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Giancarlo Guarino

 

Costituzione italiana e integrazione europea: aiuti di stato, “distrazione” amministrativa e costi impropri per le imprese*.

 

Sommario: 1. Introduzione: la natura di strumento di integrazione della Unione Europea. - 1.1. Originarietà dell’ordinamento comunitario, legislazione nazionale e art. 117.1 Costituzione italiana. - 1.2. L’ordinanza della Corte Costituzionale 103/2008. - 1.3. La tecnica di formazione comunitaria delle norme in materia di aiuti di stato. - 2. Il caso Alitalia. - 3. La legislazione italiana e le decisioni comunitarie nel caso degli incentivi sul mercato del lavoro. - 3.1. Le notifiche e le risposte della Commissione. - 3.2. La decisione della Commissione. - 4. Differenze e analogie tra i casi descritti. - 5. Le differenti conseguenze per le imprese delle varie forme di aiuti illeciti.

 

1. Introduzione: la natura di strumento di integrazione della Unione Europea.

L’Italia, non diversamente peraltro da numerosi altri paesi europei, non è certo parca di problemi per le CE, con riferimento in particolare al complesso e delicatissimo regime degli aiuti di stato. Un tema, come noto, di grande importanza e di grandissima difficoltà interpretativa e applicativa, anche a causa della tendenza degli stati membri (senza eccezioni, a dire il vero) a cercare in ogni modo di aggirare le norme che ne fanno divieto, nell’intento di favorire il proprio sistema di imprese e, in certi casi, di “salvare” imprese in declino dal fallimento o dalla acquisizione da parte di imprese “straniere”.

Già l’uso di quest’ultimo termine, in ambito europeo, dovrebbe ormai essere bandito almeno nella mentalità , se non nella prassi, delle imprese stesse e degli amministratori pubblici. Benché, infatti, molti siano i punti ancora da affrontare e chiarire e gli ostacoli, innanzitutto politici, ma anche tecnici da superare, è sempre più evidente come ormai, e sempre di più ogni giorno che passa, l’UE assomigli più ad uno stato (magari di tipo federale)[1] che alla semplice organizzazione internazionale alla quale per lungo tempo gran parte della dottrina (e grandissima parte delle amministrazioni statali e non solo) si erano abituati a pensare.[2]

Parlare, con riferimento ai rapporti tra stati membri e UE, di processi di coordinamento o di cooperazione o altro, appare sempre meno consono ad una realtà nella quale i conti si devono fare con un vero (e per certi versi, mi pare, inarrestabile) processo di integrazione[3], che fa sempre più spesso e più ampiamente “saltare” i pur numerosi ostacoli frapposti dagli stati membri, sempre più visibilmente in posizioni di “retroguardia” rispetto ad un processo che risponde a sue logiche proprie difficilmente riconducibili alla semplice gestione di una “comune” organizzazione internazionale[4]. Ciò che colpisce (e ne mostrerò tra poco qualche esempio) nello sviluppo della cooperazione europea è appunto l’automatismo e se si vuole la spontaneità[5] di certi processi di sviluppo, rispetto ai quali la volontà esplicita degli stati è spesso del tutto estranea.

Così come, non si può tacerlo, estranea ad essi è pure la volontà e la stessa consapevolezza dei Parlamenti nazionali, a loro volta sempre più lontani dal processo di formazione delle norme comunitarie e, del tutto, dalla loro applicazione[6]. I recenti tentativi di mascherare questa realtà (del resto necessaria) attraverso il più frequente ricorso ad una consultazione dei Parlamenti stessi, sembra appunto solo un’operazione di facciata intesa ad attenuare il timore di una loro “perdita di sovranità”, per così dire, ormai nei fatti da tempo “perduta”, o meglio, trasfusa e rafforzata in una diversa, più ampia, sovranità europea[7], che invece, quella sì, meriterebbe di essere rafforzata in senso democratico-partecipativo.  Curiosamente, d’altro canto, e di nuovo non credo che sia un caso, si potrebbe osservare come una maggiore partecipazione reale vi sia tra organi decisionali della UE e organi amministrativi centrali e periferici  interni, partecipi sempre di più, questi ultimi, del processo “ascendente” di formazione delle norme comunitarie. Appunto: ognora di più l’UE agisce come uno stato  nel quale si creano delle procedure amministrative autonome che sempre più nettamente prescindono dai Parlamenti nazionali, ma anche, per certi versi, dagli stessi Governi.

In altre parole: le caratteristiche di originarietà[8] del sistema comunitario appaiono sempre più difficili da negare o nascondere. Infatti sempre più netta è l’impressione per cui le logiche interne proprie della struttura comunitaria[9], cancellano o si sovrappongono ai tentativi degli stati di affermare le proprie prerogative sovrane a danno dell’UE, che, tanto per fare un esempio anche “visivo”, se pure apparentemente marginale, nel trattato di Lisbona ha ormai sostituito definitivamente il termine “mercato comune” con la dizione “mercato interno”[10]; termine le cui implicazioni anche psicologiche sono troppo evidenti per richiedere spiegazioni[11]. Il sistema, insomma, funziona e crea norme se non contro, certamente anche a prescindere dagli stati membri e queste norme, come vedremo tra poco sia pure per qualche aspetto particolare, si integrano e si armonizzano in un tutto organico e coerente, normativamente definibile.

 Ciò, come vedremo tra poche righe va detto non per una generica (e inutile oltre che inesistente) affermazione di “fede europeista” ma per invitare a tenere conto adeguato di quei processi reali, la mancata coscienza e conoscenza dei quali può, come appunto vedremo tra poco, provocare danni e inconvenienti notevoli, anche di natura economica in particolare per il sistema produttivo dei paesi membri.

 

1.1. Originarietà dell’ordinamento comunitario, legislazione nazionale e art. 117.1 Costituzione italiana.

Ma del resto, solo per concludere questa parentesi, anche le legislazioni nazionali finiscono per non riuscire a (o, più probabilmente, per non volere) sottrarsi a questa logica, se anche solo si pensa, da un lato, all’enorme importanza assunta in Italia da una norma recente, finora poco approfonditamente valutata, ma fondamentale come il primo co. dell’art. 117 Costituzione che, a mio parere[12], semplicemente rivoluziona il sistema dei rapporti tra stato e diritto internazionale e quindi e inoltre in particolare, tra stato e UE[13]. Dall’altro, basterebbe, anche solo fare riferimento al vasto e approfondito dibattito in corso sulla possibilità o meno non solo di disapplicare[14] le norme interne in contrasto con il diritto comunitario (ex art. 11 Cost e oggi anche 117.1) cosa ormai acquisita e pacifica, ma anche di non applicare i provvedimenti amministrativi adottati e formalmente perfetti e corrispondenti alle normative nazionali[15], ma in applicazione di regole interne in contrasto con quelle comunitarie[16]. L’impressione della “forza propria” del sistema, del resto, era già evidente all’epoca della sentenza Granital[17], quando si affermò definitivamente l’idea della non applicabilità [18] della legislazione interna in contrasto con quella comunitaria anche se ad essa successiva, in ragione del principio della diversità e contemporaneità della vigenza dei due ordinamenti, comunitario e statale, ciascuno valido, vigente e applicabile per suo conto in ragione della sua competenza o meno a definire e regolare una certa fattispecie.

Ma poi, a dimostrazione di come le cose si evolvano fuori del controllo e dell’impulso della politica, “per forza propria” in qualche modo, giunge a suggellare, almeno per quanto riguarda l’Italia, l’integrazione tra i due ordinamenti la recentissima (anch’essa per certi versi rivoluzionaria) ordinanza 103/2008 della Corte Costituzionale [19] che, per la prima volta nella sua storia, ammette un ricorso pregiudiziale alla giurisdizione comunitaria (tra l’altro anche con un riferimento proprio al problema degli aiuti di stato): se non è integrazione questa ... certo magari incompiuta, ma pur sempre integrazione[20]. Valga, a renderlo evidente, l’analisi critica del ragionamento della Corte, che sintetizzo nel prossimo paragrafo.

 

1.2. L’ordinanza della Corte Costituzionale 103/2008.

La nostra Corte Costituzionale, dunque, se non altro in quanto adita con un ricorso in via principale, ma affermando così di fare parte di un sistema unico o almeno unitario (di un unico ordinamento giuridico insomma[21]), si dichiara, alla luce del diritto comunitario e quindi nel suo ambito[22], giudice, secondo la definizione tecnica del trattato, di ultima istanza[23] e pertanto si considera obbligata a ricorrere alla Corte europea per la dubbia interpretazione di talune norme del trattato rilevanti per la specifica questione sollevata dinanzi ad essa. Non a caso, la medesima Corte, con sentenza n. 102/2008 nella medesima data (richiamata esplicitamente nella stessa ordinanza) aveva invece regolarmente risolto altre questioni di costituzionalità sorte rispetto alla medesima fattispecie, dove la sua competenza esclusiva era indubbia. In altre parole la Corte si dichiara (o, se si preferisce, riconosce di fare) parte di un sistema, nell’ambito del quale il diritto comunitario impone ai giudici interni, che il diritto comunitario identifica come giudici di ultima istanza, Corte Costituzionale inclusa dunque, degli obblighi di ricorso al giudice comunitario, per l’accertamento (vincolante) del contenuto del diritto comunitario stesso da applicare in un giudizio interno pendente[24]. La Corte Costituzionale, così, si pone, rispetto al diritto comunitario, sul medesimo piano dei giudici ordinari[25], che detto obbligo di ricorso già da tempo hanno, anche se l’obbligo di ricorso pregiudiziale in questo caso nasce solo a causa del fatto che la Corte stessa, secondo la sua affermazione, è stata adita in via principale. Con il che, sia consentito di interpretare in questa maniera il dictum della Corte, si afferma implicitamente che, in caso di giudizio incidentale, l’obbligo di ricorso alla Corte di Giustizia comunitaria resta esclusivamente in capo al giudice ordinario.

Ma, la Corte, peraltro, non valuta (né avrebbe in quella sede potuto o dovuto) altre due questioni, forse solo di scuola, alle quali però accenno brevemente di seguito e che potrebbero indurre la Corte stessa a rivedere la sua idea per cui il ricorso alla Corte di Giustizia può aversi solo se nel corso di un giudizio in via principale. Insomma, a rivedere e profondamente quella sua divisione di competenze.

Potrebbe infatti accadere (ecco la prima questione)[26] che un giudice ordinario, posto di fronte alla necessità di richiedere alla Corte di Giustizia delle Comunità Europee l’interpretazione di un atto comunitario, necessaria per risolvere la vertenza al suo esame, rilevi come quella interpretazione possa determinare, o determini se già emessa, la possibilità che la “risultante” dell’atto comunitario, della sua interpretazione comunitaria e delle legislazione interna residua competente, determini un effetto di incostituzionalità.[27] Essendo il giudice ordinario obbligato ad applicare il giudizio della Corte di Giustizia, magari prima ancora di ricorrere alla Corte di Giustizia o comunque immediatamente dopo, non avrebbe altra possibilità che quella di ricorrere alla Corte Costituzionale per sapere come comportarsi. Quest’ultima, a sua volta, piuttosto di dover giudicare incostituzionale quella “risultante” (violando così il diritto comunitario) potrebbe considerarsi obbligata (benché non, strettamente parlando, come giudice di ultima istanza, ma certamente come giudice la cui pronuncia potrebbe essere definitiva nei risultati) a ricorrere alla Corte di Giustizia nella speranza che la (eventualmente nuova) interpretazione si quest’ultima eviti il descritto effetto di incostituzionalità.

Beninteso, da un lato, qualora la incostituzionalità permanesse, è difficile immaginare che la Corte Costituzionale non possa trovarsi proprio nella necessità ipotizzata come eccezionale nella menzionata sentenza Granital e cioè di giudicare non applicabile la norma risultante o di valutare come incostituzionale la norma comunitaria.

D’altro canto, per restare coerente alla accennata ipotesi di integrazione, mi preme sottolineare che è difficile immaginare che la stessa Corte di Giustizia, richiesta in via pregiudiziale, non sia in realtà “costretta” (ma io preferirei dire “tenuta”) ad interpretare l’atto in questione (con valenza generale, dunque) in maniera da non ledere la norma costituzionale italiana, in ossequio, ipotizzo, proprio a quell’art. 6.3[28] del trattato UE di cui sopra, vedendo, cioè, nella norma costituzionale italiana una di quelle norme interne che assurgono a principi fondatori della intera UE e ai quali pertanto una norma comunitaria non potrebbe mai andare contro, per essere essa una norma dello stesso diritto comunitario[29]: la norma comunitaria effettiva, insomma, sarebbe formata dalla integrazione per via interpretativa tra quella comunitaria e quella nazionale.  Questa, mi sembra, sarebbe la conseguenza logica e al tempo stesso la prova della integrazione tra i sistemi. Ma è anche l’unico modo, mi pare, per interpretare una disposizione come quella in discussione.[30]

Non meno intrigante (e vengo così alla seconda questione di cui sopra) potrebbe rivelarsi un’altra ipotesi, sempre largamente di scuola anche se simile alla precedente, della quale costituisce in qualche modo l’altra faccia. Nel corso, dunque, di un giudizio sulla costituzionalità di una legge italiana, la Corte potrebbe rilevare che l’ interpretazione di essa, alla luce del diritto comunitario, potrebbe rivelarsi incostituzionale o viceversa (e cioè non essere più sospetta di incostituzionalità, se letta alla luce della corretta interpretazione della norma comunitaria), e quindi essere dalla Corte stessa giudicata in conseguenza. Non resterebbe, credo, alla Corte Costituzionale che ricorrere, essa direttamente, alla Corte di Giustizia per poterlo accertare e regolarsi di conseguenza[31], dato che la sua pronuncia influirebbe direttamente sulla questione di merito, mentre il giudice ordinario non avrebbe ragione né modo di rivolgersi alla Corte di Giustizia. Anche qui, dunque, la Corte, non solo non sarebbe giudice principale, ma non potrebbe fare a meno del giudizio della Corte di Giustizia se non altro per non emettere una sentenza che determini una violazione del diritto comunitario.[32]

Sorvolo sulle questioni di compatibilità tra sistemi che si potrebbero porre in entrambe le situazioni, ma che, in termini di integrazione potrebbero trovare un adeguato componimento.

Ma, tornando all’ordinanza, ciò che più importa, a mio giudizio, è che la Corte (richiamando in parte quanto già affermato con le sentenze 348 e 349/2007) cita sì l’art. 11[33] della Costituzione, ma solo come fonte di giustificazione del fatto che alla Comunità sono conferite potestà di tipo legislativo (nell’ambito rigoroso della propria competenza di attribuzione[34], peraltro), mentre l’obbligo di rispettarne le norme e il coordinamento tra di esse sono tutti, mi sembra e giustamente, collegati al primo co. dell’art. 117 Costituzione[35]. Il quale è divenuto, a mio parere, la vera chiave di volta del sistema dei rapporti tra diritto interno e diritto internazionale in senso lato[36], affermando un vincolo per le potestà legislative statale e regionale, che impedisce[37] alla legislazione italiana di contravvenire alle norme di diritto internazionale pattizio (e quindi anche comunitarie), intervenendo in qualche modo per questa via sulla stessa sovranità del Parlamento[38].

In realtà, a mio parere, in nessun modo si può parlare di limitazione o perdita di sovranità del Parlamento (e quindi dello stato), ma solo di integrazione e, nel suo ambito, di riparto di competenze. Allo stesso modo in cui nulla può impedire ad una Regione di legiferare in maniera difforme dalle leggi quadro e dalle norme costituzionali salvo a vedersi caducate quelle norme, nulla impedisce al Parlamento di legiferare in maniera difforme da una norma pattizia internazionale, salvo che quella norma non troverà applicazione laddove la fattispecie rientri nella competenza internazionale e fin tanto che vi permanga. 

 

1.3. La tecnica di formazione comunitaria delle norme in materia di aiuti di stato.

Come vedremo fra poco, proprio il tema degli aiuti si muove in questa logica e, solo nel suo ambito, può essere ben compreso, anche perché permette di meglio capire come, per restare in termini di integrazione, strettissime siano le relazioni e il riparto rigoroso di competenze tra UE e i suoi organi, Corte di Giustizia innanzitutto, da una parte, e giurisdizioni nazionali, dall’altra.

L’UE e gli stati membri si muovono, dunque, ciascuno nel proprio ambito, secondo una rigorosa e chiarissima distinzione di competenza[39], che, una volta e per tutte, se mi si consente di dirlo in questa sede, nei fatti, permette di fare giustizia della ormai superata idea della gerarchia tra norme[40], che assegna alle norme comunitarie (che la Corte, peraltro, continua a definire norme interposte) un presunto (e tutto da dimostrare) rango superiore rispetto alle norme nazionali (non a caso non manca chi parla ancora di sovranazionalità, un concetto in sé assai povero di significato)[41]. Rango a parte, nell’ambito che ci interessa è dunque di competenze e di riparto di competenze che si parla come vedremo fra un momento, con conseguenze importanti per il sistema delle imprese, con particolare riferimento al problema della buona fede (o del legittimo affidamento) che, lungi dall’essere un arbitrio della giurisdizione comunitaria, come pure a prima vista potrebbe apparire[42], è semplicemente la logica conseguenza del sistema di integrazione del quale parlo. Integrazione, che, come cercherò di mostrare più avanti, comporta per lo stato un ruolo di esecutore di norme, e per conseguenza può, a mio parere, determinare una sua responsabilità per colpa o addirittura per dolo, sia verso i privati lesi da un suo illecito comportamento, che verso la UE stessa.

Anticipando in poche parole quanto mi accingo a  dire più analiticamente: alla UE (e solo ad essa) spetta di accertare se un determinato comportamento di uno stato membro rientri o meno tra gli aiuti illeciti e di indicare la conseguente azione (il recupero delle somme, che non ha natura sanzionatoria, ma è solo indirizzata a riequilibrare lo squilibrio derivante dall’illecito aiuto), mentre è esclusivamente allo stato e ai suoi organi (organi giurisdizionali, inclusi) che compete sia di rendere effettiva la dovuta restituzione, sia di valutare l’eventualità di riconoscere alle imprese la buona fede[43], sia, infine, di rispondere, se del caso, del suo stesso comportamento: alle imprese, “tratte in inganno” o comunque danneggiate[44], alla UE per la eventuale mancata ottemperanza alle sue decisioni.

Non va dimenticato, peraltro, che il diritto comunitario, per sua struttura e per sua natura essendo un ordinamento fatto di prassi e con la prassi, amplia e precisa  il contenuto di disposizioni spesso generiche e chiare solo nella finalità che perseguono, come è il caso proprio degli aiuti di stato, dove sono stati e sono la prassi degli organismi comunitari e la giurisprudenza della Corte di Giustizia, quelle che hanno nei fatti costruito un sistema, in gran parte non ancora interamente definito, ma destinato a sopperire alla modesta certezza del diritto, che discende dalla genericità della normativa comunitaria. Basterebbe a metterlo in evidenza il fatto, sia pure relativamente marginale, per cui la Commissione con una semplice comunicazione (quindi un atto di tipo addirittura formalmente solo indicativo, e dunque strutturalmente non obbligatorio) del 15.11.2007 [45] “spiega” agli stati come si proponga di agire per ottenere che gli stati stessi si conformino effettivamente alle decisioni in materia di aiuti, pur in mancanza di una vera e propria procedura obbligatoria, salva la disposizione quadro dell’art. 228 ( oggi art. 260 nel testo di Lisbona) del trattato[46], che consente di applicare allo stato inadempiente una multa una tantum e addirittura una sorta di contravvenzione la cui entità sia legata alla durata dell’infrazione, lasciando alla prassi (in questo caso “concordata” tra Commissione e Corte di Giustizia) di fissarne modalità, tempi e entità.

Proprio in questa situazione si rivela la richiamata capacità “autonoma” dell’UE di agire per impedire agli stati di aggirare le norme che, ovviamente, essi stessi hanno posto in termini generici.

E dunque, per fare un esempio nell’ambito del tema degli aiuti, è interessante il modo in cui è stato affrontato e risolto il tema della molto frequente inadempienza da parte degli stati delle decisioni comunitarie in materia di aiuti. Spesso, infatti, gli stati, pur di fronte ad una decisione definitiva della Commissione e ad una sentenza della Corte, che impongono di sospendere e di recuperare gli aiuti illegittimamente somministrati alle imprese, semplicemente reagiscono con l’inerzia. Ripetutamente la Commissione ha cercato di ottenere dagli stati un più puntuale rispetto degli impegni, senza troppo successo in vero.

Ma la sinergia tra la stessa Commissione e la Corte ha portato oggi ad un risultato di notevole interesse e sicuramente non molto gradito agli stati membri (pur autori della norma che lo consente!) o almeno non a tutti. Come ricordato poco più sopra, infatti, con il trattato di Maastricht veniva introdotto il menzionato art. 228 (oggi 260) con il quale si stabiliva che contro stati inadempienti di decisioni definitive sanzionate dalla Corte di Giustizia, si potesse aprire (come per il merito in caso, ad esempio, di aiuti) una procedura di infrazione da parte della Commissione, seguita da una eventuale sentenza della Corte, che, nel caso, può applicare agli stati le vere e proprie multe descritte sopra. L’insistenza della Commissione a vedere applicata la norma, in sé generica, ha infine portato, da un lato ad un atto informale della Commissione [47], nel quale essa “suggerisce” di adottare determinate misure punitive atte a scoraggiare effettivamente gli stati dal continuare nella illegittimità, fissandone anche le modalità di definizione della entità. Dall’altro lato, la Corte, per suo conto in tre sentenze recenti ha “aderito” alle richieste della Commissione. Prima stabilendo il pagamento di una cifra corrispondente al periodo di mancata applicazione del disposto europeo [48] e infine  il pagamento anche di una cifra una tantum (per di più alquanto rilevante) oltre alla cifra corrispondente al periodo di mancato adeguamento alla decisione, interpretando così la disposizione come ”suggerito” dalla Commissione e, sembrerebbe, anche nell’entità da essa suggerita; e ciò, nonostante la ferma opposizione di numerosi stati membri[49].

In altre parole, la Commissione, chiamata dall’art. 260 ad indicare, dopo esaurita la procedura di infrazione, una multa o una penalità (commisurata al tempo di permanenza dell’infrazione), elabora di propria iniziativa e pubblicamente una tecnica - informale, ma in pratica obbligatoria! e che, però, così diviene uno strumento di trasparenza e di certezza del diritto per gli stati membri - con cui definisce l’entità della multa o penalità, fino a indicare alla Corte, che accetta, di applicarle entrambe, mentre a stretto rigore la norma le vede in alternativa. La Commissione, come osservato, ottiene ciò limitandosi ad adottare una comunicazione priva di valore normativo formale, ma nel farlo in sostanza indica dei criteri rigorosi,  predeterminati e pubblici[50] inducendo la Corte a tenerne conto. Gli stati membri sono così preventivamente avvertiti di quali saranno i criteri di valutazione delle contravvenzioni, che la Commissione si riserva di “suggerire” alla Corte: gli stati, pur in assenza di norme formalmente obbligatorie, sanno perfettamente a quanto potrà ammontare la contravvenzione, la cui entità, peraltro, sembrerebbe non impugnabile in mancanza di norme in materia (e, questo, mi parrebbe, è un non piccolo inconveniente in termini di certezza dei diritti).

Allo scopo di illustrare, sia pure per grandi linee, alcune conseguenze pratiche di quanto qui detto, toccherò brevemente due casi diversi nei contenuti ma accomunati dalla logica che presiede al sistema dei rapporti tra stato e UE. Rispetto ad entrambi, non entrerò minimamente nella valutazione dell’an, se, cioè, si tratti o meno di aiuti di stato, ma solo nelle conseguenze dell’avvenuto accertamento. Ciò, appunto, perché l’an è questione che attiene alla competenza comunitaria, rispetto all’esercizio della quale esistono e possono essere utilizzati vari rimedi, ma in ultima analisi è alla giurisdizione comunitaria che spetterà alla fine di giudicare (con amplissimi margini di discrezionalità) e quindi di obbligare lo stato a prenderne doverosamente atto. Ciò non toglie, però, che già nelle more dell’accertamento dell’an, si possano aprire delle possibilità di azione o di ricorso nell’ambito della giurisdizione nazionale, ad opera, dunque, di imprese o persone interessate. Solo mostrare ciò, in effetti sarà lo scopo di queste righe.[51]

 

2. Il caso Alitalia

Come noto, con tre decreti legge, rispettivamente n. 80, 93 e 97/2008 (il primo dei quali del 22.04.2008[52], data come vedremo assai importante), l’Italia versa alla compagnia aerea Alitalia (della quale il Governo italiano detiene circa il cinquanta percento delle azioni) una forte somma di denaro da contabilizzare in conto capitale e destinata a consentire alla società stessa di non vedere il proprio capitale sociale ridursi al di sotto del limite minimo consentito: insomma per impedire (ci si scuserà la sommarietà nei riferimenti tecnici, relativamente marginali rispetto al discorso che intendo fare) che la società fallisca. Detta somma è considerata come un prestito al tasso, fino a Giugno 2008, corrispondente a quello imposto dalla UE per le somme da restituire in caso di aiuti di stato illeciti alle imprese[53] e, fino al Dicembre 2008, data del “rientro” di detta cifra, per lo stesso tasso aumentato dello 1%.[54]

Mentre il primo DL è del 22 Aprile, una primissima riunione (informale) tra la Commissione e l’Italia avviene solo il 23 e, durante questa riunione (ovviamente sollecitata dal fatto che la situazione aveva provocato oltre a clamori mediatici vere e proprie “denunce” da parte di altre imprese o stati)[55] il Governo italiano “informa” la Commissione dell’esistenza del DL, e quest’ultima in conseguenza il 24 Aprile chiede ufficialmente chiarimenti al Governo italiano che solo il 30 Maggio, comunica che è stato adottato anche un altro DL (il n. 93), con cui si consentiva l’iscrizione del prestito in conto capitale. A seguito di ciò, la Commissione, con lettera 11.06.2008 comunicava all’Italia l’apertura di una procedura ex art. 88.2 (oggi 108.2), tendente ad accertare se il prestito dovesse o meno considerarsi un aiuto di stato illecito. Nella lunga lettera stessa, la Commissione espone la sua opinione, che è appunto che si tratti di un aiuto illecito.

La situazione, come noto, si è ulteriormente evoluta, con il commissariamento dell’Alitalia e la sua possibile, secondo notizie di fonte giornalistica, parziale cessione ad altra azienda costituita all’uopo, azienda che, assorbirebbe oltre alla sola parte attiva dell’Alitalia, anche le attività di altri vettori aerei, con le conseguenze che ne possono derivare in tema di normativa anti trust. È un fatto, peraltro, che anche il solo aiuto illecito (se giudicato tale), potrebbe già da solo comportare (secondo la giurisprudenza comunitaria) la illiceità della eventuale concentrazione, scorporo, ecc.[56], anche a prescindere dall’accertamento di una situazione monopolistica sul mercato italiano.

Ma, come dicevo, non intendo entrare nel merito della situazione di fatto. Si tratti o meno di aiuto illecito, infatti, ciò che conta è che l’Italia ha concesso quel prestito senza avvertire preventivamente la Commissione, e, per di più, avendo la Commissione aperto di sua iniziativa la procedura di accertamento dell’eventuale infrazione, il Governo non ha seguito la procedura di cui all’art. 108.3 ultima frase, che impone allo stato come noto, nelle more della procedura comunitaria, di non erogare il presunto aiuto o di sospenderne l’erogazione[57].

La prassi, in realtà, impone allo stato addirittura di recuperare la somma eventualmente già versata fin tanto che non si giunga alla conclusione della procedura, per il solo fatto di averla erogata senza averne avvertito la Commissione.

È appena il caso di sottolineare, per quanto poco rilevi in questa sede, che secondo la consolidata giurisprudenza comunitaria sarebbe perfettamente possibile impugnare il prestito presso le giurisdizioni nazionali, con tutte le conseguenze del caso[58], ma su ciò più avanti, anche se, per quanto è dato sapere, allo stato degli atti nulla del genere pare sia accaduto[59].

Il punto, come noto, è peraltro delicatissimo, perché ormai sembra acquisito nella prassi che non esime lo stato dalla sua responsabilità (se di responsabilità si può parlare, v. infra) il fatto di ritenere che quel comportamento non sia un aiuto[60], e in questo senso è chiarissimo l’art. 260 citato sopra[61]. Appunto, come si diceva, spetta alla UE e solo ad essa di stabilire se un certo comportamento dello stato sia o meno lecito, lo stato deve solo comunicare e se non lo fa incorre, già solo per questo, nelle conseguenze, che peraltro sono (almeno in gran parte e fino all’introduzione dell’attuale art. 260) conseguenze per le imprese, non per lo stato.[62]  Nel caso, si osservi solo questo, se è evidente ed esplicito che lo stato italiano è “convinto” della piena legittimità del suo comportamento, sta in fatto che la sola apertura della procedura di infrazione obbliga (con le sanzioni conseguenziali) lo stato a non concedere il beneficio o a ritirarlo immediatamente, salvo a concederlo di nuovo qualora si accerti che non si tratta di un aiuto illecito. Sarà interessante vedere se l’art. 260 non possa venire in rilievo, a prescindere da tutto il resto, già solo per questa ragione: l’avere l’Italia erogato il finanziamento pur in presenza di una procedura di infrazione aperta.[63]

Vedremo inoltre, come peraltro accennato, che le imprese che si sentano danneggiate dalla erogazione (sempre che di un aiuto illecito si tratti) possono agire già subito nell’ordinamento interno e anzi, a stretto rigore, potrebbero in qualche modo “anticipare” la conclusione della procedura normale, (senza attendere quindi il completamento del contraddittorio con la Commissione, la decisione della stessa e l’eventuale sentenza della Corte di Giustizia), pur comprensiva della  eventuale richiesta di interpretazione della decisione dello stato di concedere l’aiuto, da fornire  in via pregiudiziale dalla giurisdizione comunitaria: ciò, mediante un normale giudizio dinanzi alla giurisdizione nazionale, che infatti, potrebbe consentire al giudice interno di considerare quel versamento illecito, sia pure a seguito del menzionato, pur sempre eventuale però, ricorso pregiudiziale alla Corte di Giustizia comunitaria a cui, sola, compete di accertare se di un aiuto illecito si tratti o meno[64].

La procedura ordinaria, invero è lunga e complessa e la sua conclusione tutt’altro che rapida, e quindi, come approfondisco più avanti, nel frattempo l’impresa beneficiaria avrà ottenuto il finanziamento o il beneficio fiscale, e lo avrà utilizzato, ricavandone un utile (benché minimo) o un ritardo nella crisi, avrà goduto di un credito a tasso non particolarmente elevato (o addirittura particolarmente vantaggioso) e infine la impresa stessa o il suo compratore dovrà restituire una somma che verosimilmente sul mercato dei capitali non avrebbe ottenuto o avrebbe ottenuto a tassi diversi e meno vantaggiosi, oppure anche che non avrebbe pensato di spendere, e che, all’epoca, effettivamente non ha speso.

 

3. La legislazione italiana e le decisioni comunitarie nel caso degli incentivi sul mercato del lavoro.

È per molti versi simile a quella precedente, ma ormai giunta a compimento (salvo una minaccia di nuova procedura di infrazione per la asserita inerzia dell’Italia) un’altra questione di aiuti di stato della quale è stata accusata l’Italia. La somiglianza principale sta nel fatto che, anche in questo caso, l’Italia non ha comunicato alla Commissione di aver deciso di somministrare certi aiuti, consistenti, questa volta, in esenzioni fiscali e contributive ad aziende che assumessero personale a tempo determinato.

Per la precisione: l’Italia ha adottato una serie di atti legislativi in materia, genericamente, di contratti di lavoro a tempo determinato (della più diversa qualificazione tecnica), a partire dalla legge 863/1984  e poi 407/90, 169/91, 451/94  e infine 196/97. Per colmo di ironia non va sottaciuto che gli aiuti di cui alla prima delle leggi citate (e non notificata e perciò capace di determinare un illecito proprio per questo) sono perfettamente legittimi, a giudizio della Commissione, proprio perché generalizzati e dunque non suscettibili di creare discriminazioni tra le imprese, che è, in ultima analisi, lo scopo principale delle norme in discussione [65], ma, come vedremo subito, anche molti degli altri.

Solo con riferimento all’ultima di quelle leggi, invece, l’Italia ha svolto la necessaria procedura di cui al menzionato art. 108 CE e di cui ai Regolamenti in materia e cioè i due regolamenti base, del Consiglio: 994/98 e 659/99, e i Regolamenti applicativi adottati successivamente dalla Commissione e per la precisione: con riferimento al primo, i Regolamenti Commissione, 68/01 (modificato con il Reg. 363/04), 69/01, 70/01 (modificato con il Reg. 364/04) e 2204/02 e, con riferimento al secondo, il Reg. 794/04.

Detti regolamenti, fanno anche ampi riferimenti, alla definizione di piccola e media impresa, nella misura in cui talune agevolazioni sono possibili solo a favore di quelle imprese, come definite nella Raccomandazione della Commissione 2003-361 (CE, anche rilevante SEE).

Va inoltre rilevato in limime, che gran parte di dette norme comunitarie, in quanto successive a taluna delle leggi in questione ed in quanto parzialmente innovative o integrative rispetto alle definizioni generiche del trattato, difficilmente possono valere a determinare l’invalidità di quanto già deciso e concluso in mancanza di esse. O almeno, è legittimo ipotizzare che le cose stiano così, in ragione della semplice logica per cui non avrebbe senso di ricostituire e sanzionare una situazione giuridica, che, ormai ha già prodotto compiutamente i suoi effetti: beninteso, per la parte in cui ha ormai compiuto i suoi effetti.

Non vi è qui spazio per approfondire anche questo aspetto, basti dunque solo rilevare, per dirlo in altri termini, che si sarebbe facilmente potuto applicare correttamente il trattato senza incorrere in particolari inconvenienti, se solo si fosse tenuto conto dell’obbligo incombente di notifica alla Commissione delle leggi via via adottate (alcune delle quali generano problemi, anch’essi facilmente superabili, solo perché differenziano tra aziende in ragione della loro collocazione geografica[66]). Questo solo fatto, la mancata notifica, dunque, innesca sia il descritto meccanismo di responsabilità dello stato verso la UE, che, a mio parere[67], il possibile meccanismo di rivalsa sullo stato italiano delle aziende eventualmente danneggiate.

 

3.1. Le notifiche e le risposte della Commissione

L’Italia, dunque, aveva notificato alla Commissione solo la legge del 1997, tacendo sulle altre, peraltro mai citate nemmeno nella notifica del 1997. In qualche modo, visto quanto rilevato qui sopra, si ha netta l’impressione che l’Italia abbia deliberatamente evitato di rendere note alla Commissione le nuove norme, in particolare quelle della legge del 1990.

La Commissione, dunque, nell’esaminare l’unica legge effettivamente notificata, esamina (perché in certo senso “scopre”) anche le altre e, fatta eccezione per la Legge del 1984[68], le giudica, in maniera molto articolata, in parte illegittime nella sostanza, ma, fatta eccezione per l’ultima delle leggi menzionate, tutte illecite nella forma a causa della mancata notifica[69].

La citata lettera del 2000 della Commissione, spiega accuratamente i motivi per i quali viene adottata una decisione, peraltro assai complessa, dato che, come rilevato, non definendo illecite tutte le esenzioni fiscali e contributive, deve indicare una serie di criteri precisi, che impongono, ovviamente, allo stato di valutare, poi, caso per caso quali finanziamenti siano leciti e quali no e quali somme, dunque, ripetere e quali no. E ciò permette e richiede, implicitamente, anche alle aziende di condurre insieme agli organi dello stato quella verifica, prima di pagare multe magari non dovute, o più precisamente prima di rimborsare l’agevolazione ottenuta, gravata degli interessi[70]. In realtà, data la complessità del problema e il contenuto della decisione della Commissione e poi della Corte, l’unico modo per poter procedere correttamente è appunto quello di un lavoro in comune tra imprese e stato, che, invece, a quanto risulta, non c’è stato affatto. [71]

L’Italia, come accennato, aveva presentato immediatamente dopo la decisione citata ricorso alla Corte, per ottenerne l’annullamento, ricorso respinto con sentenza C-310/99 del 7.3.2002.

A conclusione, dunque, della intera procedura, l’Italia, che non pare abbia nemmeno reso noto alle imprese l’esistenza della questione e quindi della stessa procedura di infrazione[72], avrebbe dovuto procedere a ripetere l’agevolazione erroneamente concessa a quelle imprese che effettivamente avessero goduto di detto illecito vantaggio e nei limiti del vantaggio illecitamente conseguito.

Ma invece, alla sentenza l’Italia non dette seguito alcuno, ragione per la quale (sempre, a quanto risulta, senza dire nulla a nessuno tranne alla Confindustria, che infatti partecipò al secondo giudizio, anch’essa, sembrerebbe, non certo generosa di notizie  verso i propri soci) fu nuovamente citata in giudizio dinanzi alla Corte, che la condannò di nuovo con la sentenza C-99/02 del 1.4.2004. Quest’ultima condanna, in particolare, deriva anche e proprio dal fatto che l’Italia non solo non aveva fatto nulla per accertare se e quali illeciti aiuti fossero stati versati e a chi ma, per di più, nulla avesse fatto per recuperarli.

È appena il caso di rilevare che una buona metà delle erogazioni (che poi, come spiegato non sono vere e proprie erogazioni, ma benefici fiscali, il che, a mio parere, aggrava la posizione del governo italiano verso le imprese, come vedremo in conclusione di queste pagine) sono state concesse dopo quella data e quindi, se le imprese fossero state avvertite (o almeno il governo stesso avesse preso le idonee precauzioni) gran parte del danno per le imprese non vi sarebbe stato[73]. È ovvio, insomma che, se tecnicamente dal punto di vista del diritto comunitario le imprese non possono accampare il “legittimo affidamento”[74], che è regolarmente escluso dalla giurisprudenza comunitaria per i motivi esposti sopra, possono però (e, di nuovo, la giurisprudenza comunitaria sul punto è costante) pretendere, attraverso la giurisdizione nazionale, che quel riconoscimento vi sia nelle singole specifiche situazioni e pertanto vantare un risarcimento del danno subito[75].

 

3.2. La decisione della Commissione.

La decisione della Commissione è, del resto, assolutamente chiara ed inequivoca, quando, dopo una premessa lunghissima ed estremamente puntuale, decide analiticamente e con precisione elencando quali aiuti possono considerarsi leciti e quali no: ovviamente, lo ripeto, in astratto, perché è allo stato e solo allo stato che compete di accertare se e quali aiuti concessi sono illeciti, ma specialmente se e quali sono leciti.[76]: ciò perché, lo ripeto, non tutti gli aiuti sono illeciti, pur essendo tutti adottati illegittimamente.[77]

In altre parole, dunque, prima di richiedere la restituzione con gli interessi delle somme non riscosse dallo stato, occorrerebbe valutare caso per caso, quali aiuti sono leciti e quali no[78] cosa che comunque tocca  allo stato di fare[79].

E quindi, mi pare, le questioni diventano due: a.- la responsabilità dello stato verso la UE per la mancata notifica di tutte le esenzioni salvo l’ultima, ma inclusa anche essa nella misura in cui, in pendenza della procedura di infrazione, gli aiuti siano stati somministrati, e b.- la necessità di richiedere la restituzione con gli interessi solo dei finanziamenti illeciti e non anche di quelli leciti (che a stretto rigore, sarebbero anch’essi da ripetere, ma per motivi procedurali), essendo nelle more già intervenuta la decisione definitiva della Commissione. [80]

Non risultano reazioni conseguenti da parte dell’Italia.

E infatti, di recente la Commissione[81] ha iniziato a predisporre una serie di misure proprio atte ad ottenere il risultato, anche in base ad una procedura elaborata ad hoc dalla Commissione, proprio per far fronte ai ritardi nelle restituzioni[82].

Per quanto attiene specificamente all’Italia, è appena il caso di ricordare che la Commissione ha iniziato una nuova procedura contro il nostro Paese, stante la mancata comunicazione (e documentazione) dell’effettivo recupero delle somme illecitamente concesse (sia pure sotto forma di esenzioni fiscali) secondo le sentenze citate. E dunque la questione è lungi dall’essere esaurita.

Ma, non si può non aggiungere che, applicando la citata giurisprudenza TAR[83], ci si potrebbe addirittura attendere un vero e proprio rifiuto da parte delle amministrazioni interessate di avanzare le richieste di restituzione (specie in forma non specifica) per violazione plateale del diritto comunitario. Diversamente, si potrebbe anche parlare di responsabilità (e conseguenti danni) personale degli stessi amministratori pubblici a cui compete di non emettere o di non applicare l’atto amministrativo di richiesta di restituzione in quanto in contrasto con la normativa comunitaria vigente.

 

4. Differenze e analogie tra i casi descritti.

Per concludere queste brevi note, alcune rapide osservazioni.

I due casi discussi qui sopra, sono, come si è visto, formalmente e normativamente perfettamente identici: gli articoli 107 e 108 (versione Lisbona), infatti, regolano le fattispecie in questione in maniera identica[84]: sia per le esenzioni fiscali o contributive che per le sovvenzioni. Il quale ultimo fatto, a mio parere, potrebbe innescare, tra l’altro, un serio problema di costituzionalità, su cui più avanti.

Riassumo sinteticamente ora[85], e solo per porre dei punti fermi al fine di trarre le conclusioni di questo discorso, il contenuto delle disposizioni, del resto ben note, in materia di aiuti di stato: posto che una sovvenzione o un beneficio fiscale o altro[86] avvantaggi talune imprese di uno stato o in uno stato rispetto ad altre, la Commissione, informata dell’intenzione dello stato di procedere in quel modo (o, in mancanza di comunicazione, di propria iniziativa) inizia una procedura in contraddittorio con lo stato per accertare la natura dell’intervento e, se del caso, contesta alla stato[87] la sua intenzione di procedere contro di lui per infrazione e ordina la sospensione cautelativa dell’aiuto e, addirittura, la restituzione delle quote eventualmente già versate o concesse[88]. Lo stato dunque non può procedere, ma è in grado di motivare la sua scelta e quindi ottenere il consenso della Commissione, mentre, qualora la Commissione ritenga che invece di un aiuto illecito si tratta invita lo stato a sospendere l’intervento, pur se il solo fatto che lo stato non abbia fornito risposte adeguate non basta a definire illecito l’aiuto[89], ma solo a ottenerne comunque la sospensione. Se, a procedura conclusa con la dichiarazione che di aiuto illecito si tratta, lo stato non si adegua, la Commissione adisce la Corte che, con sentenza, definisce la questione e, se valuta che l’aiuto esiste, ordina allo stato di recuperarne dalle imprese beneficiarie l’entità comprensiva degli interessi.[90] L’intenzione evidente e dichiarata, è di ricostituire per questa via la situazione qua ante, ma è altrettanto evidente che tale non è comunque il risultato, dato che le imprese subiscono comunque delle conseguenze di volta in volta positive o negative e differenti, il che falsa, a mio giudizio, profondamente il risultato delle iniziative in questione.

Alle imprese, comunque, non è consentito in alcun modo[91] di far valere, per non essere costrette al rimborso dell’aiuto, la propria buona fede (di non sapere cioè che quella provvidenza costituiva un aiuto) né il proprio legittimo affidamento qualora lo stato abbia agito, magari, senza dire alle imprese che si correva il rischio di violare il trattato o addirittura quando lo stato affermi esplicitamente che quel provvedimento non corrisponde ad un aiuto[92]. Ripetutamente, infatti, la Corte rileva che è impensabile che un’impresa non si accorga della natura illecita della provvidenza, almeno nella misura in cui l’impresa sia di dimensioni sufficientemente rilevanti e, specialmente, tenuto conto del fatto che la procedura è tutta pubblica[93]. Ma, inoltre, il fatto che lo stato sia e si dichiari convinto di essere nel lecito, non esenta in alcun modo lo stato stesso (sia pure solo relativamente di recente[94]) dalla responsabilità verso la UE, l’impresa dall’obbligo di restituzione e l’aiuto dall’essere annullato[95].

Per le imprese il problema è, però, duplice. Da un lato, infatti, è difficile immaginare che un’impresa rinunci ad un beneficio solo perché in dubbio sulla sua legittimità, in presenza specialmente del fatto che altre imprese concorrenti potrebbero intanto avvantaggiarsene. La cosa in sé non ha altro rimedio[96] che quello di un ricorso alla giurisdizione nazionale, sia per ottenere l’annullamento o la sospensione dell’aiuto fornito alle imprese concorrenti, sia per ottenere che lo stato receda dalla sua intenzione, previa magari una sentenza pregiudiziale della Corte di Giustizia. Benché sia difficile supporre tanto autolesionismo in un’impresa, questa sarebbe la via maestra.

D’altro canto non si può negare che l’impresa può effettivamente cadere in errore o essere messa in condizione di non poter rinunciare all’aiuto non solo per motivi di concorrenza, ma magari anche a titolo cautelativo, come nel caso Brandt, e cioè per non perdere quel beneficio nel momento in cui se ne riconoscesse la legittimità[97].

Le imprese, del resto, ben possono sul piano del diritto comunitario, fin da subito partecipare alla procedura di infrazione, ma specialmente possono agire sin da subito sul piano del diritto interno, sia per impedire ad altre imprese di godere del beneficio illecito, sia per impedire che lo stato lo conceda, sia infine, sia pure in casi eccezionali, per ottenere di essere esentati dalla restituzione quando siano in grado di dimostrare le circostanze eccezionali: in altre parole l’effettiva buona fede[98]. Alla stessa giurisdizione nazionale, compete anche, se necessario e come accennato in precedenza, di accertare se effettivamente l’aiuto era illegittimo[99], nelle more dell’accertamento comunitario, sia pure se necessario in base ad una sentenza pregiudiziale della Corte[100], ma specialmente, come detto, di trarne tutte le conseguenze sul piano del diritto interno[101]. Per non parlare della già riferita possibilità di non applicazione in via amministrativa.

Come accennato sopra, dunque, il riparto di competenze appare netto e chiaro: da una parte è alla Comunità che spetta (magari in via pregiudiziale, in quanto adita dalla giurisdizione nazionale) di valutare se un determinato beneficio sia o meno un aiuto e trarne le dovute conseguenze. Dall’altro, alle giurisdizioni nazionali, spetta di valutare le conseguenze interne dell’aiuto illecito e la eventuale buona fede dell’azienda interessata, posto che la valutazione se di aiuto si tratti può solo essere fatta alla luce del diritto comunitario.

In altre parole un giudice interno ben potrebbe trovarsi nella condizione di ordinare allo stato sia di sospendere o non praticare l’aiuto, sia di ottenerne la restituzione con gli interessi, sia pure in via cautelativa, in attesa che si chiarisca se di aiuto si tratti o meno. Ma poi, al giudice nazionale spetta di garantire tutti i diritti degli individui, che, qualora effettivamente in buona fede (e spetta solo alla giurisdizione nazionale di accertarlo) potrebbero legittimamente richiedere anche il risarcimento del danno, pur se in nessun caso il rimborso di quanto versato allo stato, anche perché in tal caso si cadrebbe nell’ipotesi di un rinnovo, ovviamente illecito, di un aiuto illecito[102].

E, infine, di nuovo alle amministrazioni nazionali spetta di comportarsi in maniera conseguenziale, salva la specifica responsabilità della amministrazione e degli amministratori stessi: in altre parole, la volontà dello stato di concedere un nuovo illecito aiuto, potrebbe direttamente dalla amministrazione nazionale essere messo in non cale. Nel senso che è lecito domandarsi se all’amministrazione non spetti anche di rifiutare l’emissione degli atti amministrativi necessari alla concessione dell’aiuto, quando constati, non tanto la sua illegittimità (che è compito della UE), quanto la mancata notifica dello stesso o l’esistenza di una procedura di accertamento o di infrazione in atto. Sarebbe questa una, se pure estrema, perfettamente logica conseguenza dell’integrazione tra i sistemi comunitario e statale.

In grandissima sintesi, dunque, questa è la situazione per tutte le operazioni che integrino o possano integrare un aiuto. Salvo che, come accennato, allo stato inadempiente (dolosamente o meno) potrebbe validamente essere comminata dall’UE anche una sanzione diretta, qualora lo stato non ottemperi al diritto comunitario e cioè non ottemperi alla sentenza della Corte (o anche, direi, solo all’accertamento della illegittimità dell’aiuto ad opera della Commissione) ripetendo l’illecito aiuto versato o concesso alle imprese.

 

5. Le differenti conseguenze per le imprese delle varie forme di aiuti illeciti.

Fin qui, dunque, la normativa e la prassi consolidate. Ma, a ben guardare, le situazioni non sono tutte così chiare e limpide. Sia dunque consentita una brevissima considerazione conclusiva, priva della pretesa di risolvere il problema, che peraltro meriterebbe una approfondita considerazione sia scientifica che tecnica, ma forse richiederebbe addirittura un intervento di carattere normativo a livello comunitario.

Nel secondo dei casi ipotizzati sopra, un’impresa, come abbiamo visto, si avvale della possibilità di ottenere esenzioni fiscali o contributive in caso di assunzione di personale. La natura di aiuto, nelle condizioni poste dal trattato è evidente, ma l’impresa in realtà, in buona o mala fede che sia, si trova a godere di uno “sconto” di carattere fiscale o contributivo (un minore costo aziendale, insomma) nell’assunzione di personale, che peraltro, proprio per quello, magari, assume[103]. Se l’agevolazione viene dichiarata illecita, all’impresa viene richiesta la “restituzione” della somma con gli interessi. Il fatto è, questo è il punto che mi preme di mettere in evidenza, che l’impresa non solo non ha ricevuto somma alcuna, ma ha magari assunto del personale che, in condizioni normali, avrebbe potuto non assumere. Pertanto la “restituzione” si sostanzia in una perdita secca per l’azienda, che in effetti deve “pagare” (retroattivamente) dei contributi che pensava di potere evitare, deve aggiungervi gli interessi (come se avesse violato una disposizione fiscale o contributiva) oltre a subire il “peso” del personale assunto. In termini di bilancio aziendale (anche qui mi si perdoni la sommarietà tecnica) la somma in questione va iscritta in bilancio come un perdita sopravvenuta (e forse anche imprevista) e solo al termine della vicenda, quando cioè ormai non vi è più nulla da fare. Da un punto di vista imprenditoriale non mi pare una bella cosa, ma in termini giuridici quanto meno la certezza del diritto è ben lungi dall’essere garantita, buona fede a parte.

Nella prima delle ipotesi che ho discusso sopra, invece, la situazione, mi pare, è ben diversa. Un’azienda, infatti, ottiene una sovvenzione, un prestito, insomma un versamento, che impiega normalmente nella sua attività: nel caso dell’Alitalia, addirittura in conto capitale. È ovvio che, in presenza di una situazione del genere, l’azienda, limitatamente a quella somma almeno, può, ad esempio, fare a meno del ricorso al finanziamento normale sul mercato, ecc.: ha insomma ricevuto un beneficio, magari anche a fondo perduto. Posto pure che quel versamento sia illecito, l’impresa avrà tutto il tempo (vista la durata non proprio fulminea del procedimento) di investire quella somma, di farla fruttare, e quant’altro. E dunque alla fine, pur dovendola restituire con gli interessi (che comunque non sono quelli di mercato) avrà realizzato un guadagno netto.

Una situazione dunque come si vede ben diversa per le imprese nelle due ipotesi! La disparità di trattamento o almeno di conseguenze appare evidente e dunque è lecito domandarsi se e cosa si possa fare per ovviare al non marginale inconveniente, che, tra l’altro, riflettendosi sulla parità di trattamento e di condizioni, incide sulla stessa concorrenza; violando così uno dei punti cardinali del sistema comunitario.

E dunque, ci si troverebbe in una delle ipotesi non esaminate dalla Corte costituzionale, ma da me accennate più sopra, poiché in questa sede è almeno lecito, per non dire doveroso, domandarsi come non possa la Corte stessa essere prima o poi investita della necessità di risolvere quello che è un evidente caso di discriminazione e di violazione del principio di eguaglianza, sia pure tra imprese. Violazione derivante dalla semplice applicazione di una norma comunitaria (già di per sé in contrasto con il principio di uguaglianza)[104] e, in particolare dal modo in cui quella norma è stata realizzata e applicata, senza distinguere tra le due descritte situazioni. È proprio, se non vado errato la situazione analizzata nelle pagine che precedono: la disparità di trattamento tra le aziende (di dubbia costituzionalità, come probabile) deriverebbe proprio e solo dalla applicazione di una sentenza della Corte di Giustizia (o di una decisione della Commissione non impugnata) che a sua volta applichi un atto comunitario e la norma che lo consente, o che interpreti, in via pregiudiziale, la norma stessa su richiesta del giudice interno.

Al di là del fatto che, in ultima analisi allo stesso stato erogatore (e magari dolosamente erogatore) delle somme in questione può ormai essere chiesto conto del suo comportamento, resta il fatto che l’azienda subisce un danno diverso nelle due ipotesi (molto maggiore nella prima, ovviamente), ma pur sempre un danno e non proprio di minima entità.

È perciò lecito domandarsi, come già accennato sopra, se all’impresa interessata alla restituzione, non sia consentito di agire contro lo stato per il suo comportamento lesivo del suo interesse, dato che, posto pure che l’impresa potesse ben sapere che si trattava di un (probabile, ma solo probabile) aiuto illecito, l’impresa stessa, per i motivi su esposti, è stata messa dallo stato nella condizione di subire un danno ingiusto.

Lo stato, per parte sua, ha le “mani legate”, dato che, di nuovo per giurisprudenza costante, non può in nessun caso  provvedere ad una restituzione surrettizia, magari attraverso un nuovo aiuto a compensazione del primo. Ma certo, buona fede a parte, il danno all’impresa c’è e potrebbe essere molto grave: meno nell’ipotesi della sovvenzione, maggiore nell’altra. Ma il danno sarebbe difficilmente negabile e qualcuno dovrà pur risarcirlo.

In termini comunitari, infine, ci sarebbe da chiedersi se, almeno nella valutazione dell’entità della multa da applicare allo stato inadempiente (che, come si è visto, è nella piena discrezionalità della Commissione e della Corte di Giustizia), non si debba prendere in considerazione, oltre alla descritta  disparità delle situazioni concrete,  anche il “dolo” dello stato che abbia determinato una situazione simile[105]. Appare evidente infatti, come, il semplice fatto in sé di attribuire degli aiuti senza ottemperare alla procedura, o addirittura millantando la loro legittimità, possa costituire, al di là della violazione del principio del legittimo affidamento, un modo, magari deliberato, per sfavorire determinate imprese, pur nell’apparente rispetto assoluto del diritto comunitario, ma, ecco il punto, in plateale violazione dell’obbligo di leale collaborazione tra stati e UE e tra stati. In altre parole occorrerebbe porre mente al fatto che in qualche caso la scelta deliberata dello stato, potrebbe essere appunto intesa a favorire o sfavorire determinate imprese, in una situazione in cui il fatto compiuto farebbe largamente premio sul diritto, pur formalmente soddisfatto. Il rischio, a ben vedere, è che se non ci si pone anche questo problema (e alla luce della normativa  vigente e in particolare al meccanismo di cui all’art. 260 di cui ho accennato sopra) il risultato finale di un processo, nato per favorire la concorrenza, potrebbe essere del tutto insufficiente a farlo o addirittura realizzare esattamente l’effetto opposto.

Altrimenti, l’unico rimedio, apparentemente e oltre a quello della eventuale richiesta di risarcimento del danno, sarebbe l’attivazione da parte di uno altro stato membro della procedura dell’art. 227 (259 versione Lisbona), alquanto farraginosa, ma che, specialmente, sposterebbe il problema al livello di una controversia tra stati, con tutte le conseguenze politiche che ne potrebbero derivare.

Certo, si potrebbe ipotizzare addirittura un’azione di responsabilità o in protezione diplomatica da parte di uno stato verso quello che ha deliberato gli aiuti illeciti, ma qui siamo nel campo delle pure ipotesi. Sta in fatto, però, che la UE non può andare oltre le due procedure evocate, in sé alquanto deboli, a meno che la Commissione non continui nel suo sviluppo delle prerogative comunitarie, immaginando, ad esempio, multe più significative e differenziate per le varie circostanze.



* Ordinario di diritto internazionale nell’Università di Napoli Federico II. L’Autore non può esimersi dal cogliere l’occasione, e da darsi il piacere, di ringraziare, per la lettura critica e attenta e per l’acribia e i suggerimenti, il Collega e Amico Prof. Giulio Gomez D’Ayala. 31.08.2008. Questo lavoro è destinato agli scritti in onore del Prof. Franco Di Sabato.

[1] Per accedere al quale gli stati membri assumono un obbligo non solo di generica cooperazione, a leggere bene l’art. 4.3 del trattato UE (versione Lisbona, testo consolidato non ufficiale a cura del Consiglio, Doc. n. 6655/1/08 Rev. 1, in GU C n. 115 del 9.5.2008, cui di seguito faccio sempre riferimento): «3. In virtù del principio di leale cooperazione, l'Unione e gli Stati membri si rispettano e si assistono reciprocamente nell'adempimento dei compiti derivanti dai trattati. Gli Stati membri adottano ogni misura di carattere generale o particolare atta ad assicurare l'esecuzione degli obblighi derivanti dai trattati o conseguenti agli atti delle istituzioni dell'Unione. Gli Stati membri facilitano all'Unione l'adempimento dei suoi compiti e si astengono da qualsiasi misura che rischi di mettere in pericolo la realizzazione degli obiettivi dell'Unione.»

[2] Né va trascurata, detto per incidens la grande rilevanza di quella norma importantissima e spesso sottovalutata oggi contenuta nell’art 6 del trattato di Lisbona: «1. L'Unione riconosce i diritti, le libertà e i principi sanciti nella Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea del 7 dicembre 2000, adottata adattata», nella versione a stampa di cui sopra] il 12 dicembre 2007 a Strasburgo, che ha lo stesso valore giuridico dei trattati. Le disposizioni della Carta non estendono in alcun modo le competenze dell'Unione definite nei trattati. I diritti, le libertà e i principi della Carta sono interpretati in conformità delle disposizioni generali del titolo VII della Carta che disciplinano la sua interpretazione e applicazione e tenendo in debito conto le spiegazioni cui si fa riferimento nella Carta, che indicano le fonti di tali disposizioni. 2. L'Unione aderisce alla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali. Tale adesione non modifica le competenze dell'Unione definite nei trattati. 3. I diritti fondamentali, garantiti dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali e risultanti dalle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri, fanno parte del diritto dell'Unione in quanto principi generali» (corsivo mio). Più chiara, come sempre, la versione in francese e inglese del n. 3 della disposizione, che riporto di seguito: «3. Les droits fondamentaux, tels qu'ils sont garantis par la Convention européenne de sauvegarde des droits de l'Homme et des libertés fondamentales et tels qu'ils résultent des traditions constitutionnelles communes aux États membres, font partie du droit de l'Union en tant que principes généraux.», «3. Fundamental rights, as guaranteed by the European Convention for the Protection of Human Rights and Fundamental Freedoms and as they result from the constitutional traditions common to the Member States, shall constitute general principles of the Union's law».

La norma, mi sembra, è una notevole e alta espressione del livello di integrazione del sistema, al punto di ipotizzare una sorta di diritto (pubblico) europeo, in massima parte di formazione consuetudinaria. Questa norma, specialmente se letta insieme alle disposizioni in materia di sussidiarietà, dà la misura del livello di compenetrazione dei sistemi ormai irreversibile, a meno di atti assolutamente traumatici.

[3] Analogamente cfr. di recente Torchia, I vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario nel nuovo Titolo V della Costituzione, in Le Regioni, 2001, pag. 1207.

[4] In termini simili, ma con accenti e contenuti molto differenti, v. molto di recente Panebianco, Diritto internazionale pubblico, Napoli (Editoriale Scientifica) 2008.

[5] Uso il termine in senso largamente figurato, per alludere al  fatto che la gran parte delle norme (quelle derivate ovviamente) di diritto comunitario, nascono per il funzionamento di processi organici, non sempre, come vedremo nel caso che ci occupa, normativamente definiti. Del resto, la formazione per via di prassi (consuetudinaria o meno) è una tipica caratteristica dell’ordinamento internazionale.

[6] Come, a mio parere, è del tutto logico che sia una volta che ci si renda conto che di fronte ad un processo di integrazione ci troviamo. Che poi ciò faccia emergere i limiti di rappresentatività democratica della UE, può solo indurre ad accelerare il processo del trasferimento di detta rappresentatività dai Parlamenti nazionali a quello europeo.

[7] A parte la farraginosa e poco significativa norma di cui al Protocollo sulla sussidiarietà, la norma chiave è quella dell’art. 12, che definisce una posizione abbastanza “marginale” dei Parlamenti nazionali: « I parlamenti nazionali contribuiscono attivamente al buon funzionamento dell'Unione: a) venendo informati dalle istituzioni dell'Unione e ricevendo i progetti di atti legislativi dell'Unione in conformità del protocollo sul ruolo dei parlamenti nazionali nell'Unione europea; b) vigilando sul rispetto del principio di sussidiarietà secondo le procedure previste dal protocollo sull'applicazione dei principi di sussidiarietà e di proporzionalità; c) partecipando, nell'ambito dello spazio di libertà, sicurezza e giustizia, ai meccanismi di valutazione ai fini dell'attuazione delle politiche dell'Unione in tale settore, in conformità dell'articolo 70 del trattato sul funzionamento dell'Unione europea, ed essendo associati al controllo politico di Europol e alla valutazione delle attività di Eurojust, in conformità degli articoli 88 e 85 di detto trattato; d) partecipando alle procedure di revisione dei trattati in conformità dell'articolo 48 del presente trattato [l’unico caso, se non erro, in cui i Parlamenti nazionali hanno un potere di interdizione, ma solo di interdizione]; e) venendo informati delle domande di adesione all'Unione in conformità dell'articolo 49 del presente trattato; f) partecipando alla cooperazione interparlamentare tra parlamenti nazionali e con il Parlamento europeo in conformità del protocollo sul ruolo dei parlamenti nazionali nell'Unione europea» (corsivi miei).

[8] Qui, il termine è utilizzato in senso strettamente tecnico internazionalistico, per alludere al fatto che quello della originarietà (e quindi indipendenza) è una delle caratteristiche tipiche (o, se si vuole, dei requisiti fondamentali) per la esistenza di un soggetto di diritto internazionale. Quel soggetto che sempre più chiaramente appare essere la UE. Sul punto, sia pure in generale, v. il mio Personalità giuridica di Diritto internazionale: il caso della Organizzazione per la liberazione della Palestina, in Studi di diritto internazionale in onore di Gaetano Arangio-Ruiz, Napoli (Editoriale Scientifica) 2004, I, pag. 85 ss.

[9] Sempre più con le caratteristiche di un soggetto di diritto internazionale. Per dirla con il Kelsen, Reine Rechtslehre, Wien (Deuticke) 1960, pag. 332° che a proposito della sovranità (e quindi della esistenza di uno stato) afferma come ben noto che la sovranità non è un dato oggettivo (e, aggiungerei, nemmeno normativo): «…sondern eine Voraussetzung: die Voraussetzung einer normativen Ordnung als einer höchsten, in ihrer Geltung von keiner höheren Ordnung ableitbaren Ordnung…» e quindi la sovranità deriva dalla originarietà della costituzione (come diremmo oggi) che viene considerata l’elemento più “alto“, oppure anche, per dirla con Anzilotti, Corso ... ., pag. 53: « Consegue da tutto ciò che la norma base da cui emana ogni ordinamento giuridico interno ha in se stessa originaria e non derivata, la vis obligandi. Emanando da norme fondamentali autonome, diritto internazionale e diritto interno sono pertanto ordinamenti separati.»

[10] Come esplicitamente disposto all’art. 2 A g del trattato di Lisbona, in GU C n. 306 del 6.7.2007 pag. 42.

[11] Art. 3 UE (Lisbona): «3. L'Unione instaura un mercato interno. Si adopera per lo sviluppo sostenibile dell'Europa, basato su una crescita economica equilibrata e sulla stabilità dei prezzi, su un'economia sociale di  mercato fortemente competitiva, che mira alla piena occupazione e al progresso sociale, e su un elevato livello di tutela e di miglioramento della qualità dell'ambiente. Essa promuove il progresso scientifico e tecnologico.»

[12] Cfr. il mio Lo strumento europeo di lotta alla discriminazione razziale e la sua applicazione in Italia alla luce del diritto internazionale generale e convenzionale, in Rivista della cooperazione giuridica internazionale, 2006 (da un convegno presso l’Università di Napoli Federico II del 2004) pag. 54 ss. e Autodeterminazione dei popoli e successione di norme contrattuali: alla radice di un conflitto, ibidem, 2005, pag. 7 ss. ed infine anche più ampiamente Terrorismo conflitti interni e internazionali: la legge applicabile, in La Giustizia Penale, 2006, pag. 257 ss. Cfr. anche l’approfondito e bel contributo di Salerno, Il neo dualismo della Corte Costituzionale nei rapporti tra diritto internazionale e diritto interno,   in Rivista di Diritto internazionale, 2006, pag. 340 ss.

[13] Fino al punto di poter affermare, che il tradizionale dualismo del nostro ordine giuridico è superato o tende ad esserlo, a vantaggio di una (più corretta, a mio parere) visione monista dei rapporti tra ordinamenti interni e ordinamento internazionale.

[14] O meglio, di non applicare, v. Modugno, Appunti dalle lezioni sulle Fonti del Diritto, Torino (Giappichelli) 2005, passim, che, in effetti, coglie perfettamente il punto, poiché il giudice è chiamato ormai a scegliere quale norma applicare, tenuto conto che entrambe le norme sono in astratto perfettamente applicabili, quando siano competenti a risolvere la questione specifica. Il giudice, del resto, non ha il potere di disapplicare una norma valida, ma solo di scegliere tra norme egualmente valide quella competente. È la stessa logica, insomma, che presiede ai rapporti tra legislazione nazionale e regionale dove la logica della competenza è chiaramente prevalente su quella della gerarchia, come giustamente già elaborato dal Crisafulli, infra nt. 39.

[15] V. recentissima la sentenza del TAR Sardegna (Cagliari) sez. I, 27 marzo 2007 , n. 549  che recita: « Pur condividendo le riferite acquisizioni giurisprudenziali in ordine alla problematica della non applicazione, quando essa riguardi il provvedimento oggetto di gravame, il Collegio ritiene che la questione debba porsi in termini differenti nel caso in cui il ricorrente non contesti l'atto emanato in violazione del diritto comunitario, ma, al contrario, fondi su di esso le propri ragioni, affermando che il provvedimento impugnato è illegittimo perché contrastante con l'atto anticomunitario. Nella descritta ipotesi, la regola sull'onere di impugnazione, con tutti i suoi portati, non viene in rilievo, poiché anzi il privato chiede l'applicazione dell'atto viziato sotto il profilo comunitario, cosicché non possono frapporsi ostacoli a che il giudice giudichi la controversia alla luce degli effettivi parametri di legalità sostanziale, nel pieno rispetto del principio di preminenza del diritto comunitario. Del resto, in termini più generali, l'esigenza che la valutazione dell'azione amministrativa sia condotta sulla base di canoni di legittimità sostanziale e non meramente formale, deve ritenersi immanente nell'ordinamento e trova, ormai, sicuri riscontri normativi nella nuova disciplina del procedimento amministrativo introdotta con la L. 7/8/1990 n°241, come modificata dalla L. 11/2/2005 n°15 e dal D.L. 14/3/2005, conv. in L. 14/5/2005 n°80. Tale esigenza mal si concilia con un'interpretazione dell'istituto della disapplicazione che porti ad estendere il divieto di disapplicare oltre i limiti segnati dalla sua stessa ragion d'essere  ...  Deve, pertanto, ritenersi che nell'ipotesi descritta, l'atto (anche negoziale) su cui il ricorrente fonda le proprie pretese, possa esplicare i propri effetti solo laddove sia conforme al diritto comunitario, non potendo, in caso contrario, costituire fonte di legittime aspettative del privato. In quest'ultima ipotesi sarà doveroso per il giudice disapplicarlo o comunque giudicare la controversia senza tenerne conto. Alle considerazioni svolte occorre aggiungere che la tesi prospettata dalla ricorrente condurrebbe all'assurda conseguenza di annullare un atto conforme al diritto comunitario (oltre che a quello interno) ... » (corsivi miei).

[16] V. in particolare lo scritto di Chiti, La peculiarità dell’invalidità amministrativa per anticomunitarietà, in Rivista Italiana di Diritto Pubblico Comunitario, 2008, pag. 477 ss. e Cerulli Irelli,  Trasformazioni del sistema di tutela giurisdizionale nelle controversie di diritto pubblico per effetto della giurisprudenza europea, ibidem, pag. 433 ss.

[17] Corte Costituzionale, sentenza 8 giugno 1984, n. 170.

[18] Mi sia consentito di usare in maniera definitiva questa, mi pare, più corretta espressione in luogo di disapplicabilità.

[19] Cfr. Ordinanza CC n. 103/08, 15.4.2008, dove si afferma, tra l’altro: «che sussiste, pertanto, un dubbio circa la corretta interpretazione – tra quelle possibili – delle evocate disposizioni comunitarie, tale da rendere necessario procedere al rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia, ai sensi dell’art. 234 del Trattato CE» per accertare « ... b) se la norma censurata, nel prevedere che l’imposta regionale sullo scalo turistico degli aeromobili grava sulle sole imprese che hanno domicilio fiscale fuori dal territorio della Regione Sardegna esercenti aeromobili da esse stesse utilizzati per il trasporto di persone nello svolgimento di attività di aviazione generale d’affari, configuri – ai sensi dell’art. 87 del Trattato – un aiuto di Stato alle imprese che svolgono la stessa attività con domicilio fiscale nel territorio della Regione Sardegna ... che, quanto alla sussistenza delle condizioni perché questa Corte sollevi davanti alla Corte di giustizia CE questione pregiudiziale sull’interpretazione del diritto comunitario, va osservato che la Corte costituzionale, pur nella sua peculiare posizione di supremo organo di garanzia costituzionale nell’ordinamento interno, costituisce una giurisdizione nazionale ai sensi dell’art. 234, terzo paragrafo, del Trattato CE e, in particolare, una giurisdizione di unica istanza (in quanto contro le sue decisioni – per il disposto dell’ art. 137, terzo comma, Cost. – non è ammessa alcuna impugnazione): essa, pertanto, nei giudizi di legittimità costituzionale promossi in via principale è legittimata a proporre questione pregiudiziale davanti alla Corte di giustizia CE ... » (corsivo mio).

[20] Sulla Ordinanza, v. già Pesole, La Corte Costituzionale ricorre per la prima volta al rinvio pregiudiziale. Spunti di riflessione sull’Ordinanza n. 103 del 2008, in www.federalismi.it, Spigno, La Corte Costituzionale e la vexata quaestio del rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia, in www.osservatoriosullefonti.it.

[21] E di nuovo, a mio parere, non è un caso che il primo co. del menzionato art. 117 Cost. faccia riferimento ai “vincoli” derivanti dall’”ordinamento” comunitario, così distinguendolo dai più generici “obblighi” internazionali. Sul punto in generale e con riferimento all’unicità degli ordinamenti giuridici, v. il mio Per una ricostruzione, in termini di sistema, dei diritti dell’uomo, in Studi in Onore di U. Leanza, Napoli (Editoriale Scientifica) 2008, in corso di stampa.

[22] Ribadendo così una sorta di visione (a mio parere in via di decisa affermazione) monista dei rapporti tra diritto internazionale (e diritto comunitario in specie) e diritto interno.

[23] Il trattato, come noto, usa una perifrasi il cui senso è però quello di cui nel testo. Cfr. art. 267 terzo co. (già 234 ultimo co.), che appunto recita. «Quando una questione del genere è sollevata in un giudizio pendente davanti a un organo giurisdizionale nazionale, avverso le cui decisioni non possa proporsi un ricorso giurisdizionale di diritto interno, tale organo giurisdizionale è tenuto a rivolgersi alla Corte».

[24] Con accenti solo parzialmente differenti cfr. Pesole, loc. cit., pag. 9 s..

[25] Ma con un compito enormemente più complesso e delicato, come vedremo tra poche righe.

[26] Su cui v. anche Pesole, loc. cit, pag. 4 ss.

[27] Ovviamente conto tenuto del fatto che comunque il giudice interno è tenuto a fornire della norma l’interpretazione più consona alla Costituzione, come ad es. in Corte costituzionale 190/2000, su cui v. anche Salerno, op. cit., pag. 364. Cfr. infra § 5, per la discussione di un’ipotesi concreta del genere.

[28] Versione Lisbona, supra nt.2. per una discussione della norma, ma senza il riferimento di cui nel testo, cfr. ampiamente Tesauro, Diritto Comunitario Padova (cedam) 2008, pag. 128 ss., e, più specificamente, Villani, Istituzioni di diritto dell’Unione Europea, Bari (Cacucci) 2008, pag. 44 s.

[29] Del resto non si vede che altro significato potrebbe mai avere quella norma, se non quello di costruire un sistema di norme fondamentali dell’intera Europa, tale da non ledere, ma anzi da integrare, le norme costituzionali fondamentali degli stati membri. Questi principi, in parte, sono contenuti nella Carta di Nizza sui diritti fondamentali, ma in gran parte vanno costruiti nella prassi: e quello descritto nel testo e di cui anche più avanti §§ 4 e 5, ne può essere, a mio parere, un valido esempio.

[30] Affermazione, mi pare, in parte ricavabile dalla recente sentenza della CGCE nel caso Omega, C-36/02, dove si afferma: ««33. Dans ce contexte, il convient de rappeler que, selon une jurisprudence constante, les droits fondamentaux font partie intégrante des principes généraux du droit dont la Cour assure le respect et que, à cet effet, cette dernière s'inspire des traditions constitutionnelles communes aux États membres…».

[31] Sorvolo ovviamente sui noti e ribaditi principi affermati dalla Corte in tema di presunzione di conformità tra diritto interno  e diritto internazionale e di preferenza dell’interpretazione conforme a Costituzione.

[32] Per un accenno recente in merito cfr. Skouris, L’influence du droit National et de la jurisprudence des juridictions des États membres sur l’interprétation du droit communautaire, in Il Diritto dell’Unione Europea, 2008, pag. 239 ss. Cfr. CGCE, sentenza C-36/02 (Omega), cit. dove si afferma tra l’altro in termini più generali rispetto a quanto riportato supra nt. 30: «34. … l’ordre juridique communautaire tend indéniablement à assurer le respect de la dignité humaine en tant que principe général du droit. Il ne fait donc pas de doute que l’objectif de protéger la dignité humaine est compatible avec le droit communautaire, sans qu'il importe à cet égard que, en Allemagne, le principe du respect de la dignité humaine bénéficie d’un statut particulier en tant que droit fondamental autonome. 35. Le respect des droits fondamentaux s'imposant tant à la Communauté qu'à ses États membres, la protection desdits droits constitue un intérêt légitime de nature à justifier, en principe, une restriction aux obligations imposées par le droit communautaire, même en vertu d'une liberté fondamentale garantie par le traité telle que la libre prestation de services» (corsivo mio).

[33] Che, a mio parere, può considerarsi ormai sostanzialmente superato, come rilevato negli scritti di cui alla precedente nt. 12. Cfr, anche per affermazioni analoghe, Torchia, op.cit., pag. 1203 e Chiti, Regioni e Unione Europea, dopo la riforma del Titolo V della Costituzione: l’influenza della giurisprudenza costituzionale, ibidem, pag. 1423. Contra, v. Luzzatto, Il diritto europeo e la Costituzione italiana dopo la riforma dell’art. 117, in Il Diritto dell’Unione Europea, 2008, pag. 14.

[34] Beninteso con tutti gli ampliamenti e innovazioni derivanti dall’applicazione dei principi dei poteri impliciti, di sussidiarietà, di proporzionalità, ecc.

[35] V. in particolare nell’Ordinanza cit.: « che, al riguardo, va premesso che, ratificando i Trattati comunitari, l’Italia è entrata a far parte dell’ordinamento comunitario, e cioè di un ordinamento giuridico autonomo, integrato e coordinato con quello interno, ed ha contestualmente trasferito, in base all’art. 11 Cost., l’esercizio di poteri anche normativi (statali, regionali o delle Province autonome) nei settori definiti dai Trattati medesimi; che le norme dell’ordinamento comunitario vincolano in vario modo il legislatore interno, con il solo limite dell’intangibilità dei princípi fondamentali dell’ordinamento costituzionale e dei diritti inviolabili dell’uomo garantiti dalla Costituzione ... che nel caso, come quello di specie, in cui il giudizio pende davanti alla Corte costituzionale a séguito di ricorso proposto in via principale dallo Stato e ha ad oggetto la legittimità costituzionale di una norma regionale per incompatibilità con le norme comunitarie, queste ultime «fungono da norme interposte atte ad integrare il parametro per la valutazione di conformità della normativa regionale all’art. 117, primo comma, Cost ... o, più precisamente, rendono concretamente operativo il parametro costituito dall’art. 117, primo comma, Cost.  ..., con conseguente declaratoria di illegittimità costituzionale della norma regionale giudicata incompatibile con tali norme comunitarie; che, in relazione alle leggi regionali, questi due diversi modi di operare delle norme comunitarie corrispondono alle diverse caratteristiche dei giudizi: davanti al giudice comune deve applicarsi la legge la cui conformità all’ordinamento comunitario deve essere da lui preliminarmente valutata; davanti alla Corte costituzionale adíta in via principale, invece, la valutazione di detta conformità si risolve, per il tramite dell’art. 117, primo comma, Cost., in un giudizio di legittimità costituzionale, con la conseguenza che, in caso di riscontrata difformità, la Corte non procede alla disapplicazione della legge, ma ne dichiara l’illegittimità costituzionale con efficacia erga omnes; che, pertanto, l’assunzione della normativa comunitaria quale elemento integrante il parametro di costituzionalità costituisce la precondizione necessaria per instaurare, in via di azione, il giudizio di legittimità costituzionale della legge regionale che si assume essere in contrasto con l’ordinamento comunitario ... » (corsivi miei). Cfr. già i miei lavori di cui alla nt. 12.

[36] Significative, in proposito, mi sembrano le affermazioni della Corte, nella cit. sentenza 348/2007, § 4.5 e 4.6 del Considerato in diritto: « ... si deve riconoscere che il parametro costituito dall’art. 117, primo comma, Cost. diventa concretamente operativo solo se vengono determinati quali siano gli “obblighi internazionali” che vincolano la potestà legislativa dello Stato e delle Regioni. Nel caso specifico sottoposto alla valutazione di questa Corte, il parametro viene integrato e reso operativo dalle norme della CEDU, la cui funzione è quindi di concretizzare nella fattispecie la consistenza degli obblighi internazionali dello Stato. 4.6. – La CEDU presenta, rispetto agli altri trattati internazionali, la caratteristica peculiare di aver previsto la competenza di un organo giurisdizionale, la Corte europea per i diritti dell’uomo, cui è affidata la funzione di interpretare le norme della Convenzione stessa.  ...» e nella sentenza 349/2007 che, più ampiamente, al § 6.2 del Considerando in diritto, afferma tra l’altro: «6.2. – E’ dunque alla luce della complessiva disciplina stabilita dalla Costituzione, quale risulta anche dagli orientamenti di questa Corte, che deve essere preso in considerazione e sistematicamente interpretato l’art. 117, primo comma, Cost., in quanto parametro rispetto al quale valutare la compatibilità della norma censurata con l’art. 1 del Protocollo addizionale alla CEDU, così come interpretato dalla Corte dei diritti dell’uomo di Strasburgo. Il dato subito emergente è la lacuna esistente prima della sostituzione di detta norma  ... , per il fatto che la conformità delle leggi ordinarie alle norme di diritto internazionale convenzionale era suscettibile di controllo da parte di questa Corte soltanto entro i limiti e nei casi sopra indicati al punto 6.1. La conseguenza era che la violazione di obblighi internazionali derivanti da norme di natura convenzionale non contemplate dall’art. 10 e dall’art. 11 Cost. da parte di leggi interne comportava l’incostituzionalità delle medesime solo con riferimento alla violazione diretta di norme costituzionali  ...  E ciò si verificava a dispetto di uno degli elementi caratterizzanti dell’ordinamento giuridico fondato sulla Costituzione, costituito dalla forte apertura al rispetto del diritto internazionale e più in generale delle fonti esterne, ivi comprese quelle richiamate dalle norme di diritto internazionale privato; e nonostante l’espressa rilevanza della violazione delle norme internazionali oggetto di altri e specifici parametri costituzionali.  ... Non v’è dubbio, pertanto, alla luce del quadro complessivo delle norme costituzionali e degli orientamenti di questa Corte, che il nuovo testo dell’art. 117, primo comma, Cost., ha colmato una lacuna e che, in armonia con le Costituzioni di altri Paesi europei, si collega, a prescindere dalla sua collocazione sistematica nella Carta costituzionale, al quadro dei princìpi che espressamente già garantivano a livello primario l’osservanza di determinati obblighi internazionali assunti dallo Stato. Ciò non significa, beninteso, che con l’art. 117, primo comma, Cost., si possa attribuire rango costituzionale alle norme contenute in accordi internazionali, oggetto di una legge ordinaria di adattamento, com’è il caso delle norme della CEDU. Il parametro costituzionale in esame comporta, infatti, l’obbligo del legislatore ordinario di rispettare dette norme, con la conseguenza che la norma nazionale incompatibile con la norma della CEDU e dunque con gli “obblighi internazionali” di cui all’art. 117, primo comma, viola per ciò stesso tale parametro costituzionale. Con l’art. 117, primo comma, si è realizzato, in definitiva, un rinvio mobile alla norma convenzionale di volta in volta conferente, la quale dà vita e contenuto a quegli obblighi internazionali genericamente evocati e, con essi, al parametro, tanto da essere comunemente qualificata “norma interposta”; e che è soggetta a sua volta, come si dirà in seguito, ad una verifica di compatibilità con le norme della Costituzione. ...».

[37] Se non altro perché, ove una norma del genere si determinasse essa, prima o poi, sarebbe giudicata incostituzionale per violazione dell’art. 117.1, magari nel corso di un giudizio in via principale.

[38] Pur senza entrare nel merito di un discorso che richiede ulteriori approfondimenti, a me pare evidente che il “vincolo” implica a dir poco una impossibilità di fatto di legiferare efficacemente in maniera difforme dal diritto internazionale. E dunque, posto pure che, formalmente, nulla, dal punto di vista del nostro diritto costituzionale, possa impedire al Parlamento di legiferare come e su cosa vuole, una legge in contrasto con un accordo internazionale andrebbe a dir poco immediatamente sottoposta al controllo di legittimità della Corte Costituzionale in via principale, salvo comunque a non poter essere applicata dai giudici ordinari. Ragionando in termini di competenza si potrebbe, infatti, affermare (in maniera non dissimile da quanto affermato nella famosa sentenza Granital) che al giudice ordinario compete di verificare se la fattispecie sottoposta al suo giudizio ricada o meno nella competenza dell’ordinamento internazionale. Posto che vi ricada, la legge interna (che permane in vigore, se non altro per l’ipotesi che l’Italia perda l’obbligo pattizio internazionale sia per sua scelta che per decadenza della norma pattizia) semplicemente non si applicherebbe al caso in questione, non sarebbe competente. Per una primissima applicazione del principio, v. Tribunale di Foggia, Sez. Lavoro, sentenza n. 20085/06 R.G. 19.3.2007. Tanto più che non va nemmeno trascurato l’elemento derivante dal fatto che una legislazione in contrasto con una norma pattizia regolarmente sottoscritta (ratificata o no, sorvolo sull’immenso pasticcio creato dalla cd. legge La Loggia, L. 5.6.2003 n. 131, specie nel suo articolo 1, da brividi), in quanto in contrasto con l’art. 27 della Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati (1969, che recita: «A party may not invoke the provisions of its internal law as justification for its failure to perform a treaty ... .») potrebbe essere tacciata di incostituzionalità già solo per questo. Sul punto v. anche Salerno, op. loc. cit.

[39] Lo affermo anche sulla falsariga delle opinioni brillantemente esposte a suo tempo, in tema di rapporti tra legislazione nazionale e regionale dal Crisafulli, Gerrachia e competenza nel sistema costituzionale delle fonti, in Rivista trimestrale di Diritto Pubblico, 1960 pag. 775 ss. e la legge regionale nel sistema delle fonti, ibidem, 1960, pag. 262 ss., che sviluppa le tesi ben note di Esposito, La validità delle leggi, Milano 1934.

[40] Per un accenno in tal senso v. anche di recente Torchia, cit., pag. 1207.

[41] Come accennato poco fa, i concetti di rango e di sovranazionalità ecc., sono largamente superabili in una corretta interpretazione e applicazione del primo co. dell’art. 117 Cost.

[42] V. infra § 4.

[43] Esclusa in linea di principio dalla giurisprudenza comunitaria, salvo prova contraria.

[44] V. Infra § 5.

[45] Documento 2007/C 272/05 in GU C., 15.11.2007, 272/4 Verso l’esecuzione effettiva delle decisioni della Commissione, che ingiungono agli stati membri di recuperare gli aiuti di stato illegali o incompatibili. È appena il caso di sottolineare come ad una simile “soluzione” si arrivi dopo una faticosa e complessa prassi cinquantennale, che ha visto costruire passo dopo passo un sistema solo abbozzato nelle norme.

[46] Non è un caso, cha a molti anni dalla decisione in materia, la UE ancora debba attendere che l’Italia si conformi concretamente ad una decisione in materia di aiuti, dichiarati illeciti e quindi da recuperare. Cfr. infra nt. 81.

[47] Ancora una semplice comunicazione, la SEC/2005/1658, Applicazione dell’art. 228 del trattato.

[48] V. Sentenze C-387/97 e 278/01.

[49] Sentenza C-340/02 del 12.7.2005 : « 44.  Comme la procédure visée à l’article 226 CE … la procédure visée à l’article 228 CE repose sur la constatation objective du non-respect par un État membre de ses obligations...» e dunque, posto che il mancato rispetto c’è stato, si tratta di valutare quale sanzione applicare delle due possibili. E, qui sta il punto: la Corte non esita ad applicarle entrambe, come richiesto dalla Commissione, pur in assenza di accordo tra gli stati, anzi pur con la esplicita contrarietà di molti stati membri: «76. Invités à s’exprimer sur la question de savoir si, dans le cadre d’une procédure introduite au titre de l’article 228, paragraphe 2, CE, la Cour peut, lorsqu’elle reconnaît que l’État membre concerné ne s’est pas conformé à son arrêt, lui infliger le paiement à la fois d’une somme forfaitaire et d’une astreinte, la Commission, les gouvernements danois, néerlandais, finlandais et du Royaume‑Uni ont répondu par l’affirmative. 77. Leur argumentation se fonde, en substance, sur le fait que ces deux mesures sont complémentaires, en ce qu’elles poursuivent, chacune pour leur part, un effet dissuasif. Une combinaison de ces mesures devrait être considérée comme un seul et même moyen d’atteindre l’objectif fixé par l’article 228 CE, c’est-à-dire non seulement inciter l’État membre concerné à se conformer à l’arrêt initial, mais aussi, dans une perspective plus générale, réduire la possibilité que des infractions analogues soient de nouveau commises. 78. Les gouvernements français, belge, tchèque, allemand, hellénique, espagnol, irlandais, italien, chypriote, hongrois, autrichien, polonais et portugais ont fait valoir une thèse contraire…».

[50] Qualcosa del genere accade in effetti anche per la Corte Europea dei diritti dell’uomo, ma con una sostanziale differenza: quella Corte, infatti, definisce risarcimenti del danno che lo stato paga al cittadino offeso, la Corte di Giustizia, invece, stabilisce multe che lo stato paga alla UE.

[51] V. infra § 4 per una descrizione puntuale e sintetica della procedura.

[52] Per una ironia della sorte, è del Luglio 2008 la sentenza del Tribunale di primo grado UE (T-301/01), che risolve definitivamente respingendo il ricorso dell’Alitalia su alcune modalità di concessioni di finanziamenti concessi nel 1996: v. decisioni della Commissione 97/89 CE e 2000/723 CE. Ciò, peraltro, dà un’idea dei tempi che sono necessari al completamento della normale procedura. Ecco perché, come osservato, la adeguata sollecitazione della autorità giudiziaria locale, può essere un grande strumento di accelerazione della procedura e dei conseguenti risultati.

[53] Si ammetterà che il meccanismo è alquanto singolare e integra una sorta di “ammissione di colpa” preventiva da parte dello stato, che, in pratica, predispone già in partenza un meccanismo equivalente a quello ordinario per ottenere la restituzione dell’aiuto  illecito, se di aiuto illecito si dovesse effettivamente trattare. V. DL 80/2008 art. 1 n. 2: «La somma erogata ai sensi del comma 1 è rimborsata nel minore termine tra il trentesimo giorno successivo a quello della cessione dell'intera quota del capitale sociale, di titolarità del Ministero dell'economia e delle finanze, e il 31 dicembre 2008. Le medesime somme sono gravate da un tasso di interesse equivalente ai tassi di riferimento adottati dalla Commissione europea e, segnatamente, fino al 30 giugno 2008, al tasso indicato nella comunicazione della Commissione europea (2007/C 319/03), pubblicata nella Gazzetta Ufficiale dell'Unione europea C 319 del 29 dicembre 2007 e, dal  1° luglio 2008, al tasso indicato in conformità alla comunicazione della Commissione europea relativa alla revisione del metodo di fissazione dei tassi di riferimento e di attualizzazione (2008/C 14/02), pubblicata nella Gazzetta Ufficiale dell'Unione europea C 14 del 19 gennaio 2008».

[54] Con il DL 93/2008, inoltre, art. 4, si stabilisce: «1. La somma erogata ad Alitalia - Linee aeree italiane S.p.A. ai sensi dell'articolo 1 del decreto-legge 23 aprile 2008, n. 80, è rimborsata nel minore termine tra il trentesimo giorno successivo a quello della cessione o della perdita del controllo effettivo da parte del Ministero dell'economia e delle finanze e il 31 dicembre 2008. 2. Le medesime somme sono gravate da una maggiorazione del tasso di interesse previsto dall'articolo 1, comma 2, del decreto-legge 23 aprile 2008, n. 80, pari all'1 per cento. 3. Le somme di cui al comma 1 e gli interessi maturati sono utilizzati per fare fronte alle perdite che comportino una diminuzione del capitale versato e delle riserve al di sotto del livello minimo legale. 4. In caso di liquidazione dell'Alitalia - Linee aeree italiane S.p.A., il debito di cui al presente articolo e' rimborsato solo dopo che sono stati soddisfatti tutti gli altri creditori, unitamente e proporzionalmente al capitale sociale».

[55] Cfr. Lettera della Commissione 2008/C184/09 in GU C, 22.7.2008 pag. 40, il cui punto 4 della sintesi testualmente recita: «(4) Diverse denunce sono state presentate contemporaneamente alla Commissione per denunciare la concessione da parte del governo italiano del prestito di 300 Mio EUR alla compagnia aerea Alitalia». sorvolo sullo stile claudicante del testo, ormai un “topos” nei documenti di provenienza comunitaria (talvolta di imbarazzante cripticità), che, infatti, è buna norma leggere in una delle lingue di lavoro se si desidera conoscerne il testo con maggiore attendibilità.

[56] Per un riferimento, v. infra nt. 84.

[57] Tutto ciò è seccamente affermato dalla Commissione nella lettera precitata, Procedura punti 2-4: «300 Mio EUR alla compagnia aerea Alitalia con decreto-legge 23 aprile 2008, n. 80. (2) Non avendo ricevuto alcuna notifica da parte delle autorità italiane prima della decisione di concessione del suddetto prestito, la Commissione ha chiesto a tali autorità, con lettera del 24 aprile 2008, di confermare l'esistenza di detto prestito, di fornire in proposito qualsiasi informazione utile per esaminare tale misura alla luce degli articoli 87 e 88 del trattato, nonché di sospendere la concessione del suddetto prestito e di informare la Commissione in merito alle misure adottate per conformarsi a questo obbligo in virtù dell'articolo 88, paragrafo 2, del trattato. (3) In questa lettera la Commissione ha inoltre ricordato alle autorità italiane l'obbligo loro incombente di procedere alla notifica di qualunque progetto volto ad istituire o a modificare aiuti e di non dare esecuzione alla misura progettata prima che la procedura di esame della Commissione abbia condotto ad una decisione finale. (4) Infine la Commissione ha precisato in questa lettera che, in mancanza di risposta da parte delle autorità italiane entro il termine di 10 giorni lavorativi, sarebbe stata eventualmente tenuta ad avviare la procedura formale di esame prevista all'articolo 88, paragrafo 2, del trattato sulla base delle informazioni disponibili e ad ingiungere la sospensione della misura in applicazione dell'articolo 11, paragrafo 1, del regolamento (CE) n. 659/1999 del Consiglio, del 22 marzo 1999, relativo alle modalità di applicazione dell'articolo 93 del trattato CE» (corsivo mio).

[58] Per tutte, si veda la sentenza C-24/95: «24 La récupération de l'aide doit avoir lieu, en principe, selon les dispositions pertinentes du droit national, sous réserve toutefois que ces dispositions soient appliquées de manière à ne pas rendre pratiquement impossible la récupération exigée par le droit communautaire … En particulier, l'intérêt de la Communauté doit être pleinement pris en considération lors de l'application d'une disposition qui soumet le retrait d'un acte administratif irrégulier à l'appréciation des différents intérêts en cause …. 41 Sans qu'il soit besoin d'apprécier le comportement des autorités allemandes dans l'affaire au principal, appréciation qui relève de la compétence des seules juridictions nationales et non pas de celle de la Cour dans le cadre de la procédure en vertu de l'article 177 du traité, il convient de constater que, ainsi qu'il ressort des points 30 et 31 du présent arrêt, le bénéficiaire de l'aide ne peut faire valoir de confiance légitime dans la régularité de l'octroi de celle-ci. L'obligation du bénéficiaire de s'assurer que la procédure de l'article 93, paragraphe 3, du traité a été respectée ne saurait en effet dépendre du comportement de l'autorité étatique, même si cette dernière était à ce point responsable de l'illégalité de la décision que son retrait apparaît comme contraire à la bonne foi».

[59] Manca insomma, anche ogni azione presso la giurisdizione nazionale italiana, il che, forse ingenuamente lo affermo, sorprende visto il clamore notevole suscitato dalla vicenda e le “denunce” comunitarie! Cfr. infra § 5 e poco più avanti nel testo.

[60] Così come, va sottolineato sia pure di sfuggita in questa sede, non costituisce né un’esimente né una giustificazione il fatto che la legge interna non lo consenta o che il recupero sia particolarmente complesso se non impossibile, sentenza C-5/89. È appena il caso di rilevare come questa regola sia perfettamente consona (e di nuovo non credo che si possa trattare di un caso) al diritto internazionale, dove, ad es., l’art. 27 della Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati del 1969, esplicitamente vieta di considerare una legittima esimente del mancato rispetto di un trattato il fatto che una legge interna vi osti.

[61] L’introduzione di questa norma, dunque, è di estrema importanza nella misura in cui fino alla sua introduzione, uno stato in quanto tale non correva rischio alcuno, per così dire, nel compimento di un atto illecito, dato che comunque solo le imprese ne avevano conseguenze. Ora, invece, e per quanto marginale possano esserne le conseguenze, anche lo stato in quanto tale è chiamato a rispondere di un suo comportamento colpevole. Nel nostro ordinamento, è appena il caso di sottolinearlo, il pagamento di una multa per una deliberata inadempienza dello stato, potrebbe incorrere in notevoli sanzioni amministrative e contabili, anche a carico degli stessi amministratori.

[62] Insomma, come vedremo più avanti, la convinzione dello stato di agire correttamente (senza chiederne conferma alla Commissione) lungi dall’essere un modo per abbreviare i tempi di azione, si rivela un confetto avvelenato, non per lo stato (procedura ex art. 260 a parte), ma per le imprese, di fatto (o almeno apparentemente, come vedremo più avanti) ignare di tutto e del tutto “innocenti”.

[63] V. in https://www.ttgitalia.com/pagine/pagina.aspx?ID=News_Details001&L=IT&id_news=238787, la notizia dell’avvenuto accredito in data 06.05.2008. l’Italia dunque, non si può non sottolinearlo in questa sede, avrebbe avuto tutto il tempo di sospendere l’erogazione e di trovare magari altra più corretta soluzione. Ma anche le imprese interessate (italiane e “straniere”, posto che ve ne siano) hanno brillato per la loro  ... discrezione.

[64] È però appena il caso di ricordare che il ricorso pregiudiziale in questione, si rende obbligatorio solo se manchi, ad esempio, una decisione precedente analoga della Corte di Giustizia o se il giudice interno non ritenga evidente (e quindi non suscettibile di richiesta di giudizio pregiudiziale) la natura lecita o illecita dell’aiuto.

[65] V. infatti la Decisione 2000/128 della Commissione, che addirittura precisa che nemmeno di aiuti si tratta: «62) I contratti di formazione e lavoro, quali erano disciplinati dalla legge 863/84, non configuravano un aiuto ai sensi dell'articolo 87, paragrafo 1, bensì una misura generale. I benefici previsti erano infatti applicabili in maniera uniforme, automatica, non discrezionale e sulla base di criteri obiettivi a tutte le imprese».

[66] V. la Decisione cit. supra nel testo: «(63) Le modifiche apportate a questo istituto nel 1990 dalla legge 407/90 hanno modificato la natura di misure. Le nuove disposizioni hanno modulato le riduzioni accordate in funzione del luogo di insediamento dell'impresa beneficiaria e del settore di appartenenza. Di conseguenza alcune imprese sono venute a beneficiare di riduzioni maggiori di quelle accordate ad imprese concorrenti». Per questi motivi, la Commissione aggiunge: «(64) Le riduzioni selettive che favoriscono determinate imprese rispetto ad altre dello stesso Stato membro, che la selettività operi al livello individuale, regionale o settoriale, costituiscono, per la parte differenziale della riduzione, aiuti di Stati ai sensi dell'articolo 87, paragrafo 1, del trattato, aiuti che falsano la concorrenza e rischiano di incidere sugli scambi fra gli Stati membri. Infatti tale differenziale va a vantaggio delle imprese che operano in determinate zone del territorio italiano, favorendole nella misura in cui lo stesso aiuto non è accordato alle imprese situate in altre zone. (65) Tale aiuto falsa la concorrenza, dato che rafforza la posizione finanziaria e le possibilità d'azione delle imprese beneficiarie rispetto ai loro concorrenti che non ne beneficiano. Nella misura in cui tale effetto si verifica nel quadro degli scambi intracomunitari, questi ultimi sono pregiudicati dall'aiuto. (66) In particolare tali aiuti falsano la concorrenza ed incidono sugli scambi tra Stati membri nella misura in cui le imprese beneficiarie esportano una parte della loro produzione negli altri Stati membri; analogamente, anche se le imprese non esportano, la produzione nazionale è favorita perché l'aiuto riduce la possibilità da parte delle imprese insediate in altri Stati membri di esportare i loro prodotti verso il mercato italiano».

[67] Infra § 5.

[68] Rispetto alla quale dunque non vi sarebbe stato in nessun caso problema alcuno, fatta eccezione per l’infrazione della mancata notifica.

[69] Salvo che i finanziamenti non si riferiscano a situazioni particolari, elencate analiticamente dalla Commissione in particolare nella Decisione 2000/128 con cui ne respinge la maggior parte, alla luce, anche del Documento 95/C 334/04, che contiene gli «Orientamenti in materia di aiuti all’occupazione» e 96/C 68/06 (Commission notice on the de minimis rule for State aid).

[70] Anche qui, sia detto del tutto incidentalmente, ci si troverebbe di fronte ad un illecito comportamento dello stato verso le imprese, qualora alle stesse venisse o fosse stato richiesta la restituzione degli interi importi, senza prima effettuare quella distinzione e classificazione degli interventi leciti e di quelli illeciti.

[71] La circostanza è dedotta solo dal fatto che non risultano notizie ufficializzate in merito. Il punto è che, sia pure in astratto, se le imprese avessero saputo della vicenda avrebbero potuto intervenire direttamente sia nella fase della contestazione dinanzi alla Commissione che in quella della fase contenziosa dinanzi alla Corte di Giustizia delle CE. Viceversa, se non avessero saputo nulla (per deliberata o casuale mancata comunicazione degli avvenimenti, sia da parte dello stato che della Confindustria) si potrebbe pensare ad una azione di risarcimento del danno.

[72] Va rilevato che, la stessa giurisprudenza comunitarie in materia è molto netta, in quanto afferma semplicemente che, nella misura in cui una procedura del genere è di pubblica conoscenza, nessuno può invocare un legittimo affidamento o la buona fede, nel senso di pretendere di non essere sottoposto alla procedura di restituzione in quanto in buona fede abbia ritenuto quell’intervento lecito. Ma ciò, nel caso di specie, vale solo per le agevolazioni precedenti all’inizio della procedura dinanzi alla Commissione e non per le altre, anche se, come già osservato, il fatto che lo stato ritenga di poter adottare certi provvedimenti, non è di per sé sufficiente per escludere che l’impresa debba porsi il problema, anche se ciò richiede un pesante supplemento organizzativo nelle aziende. Alle quali comunque è sempre aperta la via della giurisdizione nazionale, come vedremo più avanti e infra nt. successiva.

[73] Non così è accaduto nel caso Brandt, sentenze T-239/04 – T-323/04, dove l’impresa fu informata e partecipò al procedimento compreso il giudizio dinanzi alla Corte, salvo che, coscientemente e a suo rischio e pericolo, essendo vicino il termine di scadenza per poter godere del finanziamento sospetto, la ditta lo richiese a titolo cautelativo (per evitare, cioè, di venirne esclusa per scadenza dei termini per richiederlo), pur senza utilizzarlo. Di tal che la ditta medesima avanzò l’obiezione del legittimo affidamento e della buona fede, al quale la Corte rispose (come la giurisprudenza prevalente che vedremo meglio più avanti) negativamente affermando, tra l’altro: «153  Come emerge dai fatti e come dichiarato ai precedenti punti 70 e 104, la misura in questione è incompatibile con il mercato comune, essendo stata adottata in violazione delle norme comunitarie, sia sostanziali che formali, relative agli aiuti di Stato. 154  Secondo il Tribunale sembra impossibile nel caso di specie che un operatore economico diligente come la Brandt abbia potuto ignorare il carattere illegittimo della misura in questione. Al riguardo il Tribunale ricorda che, ai sensi di una giurisprudenza costante, tenuto conto del carattere imperativo della vigilanza sugli aiuti statali operata dalla Commissione ai sensi dell’art. 88 CE, le imprese beneficiarie di un aiuto possono fare legittimo affidamento, in linea di principio, sulla regolarità dell’aiuto solamente qualora quest’ultimo sia stato concesso nel rispetto della procedura  ...  Infatti, un operatore economico diligente deve normalmente essere in grado di accertarsi che tale procedura sia stata rispettata anche quando l’illegittimità della decisione di concessione dell’aiuto sia imputabile allo Stato considerato in una misura tale che la sua revoca appare contraria al principio di buona fede  ... 155  Il Tribunale ricorda infine come, sempre per giurisprudenza costante, se, così come nel caso della Brandt, il beneficiario dell’aiuto in esame ritiene che sussistano circostanze eccezionali sulle quali abbia potuto fondare il proprio legittimo affidamento circa la regolarità dell’aiuto, tale valutazione spetta al giudice nazionale, eventualmente adito, dopo aver proposto alla Corte, se necessario, questioni pregiudiziali di interpretazione  ... » (corsivi miei).

[74] V. infra ntt. 91 ss.

[75] Infra § 4 e nt. 98.

[76] Cfr. la Decisione cit.: « Articolo 1: 1. Gli aiuti illegittimamente concessi dall'Italia, a decorrere dal novembre 1975, per l'assunzione di lavoratori mediante i contratti di formazione e lavoro previsti dalle leggi 863/84, 407/90, 169/91 e 451/94, sono compatibili con il mercato comune e con l'accordo SEE a condizione che riguardino: - la creazione di nuovi posti di lavoro nell'impresa beneficiaria a favore di lavoratori che non hanno ancora trovato un impiego o che hanno perso l'impiego precedente, nel senso definito dagli orientamenti in materia di aiuti all'occupazione; - l'assunzione di lavoratori che incontrano difficoltà specifiche ad inserirsi o a reinserirsi nel mercato del lavoro. Ai fini della presente decisione, per lavoratori che incontrano difficoltà specifiche ad inserirsi o a reinserirsi nel mercato del lavoro s'intendono i giovani con meno di 25 anni, i laureati fino a 29 anni compresi, i disoccupati di lunga durata, vale a dire le persone disoccupate da almeno un anno. 2. Gli aiuti concessi per mezzo di contratti di formazione e lavoro che non soddisfano alle condizioni menzionate al paragrafo 1 sono incompatibili con il mercato comune. Articolo 2: 1. Gli aiuti concessi dall'Italia in virtù dell'articolo 15 della legge n. 196/97 per la trasformazione di contratti di formazione e lavoro in contratti a tempo indeterminato sono compatibili con il mercato comune e con l'accordo SEE purché rispettino la condizione della creazione netta di posti di lavoro come definita dagli orientamenti comunitari in materia di aiuti all'occupazione. Il numero dei dipendenti delle imprese è calcolato al netto dei posti che beneficiano della trasformazione e dei posti creati per mezzo di contratti a tempo determinato o che non garantiscono una certa stabilità dell'impiego. 2. Gli aiuti per la trasformazione di contratti di formazione e lavoro in contratti a tempo indeterminato che non soddisfano la condizione di cui al paragrafo 1 sono incompatibili con il mercato comune. Articolo 3: L'Italia prende tutti i provvedimenti necessari per recuperare presso i beneficiari gli aiuti che non soddisfano alle condizioni di cui agli articoli 1 e 2 già illegittimamente concessi. Il recupero ha luogo conformemente alle procedure di diritto interno. Le somme da recuperare producono interessi dalla data in cui sono state messe a disposizione dei beneficiari fino a quella del loro recupero effettivo. Gli interessi sono calcolati sulla base del tasso di riferimento utilizzato per il calcolo dell'equivalente sovvenzione nel quadro degli aiuti a finalità regionale.»

[77] In altre parole, avendo lo stato ormai concesso quelle agevolazioni legittime, è esso solo passibile delle eventuali sanzioni derivanti dalla mancata notifica, mentre, mi sembra, l’obbligo generale di non concedere o di richiedere il rimborso, pendente il procedimento, sarebbe ormai superato nei fatti. Non avrebbe senso richiedere ad un’azienda il pagamento di certe cifre, salvo poi a dovergliele riconcedere, ma ciò non esclude la responsabilità dello stato verso la UE.

[78] Cosa che, a quanto pare, almeno nel caso di una azienda specifica della quale per motivi di riservatezza non faccio il nome, non è affatto accaduto, essendosi l’INPS limitato a richiedere la restituzione di una grossa somma, corrispondente all’intero ammontare degli incentivi derivati da tutte quelle leggi, senza alcuna precisazione ma solo motivando con un riferimento generico alla sentenza della CGCE. Lascio aperta la domanda (su cui infra § 5) sulla eventuale responsabilità dell’INPS (e specialmente dei suoi funzionari!), che, secondo la citata giurisprudenza TAR (v. supra nt. 15 e il testo corrispondente) avrebbe dovuto rifiutare di emettere un atto del genere.

[79] Cfr. sul punto, per tutte le articolazioni del caso, ma sempre alla luce del principio per cui la mancata notifica implica di per sé l’obbligo di ripetere le somme, salvo a compensare qualora la Commissione successivamente giudichi l’intervento lecito, Causa C- 199/06.

[80] In merito, la indicazione della Commissione è chiarissima, quando afferma: «(113) Sulla base dell'analisi esposta nelle sezioni V.1.a) e V.1.b) della presente decisione la Commissione constata che unicamente gli aiuti concessi per l'assunzione di lavoratori che, al momento dell'assunzione, non avevano ancora ottenuto un impiego o che l'avevano perso e la cui assunzione ha contribuito alla creazione netta di nuovi posti di lavoro nelle imprese interessate, sono compatibili con il mercato comune. (114) Gli aiuti concessi ai lavoratori che incontrano difficoltà specifiche ad inserirsi o a reinserirsi nel mercato del lavoro, vale a dire dopo aver perso un impiego, sono anch'essi compatibili con il mercato comune. Si tratta di persone che, in considerazione delle loro caratteristiche proprie, si collocano in una condizione di debolezza di fronte al sistema di selezione imposto dal mercato del lavoro. È il caso in particolare dei giovani con meno di 25 anni, dei laureati fino a 29 anni compresi e dei disoccupati di lunga durata (più di un anno di disoccupazione). Tuttavia, per poter beneficiare delle agevolazioni i datori di lavoro non devono aver proceduto a riduzioni di organico nei 12 mesi precedenti e devono inoltre aver mantenuto in servizio (assumendoli con contratto a tempo indeterminato) almeno il 60 % dei lavoratori il cui contratto di formazione e lavoro è scaduto nei 24 mesi precedenti. (115) Le misure che rispettano la regola de minimis non rientrano nel campo di applicazione dell'articolo 87. In applicazione di detta regola, l'importo complessivo di tutti gli interventi effettuati a favore delle imprese che hanno assunto lavoratori per mezzo di un contratto di formazione e lavoro non deve superare il limite di 100.000 EUR su un periodo di tre anni. Come precisato nella comunicazione della Commissione relativa agli aiuti de minimis, detta regola non si applica ai settori disciplinati dal trattato CECA, alla costruzione navale ed al settore dei trasporti, ed agli aiuti concessi per spese inerenti ad attività dell'agricoltura o della pesca. (116) Tutti gli aiuti per l'assunzione per mezzo di contratti di formazione e lavoro che non rispettano le condizioni indicate ai considerando 113-115 sono incompatibili con il mercato comune e devono pertanto essere recuperati.»

[81] V. Invito all’Italia ad adeguarsi IP/08/133, Bruxelles, 31 gennaio 2008, Aiuti di Stato: la Commissione invita l'Italia a rispettare le sentenze della Corte sul recupero degli aiuti di Stato incompatibili.

[82] V. in https://ec.europa.eu/comm/competition/state_aid/legislation/rules.cfm, il documento State aid: Commission issues guidance to speed up implementation of state aid recovery decisions, che recita testualmente: « In its State Aid Action Plan of 2005 (see IP/05/680), the Commission already highlighted the long delays in the execution of recovery decisions at national level and subsequently took steps to improve their enforcement, for example through a closer monitoring of national recovery proceedings. These measures have proved to be effective. The amount of illegal aid recovered has increased to some €7.2 billion from €6 billion in 2005, and the backlog of recovery decisions that have not been implemented has fallen significantly (as shown in the June 2007 State Aid Scoreboard, see IP/07/955). In recent judgments, the European Court of Justice has clearly ruled in favour of an effective execution of recovery decisions (see Case C-415/03, Commission against Greece, case C- 232/05, Commission against France and C-441/06, Commission against France)...... The Member States' role is to adopt the most effective measures available in their national legal systems to proceed to a rapid and effective recovery of the illegal and incompatible aid. This implies that Member States, after having determined the aid to be recovered, notify without delay the recovery order to the beneficiary and ensure that the aid is repaid within the deadline prescribed by the Commission Decision» (corsivo mio). Cfr. Anche sulle modalità di recupero il Memorandum  MEMO/05/482, 14/12/2005.

[83] Supra nt. 15.

[84] Non a caso, la Commissione nel valutare la legittimità o meno di una concentrazione di imprese, deve tenere conto anche degli eventuali aiuti, che potrebbero falsarne la legittimità. V. sentenza T-156/98 (RIB Nininc c. Commissione): « 113. It follows in particular that, when adopting a decision on the compatibility of aid with the common market, the Commission must be aware of the risk of individual traders undermining competition in the common market ....  114. It also follows that in adopting a decision on the compatibility of a concentration between undertakings with the common market the Commission cannot ignore the consequences which the grant of State aid to those undertakings has on the maintenance of effective competition in the relevant market» (corsivo mio). È appena il caso di ricordare qui la descritta questione Alitalia.

[85] In generale sulla questione si veda Tesauro, Diritto, cit., pag. 800 ss.; Daniele, Diritto materiale della Comunità Europea, Milano (Giuffrè) 2000, pag. 242 ss; Castronovo, Mazzamuto (a cura di), Manuale di diritto privato europeo, Milano (Giuffrè) 2007, vol III, Libertini, Gli aiuti pubblici alle imprese, pag. 423 ss. e ivi ampi riferimenti bibliografici ai quali faccio rinvio. Per un bel compendio di giurisprudenza recente, cfr. NAscimbene, Condinanzi, Giurisprudenza di diritto comunitario, casi scelti, Milano (Giuffrè) 2007.

[86] V. tra le altre le sentenze C-6/97, « 16 Or, une mesure par laquelle les autorités publiques accordent à certaines entreprises une exonération fiscale qui, bien que ne comportant pas un transfert de ressources d'État, place les bénéficiaires dans une situation financière plus favorable que les autres contribuables constitue une aide d'État au sens de l'article 92, paragraphe 1, du traité», C-387/92, 295/97, 53/00 e anche le sentenze del Tribunale di primo grado T-204/97 e 66/02, nella quale ultima il Tribunale conferma : «77 Selon une jurisprudence constante, la notion d’aide est plus générale que celle de subvention, parce qu’elle comprend non seulement des prestations positives, telles que les subventions elles-mêmes, mais également des interventions qui, sous des formes diverses, allègent les charges qui normalement grèvent le budget d’une entreprise et qui, par là, sans être des subventions au sens strict du mot, sont de même nature et ont des effets identiques …78 Il en découle qu’une mesure par laquelle les autorités publiques accordent à certaines entreprises une exonération fiscale qui, bien que ne comportant pas un transfert de ressources d’État, place les bénéficiaires dans une situation financière plus favorable que les autres contribuables constitue une aide d’État au sens de l’article 87, paragraphe 1, CE …» (corsivi miei).

[87] E se lo stato non risponde adeguatamente alle sollecitazioni della commissione, questa può interrompere il procedimento di contestazione e passare direttamente alla decisione in merito, cfr. C-142/87.

[88] C- 142/87  «15 La Commission, lorsqu' elle constate qu' une aide a été instituée ou modifiée sans avoir été notifiée, a le pouvoir, après avoir mis l' État membre concerné en mesure de s' exprimer à cet égard, d' enjoindre à celui-ci, par une décision provisoire, en attendant le résultat de l' examen de l' aide, de suspendre immédiatement le versement de celle-ci et de fournir à la Commission, dans le délai qu' elle fixe, tous les documents, informations et données nécessaires pour examiner la compatibilité de l' aide avec le marché commun».

[89] In altre parole, la Commissione deve comunque portare a termine l’intera procedura prima di poter dichiarare illecito l’aiuto, e non usare il silenzio dello stato come una sorta di ammissione di colpa, cfr. sul punto specifico, C- 142/87.

[90] C- 142/87 il recupero della somma illecitamente versata è la conseguenza logica della dichiarazione della illiceità dell’aiuto, per cui il recupero non può essere considerata una misura sproporzionata rispetto all’oggetto, v. anche C- 110/02 e C- 169/95 anche con riferimento agli interessi, nell’intento di ricostruire la situazione pregressa, C-110/02  anche se, come osservo più avanti non sarà comunque necessariamente questo il risultato.

[91] E sul punto la giurisprudenza è pacifica ormai e si veda per tutte C-173/73.

[92] Per cui, ad es. nel caso Alitalia, qualora l’UE definisca quell’intervento un aiuto, nonostante la certezza in contrario dello stato, non solo se ne dovrebbe richiedere la restituzione con gli interessi, ma l’Italia sarebbe suscettibile della procedura dell’art. 228 (ora 260) per l’inflizione di una multa imposta allo stato direttamente, oltre all’obbligo di restituzione del versamento, da parte di Alitalia o dei suoi aventi causa.

[93] Il che è perfettamente vero, ma se lo stato non ha avvertito la Commissione di nulla, ben può darsi che l’impresa non sappia nulla in perfetta buona fede. In tal caso dovrebbe essere l’impresa stessa a farsi parte diligente contro l’aiuto, ma la cosa, a dire il vero, appare quanto meno improbabile, salvo che un’impresa concorrente e danneggiata non agisca.

[94] Beninteso, sul piano strettamente internazionalistico e al di là delle procedure comunitarie, resta il fatto che lo stato che non abbia regolarmente adempiuto agli obblighi assunti incorre nella relativa responsabilità internazionale.

[95] Cfr. C-332/98 Francia Commissionne: «31. Il convient de rappeler que, selon une jurisprudence constante, l'objectif poursuivi par l'article 93, paragraphe 3, du traité est de prévenir la mise en vigueur d'aides contraires au traité … En outre, la Cour a souligné à plusieurs reprises que la dernière phrase de l'article 93, paragraphe 3, du traité constitue la sauvegarde du mécanisme de contrôle institué par cet article, lequel, à son tour, est essentiel pour garantir le fonctionnement du marché commun. Il s'ensuit, selon cette jurisprudence, que, même si l'État membre estime la mesure d'aide compatible avec le marché commun, cette circonstance ne saurait l'autoriser à passer outre aux dispositions claires de l'article 93 du traité…32. Il en résulte que l'objet de la disposition introduite par l'article 93, paragraphe 3, du traité n'est pas une simple obligation de notification, mais une obligation de notification préalable qui, en tant que telle, comporte et implique l'effet suspensif consacré par la dernière phrase de ce paragraphe. Contrairement à ce que prétend le gouvernement français, cette disposition ne permet dès lors pas de procéder à une dissociation entre les obligations qui y sont prévues, à savoir celles de notification de toute aide nouvelle et celles de suspension provisoire de la mise à exécution de cette aide» (corsivo mio).

[96] Oltre ovviamente quello della “denuncia” a livello comunitario, con la conseguente eventuale apertura della procedura di infrazione.

[97] Supra nt. 73. Sembra qui evidente la posizione di “minorità” dell’impresa rispetto allo stato, nella misura in cui l’impresa in pratica è stata costretta (pur sapendo della dubbia legittimità dell’intervento statale, rispetto al quale agiva insieme allo stato contro la Commissione) a prelevare l’aiuto posta di fronte al rischio di perderlo del tutto rispetto alla concorrenza (per la scadenza dei termini per richiederlo) qualora fosse stato giudicato lecito. Se non si vuole parlare addirittura di dolo, di colpa dello stato membro verso il sistema delle imprese, è difficile tacere.

[98] Cfr. le sentenze C- 173/73, C- 27/95, dove si afferma che nulla osta che la giurisdizione nazionale riconosca la legittimità del comportamento della impresa. Non è però chiaro come si concili questa eventuale decisione, con l’obbligo assoluto di recuperare comunque l’aiuto per non falsare la concorrenza. L’unica possibilità, a mio parere, sarebbe dunque quella di agire contro lo stato per ottenere il risarcimento del danno derivato all’impresa dal comportamento dello stato, ma non la esenzione dal rimborso, comunque dovuto. Cfr. la sentenza C-143/99 (Adria) dove appunto si afferma: «27. Les juridictions nationales doivent garantir aux justiciables que toutes les conséquences d'une violation de cette disposition seront tirées, conformément à leur droit national, en ce qui concerne tant la validité des actes comportant mise à exécution des mesures d'aide que le recouvrement des soutiens financiers accordés au mépris de cette disposition ou d'éventuelles mesures provisoires »…tra « tutte » le conseguenze, penso, potrebbe esservi anche il risarcimento del danno.

[99] Ancora di recente, cfr. C-206/06 17.07.08: «86. Sulla scorta di tali criteri, utilizzabili mutatis mutandis per valutare se le compensazioni di costi non conformi al mercato causati dallo Stato costituiscano un aiuto, spetta al giudice nazionale verificare se, o in quale misura, l'importo di NLG 400 milioni possa considerarsi una compensazione che rappresenta la contropartita delle prestazioni effettuate dalla società designata per eseguire obblighi di servizio pubblico, o se tale importo dovesse essere utilizzato ai fini del pagamento di costi non conformi al mercato di altra natura, nel qual caso si tratterebbe di un vantaggio economico corrispondente alla nozione di «aiuto» ai sensi dell'art. 87 CE.  87. Dal momento che la misura in questione avvantaggia la SEP e/o le imprese produttrici di energia elettrica, un vantaggio siffatto favorisce il settore della produzione di energia elettrica e ha quindi carattere selettivo» (corsivo mio).

 

[100] Cfr. la sentenza di cui alla nota precedente, «29. En effet, si les juridictions nationales sont amenées, à cette fin, à déterminer si une mesure nationale doit ou non être qualifiée d'aide d'État au sens du traité, elles ne peuvent pas, pour autant, se prononcer sur la compatibilité des mesures d'aide avec le marché commun, cette appréciation relevant de la compétence exclusive de la Commission, sous le contrôle de la Cour ….» e v. anche C-39/94 (SFEI) :« 41 Dans le cadre du contrôle du respect par les États membres des obligations mises à leur charge par les articles 92 et 93 du traité, les juridictions nationales et la Commission remplissent des rôles complémentaires et distincts. 42 Lorsqu' elles tirent les conséquences d' une violation de l' article 93, paragraphe 3, dernière phrase, les juridictions nationales ne peuvent pas se prononcer sur la compatibilité des mesures d' aide avec le marché commun, cette appréciation relevant de la compétence exclusive de la Commission, sous le contrôle de la Cour ….  » (corsivo mio).

[101] Per talune recentissime applicazioni, v. ad es., Cass. Civile I, n. 21129 05.08.2008, Cass. C. I, n. 20996 01.08.2008, Cass. C. I, n. 16033 13.06.2008, che afferma: « Peraltro, in riferimento all'azione revocatoria fallimentare - che è l'azione per la quale era stata posta la questione - è stata offerta soluzione positiva in ordine della compatibilità della disciplina nazionale con le norme comunitarie. Inoltre, è stato ricordato che, sebbene non sussistessero elementi in grado di fondare la non applicazione della norma che disciplina la revocatoria, sussisteva tuttavia l'esigenza di un intervento correttivo, che è stato poi realizzato con la L. 12 dicembre 2002, n. 273, art. 7 che ha rimosso l'incongruenza della previsione di un organo, quale il commissario straordinario, rispetto ad una procedura che ormai non può più avere una gestione conservativa dell'impresa, secondo le modalità già previste dalla L. n. 95 del 1979. Su questo intervento si è pronunciata la Corte di giustizia con una decisione (ordinanza 24 luglio 2003, C-297/01, Sicilcassa), dalla quale emerge che a) non sono recuperabili gli aiuti   di Stato   concessi in base alla L. n. 95 del 1979 sino al momento della sua abrogazione pertanto, anche ammettendo - ma lo si è escluso - che la disciplina della L. 95 del 1979 costituiva di per sè un regime di aiuti   di Stato, il beneficio dell'apertura della procedura non potrebbe essere "recuperato", ma dovrebbero essere soltanto esclusi nuovi benefici nell'ambito della procedura; b) la proroga della disciplina della L. n. 95 del 1979 non rappresenta di per sè un regine di aiuti se può essere interpretata in modo da escludere nuovi aiuti   di Stato   alle imprese che vi sono sottoposte; il che è quanto si impone per le considerazioni sopra svolte. Pertanto, in base a detti principi ed agli argomenti svolti nelle sentenze sopra richiamate, da ritenersi qui integralmente trascritti, perchè condivisi, senza che sussista necessità di riesaminarli,  ... , la sentenza non merita censura ... » (corsivo mio). Curiosamente in riferimento, giustamente ignorato dalla Corte, è stato fatto in materia di intercettazioni, in quanto affidate ad imprese italiane così ingiustamente beneficiate! (Cass. S.U.C n. 18039 02.07.2008. per un recentissimo obiter dictum in merito della Corte Costituzionale (che constata la conformità della legislazione alle norme in materia di aiuti di stto) v. C.C. 01.08.2008 n. 326.

[102] Cfr. C-110/02 (Commissione c. Consiglio): «43. Dans ces conditions, admettre qu’un État membre puisse octroyer aux bénéficiaires d’une aide illégale, antérieurement déclarée incompatible avec le marché commun par une décision de la Commission, une aide nouvelle d’un montant équivalent à celui de l’aide illégale, destinée à neutraliser l’impact des remboursements auxquels ces derniers sont tenus en application de ladite décision, reviendrait à l’évidence à mettre en échec l’efficacité des décisions prises par la Commission en vertu des articles 87 CE et 88 CE (voir, par analogie, arrêts du 20 septembre 1990, Commission/Allemagne, C-5/89, Rec. p. I-3437, point 17, et du 7 mars 2002, Italie/Commission, précité, point 104). Questa, vale la pena di sottolinearlo, è un’ulteriore complicazine : l’impresa, infatti, può chiedere un risarcimento del danno, ma facendo sorgere il problema delicato della sua natura, dato che lo stato non potrebbe limitarsi a non ripetere l’aiuto, perchè altrimenti incorrerebbe nella sanzione della illecita surrettizia riproposizione dell’aiuto.

[103] Del resto quelle agevolazioni sono proprio sempre mirate, lecite o meno che siano, a favorire l’impiego.

[104] Per un accenno in materia, v. Corte costituzionale sentenza 249/1995 § 4 dei considerando in diritto, e, con maggiore attinenza al tema di cui nel testo, 443/1997 §§ 5 e 6 dei medesimi :« 5.  ... Ma, si diceva, in questa sede non è il punto di vista comunitario che interessa. Anche a voler ritenere che, nell'attuale fase evolutiva del processo di integrazione europea, sia questo un portato del rapporto di separazione che tuttora sussiste tra ordinamento comunitario e ordinamento interno, è certo che all'impatto con il nostro sistema giuridico, quello spazio di sovranità che il diritto comunitario lascia libero allo Stato italiano può non risolversi in pura autodeterminazione statale o in mera libertà del legislatore nazionale, ma è destinato ad essere riempito dai principî costituzionali e, nella materia di cui si tratta, ad essere occupato dal congiunto operare del principio di eguaglianza e della libertà di iniziativa economica, tutelati dagli artt. 3 e 41 della Costituzione, che sono stati invocati a parametro dal giudice remittente. 6. La disparità di trattamento tra imprese nazionali e imprese comunitarie, seppure è irrilevante per il diritto comunitario, non lo è dunque per il diritto costituzionale italiano. Non potendo essere da questo risolta mediante l'assoggettamento delle seconde ai medesimi vincoli che gravano sulle prime, poiché vi osta il principio comunitario di libera circolazione delle merci, la sola alternativa praticabile dal legislatore (in assenza di altre ragioni giustificatrici costituzionalmente fondate) è l'equiparazione della disciplina della produzione delle imprese nazionali alle discipline degli altri Stati membri nei quali non esistano vincoli alla produzione e alla commercializzazione analoghi a quelli vigenti nel nostro Paese» (corsivo mio).

[105] Dolo che, come già accennato, potrebbe rilevare non poco per la giurisdizione contabile dello stato!