BARBARA LELLI
CONSENSO INFORMATO E ATTITUDINI
GARANTISTICHE DELLE REGIONI
1. Le (buone) intenzioni della legge
regionale all’origine della controversia.
La sentenza della
Corte costituzionale n. 438 del 2008 ha dichiarato l’incostituzionalità
dell’art. 3, comma 1 (e in via consequenziale anche dei successivi commi) della
legge regionale del Piemonte n. 21 del 6 novembre 2007, recante norme in
materia di uso di sostanze psicotrope su bambini ed adolescenti, per violazione
dell’art. 117, comma 3, della Costituzione. Prima però di addentrarci
nell’analisi della decisione, pare opportuno dare conto, almeno succintamente,
delle ragioni che hanno spinto il Consiglio regionale piemontese all’adozione
della complessiva normativa in cui era collocata la disposizione censurata
dalla Corte.
La legge regionale
piemontese n. 21 del 2007 si presentava infatti non solo come attuativa degli
artt. 4, 9 e 11 dello Statuto[1],
ma ambiva a dare svolgimento a principi espressi da fonti sovranazionali in
materia[2].
Più nel dettaglio, l’obiettivo della legge era quello di accompagnare
l’eventuale uso di psicofarmaci in età minore con determinate cautele, anche
allo scopo, se del caso, di scongiurarne l’abuso o l’uso improprio. A tal fine,
venivano previste, da un lato, azioni di monitoraggio, sorveglianza e
valutazione sui trattamenti in corso di natura psicofarmacologica (art. 5); e,
dall’altro, il divieto di somministrazione di test o questionari relativi allo
stato psichico ed emozionale degli alunni, se non finalizzati ad uso interno ed
esclusivamente didattico (art. 4)[3].
Ma, il punto chiave della normativa risiede (o meglio risiedeva fino
all’intervento del giudice costituzionale) nella disciplina del consenso
informato per tale tipo di trattamenti (art. 3), che, si noti per incidens, non rinviene al livello suo
proprio, cioè quello statale, una regolamentazione di carattere uniforme[4],
essendo questa piuttosto frammentata in discipline di settore[5].
Tale normativa regionale subordinava infatti il trattamento terapeutico con
farmaci psicostimolanti, antipsicotici, psicoanalettici e antidepressivi al
consenso informato dei genitori o dei tutori del minore, da fornirsi in forma
scritta su modulo apposito predisposto dalla Giunta regionale. Ciò all’evidente
fine di evitare il prodursi anche da noi della pratica della disinvolta
prescrizione di psicofarmaci a soggetti in età scolare prodottasi oltre
Atlantico[6].
Ancora in via generale, è necessario rilevare come la legge in questione,
benché si collocasse tra i due soli atti normativi del genere impugnati dal Governo[7],
non costituiva un caso isolato, dato che il tema della somministrazione di
psicofarmaci a minori è stato preso in considerazione anche da altre leggi
regionali analogamente formulate[8].
Comunque sia, nella
specie, le censure governative si erano appuntate sulla predetta disciplina del
consenso informato, in quanto ritenuta esorbitante rispetto alla materia di
competenza concorrente regionale della tutela della salute, ex art. 117, terzo comma, Cost.,
adducendosi che tale peculiare istituto non sarebbe stato previsto nella
legislazione “di cornice” di livello statale né di portata generale, né nel
particolare settore della disciplina degli stupefacenti[9].
Inoltre, l’introduzione di una disciplina regionale derogatoria e limitativa
della prescrizione di psicofarmaci a minori, avrebbe comportato, oltre ad una
situazione di “difformità” sul territorio nazionale, una ricaduta negativa sul
diritto alle cure, garantito dall’art. 32 Cost., nonché inciso sulla
determinazione dei livelli essenziali spettanti in via esclusiva al legislatore
statale ex art. 117, comma 2, lett. m), Cost. Veniva altresì lamentato il
fatto che il consenso informato avrebbe finito per assegnare ai genitori,
sprovvisti delle necessarie conoscenze scientifiche, un ruolo preponderante nella
fase decisionale rispetto alla valutazione discrezionale del medico[10].
2. Alcune coordinate
giurisprudenziali. La relazione Stato-Regioni in materia di tutela della salute
davanti alla Corte costituzionale.
Prima di addentrarci
nell’analisi delle risposte fornite dalla Corte, può essere ancora utile
fornire talune coordinate offerte dalla giurisprudenza costituzionale in
materia, anche perché lo stesso Governo non aveva mancato di fare ad essa
riferimento per sostenere le ragioni del ricorso.
In questo senso, si può
soprattutto citare la sentenza n. 338 del
2003, che aveva dichiarato costituzionalmente illegittimi gli artt. 4 e 5
della l. piemontese n. 14 del 2002[11],
e l’art. 3 della l. toscana n. 39 del 2002[12],
richiamando, a sua volta, le argomentazioni di una sentenza precedente, la n. 282 del 2002,
che aveva statuito l’illegittimità costituzionale dell’intera l. n. 26 del 2001
della regione Marche[13].
Le leggi regionali menzionate si ponevano infatti in un’ottica limitativa
dell’utilizzo di particolari interventi di psicochirurgia, introducendo una
sospensione cautelativa tout court di
tali pratiche sul territorio regionale (ciò che ha fatto la legge marchigiana),
o ponendo divieti di esercizio di tali interventi su minori, anziani
ultrasessantacinquenni e donne in stato di gravidanza (impostazione adottata
dalle leggi regionali del Piemonte e della Toscana, che, si noti, non erano
state censurate nella parte in cui richiedevano in generale l’obbligo del
preventivo consenso informato quale condizione di legittimità dell’intervento).
Nella sentenza n. 282 del
2002, in particolare, il mancato rispetto del riparto delle competenze
nella materia di legislazione concorrente aveva condotto alla dichiarazione
d’incostituzionalità della legge marchigiana ivi impugnata anche sulla base di
un’argomentazione (non riportata peraltro nel ricorso governativo che è
sfociato nella pronuncia annotata) che aveva tentato di fornire una spiegazione
dell’assenza di una disciplina statale del consenso informato.
La decisione in commento
perviene dunque a formulare la sua censura, reputando il consenso informato al
tempo stesso “espressione [di] consapevole adesione” e “diritto della persona”,
anzi “sintesi di due diritti fondamentali” (ossia “quello all’autodeterminazione
e quello alla salute”), derivandone altresì che esso costituisca “principio
fondamentale” nella materia concorrente della tutela della salute, e quindi
sottratto alla potestà legislativa delle Regioni, che, anzi, rinvengono in esso
un ben preciso limite da rispettare.
Si noti peraltro come,
nell’occasione,
3. Segue. La
fisionomia del consenso informato nel ragionamento dei giudici ordinari.
Occorre a questo punto
notare come la rilevata mancanza di un’apposita disciplina statale del consenso
informato non impedisca alla Corte di intrattenersi sulla fisionomia
dell’istituto, a questo fine, anzi, mostrando di collocarsi sulla scia di
talune pronunce dei giudici di legittimità e di merito che hanno finora cercato
di fissare taluni principi al riguardo.
La decisione in commento
sembra infatti muovere da altre sentenze precedenti che si sono espresse sul
consenso informato nel quadro di un’interpretazione evolutiva degli articoli 2,
13 e 32 della Carta fondamentale, triade poi richiamata dalla stessa Corte
nella decisione in commento: ci si riferisce particolarmente ad una pronuncia
del Tribunale di Genova del 10 gennaio 2006[18],
all’ormai celebre sentenza della Corte di Cassazione sul “caso Englaro”[19],
e alla sentenza del Tribunale di Roma del 23 luglio 2007 che si è pronunciata
sul parimenti noto “caso Welby”[20].
La sentenza del Tribunale
di Genova (richiamando, a sua volta, il “caso Massimo”, deciso dalla Corte
d’Assise di Firenze[21],
ed il “caso Siciliano”, deciso dalla Corte d’Appello di Genova[22]),
ha aderito all’impostazione, confermata dalla Suprema Corte[23],
che considera il consenso informato una “causa di giustificazione”, in assenza
della quale verrebbe in rilievo l’antigiuridicità della condotta del medico[24].
La decisione invoca, oltre ai “classici” artt. 13 e 32 Cost., l’art. 2,
mostrando di aderire alla tesi del “catalogo aperto” dei diritti fondamentali e
considerando il consenso informato “evidente specificazione” di questo[25].
Inoltre, attraverso il richiamo all’art. 3 della Carta di Nizza (diritto
all’integrità della persona), e del peculiare titolo I che lo contiene
(Dignità), mette a punto un delicato passaggio già intrapreso dalla Corte
d’Assise di Firenze, visualizzando in modo nitido il rapporto di strumentalità che sussiste fra l’informazione e la tutela della dignità
e dell’autodeterminazione del malato,
che è “persona” e non “oggetto di esperimento”[26].
Questa prospettiva è
stata ripresa dalla sentenza sul “caso Englaro”[27]
che (nell’offrire alla Corte d’Appello di Milano il principio di diritto cui
uniformarsi per la decisione nel merito) affronta il delicato tema relativo al
bilanciamento fra diritto all’autodeterminazione e tutela della vita. Il
consenso informato è qui individuato come “legittimazione e fondamento del
trattamento sanitario”, “pratica [che] rappresenta una forma di rispetto per la
libertà dell’individuo”, “mezzo per il perseguimento dei suoi migliori
interessi”, “principio [che] esprime una scelta di valore nel modo di concepire
il rapporto tra medico e paziente” . “… detto rapporto [che] appare fondato
prima sui diritti del paziente e sulla sua libertà di autodeterminazione
terapeutica che sui doveri del medico – ha un sicuro fondamento nelle norme
della Costituzione: nell’art. 2, che tutela e promuove i diritti fondamentali
della persona umana, della sua identità e dignità; nell’art. 13, che proclama
l’inviolabilità della libertà personale, [...] nell’art. 32, che tutela la
salute come fondamentale diritto dell’individuo […]”. Un analogo percorso
ermeneutico è stato poi ancora compiuto dal Tribunale di Roma, che ha ancorato
anch’esso il diritto al “rifiuto informato” agli artt. 2, 13 e 32 Cost.
4. Il consenso informato tra libertà
individuale e tutela della salute.
In relazione al diritto
di autodeterminarsi, tuttavia, la somministrazione di psicofarmaci a minori
rappresenta una situazione peculiare: la libertà di scelta terapeutica in capo
a questi soggetti appare notevolmente affievolita, sia per la difficoltà
oggettiva di riconoscere l’autenticità delle determinazioni volitive di
soggetti la cui psiche è offuscata dalla malattia mentale, sia, soprattutto, a
causa della minore età che, necessariamente, richiama in campo la funzione
dell’istituto della rappresentanza legale. Si ritiene comunque che l’ “alleanza
terapeutica” invocata nella sentenza della Suprema Corte non debba intendersi
come sussistente solo nel rapporto fra i genitori- rappresentanti legali ed il
medico curante: alla “legge di ascolto”[28]
si deve uniformare anche la relazione del medico col minore malato che, se
coinvolto e reso partecipe nel modo appropriato, potrebbe ulteriormente
beneficiare dell’approccio collaborativo nei suoi confronti ed assumere
consapevolezza del proprio disagio maturando nel tempo l’ottica adeguata per
contrastare il suo male. Il Codice di deontologia medica del 2006
opportunamente all’art. 38 c. 2 prescrive: “Il medico, compatibilmente con
l’età, con la capacità di comprensione e con la maturità del soggetto, ha l’obbligo
di dare adeguate informazioni al minore e di tenere conto della sua volontà”,
allineandosi con quanto previsto all’art. 6 c. 2 della Convenzione di Oviedo,
per cui: “Il parere di un minore è preso in considerazione come un fattore
sempre più determinante, in funzione della sua età e del suo grado di maturità”[29].
Del resto, la stessa legislazione statale relativa all’aborto (art. 12 della L.
194/1978), alla sperimentazione clinica (art. 4 del D.lgs. 211/2003) e alla
prevenzione, cura e riabilitazione degli stati di tossicodipendenza (art. 120
D.p.r. 309/1990) contemplano il coinvolgimento del minore per gli atti
terapeutici che hanno come destinataria la sua persona[30].
D’altro canto, come persuasivamente notato, considerare la maggiore età ex art. 2 del codice civile come soglia
di acquisizione della capacità di agire relativamente agli atti terapeutici può
divenire fuorviante, sia perché tale articolo si ricollega all’esercizio dei
diritti patrimoniali[31],
il cui rango non è certamente paragonabile a quello della libertà personale di
cui gode il minore, sia perché questi potrebbe, di fatto, essere dotato di una
sufficiente capacità di discernimento, e trovarsi tuttavia escluso dal circuito
decisionale[32].
In questo quadro, si
colloca, dunque, l’esito cui è giunta
[1] La legge regionale del 4 marzo 2005,
n.1 (Statuto della Regione Piemonte) all’art. 4 comma 1 dichiara che le
funzioni legislative, regolamentari e amministrative sono tese a realizzare gli
“obiettivi di progresso civile e democratico”, mentre all’art. 9 (tutela della
salute dei cittadini) viene sancito il ruolo di garanzia della Regione per il
diritto alla salute, apprestando l’art. 11 tutela ai “diritti sociali”, in
particolare alle fasce più deboli della popolazione: si vogliono specialmente
garantire l’infanzia, i minori, gli anziani e i diversamente abili, al fine di
permetterne l’ “esistenza libera e dignitosa”.
[2] Nella relazione che accompagna il
progetto di legge vengono infatti richiamati sia l’art. 5 della Dichiarazione
Universale dei Diritti Umani del 1948, sia l’art. 33 della Convenzione sui
Diritti del Bambino delle Nazioni Unite del 1989.
[3] Come si legge nella relazione illustrativa della legge, un simile divieto nasce dalla presa di consapevolezza che tale pratica si è rivelata in alcuni paesi (Inghilterra e Germania) un valido strumento di sondaggio e di marketing delle imprese che ha portato all’incremento delle prescrizioni di psicofarmaci a bambini e adolescenti.
[4] Al proposito, sono numerosi i d.d.l.
presentati, di cui l’ultimo approvato dal Senato il 26 marzo 2009, proposto
dalla XII Commissione permanente (Igiene e sanità) “Disposizioni in materia di
consenso informato e di dichiarazioni di volontà anticipate nei trattamenti
sanitari al fine di evitare l’accanimento terapeutico, nonché in materia di
cure palliative e di terapia del dolore” (risultante dalla unificazione dei
d.d.l. nn. 10, 51, 136, 281, 285, 483, 800, 972, 994, 1095, 1188, 1323, 1363 e
1368-A, rel. Calabrò).
[5] La normativa statale che disciplina
il consenso informato in campo sanitario è la seguente: art. 33 legge 23
dicembre 1978, n. 833 “Istituzione del servizio sanitario nazionale”; art. 1
legge 13 maggio 1978, n. 180 “Accertamenti e trattamenti sanitari volontari e
obbligatori”; art. 5 legge 22 maggio 1978, n. 194 “Norme per la tutela sociale
della maternità e sull’interruzione volontaria della gravidanza”; art. 2 lett. l) e art. 3 e 5 D.lgs. 24 giugno 2003,
n. 211 “Attuazione della direttiva 2001/20/CE relativa all’applicazione della
buona pratica clinica nell’esecuzione delle sperimentazioni cliniche di
medicinali per uso clinico”; art. 4 legge 19 febbraio 2004, n. 40 “Norme in
materia di procreazione medicalmente assistita”; art. 3 legge 21 ottobre 2005,
n. 219 “Nuova disciplina delle attività trasfusionali e della produzione
nazionale degli emoderivati”.
[6] Tale deprecata prassi permetteva in
quel Paese alle aziende farmaceutiche ingenti incassi, prima che intervenissero
provvedimenti restrittivi statali e federali, tanto da spostare l’attenzione
dei colossi farmaceutici sul “vecchio continente”, ove già sono in forte
aumento le diagnosi di disturbi mentali infantili che richiedono il trattamento
terapeutico con sostanze psicotiche (si noti che l’uso di taluni principi
attivi, quali il Ritalin e lo Strattera, è stato oggetto delle determinazioni
dell’Agenzia italiana del farmaco AIFA A.I.C./N n. 876 e AIFA n. 437 del 2007,
che hanno vincolato la loro somministrazione alla sottoscrizione obbligatoria
di un modulo scritto di consenso informato a firma della famiglia e del medico,
simile, peraltro, a quello prescritto dalle leggi impugnate).
[7] Essendo stata deferita alla Corte
costituzionale anche la legge provinciale di Trento 6 maggio 2008, n. 4 (la
questione è tuttora pendente: registro ricorsi n. 38 del 2008).
Vi sono state,
tuttavia, iniziative parlamentari volte alla richiesta di ritiro, da parte del
Governo, delle impugnazioni alla legge regionale piemontese e a quella
provinciale del Trentino: Atto di Sindacato Ispettivo n. 3-00168, seduta n. 45,
pubblicato il 22 luglio 2008; Interrogazione a risposta scritta 4 – 00822
presentata da F. Ceccacci Rubino, lunedì 28 luglio 2008, seduta n. 043;
Interpellanza urgente “Iniziative per il ritiro dei ricorsi governativi
relativi alla legge regionale del Piemonte e alla legge della provincia
autonoma di Trento in tema di somministrazione di farmaci psicoattivi ai
minori” – 2 – 00106, seduta n. 46 di giovedì 31 luglio 2008. Le disposizioni
della legge provinciale di Trento potrebbero essere ricondotte, quali
disciplina di dettaglio, al D.lgs. del 30 dicembre 1992, n. 502 (testo
aggiornato) recante: “Riordino della disciplina in materia sanitaria, a norma
dell’art. 1 della legge 23 ottobre 1992, n.
[8] Si pensi alle delibere legislative
adottate dal Consiglio provinciale di Bolzano (n. 118/07), e dai Consigli
regionali della Lombardia (n. 0361/08), del Veneto (n. 227/07), della Toscana
(n. 265/08), dell’Emilia Romagna (n. 2399/07), dell’Abruzzo (n. 0440/08),
Campania (n. 229/2007), Sicilia (n. 34/2008).
[9] Si noti che ciò può essere
condivisibile con rifermento al Testo unico sugli stupefacenti, si rinvengono
invece, come segnalato supra alla
nota 5, normative di settore che trattano il tema.
[10] Non si vede come quest’ultimo punto possa costituire una valida argomentazione, in quanto spetterebbe proprio al ruolo del medico, compatibilmente con la capacità di comprensione, riequilibrare il deficit informativo dei genitori, rendendoli edotti delle migliori scelte terapeutiche da perseguire per il bene dei figli, scelte che devono rientrare nell’ambito di un rapporto che si impronti ad un’ “alleanza terapeutica”, e che veda medici e genitori collaborare per un fine comune: la salute del bambino e dell’adolescente. Inoltre si ricordi che nel caso in cui i rappresentanti legali rifiutino il consenso ad un trattamento terapeutico ritenuto necessario, il medico potrà rivolgersi all’Autorità giudiziaria, come previsto dall’art. 37 del Codice di deontologia medica: il terzo comma dell’art. 37 statuisce: “In caso di opposizione da parte del rappresentante legale al trattamento necessario e indifferibile a favore di minori o di incapaci, il medico è tenuto a informare l’autorità giudiziaria; se vi è pericolo per la vita o grave rischio per la salute del minore e dell’incapace, il medico deve comunque procedere senza ritardo e secondo necessità alle cure indispensabili”.
[11] Legge regionale del 3 giugno 2002,
n. 14 “Regolamentazione sull’applicazione della terapia elettroconvulsivante,
la lobotomia prefrontale e transorbitale ed altri simili interventi di
psicochirurgia”.
[12] Legge regionale del 28 ottobre 2002,
n. 39 “Regole del sistema sanitario regionale toscano in materia di
applicazione della terapia elettroconvulsivante, la lobotomia prefrontale e
transorbitale ed altri simili interventi di psicochirurgia”.
[13] Legge regionale del 13 novembre
2001, n. 26 “Sospensione della terapia elettroconvulsivante, della lobotomia
prefrontale e transorbitale ed altri simili interventi di psicochirurgia”.
[14] Si veda l’articolo di S. Rodotà, Chi decide sul morire in
[15] Convenzione di Oviedo sottoscritta
il 4 aprile 1997 dagli Stati membri del Consiglio d’Europa, ratificata con L.
28 marzo 2001, n. 145, ma di cui lo strumento di ratifica non è ancora stato
depositato.
[16] Legge regionale del 15 novembre
2004, n. 63 (Norme contro le discriminazioni determinate dall’orientamento
sessuale o dall’identità di genere)
[17] Nella sentenza del 21
giugno 2006, n. 253
[18] Tribunale di Genova, Sez. II, 10
gennaio
[19] Cassazione Civile, Sez. I, 16
ottobre 2007, n.
[20] Tribunale di Roma, 17 ottobre 2007,
in Dir. pen. proc. 2008, 59, con
commento Di A. Vallini, Rifiuto di cure “salvavita” e responsabilità
del medico: suggestioni e conferme dalla più recente giurisprudenza. Questa
sentenza di non luogo a procedere qualifica come “adempimento di un dovere” la
condotta del medico che rispetti la volontà del paziente di rifiutare le cure,
pur andando incontro alla morte. Si vedano anche G. Anzani, Consenso ai
trattamenti medici e “scelte di fine vita”, in Danno resp., 2008, 957, e S.
Seminara, Le sentenze sul caso
Englaro e sul caso Welby: una prima lettura, in Dir. pen. proc. 2007, 1561 ss.
[21] Corte d’Assise di Firenze, 18
ottobre
[22] Corte di Appello Genova, 5 aprile
1995, in Danno Resp.,1996, 215.
[23] Sul “caso Massimo” , v. Corte di
Cassazione, 13 maggio 1992, n. 5639 che conferma la precedente decisione, in Dir. Fam. Pers., 1992, 1007.
[24]
Alla decisione della Corte d’Assise di Firenze fa rinvio anche la sentenza del
Tribunale di Milano che si è espressa sul “caso S. Raffaele”[24]
Secondo
[25] Differentemente
[26] “[…] è la denominazione del titolo,
che lo ospita, a rendere manifesto il bene giuridico che viene offeso nei casi
in cui l’attività medica non sia stata preceduta da adeguata informazione e
consenso: la dignità umana, visto che senza informazione adeguata e rispettosa
del paziente, e dunque anche dei suoi limiti culturali […], questi non è più
“persona” ma oggetto di esperimento o di un’attività professionale che trascura
il fattore umano su cui interviene, dequalificando il paziente stesso da
“persona” a “cosa”. Insieme ad essa […] sta un secondo valore […]:
l’autodeterminazione delle persone. Esiste quindi un rapporto di strumentalità
necessaria tra l’informazione che l’operatore sanitario deve trasferire al
paziente, per consentirgli scelte consapevoli, e la salvaguardia dei valori di
dignità ed autodeterminazione […]. Il riconoscimento di una dimensione di
“diritto fondamentale” attribuibile: al consenso informato, posto a presidio della dignità della persona e
del suo diritto ad autodeterminarsi rispetto alle cure mediche […]”.
[27] Cassazione civile, Sez. I, 16
ottobre 2007, n. 21748, cit.
[28] La suggestiva espressione è di P. Zatti, Il diritto a scegliere la propria salute, cit., 4.
[29] Si tengano in conto relativamente a questo tema gli artt. 12 e 24 della Convenzione sui diritti del fanciullo di New York del 20 novembre 1989 (ratificata con L. 27 maggio 1991, n. 176); e l’art. 2 lett. d) e 3 della Convenzione europea sull’esercizio dei diritti dei bambini, adottata a Strasburgo il 25 gennaio 1996 (ratificata con L. 77/2003): queste due convenzioni considerano e garantiscono anche il diritto all’informazione ed alla conseguente valutazione del minore dotato di capacità di discernimento, a differenza della legge regionale piemontese che proprio non ne fa menzione.
[30] Si veda A. Valsecchi, Gli
effetti giuridici del consenso del minore nel diritto penale. In particolare:
il consenso del minore al trattamento medico, in Cass. Pen., 2008, 1584.
[31] G.
La Forgia, Il consenso informato
del minore “maturo” agli atti medico-chirurgici: una difficile scelta d’equilibrio
tra l’auto e l’etero-determinazione, in Famiglia
e Diritto 2004, 409.
[32] In proposito E. Pellecchia, La
salute dei minori tra autodeterminazione, potestà e intervento del giudice, in
Nuova Giur.civ. comm.. 2004, 103 ss.
che richiama lo scritto di P. Zatti, Rapporto educativo e intervento del giudice,
in L’autonomia dei minori tra
famiglia e società, a cura di R. De
Cristofaro- A. Belvedere, Milano, 1980, 189.