione della libertà di essere assoggettato al
regime della retrodatazione una volta che esso da cautelare sia divenuto
pienamente sanzionatorio: il supremo giudice di legittimità afferma che lo stesso
“dato letterale sembra postulare la qualità di ‘imputato’ per i fatti
contemplati da plurime ordinanza applicative della medesima misura, i cui
termini di durata sono commisurati all’imputazione più grave, e pretendere
quindi che le ordinanze cautelari siano in
itinere”; invece la sopravvenuta condanna, mutando “i termini anche semantici, del raffronto
postulato dall’art. 297 c.p.p., comma 3”, fa sì che l’imputato divenga condannato e che il titolo in
forza del quale egli vede ristretta la propria libertà non è più l’ordinanza
cautelare ma la sentenza di merito; “sicché la misura cautelare non è più
giuridicamente esistente, né può sussistere alcuna questione di termini di
durata della medesima”[22].
Il secondo ordine di argomenti riguarda la ratio della norma
che è ovviamente quella di impedire l’allungamento abnorme tramite plurime
ordinanze dei termini custodiali; ebbene secondo le SS.UU. tali finalità (in caso di sopravvenuta condanna) verrebbero sostanzialmente assorbite dall’applicazione “del generale principio
cardine dell’esecuzione penale della detrazione del ‘presofferto’,
sancito dall’art. 657 c.p.p., comma 1”[23].
Infine, il terzo ordine di argomenti ( come
detto di natura sistematica) riguarda l’inquadramento del problema in esame
rispetto alle regole dell’efficacia del giudicato e dell’esecuzione penale; il
confronto si svolge in relazione a due referenti normativi: da un lato si
richiama l’art. 300 c.p.p. in base al quale la
pronuncia di certo tipo di sentenze determina il venir meno della misura
cautelare e che, dunque, varrebbe a dissolvere il nesso tra i reati di cui
all’art. 297 comma 3 c.p.p.[24]; in secondo luogo viene fatto riferimento al principio del ne
bis in idem di cui all’art. 649 c.p.p.: tale
principio esaurendo l’azione penale e cautelare escluderebbe che il medesimo
soggetto – non potendo essere sottoposto
ad un nuovo giudizio per il medesimo fatto – possa ugualmente essere sottoposto
a nuova misura.
In definitiva, il
filo conduttore di tali argomenti è l’assunto della necessaria presenza dei requisiti di
coesistenza e contestualità temporale delle misure cautelari affinché venga
applicata la regola di cui all’art. 297, comma 3, c.p.p.;
requisiti che l’intervenire di una sentenza di cosa giudicata farebbe venire
meno.
Attenta dottrina, nel commentare tale decisione, aveva
giustamente messo in luce l’irragionevolezza di una simile interpretazione se
valutata alla
luce dei principi costituzionali che presiedono la materia[25].
Quasi raccogliendo queste suggestioni, il giudice remittente (la prima Sezione
penale della Corte di cassazione) ha sostenuto che,
così interpretata, la norma oggetto violerebbe gli artt. 3, 13 quinto comma, e
27 secondo comma Cost.; viene dunque invocata la lesione di tre parametri
costituzionali: a) l’uguaglianza, b) la predeterminazione legale dei termini
massimi di custodia cautelare, c) la presunzione di innocenza.
Per ciò che attiene al principio di eguaglianza “i
coimputati del medesimo reato si vedrebbero negato o riconosciuto il diritto
alla scarcerazione, a seconda che nei loro confronti si sia formato o meno il giudicato sui fatti oggetto della prima ordinanza
cautelare, col risultato tra l’altro di penalizzare coloro che abbiano scelto
riti alternativi e omesso di impugnare la sentenza di condanna”. In relazione all’art. 13 quinto comma sarebbe aggirata “la
regola che vuole i termini massimi di custodia cautelare predeterminati dal
legislatore, e non dipendenti da iniziative, dolose o colpose, del pubblico
ministero, ovvero da circostanze accidentali estranee alle esigenze di garanzie
della libertà personale dell’imputato nel corso del processo”. Infine sarebbe
violata la presunzione di non colpevolezza “che rischierebbe di essere elusa,
ove risulti prevedibile che la pena definitiva in
corso di esecuzione – relativa ai reati meno gravi contestati con la prima
ordinanza cautelare – dovrà essere imputata, in forza del vincolo della
continuazione con i reati più gravi da giudicare, oggetto della seconda
ordinanza, alla pena conseguente al futuro giudicato di condanna per questi
ultimi”[26].
La disciplina, come interpretata dal diritto vivente,
costituirebbe, infatti, tanto un’irragionevole diversificazione di situazioni
uguali, tanto una lesione della predeterminazione legale dei termini di custodia cautelare. Per giungere a tale conclusione il
Giudice delle leggi ripercorre parzialmente l’iter argomentativo posto in essere dalle SS.UU. rileggendolo alla luce di un’interpretazione
orientata ai valori costituzionali in gioco.
Tramite un argomento di natura consequenzialista
viene contestato innanzitutto l’assunto di fondo alla
base della sentenza 20780, vale a dire che la coesistenza tra le misure cautelari “rappresenti, sul piano
logico-giuridico, un presupposto necessario affinché si producano le
conseguenze lesive che il meccanismo della retrodatazione tende a scongiurare.
Il vulnus arrecato ai principi
costituzionali che presiedono alla disciplina della libertà personale
dell’imputato è anzi maggiore allorché le seconda
ordinanza cautelare intervenga dopo che la prima, per qualunque ragione, ha
cessato di produrre i suoi effetti”[27], in questo caso, infatti, si avrebbe un vero e proprio “cumulo integrale” dei periodi di
privazione della libertà personale.
Ancora, in merito alla coesistenza delle misure, si afferma
l’irrilevanza dello “iato temporale che egualmente intercorra tra la cessazione
degli effetti della prima misura e l’applicazione della seconda”[28]; infatti “per quanto ampio, esso non elide la circostanza
che a un periodo di custodia cautelare … se ne sommi successivamente un altro …
che … non sarebbe dovuto affatto iniziare o che comunque avrebbe avuto durata
inferiore a quella consentita dai normali criteri di computo”[29].
Dopo aver negato la necessaria contestualità come principio
operativo di base della regola ex 297 comma 3 c.p.p.,
Soprattutto in questa parte le considerazioni sistematiche
delle SS. UU sono rilette dal giudice delle leggi opponendo una
lettura molto attenta alle conseguenze pratiche e che ha come punto di
riferimento la tutela dei valori di salvaguardia dell’individuo all’interno del
processo penale. Dal tenore della motivazione si capisce come la tesi delle SS.
UU di individuare il fattore dirimente della
fattispecie in quel processo di
trasformazione logico-semantica dei titoli cautelari in pena detentiva,
appaia alla Consulta frutto di una posizione ermeneutica tanto letterale da
divenire sterilmente testualista e, soprattutto,
incurante delle istanze costituzionali.
In tale ottica appare insostenibile, al Giudice delle
leggi, che la regola di cui all’art. 657, co.1, c.p.p., in forza della quale il
periodo già sofferto in custodia cautelare va scontato dalla pena definitiva,
ponga una garanzia sufficiente ad assorbire quella sancita dal meccanismo della
retrodatazione. Qui l’argomentazione della Corte costituzionale fa perno su una
lesione del principio di uguaglianza inteso nel suo “nucleo forte”, vale a dire
come divieto di discriminazione ratione subiecti: “anche nell’ipotesi
considerata, l’adozione scaglionata nel tempo dei titoli custodiali
pone l’imputato in una situazione oggettivamente deteriore, rispetto a quella
in cui si sarebbe trovato ove le ordinanze fossero state emesse nel medesimo
contesto temporale”[31].
Ugualmente non è sufficiente a tutelare le esigenze di
garanzia richieste dalla Costituzione il principio del ne bis in idem di cui all’art. 649 c.p.p.;
infatti, anche se l’operatività di tale principio si estende alle misure
cautelari determinando “una preclusione radicale all’emissione di ulteriori
titoli custodiali, che assorbe le finalità cui è
preordinata la regola di retrodatazione dell’art. 297, terzo comma c.p.p.”, tuttavia “tale assorbimento si produce
esclusivamente in rapporto alle
ordinanze cautelari emesse in
sequenza per uno ‘stesso fatto’: lasciando, per converso, totalmente scoperta,
sul piano della tutela, l’ipotesi … delle ordinanze relative a ‘fatti diversi’”[32].
L’opera ermeneutica che
[1] Tale disposizione testualmente recita: “Se nei
confronti di un imputato sono emesse più ordinanze che dispongono la medesima
misura per uno stesso fatto, benché diversamente circostanziato
o qualificato, ovvero per fatti diversi commessi anteriormente alla prima
ordinanza in relazione ai quali sussiste connessione ai sensi dell’art. 12,
comma 1, lettere b) e c), limitatamente ai casi di reati commessi per eseguire
gli altri, i termini decorrono dal giorno in cui è stata eseguita o notificata
la prima ordinanza e sono commisurati all’imputazione più grave. La
disposizione non si applica relativamente alle
ordinanze per fatti non desumibili dagli atti prima del rinvio a giudizio
disposto per il fatto con il quale sussiste connessione ai sensi del presente
comma”. Da notare che l’ultimo periodo è stato così sostituito dalla legge n.
332/1995; avremo comunque modo di tornare sulle implicazioni di tale modifica.
Per un inquadramento dottrinale e giurisprudenziale della problematica in
esame, si rinvia per tutti a A.
GIARDA-G.SPANGHER (a cura di), art. 297, in Codice di
procedura penale commentato, IV ed., Milano 2010,
3177 ss.; G. CONSO-V.GREVI (a cura di), art. 297 in Commentario breve al codice di procedura penale, Padova 2005, 941
ss.
[2] Cfr. G. CONSO,
Concorso materiale, concorso formale,
concorso apparente e mandato di cattura con particolare riferimento ai termini
per la carcerazione, in Riv. dir. proc. pen.
1957, 1031 ss.; V. GREVI, Libertà
personale dell’imputato e Costituzione, Milano, 1976, 216 ss.
[3] La dottrina è concorde
nell’affermare il carattere garantista di tale novella legislativa quale “netto
segnale di svolta rispetto agli interventi legislativi frutto di quella
stagione dell’emergenza che a cavallo tra gli anni 70 ed
80 ha tanto caratterizzato il nostro processo penale”; così M. MONTAGNA, Punti fermi in tema di contestazioni a
catena e termini di durata della custodia cautelare, in Giur. cost. 2005, 4474; sulla
portata e sul senso di tale novella cfr. per tutti V. GREVI, Le
“novelle” del luglio 1984: verso un recupero di garanzie in tema di libertà
personale, in ID. (a cura di) La nuova disciplina della libertà personale nel processo penale,
Padova 1985, 69 ss.
[4] Da notare che in quest’ultimo caso i
termini di custodia andassero commisurati all’imputazione più grave, mentre nel
caso di fatto diversamente qualificato o circostanziato, si aveva riguardo
all’ultima delle imputazioni contestate.
[5] Cfr. Cass. pen. Sez. VI, 23 luglio 1992, n. 2975.
[6] Cfr. Cass. pen. Sez. I, 25 febbraio
1992, n. 896; Sez. VI, 22 dicembre 1992, n. 4616.
[7] Cfr. Cass. pen. Sez
I, 8 luglio 1991, n. 3121. Una ricostruzione di questi orientamenti
giurisprudenziali, ben più chiara e doviziosa di quella qui
sommariamente tracciata, si trova in L. GIULIANI, Le Sezioni unite “normalizzano” l’interpretazione in tema di
contestazioni a catena ex art. 297
comma 3 c.p.p. (nel solco obbligato di una
discutibile sentenza costituzionale) in Cassazione
penale 2005, 2890.
[8] Tra i diversi contributi cfr. M. BARGIS, Commento
all’art. 12, l. 8 agosto 1995, n. 332, in Legisl. pen. 1995, 104; V. GREVI, Più ombre che luci nella l. 8 agosto 1995 n. 332 tra istanze garantiste
ed esigenze del processo, in ID. (a cura di) Misure cautelari e diritto di difesa,
Milano 1996, 29 ss.
[9] Tralaticiamente
è bene evidenziare che, secondo quanto recentemente sottolineato
dalla giurisprudenza di legittimità, la misura reiterata debba essere effettivamente identica affinché scatti
il meccanismo della retrodatazione dei termini: in tal senso, nella sent. n.
14420/2006,
[10] L. GIULIANI, op. cit., 2891.
[11] Ex
plurimis cfr. Cass. pen.
Sez. VI, 16 aprile 2003, n. 24922; Sez. I, 18
dicembre 1998, n. 6530; Sez. VI, 15 ottobre 1997, n.
3960.
[12] T. E. EPIDENDIO, Relazione,
Le contestazioni a catena, in www.ordineavvocatimilano.it/html/pdf/RELAZIONE_EPIDENDIO.pdf.
[13] T. E. EPIDENDIO, op. cit.
[14]
In senso adesivo rispetto alla decisione della Consulta n. 89 del 1996,
cfr. G. FRIGO, L’interpretazione fornita
dalla Consulta rafforza le garanzie introdotte
con la riforma, in Guida dir. 1996,
n. 16, 72; in
prospettiva critica, cfr. V. GREVI, Il
nuovo articolo 297 comma 3 c.p.p. di fronte alla
Corte costituzionale: una sentenza deludente ed elusiva del sistema di
ragionevolezza, in Cass. pen. 1996, 2103; P. P. RIVELLO,
“Graziata” dalla Corte costituzionale la
nuova anomale disciplina circa il computo dei termini delle misure cautelari in
caso di “contestazioni a catena” per fatti diversi, in Giur. cost., 1996, 827 ss.; sulle problematiche esposte nell’ordinanza
di rimessione G. SPANGHER, La riforma dell’8 agosto 1995 .Le prime ordinanze di rimessione alla
Corte costituzionale, in Dir. pen. proc. 1996, 113.
[15] Cass. pen. SS.UU.
n. 9, 25 giugno 1997, Atene; su tale decisioni cfr. A. SCELLA,
“Contestazioni a catena” e pluralità di
procedimenti: una discutibile opinione delle Sezioni Unite, in Cass. pen. 1997,
3362 ss.
[16] Corte cost. sent. n. 408/2005,
punto 3.2. del considerato in diritto.
[17] Corte cost. sent. n. 233/2011,
punto 4. del considerato in diritto.
[18] Cass. pen., Sez. VI, 30/9/2005 n. 39260, Bonura e
Sez. VI 2/4/2007 n. 18305, Panino, cui si sono
riportate: Sez. VI, 21/9/2007 n. 37554, Desiderato;
Sez. VI, 4/10/2007 n. 45306, Pierno;
Sez. VI, 15/11/2007 n. 8730/08, Baccaglini,;
Sez. VI, 21/1/2008 n. 8746, Rizzello;
Sez. VI, 18/6/2008 n. 31825, Molluso;
Sez. VI, 9/7/2008 n. 31869, Vaglio; Sez. VI, 24/9/2008 n. 38852, Amato.
[19] Corte cost. sent. n. 408/2005,
punto 3.3 del considerato in diritto.
[20] Cass. Pen.
SS. UU. 20780/2009, Iaccarino,
nel riassumere questo primo orientamento.
[21] Ex
plurimis Cass. pen., Sez. VI, 25/3/2003 n. 23779, Monteforte,
rv. 225911; Sez. IV,
29/3/2005 n. 27901, Buzukja; Sez. I, 19/5/2005 n.
24649, Falanga; Sez. II,
19/12/2005 n. 789/06, Esposito; Sez. V, 19/1/2006 n. 20561, Crisafulli;
Sez. IV, 16/5/2006 n. 20828, Marino; Sez. IV, 16/5/2006 n. 23667, Faglia; Sez. VI,
25/9/2006 n. 35391, Della Gala; Sez. VI, 9/11/2006 n.
3443/07, Di Liberto; Sez. V, 4/12/2006 n. 13211/07, Di Silvestro; Sez. II, 7/12/2006 n. 41604, Lo Cicero; Sez. IV,
8/5/2007 n. 26434, Osifo; Sez. IV,
13/6/2007 n. 28135, P.G. in proc. Arena; Sez. IV,
3/10/2007 n. 3013/08, Del Bianco Marcos,; Sez. I, 15/11/2007 n. 44944, Contaldo; Sez. IV, 11/12/2007 n.
3038, Spahia; Sez. I, 6/12/2007 n. 46628, Chiodo;
Sez. V, 8/2/2008 n. 9051, Palmieri; Sez. VI,
20/2/2008 n. 12334, Sermone; Sez. V, 20/2/2008 n. 25154, Monsignore; Sez. V,
20/2/2008 n. 25154, Virga; Sez. VI,
19/6/2008 n. 41106, Cucina; Sez. I, 25/2/2009 n. 11514, Costantino.
[22] Cass. pen. SS.UU.
20780/2009, punto 5. del considerato in diritto.
[23] Ibidem.
[24] Cass. pen. SS.UU.
20780/2009, punto 6.1. del considerato in diritto.
[25] L. LUDOVICI,
L’impatto del giudicato sul computo dei
termini cautelari: si restringe ancora il campo applicativo dell’art. 297,
comma 3, c.p.p., in Cassazione penale, 2010, 493 ss.
[26] Corte cost. sent. n. 233/2011,
punto 1. del considerato in diritto.
[27] Corte cost. sent. n. 233/2011,
punto 5. del considerato in diritto.
[28] Ibidem.
[29] Ibidem.
[30] Corte cost. sent. n. 233/2011,
punto 6. del considerato in diritto.
[31] Ibidem.
[32] Corte cost. sent. n. 233/2011,
punto 7. del considerato in diritto.