Tatiana Guarnier
Un ulteriore passo verso l’integrazione CEDU: il giudice
nazionale come giudice comune della Convenzione?*
1. L’antefatto: la sentenza n. 129 del
2008 ed il quadro giurisprudenziale di riferimento.
È noto come l’apertura all’integrazione del tessuto
normativo nazionale ad opera del sistema CEDU sia stata oggetto di numerose ed
importanti pronunce costituzionali, a partire dalle sentenze nn.
348 e 349
del 2007[1].
Nel solco di questa giurisprudenza si inscrive anche
la decisione in commento, pur in maniera peculiare, non essendo la prima volta
che la Corte affronta il tema sottopostole dalla quaestio legitimitatis in esame. Per
studiare la sentenza abbiamo scelto allora di muovere dal suo precedente
specifico, la sent.
n. 129 del 2008.
La questione oggetto della decisione n. 113 del 2011
costituisce l’ultimo tassello del controverso caso Dorigo; caso che solleva numerose
problematiche di primissimo rilievo, da quelle relative al rapporto tra
ordinamenti, al delicato tema del superamento del giudicato, al bilanciamento
tra princìpi nel sistema integrato, sino ai limiti
delle possibilità additive della Corte costituzionale.
Come oramai noto, la controversia riguarda un cittadino
italiano condannato a pena detentiva sulla base di un
processo ritenuto iniquo dalla Corte EDU[2], poiché conclusosi sulla base di
dichiarazioni lette ma non ripetute in dibattimento (essendosi i tre coimputati
avvalsi della facoltà di non rispondere) e senza che, dunque, si fosse formato
intorno ad esse un regolare e pieno contraddittorio. Sulla scorta della
decisione europea, il Comitato dei Ministri e l'Assemblea Parlamentare del
Consiglio d'Europa avevano a più riprese sollecitato lo Stato italiano ad
adottare misure che garantissero l'osservanza della pronuncia[3];
raccomandazioni che sono rimaste inevase nel corso degli anni ed, anzi, sono
state eluse dal giudice dell'esecuzione, il quale aveva rigettato l'istanza di
sospensione dell'esecuzione della pena avanzata dall'imputato a seguito della
sentenza della Corte europea[4]. La pronuncia era stata poi ribaltata
dalla Corte di Cassazione, la quale aveva tentato di percorrere un’altra
strada, promuovendo la possibilità di dichiarare l’ineseguibilità
del giudicato[5], ma medio tempore l'imputato
aveva proposto istanza di revisione del processo alla
Corte d’appello di Bologna.
È stato proprio quest’ultimo Giudice a sollevare le
questioni di nostro interesse. La prima, antecedente alle pronunce nn.
348 e 349
del 2007, era architettata intorno ad una serie di poco “felici” parametri[6].
La seconda è stata invece costruita alla luce della riformulazione del rapporto
tra ordinamenti e di alcuni “suggerimenti” forniti dalla Corte costituzionale
nella sentenza
n. 129 del 2008.
Pur nella – potremmo dire – quasi obbligata decisione della
Corte di non ritenere fondate le questioni proposte dalla Corte d’appello con
la prima ordinanza, la Consulta aveva infatti scelto
di “andare oltre” la decisione di infondatezza, lanciando un monito al
legislatore affinché rispondesse alla «improrogabile necessità che
l'ordinamento predisponga adeguate misure atte a riparare, sul piano
processuale, le conseguenze scaturite dalle violazioni ai principi della
Convenzione in tema di “processo equo”, accertate da sentenze della Corte
europea dei diritti dell'uomo»[7]
e, nel farlo, indicava puntualmente gli elementi del
“bilanciamento” di rilevanza costituzionale e di rilevanza convenzionale che
avrebbero dovuto essere considerati al fine di addivenire alla «problematica
individuazione di un punto di equilibrio tra l'esigenza di assicurare
meccanismi riparatori, a fronte di sempre possibili errori del giudice; e
quella – contrapposta alla prima – di preservare la certezza e la stabilità
della res iudicata».
Sono tre gli elementi della decisione sui quali vogliamo
appuntare la nostra attenzione ai fini delle analisi che ci prospettiamo in
questo scritto.
Innanzitutto, l’approccio della Corte costituzionale, molto
attento alle implicazioni sistemiche dell’integrazione: nel demandare il
bilanciamento concreto al legislatore, essa pare aver tentato di assicurare che
l'equilibrio tra i poteri dello Stato non venisse
compromesso dall'integrazione di Strasburgo e che, anzi, ciascuno di essi
venisse responsabilizzato, nell'ambito delle proprie competenze, nell'opera di
attuazione e concretizzazione del disposto convenzionale. Riteniamo sia
importante sottolineare questo punto perché analogo
atteggiamento può rinvenirsi nella decisione in commento e sembra fare da
sfondo a tutta la giurisprudenza costituzionale in tema di rapporti con la
Convenzione europea[8].
Per quanto attiene al caso ora oggetto del nostro studio,
poi, il rispetto del ruolo del legislatore nell’opera integrativa del tessuto
nazionale acquisisce un rilievo centrale per, almeno, due ulteriori
ordini di ragioni: innanzitutto, per la “riserva di discrezionalità
legislativa” accordata dalla Corte al legislatore in tema di regolamentazione
del processo, in generale, e dell’istituto della revisione, in particolare[9];
in secondo luogo, perché l’intervento che avrebbe potuto sanare la mancata
integrazione era in questo caso un intervento additivo e – in quanto tale –
particolarmente delicato per la Corte costituzionale, specie nelle aree di
consolidato self restraint.
Infine, vorremmo concentrare la nostra attenzione anche
sulla piena utilizzazione, in occasione della pronuncia n. 129,
di un valore di matrice convenzionale ai fini dell'operazione di bilanciamento
(pur passando per il tramite dell’art. 117, comma 1, Cost.): si interveniva
così, da una parte, ad arricchire i termini di cui il bilanciamento si compone
e, dall'altra, a ristrutturarlo per consentirne un utilizzo a fini
“integrativi” del diritto interno.
2. Lo svolgimento: la
sentenza n. 113
del 2011.
Questo l’antefatto della pronuncia n. 113 del 2011.
Un antefatto che era un invito, rivolto in particolar modo al legislatore, ad intervenire per ripristinare il mancato adempimento di un
obbligo assunto dallo Stato in sede sopranazionale o, di più, una proposta di
condivisione della creazione normativa alla luce delle istanze
dell’integrazione.
È, però, con la mancata risposta a quell’invito che la
Corte è costretta a tornare sul punto[10].
Con l’ordinanza del 23 dicembre 2008, infatti, la Corte d’appello di Bologna,
sulla scorta della rinnovata giurisprudenza costituzionale in tema di rapporti
col sistema CEDU ed, in particolare, della sent. n. 129 del 2008,
solleva la questione di legittimità costituzionale dell’art. 630 c.p.p., nella parte in cui non prevede tra le ipotesi di
riapertura del processo la necessità di conformarsi ad una decisione di
Strasburgo, per violazione indiretta dell’art. 117, primo comma, Cost., e
diretta dell’art. 46, par. 1, CEDU (ossia dell’obbligo degli Stati membri di
conformarsi alle sentenze Cedu).
Il parametro, stavolta, è “felice”, nel senso che consente alla Corte di pronunciarsi sulla questione nel
senso desiderato dal rimettente. Meno “felice” sembra invece essere la Corte,
che mostra di non svolgere di buon grado un ruolo di supplenza del legislatore
in un settore delicato quale quello della revisione
del processo.
Ma procediamo per gradi.
Nella sent. n. 113 la
Corte conferma quanto costantemente ribadito nel corso di questi anni circa i
rapporti con il sistema CEDU[11]
e percorre ogni step del controllo di conformità
della norma interna a quella convenzionale, per come elaborato nella propria
giurisprudenza: per prima cosa, valuta se esistano “controlimiti”
convenzionali; una volta esclusa questa evenienza, valuta la possibilità di
pervenire ad una soluzione ermeneutica del dissidio; infine, esclusa anche
questa possibilità, dichiara l’illegittimità costituzionale della normativa
nazionale (rectius,
nel caso di specie, della lacuna normativa nazionale) per via della violazione
della norma convenzionale.
Quanto al primo step, la Consulta analizza la giurisprudenza della Corte di
Strasburgo relativa all’adempimento delle sentenze Cedu da parte degli Stati membri; giurisprudenza dalla quale
emerge che, in casi quale quello pendente nel giudizio principale, l’art. 46,
par. 1, CEDU ed il conseguente obbligo di restitutio in integrum in favore del soggetto
vittima della violazione della Convenzione, si traduce in un impegno degli
Stati membri a permettere la riapertura o la revisione dei processi[12].
La mancanza di una siffatta previsione all’interno dello Stato italiano si
traduce allora in una violazione “sistemica” della Carta europea, cui lo Stato
è tenuto a porre rimedio e di fronte alla quale il sistema convenzionale
prevede meccanismi di intervento più aspri rispetto a
quelli relativi a violazioni “occasionali”[13].
Di più, qui la Corte fa notare come la violazione non sia meramente sistemica,
ma potremmo dire addirittura “ontologica”: «l’avvenuto esaurimento dei rimedi
interni rappresenta, infatti, condizione imprescindibile di legittimazione per
il ricorso alla Corte di Strasburgo: con la conseguenza che quest’ultima si
pronuncia, in via di principio, su vicende già definite a livello interno con
decisione irrevocabile»[14].
Ciò premesso, pur nella constatazione che l’istituto della revisione processuale conosce tradizionalmente nel nostro
ordinamento una funzione ed un ruolo nettamente differenti da quelli ravvisati
a Strasburgo, la Consulta ritiene che gli obblighi dedotti in quella sede dal
disposto CEDU non siano in contrasto con la Costituzione perché, «pur
nell’indubbia rilevanza dei valori della certezza e della stabilità della cosa
giudicata», le decisioni di Strasburgo mirano alla garanzia di diritti
fondamentali della persona, che trovano ampio riscontro anche nel nostro testo
costituzionale (in primis, nell’art.
111). Anzi, si precisa che la sedes dell’intervento
additivo richiesto dal giudice è correttamente individuata dal giudice a quo, essendo l’istituto della revisione del processo il più consono a garantire
l’adempimento dell’obbligo convenzionale da parte dello Stato.
Ciò verificato, la Corte ribadisce
quanto già nella precedente occasione affermato, ossia l’impossibilità di sanare
il vulnus costituzionale in via
interpretativa. Erano state infatti prospettate
diverse possibili soluzioni ermeneutiche del problema, tutte scartate dalla
Corte stessa o dal giudice a quo, in sede di sollevazione della questione
di legittimità[15].
Posta l’insanabilità in via interpretativa, si arriva a quello che ci pare essere il cuore della decisione: il vulnus convenzionale necessita di un
rimedio che, non essendo stato offerto dal legislatore, più volte invitato ad
intervenire tanto dagli organi di Strasburgo, quanto dalla Consulta, deve
essere allora introdotto dalla Corte stessa.
Di fronte a questa situazione, la Corte fa intendere di
trovarsi, per così dire, “spalle al muro”, non potendo più prorogarsi ad libitum una situazione di grave
violazione statale di obblighi convenzionali. Essa, allora, dichiara
l’illegittimità costituzionale dell’art. 630 c.p.p.
“nella parte in cui non prevede” un “diverso” caso di revisione
della sentenza e di riapertura del processo che consenta di rispondere alla
violazione dell’art. 46, par. 1, CEDU. Strana addizione, questa, che non
chiarisce molto, né sembra voler guidare il legislatore nella sua futura
attività di disciplina del dettaglio del rimedio.
Riservandoci di chiarire meglio questo punto più avanti,
vogliamo per il momento fermarci ad una considerazione che ci riporta
all’orientamento del Giudice costituzionale nella decisione n. 129 del 2008.
Nonostante, infatti, in questo caso la soluzione sia diversa e la Corte addivenga ad una pronuncia additiva, essa però persiste
nella proposizione di un atteggiamento accorto, ribadendo la propria volontà di
“contestualizzare” questa decisione e promuovendo l’idea che essa costituisca
solo uno dei tasselli di un onere di adempimento ai doveri sopranazionali che
incombe in capo ad ogni organo dello Stato e che, in questo caso specialmente,
avrebbe potuto essere molto meglio soddisfatto da un intervento legislativo[16].
Molti sono i punti della sentenza ove si può scorgere questa
attenzione al ruolo da essa rivestito nel sistema integrato ed ove si delineano
i correlativi doveri/poteri dei giudici e del legislatore nell’adempimento
dell’obbligo di adeguare l’ordinamento statale alle decisioni di Strasburgo.
In particolare, per quel che ci interessa ora, la Corte ribadisce a chiare lettere che il proprio intervento non
esaurisce le potenzialità normative dell’introduzione di una nuova fattispecie
all’interno dell’art. 630 c.p.p. e che – di più –
questo intervento additivo non implica
una pregiudiziale opzione di favore per l’istituto della revisione, essendo la
declaratoria di incostituzionalità «giustificata soltanto dall’inesistenza di
altra e più idonea sedes dell’intervento additivo». Al
legislatore viene dunque restituita ogni discrezionalità in
ordine alla futura disciplina dei rimedi interni per adeguarsi ad una
sentenza CEDU di condanna; egli rimarrà libero di prevedere un autonomo e
distinto istituto a tal fine precipuamente preposto[17]
o, se sceglierà di operare nel solco di questa
decisione, di «dettare norme su specifici aspetti di esso sui quali questa
Corte non potrebbe intervenire, in quanto involventi scelte discrezionali».
3. L’epilogo,
prefigurando il sequel: il giudice
nazionale come “giudice comune” della Convenzione?
Quanto sin qui detto sembra essere nient’altro, o poco più,
che la logica continuazione del discorso avviato dalla Corte nella sentenza n. 129 del 2008.
Se da questo punto di vista, dunque, la decisione non sembra far sorgere nuove
questioni rispetto a quelle già affiorate e studiate dalla dottrina in
occasione delle precedenti ricordate pronunce, melius re perpensa, essa si presta a qualche osservazione ulteriore.
In primo luogo occorre riflettere, a nostro parere, sulle
numerose ragioni che avrebbero suggerito un intervento del legislatore; ragioni
a più riprese ricordate dalla Corte costituzionale. Si paventava, in
particolare, la possibilità che l’introduzione del meccanismo di revisione ipotizzato dal rimettente potesse creare un
«improvvido quarto grado di giudizio, atto a minare la coerenza dell’intero
sistema processuale penale», nonché l’inconciliabilità di tale ipotesi di
revisione con la configurazione interna dell’istituto, tradizionalmente rivolto
alla sopravvenienza di fatti oggettivi, esterni all’iter processuale, che rendano logicamente ed eticamente doveroso
rimuoverne gli effetti. Venivano sollevate, poi,
delicate questioni di equilibrio tra le ragioni della difesa dei diritti
processuali vantati in sede europea e le ragioni del “giudicato”, istituto a
tutela e garanzia della certezza del diritto[18].
Di fronte a tutte queste difficoltà, particolarmente complessa si è dimostrata
la possibilità di intervenire in sede legislativa per riformare l’istituto
della revisione al fine di consentire uno svolgimento
del processo penale conforme ai dettami europei.
Se questo è il dato, allora, anche la conseguente –
potremmo dire parallela – attività “additiva” richiesta al giudice
costituzionale per sanare l’incostituzionalità presenta notevoli tratti di
difficoltà[19].
Tanto più che, in questo caso, l’addizione non potrebbe a rigore considerarsi “a
rime obbligate” o, quantomeno, potrebbe esserlo solo
ove si ritenesse che il disposto CEDU entri a far parte della nostra
Costituzione a pieno titolo. Ciò che, a stare alle argomentazioni della Corte,
non è.
Le aporie della ricostruzione in termini dualistici dei
rapporti tra ordinamento costituzionale ed ordinamento
CEDU emergono allora qui in tutta la loro concretezza ed in tutta la loro forza[20].
Se da una parte, infatti, la Corte ribadisce che
l’ingresso delle disposizioni e delle norme CEDU nell’ordinamento italiano si
fonda – tradizionalmente – sull’ordine di esecuzione e da esso mutua il rango
legislativo, dall’altra postula una sub-costituzionalità di quelle norme ed
utilizza gli strumenti specifici dell’ermeneutica costituzionale per sciogliere
i conflitti tra esse e quelle interne[21].
Nel caso di specie, poi, la Corte ricava dal bilanciamento tra le istanze CEDU (dietro la formale copertura costituzionale) e
quelle costituzionali la necessità di introdurre nel nostro ordinamento una
norma di cui si riconosce espressamente l’incompatibilità con le finalità
interne dell’istituto che dovrà concorrere a disciplinare, riponderando
il “peso specifico” dei valori, princìpi ed interessi
sottesi al giudicato penale, per consentire l’ingresso delle istanze sopranazionali[22].
Come se non bastasse, poi, queste considerazioni “obbligano” la Corte ad intervenire in senso additivo in una materia, quella del
processo penale, che costituisce un’area di self
restraint, di riserbo in favore del rispetto
della discrezionalità legislativa.
Tutto considerato, dunque, ci sembra che il risultato di
queste contraddizioni sia un dispositivo che in tutto
riflette una dualità di intenti e di tensioni: da una parte, vi è una piena
consonanza con l’impostazione duale, ove si ritiene necessario introdurre uno
strumento interno di attuazione delle sentenze Cedu[23];
dall’altra, l’introduzione di questo strumento conduce verso un sistema
tutt’altro che duale. Sarà infatti possibile per il
giudice comune, ove lo riterrà opportuno[24],
riaprire, revisionare il processo alla luce della contestata violazione della
CEDU e, in quella sede, il giudice si farà il concreto garante del rispetto dei
diritti processuali di cui si è riscontrata una violazione a Strasburgo.
Volendo mutuare l’espressione tipica dell’ordinamento comunitario, egli si farà
insomma “giudice comune” della Convenzione europea[25].
Tornando al caso di specie, ad esempio, la Corte d’appello di Bologna potrà revisionare il processo, per garantire che esso non si
risolva in una condanna basata su prove non assunte nel contraddittorio delle
parti, ovvero per consentire l’assunzione di quelle prove in dibattimento[26].
Ne risulta un quadro di
integrazione tra ordinamenti particolarmente forte, tanto nella fase
“ascendente” (di giustificazione delle argomentazioni portate a sostegno del
dispositivo), quanto nella fase “discendente” (del precipitato della decisione
sul ruolo dei giudici comuni nell’attuazione delle sentenze e del disposto
convenzionale).
Dal primo versante perché sono solo, ci pare di poter dire,
ragioni “esterne” a giustificare l’intervento additivo della Corte: ciò che
essa non avrebbe mai fatto se le istanze fossero state
interne (come dimostra la consolidata giurisprudenza costituzionale di self restraint
in materia), diviene possibile, addirittura obbligato, ove siano coinvolti gli
obblighi assunti dallo Stato in sede convenzionale. Che poi la Corte tenti di
modulare questo intervento, scegliendo una formula additiva di principio molto
vaga – quasi a “dispositivo generico”[27]
– e cerchi di restituire al legislatore ed ai giudici tutta la loro
discrezionalità, non sembra di ostacolo ad una constatazione che vediamo
emergere con chiarezza dalla pronuncia n. 113 del 2011:
l’integrazione dell’ordinamento interno con gli ordinamenti sopranazionali
esercita una spinta propulsiva verso la creazione giurisprudenziale del
diritto, obbligando i giudici ad intervenire in funzione suppletiva[28].
Quando poi è la Corte costituzionale il giudice
“suppletivo”, l’esperienza dei rapporti con gli ordinamenti sopranazionali ci
insegna come le tappe dell’integrazione siano state segnate in maniera
determinante da “momenti giurisprudenziali di creazione del diritto”[29].
Che si stia per abbattere gli ultimi baluardi del dualismo
nei rapporti tra ordinamento interno e ordinamento
convenzionale è ancora presto per dirlo, ma, a conti fatti, le premesse del
discorso della Corte paiono oggi più che mai vacillare di fronte al portato di
conseguenze cui il percorso intrapreso conduce.
* In corso di pubblicazione sulla
Rivista “Giurisprudenza Italiana”
[1] Quasi
superfluo oramai ripercorrere quella giurisprudenza, sulla quale ben poco si
potrebbe aggiungere alle profonde riflessioni dottrinali di questi anni. È
appena il caso di segnalare che i menzionati leading cases hanno trovato un seguito nelle
sentenze nn. 39 e 129 del 2008; 311 e 317 del 2009; 93 del 2010; 80, 236 e 257 del 2011,
ove il tema dei rapporti tra ordinamento italiano e ordinamento convenzionale, nonché
del ruolo di snodo della Corte costituzionale, viene trattato ex professo. Per ulteriori decisioni ove
la Corte configura le norme CEDU, nell’interpretazione resa dalla Corte di
Strasburgo, come norme interposte nel giudizio di legittimità costituzionale,
v. anche le pronunce nn. 138, 187 e 196 del 2010. I
commenti alle singole decisioni sono moltissimi. Basti qui menzionare alcuni
studi di più ampio respiro: Tega D., La
CEDU e l’ordinamento italiano, in Cartabia M. (a cura di), I
diritti in azione. Universalità e pluralismo dei diritti fondamentali nelle
Corti europee, Bologna, 2007, 67 ss.; Cicconetti
S.M., Creazione
indiretta del diritto e norme interposte, in Giur. Cost., 2008, 565 ss.; Ridola P., Diritto
comparato e Diritto costituzionale europeo, Torino, 2010, spec. 187 ss.; Ciervo A., L'interpretazione adeguatrice come criterio
di risoluzione dei contrasti ermeneutici tra ordinamento interno e Convenzione
europea dei diritti dell'uomo: profili dottrinali e giurisprudenziali, in www.federalismi.it,
08.03.2011; Ruggeri A., La Corte fa il punto sul rilievo interno
della CEDU e della Carta di Nizza-Strasburgo, in www.forumcostituzionale.it, 23.03.2011. Per qualche nostra considerazione
sul punto e per i dovuti approfondimenti bibliografici, sia consentito fare
rinvio a Guarnier T., Interpretazione costituzionale ed
integrazione europea. Prime riflessioni intorno al mutamento
dell’interpretazione costituzionale in funzione dell’apertura verso le
organizzazioni sopranazionali, Napoli, 2010, spec.
162 ss.
[2] Più precisamente, dalla Commissione, non essendo ancora,
all'epoca dei fatti, entrato in vigore il Protocollo n. 11 allegato alla
Convenzione. Cfr. sent. Dorigo
c. Italia, 9 settembre 1998.
[3] Cfr., tra le altre, la risoluzione interinale ResDH(2005)85, la risoluzione
finale CM/ResDH(2007)83 del
Consiglio dei Ministri e la Risoluzione n. 1516(2006) dell'Assemblea
Parlamentare.
[4] Corte di assise di Udine, 5 dicembre 2005.
[5] Cfr. Cass., I Sez. pen., 25 gennaio 2007, n. 2800.
[6] In questi
termini si esprimono, tra gli altri, Pugiotto A., Vent’anni
dopo l’insegnamento di Giovanni Battaglini, in Bin R., Brunelli G., Pugiotto A, Veronesi P. (a cura di), All’incrocio tra Costituzione e CEDU. Il
rango delle norme della Convenzione e l’efficacia interna delle sentenze di
Strasburgo (e-book), Torino, 2007, 198 e Tanzarella P.,
Il caso Dorigo: riequilibrio tra poteri
costituzionali, in Quad. Cost., 2008, 645 ss. I parametri
individuati erano l'art. 3 Cost., per irragionevole disparità di trattamento
tra le condanne di Strasburgo ed i fatti
sopravvenuti (che invece legittimano, a norma dell’art. 630 del c.p.p. una riapertura del processo), l'art. 27, comma 3,
Cost., sulla base dell'assunto che la funzione rieducativa della pena
imporrebbe che la stessa consegua ad un processo svolto secondo princìpi di giustizia, e l'art. 10 Cost., quale fondamento
costituzionale del recepimento della CEDU. Consolidata giurisprudenza
muoveva però in senso opposto alle asserzioni del rimettente, tanto con
riferimento alla equiparabilità dei fatti alle valutazioni processuali svolte
da giudici differenti, tanto con riferimento all’equiparabilità dei concetti di
giusto processo e di giusta pena, quanto infine con riferimento alla
possibilità di rinvenire il fondamento costituzionale del recepimento della
CEDU nella previsione di adeguamento automatico di cui all'art. 10 Cost.
[7] Sulle
peculiarità di questo monito ed i suoi possibili
intendimenti, si v. Cerioni M., Ancora
sull’“affaire Dorigo”: il seguito della pronuncia costituzionale,
in Giur. It., 2009,
2142 ss.
[8] Considerando
nel suo complesso questa giurisprudenza, vi si può, a nostro parere, rinvenire una sorta di ripartizione di compiti tra poteri
dello Stato ai fini della composizione dei sistemi interno e convenzionale: al
legislatore, il primo bilanciamento dei valori, dei princìpi
e dei diritti, interni e sopranazionali (cfr. spec. le sentt. nn. 129 del 2008 e 113 del 2011),
tale da assicurare che sia adottato il massimo standard di tutela per i diritti contemplati dalle diverse carte
(così, in particolare, la sent. n. 317 del
2010); a ciascun giudice, poi, l’onere di tentare un’esegesi delle
disposizioni interne che, compatibilmente con le istanze di siffatto
bilanciamento, ne assicuri la conformità alle carte di riferimento (cfr.
soprattutto le pronunce nn. 239 del 2009, 311 e 317 del 2010);
infine, alla Corte costituzionale, il meta-bilanciamento e, ove non sia
possibile sciogliere l’apparente antinomia in sede ermeneutica, la
dichiarazione di illegittimità costituzionale della norma interna in contrasto
con la CEDU (per violazione indiretta della Costituzione), ovvero la
dichiarazione dell’impossibilità che un determinato indirizzo giurisprudenziale
di Strasburgo entri all’interno del nostro ordinamento, per incompatibilità con
la Costituzione italiana.
[9] Si vedano,
tra le altre, le sentt. nn.
294 del 1995; 399
del 1998; 33
del 2007; ord. n. 243 del 2009.
[10] I numerosi
disegni di legge di riforma, infatti, non sono pervenuti ad alcun risultato. Ci sembra il caso di segnalare fin d’ora, però, che alcuni di questi
progetti si sono arenati per le numerose difficoltà di introdurre una siffatta
ipotesi di revisione del processo, talune di
compatibilità con la funzione “interna” dell’istituto, talaltre
di compatibilità con la Costituzione. Cfr., per una disamina
dei progetti di legge e di questi problemi, Pugiotto A., Op. cit., 195
ss. Il punto ci pare assumere un certo rilievo, dal
momento che dimostra, come vedremo meglio più avanti, l’impossibilità
che un intervento esaustivo potesse provenire dalla Corte costituzionale.
[11] Cfr. il
punto 8 del Considerato in diritto.
[12] Per una
lettura combinata dell’art. 46 e dell’art. 41 CEDU,
applicata alle violazioni dell’art. 6 CEDU, si vedano, ex plurimis, Cedu,
23 ottobre 2003, Gencel c. Turchia; Grande Camera, 8 aprile
2004, Assanidze c. Georgia; Id., 18 maggio 2004, Somogyi c. Italia; Id., 10 novembre 2004, Sejdovic c. Italia; Id., 27 marzo 2005, Stoichkov c. Bulgaria; Id., 12 maggio
2005, Öcalan c. Turchia; Id., 13 ottobre 2005, Bracci c. Italia; Cedu,
19 ottobre 2006, Majadallah c. Italia; Id., 21 dicembre 2006, Zunic c. Italia; Cedu,
8 febbraio 2007, Kollcaku
c. Italia; Id., 12 giugno 2007, Pititto c. Italia;
Id., 11 dicembre 2007, Drassich c. Italia; Id., 25 novembre 2008, Cat Berro c. Italia;
Grande Camera, sent. 17 settembre 2009, Scoppola
c. Italia; Id., 1° marzo 2006, Sejdovic c. Italia.
E’ importante ricordare, altresì, che l’atteggiamento della Corte di Strasburgo è molto concessivo in ordine al conferimento agli Stati aderenti di un’ampia libertà di scelta delle modalità che essi ritengano più opportune a tali fini. Sul ruolo del cd. margine di apprezzamento nella giurisprudenza Cedu, si v. Tanzarella P., Il margine di apprezzamento¸ in Cartabia M. (a cura di), I diritti in azione. Universalità e pluralismo dei diritti fondamentali nelle Corti europee, Bologna, 2007, 145 ss. e Sciarabba V., Il ruolo delle Corti costituzionali nella giurisprudenza della Corte EDU: considerazioni sulla dottrina del margine di apprezzamento, in All’incrocio tra Costituzione e CEDU, cit., 235 ss. Per quanto ci interessa ai fini del presente scritto, e per le valutazioni che verremo a svolgere, principalmente, nel par. 3, importante sottolineare che, dunque, sotto questo profilo, le sentenze della Cedu non possono ritenersi, nella maggior parte dei casi, self executing.
[13] Si vedano,
a tal proposito, le riforme apportate dal Protocollo n. 14, di recente entrate
in vigore.
[14] Così il
punto 5 del Considerato in diritto. La Corte aderisce
qui, dunque, a quella dottrina che da tempo rinveniva
nel combinato disposto degli articoli 35, 46 e 13 CEDU un obbligo degli Stati
aderenti di prevedere meccanismi di revisione del processo per l’adeguamento
alle decisioni di Strasburgo. Cfr. Lupo
E., La vincolatività delle sentenze della Corte europea per il
giudice interno e la svolta recente della Cassazione civile e penale, in http//:appinter.csm.it/incontri/relaz/14037.pdf, 8 s. Come evidenziato da Cartabia M., La
CEDU e l’ordinamento italiano, cit., 16 s., però, la Corte di Strasburgo
non sembra aver accolto tale rigorosa interpretazione; è piuttosto il Comitato
dei ministri a spingere gli Stati membri affinché essi adottino le misure
legislative necessarie a consentire la riapertura del processo.
[15] Il
difensore del condannato aveva ad esempio prospettato la possibilità di
ricondurre l’ipotesi di violazione del sindacato CEDU a quella del contrasto di
giudicati prevista dalla lett. a), primo comma, art. 630 c.p.p., per il
tramite dell’equiparazione della decisione europea a quella di un giudice
speciale. In giurisprudenza si era invece evidenziato come una tale
reinterpretazione dell’istituto fosse incompatibile con la sua tradizionale
configurazione di strumento volto a comporre il dissidio tra “verità
processuale” e “verità storica”. Le soluzioni
prospettate in alternativa dalla giurisprudenza comune sono state però ritenute
dalla Corte «incomplete» e «inidonee» alla piena realizzazione dell’obiettivo.
Si trattava della proposta di utilizzare l’istituto del ricorso straordinario
per errore materiale o di fatto ex art. 625 bis c.p.p. (Cass., 11 dicembre 2008, n. 45807; Id., 28 aprile
2000, n. 16507), non utilizzabile per tutti quei casi in cui la Corte di
Cassazione non fosse stata coinvolta; della proposta di utilizzare la richiesta
di restituzione in termini per la proposizione dell’impugnazione ex art. 175, comma 2, c.p.p. (Cass., 27 febbraio 2008, n. 8784; Id., 2 febbraio
2007, n. 4395), utilizzabile per i soli casi di violazioni della CEDU
determinate dalla disciplina del processo contumaciale; della proposta di
utilizzare un incidente di esecuzione ex art.
670 c.p.p. al fine di sollecitare il giudice
dell’esecuzione a dichiarare l’ineseguibilità del
giudicato (Cass., 25 gennaio 2007, n. 2800, con riferimento proprio al caso Dorigo); rimedio che «“congela” il giudicato, impedendone
l’esecuzione, ma non lo elimina, collocandolo a tempo indeterminato in una
sorta di “limbo processuale”. Soprattutto, la mera declaratoria di ineseguibilità non dà risposta
all’esigenza primaria: quella, cioè, di riapertura del processo, in condizioni
che consentano il recupero delle garanzie assicurate dalla Convenzione» (così,
il punto 5 del Considerato in diritto).
[16] In
questo senso muove anche larga parte della dottrina. Si v., tra gli altri, Cartabia M., La
CEDU e l’ordinamento italiano, cit., 3; Carnevale
S., I rimedi contro il giudicato
tra vizi procedurali e “vizi normativi”, in All’incrocio tra Costituzione e CEDU, cit., 57 ss.; Ciuffetti C., Vincoli di conformazione per gli ordinamenti
nazionali nelle pronunce della Corte EDU: i casi italiani della revisione
penale e dell’indennità di esproprio, ibid., 77 ss.; Pugiotto A., Op. cit., 199 s.; Negri D., Rimedi al giudicato penale
e legalità processuale: un connubio che gli obblighi sopranazionali non possono
dissolvere, ibid., 169 ss.
[17] Parte
della dottrina ritiene che uno strumento più agile e indipendente dalla revisione del processo sia il rimedio più adeguato. Cfr. O. Mazza, Mesi di tempo (ormai anche meno) per
garantire lo Stato di diritto, in Cass.
Pen., 2006, 393 ss.; A. Saccucci,
Obblighi di riparazione e revisione dei
processi nella convenzione europea dei diritti dell’uomo, in Riv. Dir. Int.,
2002, 618 ss.
[18] Per
un’analisi di questi profili, si v. De
Luca G., Giudicato, II) diritto processuale penale, in Enc. Giur., vol.
XV, Roma, 1988, 2 s.; Serges G., Il
“valore” del giudicato nell’ordinamento costituzionale, in Giur. It., 2009, 2819 ss., nonché la
giurisprudenza della Corte costituzionale relativa all’intangibilità del
giudicato: ex plurimis,
sentt., nn. 74 del 1980; 294 del 1995; 413 del 1999; ordd. nn. 14 e 501 del 2000. Più in generale, sul principio di certezza del diritto, nei suoi
rapporti con il giudicato e con il legittimo affidamento dei cittadini, si v.
Carnevale P., I diritti, la legge e il principio di tutela del legittimo affidamento
nell’ordinamento italiano. Piccolo divertissement su alcune questioni di natura definitoria,
in corso di pubblicazione negli Scritti in onore del Prof. Alessandro Pace; Id., La
tutela del legittimo affidamento…cerca casa, in
corso di pubblicazione nella Rivista Giur. Cost., e
bibliografia ivi riportata.
[19] Tratti che
ci paiono emergere da un dispositivo piuttosto contorto e notevolmente
articolato, se raffrontato alle usuali additive di principio.
[20] Per una
disamina di tali aporie si vedano Cartabia M., Op. cit.; Tega
D., Op. cit.; Cicconetti S.M., Op. cit.; Ciervo A., Op. cit.
[21] Il che fa
pensare piuttosto all’uso delle categorie tipiche dell’integrazione. Non
essendo questa la sede per trattare di un tema complesso come quello delle
teorie sui rapporti tra ordinamenti, sia consentito ancora fare rinvio al
nostro Interpretazione costituzionale ed integrazione europea, 34 ss.
[22] Qui emergono chiaramente le difficoltà legate
all’uso del bilanciamento e del criterio di ragionevolezza a fini integrativi;
in particolare, quelle legate alla circostanza che ciascun ordinamento fa
proprio un diverso ordine di priorità di princìpi,
diritti e valori e che dunque, per così dire, le relative “bilance” sono
“diversamente tarate”. Sul punto, si v. Ridola P., La Corte costituzionale e la Convenzione
europea dei diritti dell’uomo: tra gerarchia delle fonti nazionali e
armonizzazione in via interpretativa, in Id., Diritto comparato e diritto costituzionale europeo, cit., 195.
[23] Come
notato da Bartoloni E.M.,
L’efficacia interna delle sentenze
della Corte EDU per il giudice italiano: in margine alle sentenze della Corte
di Cassazione Somogyi e Dorigo, in All'incrocio tra
Costituzione e CEDU, cit., 30 ss.,
applicando le teorie del Conforti B.,
Diritto internazionale, Napoli, 2006, 291: «se è vero che l’art. 46 pone
un obbligo allo Stato e, quindi, ai suoi organi, in via di principio l’obbligo
opera sul piano del diritto internazionale. Il giudice non potrebbe quindi, in
mancanza di un atto che dia attuazione a tale obbligo, essere considerato
obbligato ad applicarle. Una cosa è l’obbligo che lo Stato assume sul piano
internazionale a conformarsi alle sentenze definitive della Corte, tutt’altra
cosa è il vincolo che deriva ai giudici sul piano interno ad applicare tali
sentenze. Solo in presenza di una volontà del
legislatore di osservarne il disposto, espressa attraverso l’adozione di un
atto di esecuzione, sarebbe quindi consentito agli operatori giuridici interni
di applicare la sentenza. Seguendo questa linea interpretativa, l’obbligo per
il giudice di conformarsi alle sentenze Cedu non
deriverebbe direttamente dall’art. 46, quanto dal
combinato disposto dell’art. 46 e dell’ordine di esecuzione» e, più avanti, «la
convenzione e le pronunce rese dalla Corte europea, al pari di ogni altra norma
di diritto internazionale, ricevono attuazione fin dove l’ordinamento lo
consente».
[24] La Corte
precisa che spetterà ai giudici decidere quando sia il caso di procedere ad una revisione del processo, a seconda della violazione
dell’art. 6 che di volta in volta verrà riscontrata. Essi dovranno ritenere
inapplicabili «le disposizioni che appaiano inconciliabili, sul piano
logico-giuridico, con l’obiettivo perseguito (porre l’interessato nelle
condizioni in cui si sarebbe trovato in assenza della violazione accertata, e
non già rimediare a un difettoso apprezzamento del fatto da parte del giudice,
risultante da elementi esterni al giudicato)»; cosa che ictu oculi non
accade, ad esempio, quanto la violazione dell’art. 6 consista nella
irragionevole durata del processo. Nello svolgimento di questo compito, le
direttive della Corte sono di tenere in debito conto, per un verso, della
sentenza CEDU cui si deve dare applicazione e della eventualmente intervenuta
sentenza interpretativa di quella decisione, nonché,
per altro verso, della circostanza che «l’ipotesi di revisione in parola
comporta, in sostanza, una deroga – imposta dall’esigenza di rispetto di
obblighi internazionali – al ricordato principio per cui i vizi processuali
restano coperti dal giudicato. In questa prospettiva, il giudice della revisione valuterà anche come le cause della non equità del
processo rilevate dalla Corte europea si debbano tradurre, appunto, in vizi
degli atti processuali alla stregua del diritto interno, adottando nel nuovo
giudizio tutti i conseguenti provvedimenti per eliminarli». Ciò implicherà che
il giudice nazionale dovrà farsi carico di tutta quella serie di complicate
operazioni di armonizzazione e combinazione del disposto CEDU con le
disposizioni interne tipica dell’integrazione tra ordinamenti.
[25]
Espressione, peraltro, già utilizzata nelle sentenze 348 e 349 del 2007.
[26] Come
osserva Tega D., La CEDU e l’ordinamento italiano, cit.,
87, «la stessa Corte attraverso la possibilità del riesame può esercitare
un’influenza virtuosa sui giudici interni, motivati a un più attento rispetto
dei principi sanciti dalla Cedu e dai suoi protocolli
e dalla giurisprudenza della Corte».
Vi è, però, un altro aspetto di questa considerazione che ci
pare importante sottolineare, ossia la circostanza
che, al termine del processo revisionato, non è affatto detto che la revisione
muova pro reo. Se pensiamo al caso
del Sig. Dorigo, attualmente
libero in virtù della decisione della Corte di Cassazione, potrebbe darsi – in
ipotesi – che i testimoni decidano di prestare le loro deposizioni in
dibattimento e che, all’esito delle stesse, il giudice decida di condannare
l’imputato. Se, da un lato, ciò non dice nulla in ordine al
problema specifico sottoposto alla Corte di Strasburgo – che era un problema di
garanzie processuali, a questo punto soddisfatte – dall’altro lato dice molto
circa l’intervento additivo della Corte costituzionale, che potrebbe anche
essere contra reo.
[27] Mutuando l’espressione di Parodi
G., La sentenza additiva a
dispositivo generico, Torino, 1996.
[28] Lo
dimostra, d’altro canto, il percorso della Corte di Cassazione che sul punto ha
anticipato di molto l’atteggiamento del giudice costituzionale, cercando, tra
le numerose critiche dottrinali, strumenti di creazione pretoria
per assolvere agli obblighi derivanti dall’art. 46
CEDU. Cfr., ex multis, Cass.,
sez. III, sent. 21.06.2010, n. 23761; Id., sez. V, sent. 28.04.2010, n. 16507, Scoppola; Id., sez. VI, sent. 11.12.2008, n. 45807, Drassich; Id., sez. I, sent. 27.02.2008, n. 8784; Id., SS.UU., sent.
07.02.2008, n. 6026, Huzuneanu;
Id., sez. V, sent. 02.02.2007, n. 4395, Cat Berro; Id., sez. I, sent. 03.10.2006,
Somogyi;
Id., Sez. I, sent. 03.10.2005, n. 35616, Cat Berro;
ma v. anche ., sez. I, sent. 09.06.2009, n.
23817, Cat Berro; Id.,
Sez. I, sent.22.05.2008, n. 20633, Rojas.
[29] Per il
significato dell’espressione, si fa rinvio a Lombardi
L., Saggio sul diritto giurisprudenziale, Milano, 1967; per una riflessione
ad ampio raggio sul ruolo di supplenza della Corte costituzionale, anche avendo
riguardo ai rapporti con gli ordinamenti sopranazionali, v. Modugno F., La
“supplenza” della Corte costituzionale, in Id., Scritti sull'interpretazione
costituzionale, Napoli, 2008, 107 ss.