Giancarlo Guarino
Costituzione
italiana e integrazione europea: aiuti di stato, “distrazione” amministrativa e
costi impropri per le imprese*.
Sommario: 1.
Introduzione: la natura di strumento di integrazione della
Unione Europea. - 1.1.
Originarietà dell’ordinamento comunitario, legislazione nazionale e art. 117.1
Costituzione italiana. - 1.2. L’ordinanza della Corte Costituzionale 103/2008. - 1.3. La tecnica di formazione
comunitaria delle norme in materia di aiuti di stato. - 2. Il caso Alitalia. - 3. La legislazione italiana e le
decisioni comunitarie nel caso degli incentivi sul mercato del lavoro.
- 3.1. Le notifiche e le risposte della
Commissione. - 3.2. La decisione
della Commissione. - 4. Differenze e analogie tra i casi descritti. - 5. Le differenti conseguenze per le
imprese delle varie forme di aiuti illeciti.
1. Introduzione: la natura di strumento di integrazione della Unione Europea.
L’Italia,
non diversamente peraltro da numerosi altri paesi europei, non è certo parca di
problemi per le CE, con riferimento in particolare al complesso e delicatissimo
regime degli aiuti di stato. Un tema, come noto, di grande importanza e di
grandissima difficoltà interpretativa e applicativa, anche a causa della
tendenza degli stati membri (senza eccezioni, a dire il vero) a cercare in ogni
modo di aggirare le norme che ne fanno divieto, nell’intento di favorire il
proprio sistema di imprese e, in certi casi, di “salvare” imprese in declino
dal fallimento o dalla acquisizione da parte di imprese “straniere”.
Già
l’uso di quest’ultimo termine, in ambito europeo, dovrebbe ormai essere bandito
almeno nella mentalità , se non nella prassi, delle imprese stesse e degli
amministratori pubblici. Benché, infatti, molti siano i punti ancora da
affrontare e chiarire e gli ostacoli, innanzitutto politici, ma anche tecnici
da superare, è sempre più evidente come ormai, e sempre di più ogni giorno che
passa, l’UE assomigli più ad uno stato (magari di tipo federale)[1] che alla semplice organizzazione
internazionale alla quale per lungo tempo gran parte della dottrina (e
grandissima parte delle amministrazioni statali e non solo) si erano abituati a
pensare.[2]
Parlare,
con riferimento ai rapporti tra stati membri e UE, di processi di coordinamento
o di cooperazione o altro, appare sempre meno consono ad una realtà nella quale
i conti si devono fare con un vero (e per certi versi, mi pare, inarrestabile)
processo di integrazione[3],
che fa sempre più spesso e più ampiamente “saltare” i pur numerosi ostacoli
frapposti dagli stati membri, sempre più visibilmente in posizioni di
“retroguardia” rispetto ad un processo che risponde a sue logiche proprie
difficilmente riconducibili alla semplice gestione di una “comune”
organizzazione internazionale[4].
Ciò che colpisce (e ne mostrerò tra poco qualche esempio) nello sviluppo della
cooperazione europea è appunto l’automatismo e se si vuole la spontaneità[5]
di certi processi di sviluppo, rispetto ai quali la volontà esplicita degli
stati è spesso del tutto estranea.
Così
come, non si può tacerlo, estranea ad essi è pure la volontà e la stessa
consapevolezza dei Parlamenti nazionali, a loro volta sempre più lontani dal
processo di formazione delle norme comunitarie e, del tutto, dalla loro
applicazione[6].
I recenti tentativi di mascherare questa realtà (del resto necessaria)
attraverso il più frequente ricorso ad una consultazione dei Parlamenti stessi,
sembra appunto solo un’operazione di facciata intesa ad attenuare il timore di
una loro “perdita di sovranità”, per così dire, ormai nei fatti da tempo
“perduta”, o meglio, trasfusa e rafforzata in una diversa, più ampia, sovranità
europea[7], che invece, quella sì, meriterebbe di
essere rafforzata in senso democratico-partecipativo. Curiosamente, d’altro canto, e di nuovo non
credo che sia un caso, si potrebbe osservare come una maggiore partecipazione
reale vi sia tra organi decisionali della UE e organi amministrativi centrali e
periferici interni, partecipi sempre di
più, questi ultimi, del processo “ascendente” di formazione delle norme
comunitarie. Appunto: ognora di più l’UE agisce come uno stato nel quale si creano delle procedure
amministrative autonome che sempre più nettamente prescindono dai Parlamenti
nazionali, ma anche, per certi versi, dagli stessi Governi.
In
altre parole: le caratteristiche di originarietà[8]
del sistema comunitario appaiono sempre più difficili da negare o nascondere.
Infatti sempre più netta è l’impressione per cui le logiche interne proprie
della struttura comunitaria[9],
cancellano o si sovrappongono ai tentativi degli stati di affermare le proprie
prerogative sovrane a danno dell’UE, che, tanto per fare un esempio anche “visivo”,
se pure apparentemente marginale, nel trattato di Lisbona ha ormai sostituito
definitivamente il termine “mercato comune” con la dizione “mercato interno”[10];
termine le cui implicazioni anche psicologiche sono troppo evidenti per
richiedere spiegazioni[11].
Il sistema, insomma, funziona e crea norme se non contro, certamente anche a
prescindere dagli stati membri e queste norme, come vedremo tra poco sia pure
per qualche aspetto particolare, si integrano e si armonizzano in un tutto
organico e coerente, normativamente definibile.
Ciò, come vedremo tra poche righe va detto non
per una generica (e inutile oltre che inesistente) affermazione di “fede
europeista” ma per invitare a tenere conto adeguato di quei processi reali, la
mancata coscienza e conoscenza dei quali può, come appunto vedremo tra poco,
provocare danni e inconvenienti notevoli, anche di natura economica in
particolare per il sistema produttivo dei paesi membri.
1.1. Originarietà dell’ordinamento
comunitario, legislazione nazionale e art. 117.1 Costituzione italiana.
Ma del
resto, solo per concludere questa parentesi, anche le legislazioni nazionali
finiscono per non riuscire a (o, più probabilmente, per non volere) sottrarsi a
questa logica, se anche solo si pensa, da un lato, all’enorme importanza
assunta in Italia da una norma recente, finora poco approfonditamente valutata,
ma fondamentale come il primo co. dell’art. 117 Costituzione che, a mio parere[12], semplicemente rivoluziona il
sistema dei rapporti tra stato e diritto internazionale e quindi e inoltre in
particolare, tra stato e UE[13].
Dall’altro, basterebbe, anche solo fare riferimento al vasto e approfondito
dibattito in corso sulla possibilità o meno non solo di disapplicare[14]
le norme interne in contrasto con il diritto comunitario (ex art. 11 Cost e oggi anche 117.1) cosa ormai acquisita e
pacifica, ma anche di non applicare i provvedimenti amministrativi adottati e
formalmente perfetti e corrispondenti alle normative nazionali[15], ma in applicazione di regole
interne in contrasto con quelle comunitarie[16].
L’impressione della “forza propria” del sistema, del resto, era già evidente
all’epoca della sentenza Granital[17],
quando si affermò definitivamente l’idea della non applicabilità [18]
della legislazione interna in contrasto con quella comunitaria anche se ad essa
successiva, in ragione del principio della diversità e contemporaneità della
vigenza dei due ordinamenti, comunitario e statale, ciascuno valido, vigente e
applicabile per suo conto in ragione della sua competenza o meno a definire e
regolare una certa fattispecie.
Ma
poi, a dimostrazione di come le cose si evolvano fuori del controllo e
dell’impulso della politica, “per forza propria” in qualche modo, giunge a
suggellare, almeno per quanto riguarda l’Italia, l’integrazione tra i due
ordinamenti la recentissima (anch’essa per certi versi rivoluzionaria) ordinanza 103/2008
della Corte Costituzionale [19]
che, per la prima volta nella sua storia, ammette un ricorso pregiudiziale alla
giurisdizione comunitaria (tra l’altro anche con un riferimento proprio al
problema degli aiuti di stato): se non è integrazione questa ... certo magari
incompiuta, ma pur sempre integrazione[20].
Valga, a renderlo evidente, l’analisi critica del ragionamento della Corte, che
sintetizzo nel prossimo paragrafo.
1.2.
L’ordinanza della Corte Costituzionale 103/2008.
La
nostra Corte Costituzionale, dunque, se non altro in quanto adita con un
ricorso in via principale, ma affermando
così di fare parte di un sistema unico o almeno unitario (di un unico
ordinamento giuridico insomma[21]),
si dichiara, alla luce del diritto
comunitario e quindi nel suo ambito[22],
giudice, secondo la definizione tecnica del trattato, di ultima istanza[23]
e pertanto si considera obbligata a
ricorrere alla Corte europea per la dubbia interpretazione di talune norme
del trattato rilevanti per la specifica questione sollevata dinanzi ad essa.
Non a caso, la medesima Corte, con sentenza n.
102/2008 nella medesima data (richiamata esplicitamente nella stessa
ordinanza) aveva invece regolarmente risolto
altre questioni di costituzionalità sorte rispetto alla medesima fattispecie,
dove la sua competenza esclusiva era
indubbia. In altre parole la Corte si dichiara (o, se si preferisce, riconosce
di fare) parte di un sistema, nell’ambito del quale il diritto comunitario
impone ai giudici interni, che il diritto
comunitario identifica come giudici di ultima istanza, Corte Costituzionale
inclusa dunque, degli obblighi di ricorso al giudice comunitario, per
l’accertamento (vincolante) del contenuto del diritto comunitario stesso da
applicare in un giudizio interno pendente[24].
La Corte Costituzionale, così, si pone, rispetto
al diritto comunitario, sul medesimo piano dei giudici ordinari[25],
che detto obbligo di ricorso già da tempo hanno, anche se l’obbligo di ricorso
pregiudiziale in questo caso nasce solo a causa del fatto che la Corte stessa,
secondo la sua affermazione, è stata adita in via principale. Con il che, sia
consentito di interpretare in questa maniera il dictum della Corte, si afferma implicitamente che, in caso di
giudizio incidentale, l’obbligo di ricorso alla Corte di Giustizia comunitaria
resta esclusivamente in capo al
giudice ordinario.
Ma, la
Corte, peraltro, non valuta (né avrebbe in quella sede potuto o dovuto) altre
due questioni, forse solo di scuola, alle quali però accenno brevemente di
seguito e che potrebbero indurre la Corte stessa a rivedere la sua idea per cui
il ricorso alla Corte di Giustizia può aversi solo se nel corso di un giudizio
in via principale. Insomma, a rivedere e profondamente quella sua divisione di competenze.
Potrebbe
infatti accadere (ecco la prima questione)[26]
che un giudice ordinario, posto di fronte alla necessità di richiedere alla
Corte di Giustizia delle Comunità Europee l’interpretazione di un atto
comunitario, necessaria per risolvere la vertenza al suo esame, rilevi come
quella interpretazione possa determinare, o determini se già emessa, la
possibilità che la “risultante” dell’atto comunitario, della sua
interpretazione comunitaria e delle legislazione interna residua competente,
determini un effetto di incostituzionalità.[27]
Essendo il giudice ordinario obbligato ad applicare il giudizio della Corte di
Giustizia, magari prima ancora di ricorrere alla Corte di Giustizia o comunque
immediatamente dopo, non avrebbe altra possibilità che quella di ricorrere alla
Corte Costituzionale per sapere come comportarsi. Quest’ultima, a sua volta,
piuttosto di dover giudicare incostituzionale quella “risultante” (violando
così il diritto comunitario) potrebbe considerarsi obbligata (benché non,
strettamente parlando, come giudice di ultima istanza, ma certamente come
giudice la cui pronuncia potrebbe essere definitiva nei risultati) a ricorrere
alla Corte di Giustizia nella speranza che la (eventualmente nuova)
interpretazione si quest’ultima eviti il descritto effetto di
incostituzionalità.
Beninteso, da un lato, qualora la
incostituzionalità permanesse, è difficile immaginare che la Corte
Costituzionale non possa trovarsi proprio nella necessità ipotizzata come
eccezionale nella menzionata sentenza Granital
e cioè di giudicare non applicabile la norma risultante o di valutare come
incostituzionale la norma comunitaria.
D’altro canto, per restare coerente alla accennata
ipotesi di integrazione, mi preme sottolineare che è difficile immaginare che
la stessa Corte di Giustizia, richiesta in via pregiudiziale, non sia in realtà
“costretta” (ma io preferirei dire “tenuta”) ad interpretare l’atto in
questione (con valenza generale,
dunque) in maniera da non ledere la norma costituzionale italiana, in ossequio,
ipotizzo, proprio a quell’art. 6.3[28]
del trattato UE di cui sopra, vedendo, cioè, nella norma costituzionale italiana una di quelle norme interne che
assurgono a principi fondatori della intera UE e ai quali pertanto una norma
comunitaria non potrebbe mai andare contro, per essere essa una norma dello stesso
diritto comunitario[29]:
la norma comunitaria effettiva, insomma, sarebbe formata dalla integrazione per
via interpretativa tra quella comunitaria e quella nazionale. Questa, mi sembra, sarebbe la conseguenza
logica e al tempo stesso la prova della integrazione tra i sistemi. Ma è anche
l’unico modo, mi pare, per interpretare una disposizione come quella in
discussione.[30]
Non
meno intrigante (e vengo così alla seconda questione di cui sopra) potrebbe
rivelarsi un’altra ipotesi, sempre largamente di scuola anche se simile alla
precedente, della quale costituisce in qualche modo l’altra faccia. Nel corso,
dunque, di un giudizio sulla costituzionalità di una legge italiana, la Corte
potrebbe rilevare che l’ interpretazione di essa, alla luce del diritto comunitario,
potrebbe rivelarsi incostituzionale o viceversa (e cioè non essere più sospetta
di incostituzionalità, se letta alla luce della corretta interpretazione della
norma comunitaria), e quindi essere dalla Corte stessa giudicata in
conseguenza. Non resterebbe, credo, alla Corte Costituzionale che ricorrere,
essa direttamente, alla Corte di Giustizia per poterlo accertare e regolarsi di
conseguenza[31],
dato che la sua pronuncia influirebbe direttamente sulla questione di merito,
mentre il giudice ordinario non avrebbe ragione né modo di rivolgersi alla
Corte di Giustizia. Anche qui, dunque, la Corte, non solo non sarebbe giudice
principale, ma non potrebbe fare a meno del giudizio della Corte di Giustizia
se non altro per non emettere una sentenza che determini una violazione del
diritto comunitario.[32]
Sorvolo
sulle questioni di compatibilità tra sistemi che si potrebbero porre in
entrambe le situazioni, ma che, in termini di integrazione potrebbero trovare
un adeguato componimento.
Ma,
tornando all’ordinanza, ciò che più importa, a mio giudizio, è che la Corte
(richiamando in parte quanto già affermato con le sentenze 348 e 349/2007) cita
sì l’art. 11[33]
della Costituzione, ma solo come fonte di giustificazione del fatto che alla
Comunità sono conferite potestà di tipo legislativo (nell’ambito rigoroso della
propria competenza di attribuzione[34],
peraltro), mentre l’obbligo di rispettarne le norme e il coordinamento tra di
esse sono tutti, mi sembra e giustamente, collegati al primo co. dell’art. 117
Costituzione[35].
Il quale è divenuto, a mio parere, la vera chiave di volta del sistema dei
rapporti tra diritto interno e diritto internazionale in senso lato[36],
affermando un vincolo per le potestà
legislative statale e regionale, che impedisce[37]
alla legislazione italiana di contravvenire alle norme di diritto
internazionale pattizio (e quindi anche comunitarie), intervenendo in qualche
modo per questa via sulla stessa sovranità del Parlamento[38].
In
realtà, a mio parere, in nessun modo si può parlare di limitazione o perdita di
sovranità del Parlamento (e quindi dello stato), ma solo di integrazione e, nel
suo ambito, di riparto di competenze. Allo stesso modo in cui nulla può
impedire ad una Regione di legiferare in maniera difforme dalle leggi quadro e
dalle norme costituzionali salvo a vedersi caducate quelle norme, nulla
impedisce al Parlamento di legiferare in maniera difforme da una norma pattizia
internazionale, salvo che quella norma non troverà applicazione laddove la
fattispecie rientri nella competenza internazionale e fin tanto che vi
permanga.
1.3. La
tecnica di formazione comunitaria delle norme in materia di aiuti di stato.
Come
vedremo fra poco, proprio il tema degli aiuti si muove in questa logica e, solo
nel suo ambito, può essere ben compreso, anche perché permette di meglio capire
come, per restare in termini di integrazione, strettissime siano le relazioni e
il riparto rigoroso di competenze tra
UE e i suoi organi, Corte di Giustizia innanzitutto, da una parte, e
giurisdizioni nazionali, dall’altra.
L’UE e
gli stati membri si muovono, dunque, ciascuno nel proprio ambito, secondo una
rigorosa e chiarissima distinzione di competenza[39], che, una volta e per tutte, se mi
si consente di dirlo in questa sede, nei fatti, permette di fare giustizia
della ormai superata idea della gerarchia tra norme[40],
che assegna alle norme comunitarie (che la Corte, peraltro, continua a definire
norme interposte) un presunto (e tutto da dimostrare) rango superiore rispetto
alle norme nazionali (non a caso non manca chi parla ancora di
sovranazionalità, un concetto in sé assai povero di significato)[41].
Rango a parte, nell’ambito che ci interessa è dunque di competenze e di riparto
di competenze che si parla come vedremo fra un momento, con conseguenze
importanti per il sistema delle imprese, con particolare riferimento al
problema della buona fede (o del legittimo affidamento) che, lungi dall’essere
un arbitrio della giurisdizione comunitaria, come pure a prima vista potrebbe
apparire[42],
è semplicemente la logica conseguenza del sistema di integrazione del quale
parlo. Integrazione, che, come cercherò di mostrare più avanti, comporta per lo
stato un ruolo di esecutore di norme,
e per conseguenza può, a mio parere, determinare una sua responsabilità per
colpa o addirittura per dolo, sia verso i privati lesi da un suo illecito
comportamento, che verso la UE stessa.
Anticipando
in poche parole quanto mi accingo a dire
più analiticamente: alla UE (e solo ad essa) spetta di accertare se un
determinato comportamento di uno stato membro rientri o meno tra gli aiuti
illeciti e di indicare la conseguente azione (il recupero delle somme, che non
ha natura sanzionatoria, ma è solo indirizzata a riequilibrare lo squilibrio
derivante dall’illecito aiuto), mentre è esclusivamente allo stato e ai suoi
organi (organi giurisdizionali, inclusi) che compete sia di rendere effettiva
la dovuta restituzione, sia di valutare l’eventualità di riconoscere alle
imprese la buona fede[43],
sia, infine, di rispondere, se del caso, del suo stesso comportamento: alle
imprese, “tratte in inganno” o comunque danneggiate[44],
alla UE per la eventuale mancata ottemperanza alle sue decisioni.
Non va
dimenticato, peraltro, che il diritto comunitario, per sua struttura e per sua
natura essendo un ordinamento fatto di prassi e con la prassi, amplia e
precisa il contenuto di disposizioni
spesso generiche e chiare solo nella finalità che perseguono, come è il caso
proprio degli aiuti di stato, dove sono stati e sono la prassi degli organismi
comunitari e la giurisprudenza della Corte di Giustizia, quelle che hanno nei
fatti costruito un sistema, in gran parte non ancora interamente definito, ma
destinato a sopperire alla modesta certezza del diritto, che discende dalla
genericità della normativa comunitaria. Basterebbe a metterlo in evidenza il
fatto, sia pure relativamente marginale, per cui la Commissione con una semplice
comunicazione (quindi un atto di tipo addirittura formalmente solo indicativo,
e dunque strutturalmente non obbligatorio) del 15.11.2007 [45]
“spiega” agli stati come si proponga di agire per ottenere che gli stati stessi
si conformino effettivamente alle decisioni in materia di aiuti, pur in
mancanza di una vera e propria procedura obbligatoria, salva la disposizione
quadro dell’art. 228 ( oggi art. 260 nel testo di Lisbona) del trattato[46],
che consente di applicare allo stato inadempiente una multa una tantum e addirittura una sorta di
contravvenzione la cui entità sia legata alla durata dell’infrazione, lasciando
alla prassi (in questo caso “concordata” tra Commissione e Corte di Giustizia)
di fissarne modalità, tempi e entità.
Proprio
in questa situazione si rivela la richiamata capacità “autonoma” dell’UE di
agire per impedire agli stati di aggirare le norme che, ovviamente, essi stessi
hanno posto in termini generici.
E
dunque, per fare un esempio nell’ambito del tema degli aiuti, è interessante il
modo in cui è stato affrontato e risolto il tema della molto frequente
inadempienza da parte degli stati delle decisioni comunitarie in materia di
aiuti. Spesso, infatti, gli stati, pur di fronte ad una decisione definitiva
della Commissione e ad una sentenza della Corte, che impongono di sospendere e
di recuperare gli aiuti illegittimamente somministrati alle imprese,
semplicemente reagiscono con l’inerzia. Ripetutamente la Commissione ha cercato
di ottenere dagli stati un più puntuale rispetto degli impegni, senza troppo
successo in vero.
Ma la
sinergia tra la stessa Commissione e la Corte ha portato oggi ad un risultato
di notevole interesse e sicuramente non molto gradito agli stati membri (pur
autori della norma che lo consente!) o almeno non a tutti. Come ricordato poco
più sopra, infatti, con il trattato di Maastricht veniva introdotto il
menzionato art. 228 (oggi 260) con il quale si stabiliva che contro stati
inadempienti di decisioni definitive sanzionate dalla Corte di Giustizia, si potesse
aprire (come per il merito in caso, ad esempio, di aiuti) una procedura di
infrazione da parte della Commissione, seguita da una eventuale sentenza della
Corte, che, nel caso, può applicare agli stati le vere e proprie multe
descritte sopra. L’insistenza della Commissione a vedere applicata la norma, in
sé generica, ha infine portato, da un lato ad un atto informale della
Commissione [47],
nel quale essa “suggerisce” di adottare determinate misure punitive atte a
scoraggiare effettivamente gli stati dal continuare nella illegittimità,
fissandone anche le modalità di definizione della entità. Dall’altro lato, la
Corte, per suo conto in tre sentenze recenti ha “aderito” alle richieste della
Commissione. Prima stabilendo il pagamento di una cifra corrispondente al
periodo di mancata applicazione del disposto europeo [48]
e infine il pagamento anche di una cifra
una tantum (per di più alquanto
rilevante) oltre alla cifra corrispondente al periodo di mancato adeguamento
alla decisione, interpretando così la disposizione come ”suggerito” dalla
Commissione e, sembrerebbe, anche nell’entità da essa suggerita; e ciò,
nonostante la ferma opposizione di numerosi stati membri[49].
In
altre parole, la Commissione, chiamata dall’art. 260 ad indicare, dopo esaurita
la procedura di infrazione, una multa o
una penalità (commisurata al tempo di permanenza dell’infrazione), elabora di
propria iniziativa e pubblicamente una tecnica - informale, ma in pratica
obbligatoria! e che, però, così diviene uno strumento di trasparenza e di
certezza del diritto per gli stati membri - con cui definisce l’entità della
multa o penalità, fino a indicare alla Corte, che accetta, di applicarle
entrambe, mentre a stretto rigore la norma le vede in alternativa. La
Commissione, come osservato, ottiene ciò limitandosi ad adottare una
comunicazione priva di valore normativo formale, ma nel farlo in sostanza
indica dei criteri rigorosi,
predeterminati e pubblici[50]
inducendo la Corte a tenerne conto. Gli stati membri sono così preventivamente
avvertiti di quali saranno i criteri di valutazione delle contravvenzioni, che
la Commissione si riserva di “suggerire” alla Corte: gli stati, pur in assenza
di norme formalmente obbligatorie, sanno perfettamente a quanto potrà ammontare
la contravvenzione, la cui entità, peraltro, sembrerebbe non impugnabile in
mancanza di norme in materia (e, questo, mi parrebbe, è un non piccolo
inconveniente in termini di certezza dei diritti).
Allo
scopo di illustrare, sia pure per grandi linee, alcune conseguenze pratiche di
quanto qui detto, toccherò brevemente due casi diversi nei contenuti ma
accomunati dalla logica che presiede al sistema dei rapporti tra stato e UE.
Rispetto ad entrambi, non entrerò minimamente nella valutazione dell’an, se, cioè, si tratti o meno di aiuti
di stato, ma solo nelle conseguenze dell’avvenuto accertamento. Ciò, appunto,
perché l’an è questione che attiene
alla competenza comunitaria, rispetto all’esercizio della quale esistono e
possono essere utilizzati vari rimedi, ma in ultima analisi è alla giurisdizione
comunitaria che spetterà alla fine di giudicare (con amplissimi margini di
discrezionalità) e quindi di obbligare lo stato a prenderne doverosamente atto.
Ciò non toglie, però, che già nelle more dell’accertamento dell’an, si possano aprire delle possibilità
di azione o di ricorso nell’ambito della giurisdizione nazionale, ad opera,
dunque, di imprese o persone interessate. Solo mostrare ciò, in effetti sarà lo
scopo di queste righe.[51]
2. Il caso Alitalia
Come
noto, con tre decreti legge, rispettivamente n. 80, 93 e 97/2008 (il primo dei
quali del 22.04.2008[52],
data come vedremo assai importante), l’Italia versa alla compagnia aerea
Alitalia (della quale il Governo italiano detiene circa il cinquanta percento
delle azioni) una forte somma di denaro da
contabilizzare in conto capitale e destinata a consentire alla società
stessa di non vedere il proprio capitale sociale ridursi al di sotto del limite
minimo consentito: insomma per impedire (ci si scuserà la sommarietà nei
riferimenti tecnici, relativamente marginali rispetto al discorso che intendo
fare) che la società fallisca. Detta somma è considerata come un prestito al
tasso, fino a Giugno 2008, corrispondente a quello imposto dalla UE per le
somme da restituire in caso di aiuti di stato illeciti alle imprese[53]
e, fino al Dicembre 2008, data del “rientro” di detta cifra, per lo stesso
tasso aumentato dello 1%.[54]
Mentre
il primo DL è del 22 Aprile, una primissima riunione (informale) tra la
Commissione e l’Italia avviene solo il 23 e, durante questa riunione
(ovviamente sollecitata dal fatto che la situazione aveva provocato oltre a
clamori mediatici vere e proprie “denunce” da parte di altre imprese o stati)[55]
il Governo italiano “informa” la Commissione dell’esistenza del DL, e
quest’ultima in conseguenza il 24 Aprile chiede ufficialmente chiarimenti al
Governo italiano che solo il 30 Maggio, comunica che è stato adottato anche un
altro DL (il n. 93), con cui si consentiva l’iscrizione del prestito in conto
capitale. A seguito di ciò, la Commissione, con lettera 11.06.2008 comunicava
all’Italia l’apertura di una procedura ex
art. 88.2 (oggi 108.2), tendente ad accertare se il prestito dovesse o meno
considerarsi un aiuto di stato illecito. Nella lunga lettera stessa, la
Commissione espone la sua opinione, che è appunto che si tratti di un aiuto
illecito.
La
situazione, come noto, si è ulteriormente evoluta, con il commissariamento
dell’Alitalia e la sua possibile, secondo notizie di fonte giornalistica,
parziale cessione ad altra azienda costituita all’uopo, azienda che,
assorbirebbe oltre alla sola parte attiva dell’Alitalia, anche le attività di
altri vettori aerei, con le conseguenze che ne possono derivare in tema di
normativa anti trust. È un fatto, peraltro, che anche il solo aiuto illecito
(se giudicato tale), potrebbe già da solo comportare (secondo la giurisprudenza
comunitaria) la illiceità della eventuale concentrazione, scorporo, ecc.[56],
anche a prescindere dall’accertamento di una situazione monopolistica sul
mercato italiano.
Ma,
come dicevo, non intendo entrare nel merito della situazione di fatto. Si
tratti o meno di aiuto illecito, infatti, ciò che conta è che l’Italia ha
concesso quel prestito senza avvertire preventivamente la Commissione, e, per
di più, avendo la Commissione aperto di sua iniziativa la procedura di
accertamento dell’eventuale infrazione, il Governo non ha seguito la procedura
di cui all’art. 108.3 ultima frase, che impone allo stato come noto, nelle more della procedura comunitaria, di
non erogare il presunto aiuto o di sospenderne l’erogazione[57].
La
prassi, in realtà, impone allo stato addirittura di recuperare la somma
eventualmente già versata fin tanto che non si giunga alla conclusione della
procedura, per il solo fatto di averla erogata senza averne avvertito la Commissione.
È
appena il caso di sottolineare, per quanto poco rilevi in questa sede, che
secondo la consolidata giurisprudenza comunitaria sarebbe perfettamente
possibile impugnare il prestito presso le giurisdizioni nazionali, con tutte le
conseguenze del caso[58],
ma su ciò più avanti, anche se, per quanto è dato sapere, allo stato degli atti
nulla del genere pare sia accaduto[59].
Il
punto, come noto, è peraltro delicatissimo, perché ormai sembra acquisito nella
prassi che non esime lo stato dalla sua responsabilità (se di responsabilità si
può parlare, v. infra) il fatto di
ritenere che quel comportamento non sia un aiuto[60],
e in questo senso è chiarissimo l’art. 260 citato sopra[61].
Appunto, come si diceva, spetta alla UE e solo ad essa di stabilire se un certo
comportamento dello stato sia o meno lecito, lo stato deve solo comunicare e se
non lo fa incorre, già solo per questo,
nelle conseguenze, che peraltro sono (almeno in gran parte e fino
all’introduzione dell’attuale art. 260) conseguenze per le imprese, non per lo
stato.[62] Nel caso, si osservi solo questo, se è
evidente ed esplicito che lo stato italiano è “convinto” della piena
legittimità del suo comportamento, sta in fatto che la sola apertura della
procedura di infrazione obbliga (con
le sanzioni conseguenziali) lo stato a non
concedere il beneficio o a ritirarlo
immediatamente, salvo a concederlo di nuovo qualora si accerti che non si
tratta di un aiuto illecito. Sarà interessante vedere se l’art. 260 non possa
venire in rilievo, a prescindere da tutto il resto, già solo per questa
ragione: l’avere l’Italia erogato il finanziamento pur in presenza di una
procedura di infrazione aperta.[63]
Vedremo
inoltre, come peraltro accennato, che le imprese che si sentano danneggiate
dalla erogazione (sempre che di un aiuto illecito si tratti) possono agire già subito nell’ordinamento interno e
anzi, a stretto rigore, potrebbero in qualche modo “anticipare” la conclusione
della procedura normale, (senza attendere quindi il completamento del
contraddittorio con la Commissione, la decisione della stessa e l’eventuale
sentenza della Corte di Giustizia), pur comprensiva della eventuale richiesta di interpretazione della
decisione dello stato di concedere l’aiuto, da fornire in via pregiudiziale dalla giurisdizione
comunitaria: ciò, mediante un normale giudizio dinanzi alla giurisdizione
nazionale, che infatti, potrebbe consentire al giudice interno di considerare
quel versamento illecito, sia pure a seguito del menzionato, pur sempre
eventuale però, ricorso pregiudiziale alla Corte di Giustizia comunitaria a
cui, sola, compete di accertare se di un aiuto illecito si tratti o meno[64].
La
procedura ordinaria, invero è lunga e complessa e la sua conclusione tutt’altro
che rapida, e quindi, come approfondisco più avanti, nel frattempo l’impresa
beneficiaria avrà ottenuto il finanziamento o il beneficio fiscale, e lo avrà
utilizzato, ricavandone un utile (benché minimo) o un ritardo nella crisi, avrà
goduto di un credito a tasso non particolarmente elevato (o addirittura
particolarmente vantaggioso) e infine la impresa stessa o il suo compratore
dovrà restituire una somma che verosimilmente sul mercato dei capitali non
avrebbe ottenuto o avrebbe ottenuto a tassi diversi e meno vantaggiosi, oppure
anche che non avrebbe pensato di spendere, e che, all’epoca, effettivamente non
ha speso.
3. La legislazione italiana e le decisioni comunitarie nel caso degli incentivi sul mercato
del lavoro.
È per
molti versi simile a quella precedente, ma ormai giunta a compimento (salvo una
minaccia di nuova procedura di infrazione per la asserita inerzia dell’Italia)
un’altra questione di aiuti di stato della quale è stata accusata l’Italia. La
somiglianza principale sta nel fatto che, anche in questo caso, l’Italia non ha
comunicato alla Commissione di aver deciso di somministrare certi aiuti,
consistenti, questa volta, in esenzioni fiscali e contributive ad aziende che
assumessero personale a tempo determinato.
Per la
precisione: l’Italia ha adottato una serie di atti legislativi in materia,
genericamente, di contratti di lavoro a tempo determinato (della più diversa
qualificazione tecnica), a partire dalla legge 863/1984 e poi 407/90, 169/91, 451/94 e infine 196/97. Per colmo di ironia non va
sottaciuto che gli aiuti di cui alla prima delle leggi citate (e non notificata
e perciò capace di determinare un illecito proprio per questo) sono
perfettamente legittimi, a giudizio della Commissione, proprio perché
generalizzati e dunque non suscettibili di creare discriminazioni tra le
imprese, che è, in ultima analisi, lo scopo principale delle norme in
discussione [65],
ma, come vedremo subito, anche molti degli altri.
Solo
con riferimento all’ultima di quelle leggi, invece, l’Italia ha svolto la
necessaria procedura di cui al menzionato art. 108 CE e di cui ai Regolamenti
in materia e cioè i due regolamenti base, del Consiglio: 994/98 e 659/99, e i
Regolamenti applicativi adottati successivamente dalla Commissione e per la
precisione: con riferimento al primo, i Regolamenti Commissione, 68/01
(modificato con il Reg. 363/04), 69/01, 70/01 (modificato con il Reg. 364/04) e
2204/02 e, con riferimento al secondo, il Reg. 794/04.
Detti
regolamenti, fanno anche ampi riferimenti, alla definizione di piccola e media
impresa, nella misura in cui talune agevolazioni sono possibili solo a favore
di quelle imprese, come definite nella Raccomandazione della Commissione
2003-361 (CE, anche rilevante SEE).
Va
inoltre rilevato in limime, che gran
parte di dette norme comunitarie, in quanto successive a taluna delle leggi in
questione ed in quanto parzialmente innovative o integrative rispetto alle
definizioni generiche del trattato, difficilmente possono valere a determinare
l’invalidità di quanto già deciso e concluso in mancanza di esse. O almeno, è
legittimo ipotizzare che le cose stiano così, in ragione della semplice logica
per cui non avrebbe senso di ricostituire e sanzionare una situazione
giuridica, che, ormai ha già prodotto compiutamente i suoi effetti: beninteso,
per la parte in cui ha ormai compiuto i suoi effetti.
Non vi
è qui spazio per approfondire anche questo aspetto, basti dunque solo rilevare,
per dirlo in altri termini, che si sarebbe facilmente potuto applicare
correttamente il trattato senza incorrere in particolari inconvenienti, se solo
si fosse tenuto conto dell’obbligo incombente di notifica alla Commissione
delle leggi via via adottate (alcune delle quali generano problemi, anch’essi
facilmente superabili, solo perché differenziano tra aziende in ragione della
loro collocazione geografica[66]).
Questo solo fatto, la mancata notifica, dunque, innesca sia il descritto
meccanismo di responsabilità dello stato verso la UE, che, a mio parere[67],
il possibile meccanismo di rivalsa sullo stato italiano delle aziende
eventualmente danneggiate.
3.1. Le notifiche e le risposte della Commissione
L’Italia,
dunque, aveva notificato alla Commissione solo la legge del 1997, tacendo sulle
altre, peraltro mai citate nemmeno nella notifica del 1997. In qualche modo,
visto quanto rilevato qui sopra, si ha netta l’impressione che l’Italia abbia
deliberatamente evitato di rendere note alla Commissione le nuove norme, in
particolare quelle della legge del 1990.
La
Commissione, dunque, nell’esaminare l’unica legge effettivamente notificata,
esamina (perché in certo senso “scopre”) anche le altre e, fatta eccezione per
la Legge del 1984[68],
le giudica, in maniera molto articolata, in
parte illegittime nella sostanza, ma, fatta eccezione per l’ultima delle
leggi menzionate, tutte illecite
nella forma a causa della mancata notifica[69].
La
citata lettera del 2000 della Commissione, spiega accuratamente i motivi per i
quali viene adottata una decisione, peraltro assai complessa, dato che, come
rilevato, non definendo illecite tutte
le esenzioni fiscali e contributive, deve indicare una serie di criteri precisi, che impongono,
ovviamente, allo stato di valutare, poi,
caso per caso quali finanziamenti siano leciti e quali no e quali somme, dunque, ripetere e quali no.
E ciò permette e richiede, implicitamente, anche alle aziende di condurre
insieme agli organi dello stato quella verifica, prima di pagare multe magari
non dovute, o più precisamente prima di rimborsare l’agevolazione ottenuta,
gravata degli interessi[70].
In realtà, data la complessità del problema e il contenuto della decisione
della Commissione e poi della Corte, l’unico modo per poter procedere
correttamente è appunto quello di un lavoro in comune tra imprese e stato, che,
invece, a quanto risulta, non c’è stato affatto. [71]
L’Italia,
come accennato, aveva presentato immediatamente dopo la decisione citata
ricorso alla Corte, per ottenerne l’annullamento, ricorso respinto con sentenza
C-310/99 del 7.3.2002.
A
conclusione, dunque, della intera procedura, l’Italia, che non pare abbia
nemmeno reso noto alle imprese l’esistenza della questione e quindi della
stessa procedura di infrazione[72],
avrebbe dovuto procedere a ripetere l’agevolazione erroneamente concessa a quelle imprese che effettivamente avessero
goduto di detto illecito vantaggio e nei limiti del vantaggio illecitamente
conseguito.
Ma
invece, alla sentenza l’Italia non dette seguito alcuno, ragione per la quale
(sempre, a quanto risulta, senza dire nulla a nessuno tranne alla
Confindustria, che infatti partecipò al secondo giudizio, anch’essa,
sembrerebbe, non certo generosa di notizie
verso i propri soci) fu nuovamente citata in giudizio dinanzi alla
Corte, che la condannò di nuovo con la sentenza C-99/02 del 1.4.2004.
Quest’ultima condanna, in particolare, deriva anche e proprio dal fatto che
l’Italia non solo non aveva fatto nulla per accertare se e quali illeciti aiuti
fossero stati versati e a chi ma, per di più, nulla avesse fatto per
recuperarli.
È
appena il caso di rilevare che una buona metà delle erogazioni (che poi, come
spiegato non sono vere e proprie erogazioni, ma benefici fiscali, il che, a mio
parere, aggrava la posizione del governo italiano verso le imprese, come
vedremo in conclusione di queste pagine) sono state concesse dopo quella data e quindi, se le imprese
fossero state avvertite (o almeno il governo stesso avesse preso le idonee
precauzioni) gran parte del danno per le imprese non vi sarebbe stato[73]. È ovvio, insomma che, se
tecnicamente dal punto di vista del diritto comunitario le imprese non possono
accampare il “legittimo affidamento”[74],
che è regolarmente escluso dalla giurisprudenza comunitaria per i motivi
esposti sopra, possono però (e, di nuovo, la giurisprudenza comunitaria sul
punto è costante) pretendere, attraverso la giurisdizione nazionale, che quel
riconoscimento vi sia nelle singole specifiche situazioni e pertanto vantare un
risarcimento del danno subito[75].
3.2. La decisione della Commissione.
La
decisione della Commissione è, del resto, assolutamente chiara ed inequivoca,
quando, dopo una premessa lunghissima ed estremamente puntuale, decide
analiticamente e con precisione elencando quali aiuti possono considerarsi
leciti e quali no: ovviamente, lo ripeto, in astratto, perché è allo stato e solo allo stato che compete
di accertare se e quali aiuti concessi sono illeciti, ma specialmente se e
quali sono leciti.[76]:
ciò perché, lo ripeto, non tutti gli aiuti sono illeciti, pur essendo tutti
adottati illegittimamente.[77]
In
altre parole, dunque, prima di richiedere la restituzione con gli interessi
delle somme non riscosse dallo stato, occorrerebbe valutare caso per caso,
quali aiuti sono leciti e quali no[78]
cosa che comunque tocca allo stato di
fare[79].
E
quindi, mi pare, le questioni diventano due: a.- la responsabilità dello stato
verso la UE per la mancata notifica di tutte
le esenzioni salvo l’ultima, ma inclusa anche essa nella misura in cui, in
pendenza della procedura di infrazione, gli aiuti siano stati somministrati, e
b.- la necessità di richiedere la restituzione con gli interessi solo dei finanziamenti illeciti e non
anche di quelli leciti (che a stretto rigore, sarebbero anch’essi da ripetere,
ma per motivi procedurali), essendo nelle more già intervenuta la decisione
definitiva della Commissione. [80]
Non
risultano reazioni conseguenti da parte dell’Italia.
E
infatti, di recente la Commissione[81] ha iniziato a predisporre una serie
di misure proprio atte ad ottenere il risultato, anche in base ad una procedura
elaborata ad hoc dalla Commissione,
proprio per far fronte ai ritardi nelle restituzioni[82].
Per
quanto attiene specificamente all’Italia, è appena il caso di ricordare che la
Commissione ha iniziato una nuova procedura contro il nostro Paese, stante la
mancata comunicazione (e documentazione) dell’effettivo recupero delle somme
illecitamente concesse (sia pure sotto forma di esenzioni fiscali) secondo le
sentenze citate. E dunque la questione è lungi dall’essere esaurita.
Ma,
non si può non aggiungere che, applicando la citata giurisprudenza TAR[83],
ci si potrebbe addirittura attendere un vero e proprio rifiuto da parte delle
amministrazioni interessate di avanzare le richieste di restituzione (specie in
forma non specifica) per violazione plateale del diritto comunitario.
Diversamente, si potrebbe anche parlare di responsabilità (e conseguenti danni)
personale degli stessi amministratori pubblici a cui compete di non emettere o di non applicare l’atto
amministrativo di richiesta di restituzione in quanto in contrasto con la
normativa comunitaria vigente.
4. Differenze e analogie tra i casi
descritti.
Per
concludere queste brevi note, alcune rapide osservazioni.
I due
casi discussi qui sopra, sono, come si è visto, formalmente e normativamente
perfettamente identici: gli articoli 107 e 108 (versione Lisbona), infatti,
regolano le fattispecie in questione in maniera identica[84]: sia per le esenzioni fiscali o
contributive che per le sovvenzioni. Il quale ultimo fatto, a mio parere,
potrebbe innescare, tra l’altro, un serio problema di costituzionalità, su cui
più avanti.
Riassumo
sinteticamente ora[85],
e solo per porre dei punti fermi al fine di trarre le conclusioni di questo
discorso, il contenuto delle disposizioni, del resto ben note, in materia di
aiuti di stato: posto che una sovvenzione o un beneficio fiscale o altro[86]
avvantaggi talune imprese di uno stato o in uno stato rispetto ad altre, la
Commissione, informata dell’intenzione dello stato di procedere in quel modo
(o, in mancanza di comunicazione, di propria iniziativa) inizia una procedura
in contraddittorio con lo stato per accertare la natura dell’intervento e, se
del caso, contesta alla stato[87]
la sua intenzione di procedere contro di lui per infrazione e ordina la
sospensione cautelativa dell’aiuto e, addirittura, la restituzione delle quote
eventualmente già versate o concesse[88].
Lo stato dunque non può procedere, ma è in grado di motivare la sua scelta e
quindi ottenere il consenso della Commissione, mentre, qualora la Commissione
ritenga che invece di un aiuto illecito si tratta invita lo stato a sospendere
l’intervento, pur se il solo fatto che lo stato non abbia fornito risposte
adeguate non basta a definire illecito l’aiuto[89],
ma solo a ottenerne comunque la sospensione. Se, a procedura conclusa con la
dichiarazione che di aiuto illecito si tratta, lo stato non si adegua, la
Commissione adisce la Corte che, con sentenza, definisce la questione e, se
valuta che l’aiuto esiste, ordina allo stato di recuperarne dalle imprese
beneficiarie l’entità comprensiva degli interessi.[90]
L’intenzione evidente e dichiarata, è di ricostituire per questa via la
situazione qua ante, ma è altrettanto
evidente che tale non è comunque il risultato, dato che le imprese subiscono
comunque delle conseguenze di volta in volta positive o negative e differenti,
il che falsa, a mio giudizio, profondamente il risultato delle iniziative in
questione.
Alle
imprese, comunque, non è consentito in alcun modo[91] di far valere, per non essere
costrette al rimborso dell’aiuto, la propria buona fede (di non sapere cioè che
quella provvidenza costituiva un aiuto) né il proprio legittimo affidamento
qualora lo stato abbia agito, magari, senza dire alle imprese che si correva il
rischio di violare il trattato o addirittura quando lo stato affermi esplicitamente
che quel provvedimento non corrisponde ad un aiuto[92].
Ripetutamente, infatti, la Corte rileva che è impensabile che un’impresa non si
accorga della natura illecita della provvidenza, almeno nella misura in cui
l’impresa sia di dimensioni sufficientemente rilevanti e, specialmente, tenuto
conto del fatto che la procedura è tutta pubblica[93].
Ma, inoltre, il fatto che lo stato sia e si dichiari convinto di essere nel
lecito, non esenta in alcun modo lo stato stesso (sia pure solo relativamente
di recente[94])
dalla responsabilità verso la UE, l’impresa dall’obbligo di restituzione e
l’aiuto dall’essere annullato[95].
Per le
imprese il problema è, però, duplice. Da un lato, infatti, è difficile
immaginare che un’impresa rinunci ad un beneficio solo perché in dubbio sulla
sua legittimità, in presenza specialmente del fatto che altre imprese
concorrenti potrebbero intanto avvantaggiarsene. La cosa in sé non ha altro
rimedio[96]
che quello di un ricorso alla giurisdizione nazionale, sia per ottenere
l’annullamento o la sospensione dell’aiuto fornito alle imprese concorrenti,
sia per ottenere che lo stato receda dalla sua intenzione, previa magari una
sentenza pregiudiziale della Corte di Giustizia. Benché sia difficile supporre
tanto autolesionismo in un’impresa, questa sarebbe la via maestra.
D’altro
canto non si può negare che l’impresa può effettivamente cadere in errore o
essere messa in condizione di non poter rinunciare all’aiuto non solo per
motivi di concorrenza, ma magari anche a titolo cautelativo, come nel caso
Brandt, e cioè per non perdere quel beneficio nel momento in cui se ne
riconoscesse la legittimità[97].
Le
imprese, del resto, ben possono sul piano del diritto comunitario, fin da
subito partecipare alla procedura di infrazione, ma specialmente possono agire
sin da subito sul piano del diritto interno, sia per impedire ad altre imprese
di godere del beneficio illecito, sia per impedire che lo stato lo conceda, sia
infine, sia pure in casi eccezionali, per ottenere di essere esentati dalla
restituzione quando siano in grado di dimostrare le circostanze eccezionali: in
altre parole l’effettiva buona fede[98]. Alla stessa giurisdizione
nazionale, compete anche, se necessario e come accennato in precedenza, di
accertare se effettivamente l’aiuto era illegittimo[99],
nelle more dell’accertamento comunitario, sia pure se necessario in base ad una
sentenza pregiudiziale della Corte[100],
ma specialmente, come detto, di trarne tutte le conseguenze sul piano del
diritto interno[101].
Per non parlare della già riferita possibilità di non applicazione in via
amministrativa.
Come
accennato sopra, dunque, il riparto di competenze appare netto e chiaro: da una
parte è alla Comunità che spetta (magari in via pregiudiziale, in quanto adita
dalla giurisdizione nazionale) di valutare se un determinato beneficio sia o
meno un aiuto e trarne le dovute conseguenze. Dall’altro, alle giurisdizioni
nazionali, spetta di valutare le conseguenze interne dell’aiuto illecito e la
eventuale buona fede dell’azienda interessata, posto che la valutazione se di
aiuto si tratti può solo essere fatta alla luce del diritto comunitario.
In
altre parole un giudice interno ben potrebbe trovarsi nella condizione di
ordinare allo stato sia di sospendere o non praticare l’aiuto, sia di ottenerne
la restituzione con gli interessi, sia pure in via cautelativa, in attesa che
si chiarisca se di aiuto si tratti o meno. Ma poi, al giudice nazionale spetta
di garantire tutti i diritti degli
individui, che, qualora effettivamente in buona fede (e spetta solo alla giurisdizione
nazionale di accertarlo) potrebbero
legittimamente richiedere anche il risarcimento del danno, pur se in nessun
caso il rimborso di quanto versato allo stato, anche perché in tal caso si
cadrebbe nell’ipotesi di un rinnovo, ovviamente illecito, di un aiuto illecito[102].
E,
infine, di nuovo alle amministrazioni nazionali spetta di comportarsi in
maniera conseguenziale, salva la specifica responsabilità della amministrazione
e degli amministratori stessi: in altre parole, la volontà dello stato di concedere
un nuovo illecito aiuto, potrebbe direttamente dalla amministrazione nazionale
essere messo in non cale. Nel senso che è lecito domandarsi se
all’amministrazione non spetti anche di rifiutare l’emissione degli atti
amministrativi necessari alla concessione dell’aiuto, quando constati, non
tanto la sua illegittimità (che è compito della UE), quanto la mancata notifica
dello stesso o l’esistenza di una procedura di accertamento o di infrazione in
atto. Sarebbe questa una, se pure estrema, perfettamente logica conseguenza
dell’integrazione tra i sistemi comunitario e statale.
In
grandissima sintesi, dunque, questa è la situazione per tutte le operazioni che
integrino o possano integrare un aiuto. Salvo che, come accennato, allo stato
inadempiente (dolosamente o meno) potrebbe validamente essere comminata dall’UE
anche una sanzione diretta, qualora lo stato non ottemperi al diritto
comunitario e cioè non ottemperi alla sentenza della Corte (o anche, direi,
solo all’accertamento della illegittimità dell’aiuto ad opera della
Commissione) ripetendo l’illecito aiuto versato o concesso alle imprese.
5. Le differenti conseguenze per le
imprese delle varie forme di aiuti illeciti.
Fin
qui, dunque, la normativa e la prassi consolidate. Ma, a ben guardare, le
situazioni non sono tutte così chiare e limpide. Sia dunque consentita una
brevissima considerazione conclusiva, priva della pretesa di risolvere il
problema, che peraltro meriterebbe una approfondita considerazione sia
scientifica che tecnica, ma forse richiederebbe addirittura un intervento di
carattere normativo a livello comunitario.
Nel
secondo dei casi ipotizzati sopra, un’impresa, come abbiamo visto, si avvale
della possibilità di ottenere esenzioni fiscali o contributive in caso di
assunzione di personale. La natura di aiuto, nelle condizioni poste dal
trattato è evidente, ma l’impresa in realtà, in buona o mala fede che sia, si
trova a godere di uno “sconto” di carattere fiscale o contributivo (un minore
costo aziendale, insomma) nell’assunzione di personale, che peraltro, proprio per quello, magari, assume[103].
Se l’agevolazione viene dichiarata illecita, all’impresa viene richiesta la
“restituzione” della somma con gli interessi. Il fatto è, questo è il punto che
mi preme di mettere in evidenza, che l’impresa non solo non ha ricevuto somma
alcuna, ma ha magari assunto del personale che, in condizioni normali, avrebbe
potuto non assumere. Pertanto la “restituzione” si sostanzia in una perdita
secca per l’azienda, che in effetti deve “pagare” (retroattivamente) dei
contributi che pensava di potere evitare, deve aggiungervi gli interessi (come
se avesse violato una disposizione fiscale o contributiva) oltre a subire il
“peso” del personale assunto. In termini di bilancio aziendale (anche qui mi si
perdoni la sommarietà tecnica) la somma in questione va iscritta in bilancio
come un perdita sopravvenuta (e forse anche imprevista) e solo al termine della
vicenda, quando cioè ormai non vi è più nulla da fare. Da un punto di vista
imprenditoriale non mi pare una bella cosa, ma in termini giuridici quanto meno
la certezza del diritto è ben lungi dall’essere garantita, buona fede a parte.
Nella
prima delle ipotesi che ho discusso sopra, invece, la situazione, mi pare, è
ben diversa. Un’azienda, infatti, ottiene una sovvenzione, un prestito, insomma
un versamento, che impiega normalmente nella sua attività: nel caso
dell’Alitalia, addirittura in conto capitale. È ovvio che, in presenza di una
situazione del genere, l’azienda, limitatamente a quella somma almeno, può, ad esempio,
fare a meno del ricorso al finanziamento normale sul mercato, ecc.: ha insomma
ricevuto un beneficio, magari anche a fondo perduto. Posto pure che quel
versamento sia illecito, l’impresa avrà tutto il tempo (vista la durata non
proprio fulminea del procedimento) di investire quella somma, di farla
fruttare, e quant’altro. E dunque alla fine, pur dovendola restituire con gli
interessi (che comunque non sono quelli di mercato) avrà realizzato un guadagno
netto.
Una
situazione dunque come si vede ben diversa per le imprese nelle due ipotesi! La
disparità di trattamento o almeno di conseguenze appare evidente e dunque è
lecito domandarsi se e cosa si possa fare per ovviare al non marginale
inconveniente, che, tra l’altro, riflettendosi sulla parità di trattamento e di
condizioni, incide sulla stessa concorrenza; violando così uno dei punti
cardinali del sistema comunitario.
E
dunque, ci si troverebbe in una delle ipotesi non esaminate dalla Corte
costituzionale, ma da me accennate più sopra, poiché in questa sede è almeno
lecito, per non dire doveroso, domandarsi come non possa la Corte stessa essere
prima o poi investita della necessità di risolvere quello che è un evidente
caso di discriminazione e di violazione del principio di eguaglianza, sia pure
tra imprese. Violazione derivante dalla semplice applicazione di una norma
comunitaria (già di per sé in contrasto con il principio di uguaglianza)[104]
e, in particolare dal modo in cui quella norma è stata realizzata e applicata,
senza distinguere tra le due descritte situazioni. È proprio, se non vado
errato la situazione analizzata nelle pagine che precedono: la disparità di
trattamento tra le aziende (di dubbia costituzionalità, come probabile) deriverebbe proprio e solo dalla
applicazione di una sentenza della Corte di Giustizia (o di una decisione
della Commissione non impugnata) che a sua volta applichi un atto comunitario e
la norma che lo consente, o che
interpreti, in via pregiudiziale, la norma stessa su richiesta del giudice
interno.
Al di
là del fatto che, in ultima analisi allo stesso stato erogatore (e magari
dolosamente erogatore) delle somme in questione può ormai essere chiesto conto
del suo comportamento, resta il fatto che l’azienda subisce un danno diverso
nelle due ipotesi (molto maggiore nella prima, ovviamente), ma pur sempre un
danno e non proprio di minima entità.
È
perciò lecito domandarsi, come già accennato sopra, se all’impresa interessata
alla restituzione, non sia consentito di agire contro lo stato per il suo
comportamento lesivo del suo interesse, dato che, posto pure che l’impresa
potesse ben sapere che si trattava di un (probabile, ma solo probabile) aiuto
illecito, l’impresa stessa, per i motivi su esposti, è stata messa dallo stato
nella condizione di subire un danno ingiusto.
Lo
stato, per parte sua, ha le “mani legate”, dato che, di nuovo per
giurisprudenza costante, non può in nessun caso
provvedere ad una restituzione surrettizia, magari attraverso un nuovo
aiuto a compensazione del primo. Ma certo, buona fede a parte, il danno
all’impresa c’è e potrebbe essere molto grave: meno nell’ipotesi della
sovvenzione, maggiore nell’altra. Ma il danno sarebbe difficilmente negabile e
qualcuno dovrà pur risarcirlo.
In
termini comunitari, infine, ci sarebbe da chiedersi se, almeno nella
valutazione dell’entità della multa da applicare allo stato inadempiente (che,
come si è visto, è nella piena discrezionalità della Commissione e della Corte
di Giustizia), non si debba prendere in considerazione, oltre alla
descritta disparità delle situazioni
concrete, anche il “dolo” dello stato
che abbia determinato una situazione simile[105].
Appare evidente infatti, come, il semplice fatto in sé di attribuire degli
aiuti senza ottemperare alla procedura, o addirittura millantando la loro
legittimità, possa costituire, al di là della violazione del principio del
legittimo affidamento, un modo, magari deliberato, per sfavorire determinate
imprese, pur nell’apparente rispetto assoluto del diritto comunitario, ma, ecco
il punto, in plateale violazione dell’obbligo di leale collaborazione tra stati
e UE e tra stati. In altre parole occorrerebbe porre mente al fatto che in
qualche caso la scelta deliberata dello stato, potrebbe essere appunto intesa a
favorire o sfavorire determinate imprese, in una situazione in cui il fatto
compiuto farebbe largamente premio sul diritto, pur formalmente soddisfatto. Il
rischio, a ben vedere, è che se non ci si pone anche questo problema (e alla
luce della normativa vigente e in
particolare al meccanismo di cui all’art. 260 di cui ho accennato sopra) il
risultato finale di un processo, nato per favorire la concorrenza, potrebbe
essere del tutto insufficiente a farlo o addirittura realizzare esattamente
l’effetto opposto.
Altrimenti,
l’unico rimedio, apparentemente e oltre a quello della eventuale richiesta di
risarcimento del danno, sarebbe l’attivazione da parte di uno altro stato membro della procedura dell’art. 227
(259 versione Lisbona), alquanto farraginosa, ma che, specialmente, sposterebbe
il problema al livello di una controversia tra stati, con tutte le conseguenze
politiche che ne potrebbero derivare.
Certo,
si potrebbe ipotizzare addirittura un’azione di responsabilità o in protezione
diplomatica da parte di uno stato verso quello che ha deliberato gli aiuti
illeciti, ma qui siamo nel campo delle pure ipotesi. Sta in fatto, però, che la
UE non può andare oltre le due procedure evocate, in sé alquanto deboli, a meno
che la Commissione non continui nel suo sviluppo delle prerogative comunitarie,
immaginando, ad esempio, multe più significative e differenziate per le varie
circostanze.
*
Ordinario di diritto internazionale nell’Università di Napoli Federico II.
L’Autore non può esimersi dal cogliere l’occasione, e da darsi il piacere, di
ringraziare, per la lettura critica e attenta e per l’acribia e i suggerimenti,
il Collega e Amico Prof. Giulio Gomez D’Ayala. 31.08.2008. Questo lavoro è
destinato agli scritti in onore del Prof. Franco Di Sabato.
[1] Per accedere al quale gli stati membri assumono un
obbligo non solo di generica cooperazione, a leggere bene l’art. 4.3 del
trattato UE (versione Lisbona, testo consolidato non ufficiale a cura del
Consiglio, Doc. n. 6655/1/08 Rev. 1, in GU C n. 115 del 9.5.2008, cui di
seguito faccio sempre riferimento): «3. In virtù del principio di leale
cooperazione, l'Unione e gli Stati membri si rispettano e si assistono
reciprocamente nell'adempimento dei compiti derivanti dai trattati. Gli Stati
membri adottano ogni misura di carattere generale o particolare atta ad
assicurare l'esecuzione degli obblighi derivanti dai trattati o conseguenti
agli atti delle istituzioni dell'Unione. Gli Stati membri facilitano all'Unione
l'adempimento dei suoi compiti e si astengono da qualsiasi misura che rischi di
mettere in pericolo la realizzazione degli obiettivi dell'Unione.»
[2] Né va trascurata, detto per incidens la grande rilevanza di quella norma importantissima e
spesso sottovalutata oggi contenuta nell’art 6 del trattato di Lisbona: «1. L'Unione
riconosce i diritti, le libertà e i principi sanciti nella Carta dei diritti
fondamentali dell'Unione europea del 7 dicembre 2000, adottata [«adattata»,
nella versione a stampa di cui sopra] il 12 dicembre 2007 a Strasburgo, che ha
lo stesso valore giuridico dei trattati. Le disposizioni della Carta non
estendono in alcun modo le competenze dell'Unione definite nei trattati. I
diritti, le libertà e i principi della Carta sono interpretati in conformità
delle disposizioni generali del titolo VII della Carta che disciplinano la sua
interpretazione e applicazione e tenendo in debito conto le spiegazioni cui si
fa riferimento nella Carta, che indicano le fonti di tali disposizioni. 2.
L'Unione aderisce alla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti
dell'uomo e delle libertà fondamentali. Tale adesione non modifica le
competenze dell'Unione definite nei trattati. 3. I diritti fondamentali, garantiti dalla Convenzione europea per la
salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali e risultanti
dalle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri, fanno parte del
diritto dell'Unione in quanto principi generali» (corsivo mio). Più chiara, come sempre, la versione in francese e
inglese del n. 3 della disposizione, che riporto di seguito: «3. Les droits
fondamentaux, tels qu'ils sont
garantis par la Convention européenne de sauvegarde des droits de l'Homme et
des libertés fondamentales et tels qu'ils
résultent des traditions constitutionnelles communes aux États membres,
font partie du droit de l'Union en tant que principes généraux.», «3. Fundamental
rights, as guaranteed by the European
Convention for the Protection of Human Rights and Fundamental Freedoms and as they result from the
constitutional traditions common to the Member States, shall constitute general
principles of the Union's law».
La
norma, mi sembra, è una notevole e alta espressione del livello di integrazione
del sistema, al punto di ipotizzare una sorta di diritto (pubblico) europeo, in
massima parte di formazione consuetudinaria. Questa norma, specialmente se
letta insieme alle disposizioni in materia di sussidiarietà, dà la misura del
livello di compenetrazione dei sistemi ormai irreversibile, a meno di atti
assolutamente traumatici.
[3] Analogamente cfr. di recente Torchia, I vincoli
derivanti dall’ordinamento comunitario nel nuovo Titolo V della Costituzione,
in Le Regioni, 2001, pag. 1207.
[4] In termini simili, ma con accenti e contenuti molto
differenti, v. molto di recente Panebianco,
Diritto internazionale pubblico,
Napoli (Editoriale Scientifica) 2008.
[5] Uso il termine in senso largamente figurato, per
alludere al fatto che la gran parte
delle norme (quelle derivate ovviamente) di diritto comunitario, nascono per il
funzionamento di processi organici, non sempre, come vedremo nel caso che ci
occupa, normativamente definiti. Del resto, la formazione per via di prassi
(consuetudinaria o meno) è una tipica caratteristica dell’ordinamento
internazionale.
[6] Come, a mio parere, è del tutto logico che sia una volta
che ci si renda conto che di fronte ad un processo di integrazione ci troviamo.
Che poi ciò faccia emergere i limiti di rappresentatività democratica della UE,
può solo indurre ad accelerare il processo del trasferimento di detta
rappresentatività dai Parlamenti nazionali a quello europeo.
[7] A parte la farraginosa e poco significativa norma di cui
al Protocollo sulla sussidiarietà, la norma chiave è quella dell’art. 12, che
definisce una posizione abbastanza “marginale” dei Parlamenti nazionali: « I
parlamenti nazionali contribuiscono attivamente al buon funzionamento
dell'Unione: a) venendo informati
dalle istituzioni dell'Unione e ricevendo i progetti di atti legislativi
dell'Unione in conformità del protocollo sul ruolo dei parlamenti nazionali
nell'Unione europea; b) vigilando sul
rispetto del principio di sussidiarietà
secondo le procedure previste dal protocollo sull'applicazione dei principi di
sussidiarietà e di proporzionalità; c) partecipando, nell'ambito dello spazio
di libertà, sicurezza e giustizia, ai meccanismi
di valutazione ai fini dell'attuazione delle politiche dell'Unione in tale
settore, in conformità dell'articolo 70 del trattato sul funzionamento
dell'Unione europea, ed essendo associati
al controllo politico di Europol e alla valutazione delle attività di
Eurojust, in conformità degli articoli 88 e 85 di detto trattato; d) partecipando alle procedure di revisione
dei trattati in conformità dell'articolo 48 del presente trattato [l’unico
caso, se non erro, in cui i Parlamenti nazionali hanno un potere di
interdizione, ma solo di interdizione]; e) venendo
informati delle domande di adesione all'Unione in conformità dell'articolo
49 del presente trattato; f) partecipando
alla cooperazione interparlamentare tra parlamenti nazionali e con il Parlamento
europeo in conformità del protocollo sul ruolo dei parlamenti nazionali
nell'Unione europea» (corsivi miei).
[8] Qui, il termine è utilizzato in senso strettamente
tecnico internazionalistico, per alludere al fatto che quello della
originarietà (e quindi indipendenza) è una delle caratteristiche tipiche (o, se
si vuole, dei requisiti fondamentali) per la esistenza di un soggetto di
diritto internazionale. Quel soggetto che sempre più chiaramente appare essere
la UE. Sul punto, sia pure in generale, v. il mio Personalità giuridica di Diritto internazionale: il caso della
Organizzazione per la liberazione della Palestina, in Studi di diritto internazionale in onore di Gaetano Arangio-Ruiz,
Napoli (Editoriale Scientifica) 2004, I, pag. 85 ss.
[9] Sempre più con le caratteristiche di un soggetto di
diritto internazionale. Per dirla con il Kelsen,
Reine Rechtslehre, Wien (Deuticke)
1960, pag. 332° che a proposito della sovranità (e quindi della esistenza di
uno stato) afferma come ben noto che la sovranità non è un dato oggettivo (e,
aggiungerei, nemmeno normativo): «…sondern eine Voraussetzung: die
Voraussetzung einer normativen Ordnung als einer höchsten, in ihrer Geltung von
keiner höheren Ordnung ableitbaren Ordnung…» e quindi la sovranità deriva dalla
originarietà della costituzione (come diremmo oggi) che viene considerata
l’elemento più “alto“, oppure anche, per dirla con Anzilotti, Corso ... .,
pag. 53: « Consegue da tutto ciò che la norma base da cui emana ogni ordinamento
giuridico interno ha in se stessa originaria e non derivata, la vis obligandi. Emanando da norme
fondamentali autonome, diritto internazionale e diritto interno sono pertanto
ordinamenti separati.»
[10]
Come esplicitamente disposto all’art. 2 A g del trattato di Lisbona, in GU C n.
306 del 6.7.2007 pag. 42.
[11] Art. 3 UE (Lisbona): «3. L'Unione instaura un mercato
interno. Si adopera per lo sviluppo sostenibile dell'Europa, basato su una
crescita economica equilibrata e sulla stabilità dei prezzi, su un'economia
sociale di mercato fortemente
competitiva, che mira alla piena occupazione e al progresso sociale, e su un
elevato livello di tutela e di miglioramento della qualità dell'ambiente. Essa
promuove il progresso scientifico e tecnologico.»
[12] Cfr. il mio Lo
strumento europeo di lotta alla discriminazione razziale e la sua applicazione
in Italia alla luce del diritto internazionale generale e convenzionale, in
Rivista della cooperazione giuridica internazionale,
2006 (da un convegno presso l’Università di Napoli Federico II del 2004) pag.
54 ss. e Autodeterminazione dei popoli e
successione di norme contrattuali: alla radice di un conflitto, ibidem, 2005, pag. 7 ss. ed infine anche
più ampiamente Terrorismo conflitti
interni e internazionali: la legge applicabile, in La Giustizia Penale, 2006, pag. 257 ss. Cfr. anche l’approfondito e
bel contributo di Salerno, Il neo dualismo della Corte Costituzionale
nei rapporti tra diritto internazionale e diritto interno, in Rivista
di Diritto internazionale, 2006, pag. 340 ss.
[13] Fino al punto di poter affermare, che il tradizionale
dualismo del nostro ordine giuridico è superato o tende ad esserlo, a vantaggio
di una (più corretta, a mio parere) visione monista dei rapporti tra
ordinamenti interni e ordinamento internazionale.
[14] O meglio, di non applicare, v. Modugno, Appunti dalle
lezioni sulle Fonti del Diritto, Torino (Giappichelli) 2005, passim, che, in effetti, coglie perfettamente
il punto, poiché il giudice è chiamato ormai a scegliere quale norma applicare,
tenuto conto che entrambe le norme sono in astratto perfettamente applicabili,
quando siano competenti a risolvere la questione specifica. Il giudice, del
resto, non ha il potere di disapplicare una norma valida, ma solo di scegliere
tra norme egualmente valide quella competente. È la stessa logica, insomma, che
presiede ai rapporti tra legislazione nazionale e regionale dove la logica
della competenza è chiaramente prevalente su quella della gerarchia, come
giustamente già elaborato dal Crisafulli,
infra nt. 39.
[15] V. recentissima la sentenza del TAR Sardegna (Cagliari)
sez. I, 27 marzo 2007 , n. 549 che
recita: « Pur condividendo le riferite acquisizioni giurisprudenziali in ordine
alla problematica della non applicazione, quando essa riguardi il provvedimento
oggetto di gravame, il Collegio ritiene che la questione debba porsi in termini differenti nel caso in cui il ricorrente non
contesti l'atto emanato in violazione del diritto comunitario, ma, al
contrario, fondi su di esso le propri ragioni, affermando che il
provvedimento impugnato è illegittimo perché contrastante con l'atto
anticomunitario. Nella descritta ipotesi, la regola sull'onere di impugnazione,
con tutti i suoi portati, non viene in rilievo, poiché anzi il privato chiede l'applicazione dell'atto
viziato sotto il profilo comunitario, cosicché non possono frapporsi
ostacoli a che il giudice giudichi la controversia alla luce degli effettivi
parametri di legalità sostanziale, nel pieno rispetto del principio di
preminenza del diritto comunitario. Del resto, in termini più generali, l'esigenza che la valutazione dell'azione
amministrativa sia condotta sulla base di canoni di legittimità sostanziale e
non meramente formale, deve ritenersi immanente nell'ordinamento e trova,
ormai, sicuri riscontri normativi nella nuova disciplina del procedimento
amministrativo introdotta con la L. 7/8/1990 n°241, come modificata dalla L.
11/2/2005 n°15 e dal D.L. 14/3/2005, conv. in L. 14/5/2005 n°80. Tale esigenza
mal si concilia con un'interpretazione dell'istituto della disapplicazione che
porti ad estendere il divieto di disapplicare oltre i limiti segnati dalla sua
stessa ragion d'essere ... Deve, pertanto, ritenersi che nell'ipotesi
descritta, l'atto (anche negoziale)
su cui il ricorrente fonda le proprie pretese, possa esplicare i propri effetti solo laddove sia conforme al diritto
comunitario, non potendo, in caso contrario, costituire fonte di legittime
aspettative del privato. In quest'ultima ipotesi sarà doveroso per il
giudice disapplicarlo o comunque giudicare la controversia senza tenerne conto.
Alle considerazioni svolte occorre aggiungere che la tesi prospettata dalla
ricorrente condurrebbe all'assurda
conseguenza di annullare un atto conforme al diritto comunitario (oltre che
a quello interno) ... » (corsivi miei).
[16] V. in particolare lo scritto di Chiti, La peculiarità
dell’invalidità amministrativa per anticomunitarietà, in Rivista Italiana di Diritto Pubblico
Comunitario, 2008, pag. 477 ss. e Cerulli
Irelli, Trasformazioni del sistema di tutela
giurisdizionale nelle controversie di diritto pubblico per effetto della
giurisprudenza europea, ibidem,
pag. 433 ss.
[17] Corte Costituzionale, sentenza 8 giugno
1984, n. 170.
[18] Mi sia consentito di usare in maniera definitiva questa,
mi pare, più corretta espressione in luogo di disapplicabilità.
[19] Cfr. Ordinanza CC
n. 103/08, 15.4.2008, dove si afferma, tra l’altro: «che sussiste, pertanto, un dubbio
circa la corretta interpretazione – tra quelle possibili – delle evocate
disposizioni comunitarie, tale da rendere necessario procedere al rinvio pregiudiziale
alla Corte di Giustizia, ai sensi dell’art. 234 del Trattato CE» per accertare
« ... b) se la norma censurata,
nel prevedere che l’imposta regionale sullo scalo turistico degli aeromobili
grava sulle sole imprese che hanno domicilio
fiscale fuori dal territorio della Regione Sardegna esercenti aeromobili
da esse stesse utilizzati per il trasporto di persone nello svolgimento di attività di aviazione generale d’affari,
configuri – ai sensi dell’art. 87 del Trattato – un aiuto di Stato alle imprese
che svolgono la stessa attività con domicilio fiscale nel territorio della
Regione Sardegna ... che, quanto alla sussistenza delle condizioni
perché questa Corte sollevi davanti alla Corte di giustizia CE questione
pregiudiziale sull’interpretazione del diritto comunitario, va osservato che la
Corte costituzionale, pur nella sua
peculiare posizione di supremo organo di garanzia costituzionale
nell’ordinamento interno, costituisce
una giurisdizione nazionale ai sensi dell’art. 234, terzo paragrafo, del Trattato
CE e, in particolare, una giurisdizione di unica istanza (in quanto contro
le sue decisioni – per il disposto dell’ art. 137, terzo comma, Cost. – non è
ammessa alcuna impugnazione): essa, pertanto, nei giudizi di legittimità
costituzionale promossi in via principale è legittimata a proporre questione
pregiudiziale davanti alla Corte di giustizia CE ... » (corsivo mio).
[20] Sulla Ordinanza, v. già Pesole,
La Corte Costituzionale ricorre per la
prima volta al rinvio pregiudiziale. Spunti di riflessione sull’Ordinanza n.
103 del 2008, in www.federalismi.it, Spigno, La Corte Costituzionale e la vexata
quaestio del rinvio pregiudiziale alla
Corte di Giustizia, in www.osservatoriosullefonti.it.
[21] E di nuovo, a mio parere, non è un caso che il primo co.
del menzionato art. 117 Cost. faccia riferimento ai “vincoli” derivanti
dall’”ordinamento” comunitario, così distinguendolo dai più generici “obblighi”
internazionali. Sul punto in generale e con riferimento all’unicità degli
ordinamenti giuridici, v. il mio Per una
ricostruzione, in termini di sistema, dei diritti dell’uomo, in Studi in Onore di U. Leanza, Napoli
(Editoriale Scientifica) 2008, in corso di stampa.
[22] Ribadendo così una sorta di visione (a mio parere in via
di decisa affermazione) monista dei rapporti tra diritto internazionale (e
diritto comunitario in specie) e diritto interno.
[23] Il trattato, come noto, usa una perifrasi il cui senso è
però quello di cui nel testo. Cfr. art. 267 terzo co. (già 234 ultimo co.), che
appunto recita. «Quando una questione del genere è sollevata in un giudizio pendente davanti
a un organo giurisdizionale nazionale, avverso le cui decisioni non possa
proporsi un ricorso giurisdizionale di diritto interno, tale organo
giurisdizionale è tenuto a rivolgersi alla Corte».
[24] Con accenti solo parzialmente differenti cfr. Pesole, loc. cit., pag. 9 s..
[25] Ma con un compito enormemente più complesso e delicato,
come vedremo tra poche righe.
[26] Su cui v. anche Pesole,
loc. cit, pag. 4 ss.
[27] Ovviamente conto tenuto del fatto che comunque il
giudice interno è tenuto a fornire della norma l’interpretazione più consona
alla Costituzione, come ad es. in Corte
costituzionale 190/2000, su cui v. anche Salerno,
op. cit., pag. 364. Cfr. infra § 5, per la
discussione di un’ipotesi concreta del genere.
[28]
Versione Lisbona, supra nt.2. per una discussione della norma, ma senza il
riferimento di cui nel testo, cfr. ampiamente Tesauro,
Diritto Comunitario Padova (cedam) 2008, pag. 128 ss., e, più
specificamente, Villani, Istituzioni di diritto dell’Unione Europea,
Bari (Cacucci) 2008, pag. 44 s.
[29]
Del resto non si vede che altro significato potrebbe mai avere quella norma, se
non quello di costruire un sistema di norme fondamentali dell’intera Europa,
tale da non ledere, ma anzi da integrare, le norme costituzionali fondamentali
degli stati membri. Questi principi, in parte, sono contenuti nella Carta di
Nizza sui diritti fondamentali, ma in gran parte vanno costruiti nella prassi:
e quello descritto nel testo e di cui anche più avanti §§ 4 e 5, ne può essere, a mio parere, un valido esempio.
[30]
Affermazione, mi pare, in parte ricavabile dalla recente sentenza della CGCE
nel caso Omega, C-36/02, dove si
afferma: ««33. Dans ce contexte, il convient de
rappeler que, selon une jurisprudence constante, les droits fondamentaux font partie intégrante des principes
généraux du droit dont la Cour assure le respect et que, à cet effet, cette dernière s'inspire des traditions
constitutionnelles communes aux États membres…».
[31]
Sorvolo ovviamente sui noti e ribaditi principi affermati dalla Corte in tema di
presunzione di conformità tra diritto interno
e diritto internazionale e di preferenza dell’interpretazione conforme a
Costituzione.
[32] Per un accenno recente in merito cfr. Skouris, L’influence du droit National
et de la jurisprudence des juridictions des États membres sur l’interprétation
du droit communautaire, in Il Diritto dell’Unione Europea, 2008, pag. 239 ss. Cfr.
CGCE, sentenza C-36/02 (Omega), cit. dove si afferma tra l’altro in termini più generali rispetto a quanto riportato supra
nt. 30: «34. … l’ordre juridique communautaire tend
indéniablement à assurer le respect de la dignité humaine en tant que principe
général du droit. Il ne fait donc pas de doute que l’objectif de protéger la
dignité humaine est compatible avec le droit communautaire, sans qu'il importe
à cet égard que, en Allemagne, le principe du respect de la dignité humaine
bénéficie d’un statut particulier en tant que droit fondamental autonome. 35.
Le respect des droits fondamentaux s'imposant tant à la Communauté qu'à ses
États membres, la protection desdits droits constitue un intérêt légitime de
nature à justifier, en principe, une restriction aux obligations imposées par
le droit communautaire, même en vertu d'une liberté fondamentale garantie par
le traité telle que la libre prestation de services» (corsivo mio).
[33] Che, a mio parere, può considerarsi ormai
sostanzialmente superato, come rilevato negli scritti di cui alla precedente
nt. 12. Cfr, anche per
affermazioni analoghe, Torchia, op.cit., pag. 1203 e Chiti, Regioni e Unione Europea, dopo la riforma del Titolo V della
Costituzione: l’influenza della giurisprudenza costituzionale, ibidem, pag. 1423. Contra, v. Luzzatto, Il diritto europeo e la Costituzione
italiana dopo la riforma dell’art. 117, in Il Diritto dell’Unione Europea, 2008, pag. 14.
[34]
Beninteso con tutti gli ampliamenti e innovazioni derivanti dall’applicazione
dei principi dei poteri impliciti, di sussidiarietà, di proporzionalità, ecc.
[35] V. in particolare nell’Ordinanza cit.: « che, al riguardo, va premesso che,
ratificando i Trattati comunitari, l’Italia è entrata a far parte
dell’ordinamento comunitario, e cioè di un ordinamento giuridico autonomo,
integrato e coordinato con quello interno, ed ha contestualmente trasferito, in base all’art. 11 Cost., l’esercizio
di poteri anche normativi (statali, regionali o delle Province autonome)
nei settori definiti dai Trattati medesimi; che le norme dell’ordinamento
comunitario vincolano in vario modo il legislatore interno, con il solo limite
dell’intangibilità dei princípi fondamentali dell’ordinamento costituzionale e
dei diritti inviolabili dell’uomo garantiti dalla Costituzione ... che nel
caso, come quello di specie, in cui il giudizio pende davanti alla Corte
costituzionale a séguito di ricorso proposto in via principale dallo Stato e ha
ad oggetto la legittimità costituzionale di una norma regionale per
incompatibilità con le norme comunitarie, queste ultime «fungono da norme
interposte atte ad integrare il parametro per la valutazione di conformità
della normativa regionale all’art. 117, primo comma, Cost ... o, più
precisamente, rendono concretamente
operativo il parametro costituito dall’art. 117, primo comma, Cost. ..., con conseguente declaratoria di
illegittimità costituzionale della norma regionale giudicata incompatibile con
tali norme comunitarie; che, in relazione alle leggi regionali, questi due diversi modi di operare delle norme
comunitarie corrispondono alle diverse caratteristiche dei giudizi: davanti al
giudice comune deve applicarsi la legge la cui conformità all’ordinamento
comunitario deve essere da lui preliminarmente valutata; davanti alla Corte
costituzionale adíta in via principale, invece, la valutazione di detta
conformità si risolve, per il tramite dell’art. 117, primo comma, Cost., in un
giudizio di legittimità costituzionale, con la conseguenza che, in caso di
riscontrata difformità, la Corte non procede alla disapplicazione della legge,
ma ne dichiara l’illegittimità costituzionale con efficacia erga omnes; che, pertanto, l’assunzione
della normativa comunitaria quale elemento integrante il parametro di
costituzionalità costituisce la precondizione necessaria per instaurare, in via
di azione, il giudizio di legittimità costituzionale della legge regionale che
si assume essere in contrasto con l’ordinamento comunitario ... » (corsivi
miei). Cfr. già i miei lavori di cui alla nt. 12.
[36] Significative, in proposito, mi sembrano le affermazioni
della Corte, nella cit. sentenza 348/2007, § 4.5 e 4.6 del Considerato in diritto: « ... si deve riconoscere
che il parametro costituito dall’art. 117, primo comma, Cost. diventa
concretamente operativo solo se vengono determinati quali siano gli “obblighi
internazionali” che vincolano la potestà legislativa dello Stato e delle
Regioni. Nel caso specifico sottoposto alla valutazione di questa Corte, il
parametro viene integrato e reso operativo dalle norme della CEDU, la cui
funzione è quindi di concretizzare nella fattispecie la consistenza degli
obblighi internazionali dello Stato. 4.6. – La CEDU presenta, rispetto agli
altri trattati internazionali, la caratteristica peculiare di aver previsto la
competenza di un organo giurisdizionale, la Corte europea per i diritti
dell’uomo, cui è affidata la funzione di interpretare le norme della
Convenzione stessa. ...» e nella
sentenza 349/2007 che, più ampiamente, al § 6.2 del Considerando in diritto,
afferma tra l’altro: «6.2. – E’ dunque alla luce della complessiva disciplina
stabilita dalla Costituzione, quale risulta anche dagli orientamenti di questa
Corte, che deve essere preso in considerazione e sistematicamente interpretato
l’art. 117, primo comma, Cost., in quanto parametro rispetto al quale valutare
la compatibilità della norma censurata con l’art. 1 del Protocollo addizionale
alla CEDU, così come interpretato dalla Corte dei diritti dell’uomo di Strasburgo. Il dato subito emergente è la lacuna esistente prima della sostituzione
di detta norma ... , per il fatto che la
conformità delle leggi ordinarie alle norme di diritto internazionale
convenzionale era suscettibile di controllo da parte di questa Corte soltanto
entro i limiti e nei casi sopra indicati al punto 6.1. La conseguenza era che
la violazione di obblighi internazionali derivanti da norme di natura
convenzionale non contemplate dall’art. 10 e dall’art. 11 Cost. da parte di
leggi interne comportava l’incostituzionalità delle medesime solo con
riferimento alla violazione diretta di norme costituzionali ... E
ciò si verificava a dispetto di uno degli elementi caratterizzanti
dell’ordinamento giuridico fondato sulla Costituzione, costituito dalla forte
apertura al rispetto del diritto internazionale e più in generale delle fonti
esterne, ivi comprese quelle richiamate dalle norme di diritto internazionale
privato; e nonostante l’espressa rilevanza della violazione delle norme
internazionali oggetto di altri e specifici parametri costituzionali. ... Non v’è dubbio, pertanto, alla luce del quadro complessivo delle norme
costituzionali e degli orientamenti di questa Corte, che il nuovo testo
dell’art. 117, primo comma, Cost., ha colmato una lacuna e che, in armonia con
le Costituzioni di altri Paesi europei, si collega, a prescindere dalla sua
collocazione sistematica nella Carta costituzionale, al quadro dei princìpi che
espressamente già garantivano a livello primario l’osservanza di determinati
obblighi internazionali assunti dallo Stato. Ciò non significa, beninteso, che con l’art. 117, primo comma, Cost., si
possa attribuire rango costituzionale alle norme contenute in accordi
internazionali, oggetto di una legge ordinaria di adattamento, com’è il caso
delle norme della CEDU. Il parametro costituzionale in esame comporta, infatti,
l’obbligo del legislatore ordinario di rispettare dette norme, con la
conseguenza che la norma nazionale incompatibile con la norma della CEDU e
dunque con gli “obblighi internazionali” di cui all’art. 117, primo comma,
viola per ciò stesso tale parametro costituzionale. Con l’art. 117, primo
comma, si è realizzato, in definitiva, un rinvio mobile alla norma
convenzionale di volta in volta conferente, la quale dà vita e contenuto a
quegli obblighi internazionali genericamente evocati e, con essi, al parametro,
tanto da essere comunemente qualificata “norma interposta”; e che è soggetta a
sua volta, come si dirà in seguito, ad una verifica di compatibilità con le
norme della Costituzione.
...».
[37]
Se non altro perché, ove una norma del genere si determinasse essa, prima o
poi, sarebbe giudicata incostituzionale per violazione dell’art. 117.1, magari
nel corso di un giudizio in via principale.
[38] Pur senza entrare nel merito di un discorso che richiede
ulteriori approfondimenti, a me pare evidente che il “vincolo” implica a dir
poco una impossibilità di fatto di legiferare efficacemente in maniera difforme
dal diritto internazionale. E dunque, posto pure che, formalmente, nulla, dal
punto di vista del nostro diritto costituzionale, possa impedire al Parlamento
di legiferare come e su cosa vuole, una legge in contrasto con un accordo
internazionale andrebbe a dir poco immediatamente sottoposta al controllo di
legittimità della Corte Costituzionale in via principale, salvo comunque a non
poter essere applicata dai giudici ordinari. Ragionando in termini di competenza si potrebbe, infatti,
affermare (in maniera non dissimile da quanto affermato nella famosa sentenza Granital) che al giudice ordinario
compete di verificare se la fattispecie sottoposta al suo giudizio ricada o
meno nella competenza dell’ordinamento internazionale. Posto che vi ricada, la
legge interna (che permane in vigore, se non altro per l’ipotesi che l’Italia
perda l’obbligo pattizio internazionale sia per sua scelta che per decadenza
della norma pattizia) semplicemente non si applicherebbe al caso in questione,
non sarebbe competente. Per una
primissima applicazione del principio, v. Tribunale di Foggia, Sez. Lavoro,
sentenza n. 20085/06 R.G. 19.3.2007. Tanto più che non va nemmeno trascurato
l’elemento derivante dal fatto che una legislazione in contrasto con una norma
pattizia regolarmente sottoscritta (ratificata o no, sorvolo sull’immenso
pasticcio creato dalla cd. legge La Loggia, L. 5.6.2003 n. 131, specie nel suo
articolo 1, da brividi), in quanto in contrasto con l’art. 27 della Convenzione
di Vienna sul diritto dei trattati (1969, che recita: «A
party may not invoke the provisions of its internal law as justification for
its failure to perform a treaty ... .») potrebbe essere tacciata di
incostituzionalità già solo per questo. Sul punto v. anche Salerno, op. loc. cit.
[39] Lo affermo anche sulla falsariga delle opinioni
brillantemente esposte a suo tempo, in tema di rapporti tra legislazione
nazionale e regionale dal Crisafulli,
Gerrachia e competenza nel sistema
costituzionale delle fonti, in Rivista
trimestrale di Diritto Pubblico, 1960 pag. 775 ss. e la legge regionale nel sistema delle fonti, ibidem, 1960, pag. 262 ss., che sviluppa le tesi ben note di Esposito, La validità delle leggi, Milano 1934.
[40] Per un accenno in tal senso v. anche di recente Torchia, cit., pag. 1207.
[41]
Come accennato poco fa, i concetti di rango e di sovranazionalità ecc., sono
largamente superabili in una corretta interpretazione e applicazione del primo
co. dell’art. 117 Cost.
[42] V. infra § 4.
[43]
Esclusa in linea di principio dalla giurisprudenza comunitaria, salvo prova
contraria.
[44]
V. Infra § 5.
[45] Documento 2007/C 272/05 in GU C., 15.11.2007, 272/4 Verso l’esecuzione effettiva delle decisioni
della Commissione, che ingiungono agli stati membri di recuperare gli aiuti di
stato illegali o incompatibili. È appena il caso di sottolineare come ad
una simile “soluzione” si arrivi dopo una faticosa e complessa prassi
cinquantennale, che ha visto costruire passo dopo passo un sistema solo
abbozzato nelle norme.
[46] Non è un caso, cha a molti anni dalla decisione in
materia, la UE ancora debba attendere che l’Italia si conformi concretamente ad
una decisione in materia di aiuti, dichiarati illeciti e quindi da recuperare.
Cfr. infra nt. 81.
[47] Ancora una semplice comunicazione, la SEC/2005/1658, Applicazione dell’art. 228 del trattato.
[48] V. Sentenze C-387/97 e 278/01.
[49] Sentenza C-340/02 del 12.7.2005 : « 44. Comme
la procédure visée à l’article 226 CE … la procédure visée à l’article 228 CE
repose sur la constatation objective du non-respect par un État membre de ses
obligations...» e dunque, posto che il mancato rispetto c’è stato, si tratta di
valutare quale sanzione applicare delle due possibili. E, qui sta il punto: la
Corte non esita ad applicarle entrambe, come richiesto dalla Commissione, pur
in assenza di accordo tra gli stati, anzi pur con la esplicita contrarietà di
molti stati membri: «76. Invités à s’exprimer
sur la question de savoir si, dans le cadre d’une procédure introduite au titre
de l’article 228, paragraphe 2, CE, la Cour peut, lorsqu’elle reconnaît que
l’État membre concerné ne s’est pas conformé à son arrêt, lui infliger le
paiement à la fois d’une somme forfaitaire et d’une astreinte, la Commission, les gouvernements danois,
néerlandais, finlandais et du Royaume‑Uni ont répondu par
l’affirmative. 77. Leur argumentation se fonde, en substance, sur le fait
que ces deux mesures sont complémentaires, en ce qu’elles poursuivent, chacune
pour leur part, un effet dissuasif. Une combinaison de ces mesures devrait être
considérée comme un seul et même moyen d’atteindre l’objectif fixé par
l’article 228 CE, c’est-à-dire non seulement inciter l’État membre concerné à
se conformer à l’arrêt initial, mais aussi, dans une perspective plus générale,
réduire la possibilité que des infractions analogues soient de nouveau
commises. 78. Les gouvernements français,
belge, tchèque, allemand, hellénique, espagnol, irlandais, italien, chypriote,
hongrois, autrichien, polonais et portugais ont fait valoir une thèse
contraire…».
[50] Qualcosa del genere accade in effetti anche per la Corte
Europea dei diritti dell’uomo, ma con una sostanziale differenza: quella Corte,
infatti, definisce risarcimenti del danno
che lo stato paga al cittadino offeso, la Corte di Giustizia, invece,
stabilisce multe che lo stato paga alla UE.
[51] V. infra § 4 per una
descrizione puntuale e sintetica della procedura.
[52] Per una ironia della sorte, è del Luglio 2008 la
sentenza del Tribunale di primo grado UE (T-301/01), che risolve
definitivamente respingendo il ricorso dell’Alitalia su alcune modalità di concessioni
di finanziamenti concessi nel 1996: v. decisioni della Commissione 97/89 CE e
2000/723 CE. Ciò, peraltro, dà un’idea dei tempi che sono necessari al
completamento della normale procedura. Ecco perché, come osservato, la adeguata
sollecitazione della autorità giudiziaria locale, può essere un grande
strumento di accelerazione della procedura e dei conseguenti risultati.
[53] Si ammetterà che il meccanismo è alquanto singolare e
integra una sorta di “ammissione di colpa” preventiva da parte dello stato,
che, in pratica, predispone già in partenza un meccanismo equivalente a quello
ordinario per ottenere la restituzione dell’aiuto illecito, se di aiuto illecito si dovesse
effettivamente trattare. V. DL 80/2008 art. 1 n. 2: «La
somma erogata ai sensi del comma 1 è rimborsata nel minore termine tra il
trentesimo giorno successivo a quello della cessione dell'intera quota del
capitale sociale, di titolarità del Ministero dell'economia e delle finanze, e
il 31 dicembre 2008. Le medesime somme sono gravate da un tasso di interesse
equivalente ai tassi di riferimento adottati dalla Commissione europea e,
segnatamente, fino al 30 giugno 2008, al tasso indicato nella comunicazione
della Commissione europea (2007/C 319/03), pubblicata nella Gazzetta Ufficiale dell'Unione
europea C 319 del 29 dicembre 2007 e, dal
1° luglio 2008, al tasso indicato in conformità alla comunicazione della
Commissione europea relativa alla revisione del metodo di fissazione dei tassi
di riferimento e di attualizzazione (2008/C 14/02), pubblicata nella Gazzetta
Ufficiale dell'Unione europea C 14 del 19 gennaio 2008».
[54] Con il
DL 93/2008, inoltre, art. 4, si stabilisce: «1. La somma erogata ad Alitalia - Linee aeree
italiane S.p.A. ai sensi dell'articolo 1 del decreto-legge 23 aprile 2008, n.
80, è rimborsata nel minore termine tra il trentesimo giorno successivo a
quello della cessione o della perdita del controllo effettivo da parte del
Ministero dell'economia e delle finanze e il 31 dicembre 2008. 2. Le medesime
somme sono gravate da una maggiorazione del tasso di interesse previsto
dall'articolo 1, comma 2, del decreto-legge 23 aprile 2008, n. 80, pari all'1
per cento. 3. Le somme di cui al comma 1 e gli interessi maturati
sono utilizzati per fare fronte alle perdite che comportino una diminuzione del
capitale versato e delle riserve al di sotto del livello minimo legale. 4. In
caso di liquidazione dell'Alitalia - Linee aeree italiane S.p.A., il debito di
cui al presente articolo e' rimborsato solo dopo che sono stati soddisfatti tutti
gli altri creditori, unitamente e proporzionalmente al capitale sociale».
[55] Cfr. Lettera della Commissione 2008/C184/09 in GU C,
22.7.2008 pag. 40, il cui punto 4 della sintesi testualmente recita: «(4) Diverse denunce sono state presentate contemporaneamente
alla Commissione per denunciare la concessione da parte del governo italiano
del prestito di 300 Mio EUR alla compagnia aerea Alitalia». sorvolo sullo stile
claudicante del testo, ormai un “topos”
nei documenti di provenienza comunitaria (talvolta di imbarazzante cripticità),
che, infatti, è buna norma leggere in una delle lingue di lavoro se si desidera
conoscerne il testo con maggiore attendibilità.
[56]
Per un riferimento, v. infra nt. 84.
[57] Tutto ciò è seccamente affermato dalla Commissione nella
lettera precitata, Procedura punti
2-4: «300 Mio EUR alla compagnia aerea Alitalia con decreto-legge 23 aprile
2008, n. 80. (2) Non avendo ricevuto alcuna notifica da parte delle autorità
italiane prima della decisione di concessione del suddetto prestito, la
Commissione ha chiesto a tali autorità, con lettera del 24 aprile 2008, di
confermare l'esistenza di detto prestito, di fornire in proposito qualsiasi
informazione utile per esaminare tale misura alla luce degli articoli 87 e 88
del trattato, nonché di sospendere la
concessione del suddetto prestito e di informare la Commissione in merito
alle misure adottate per conformarsi a questo obbligo in virtù dell'articolo
88, paragrafo 2, del trattato. (3) In questa lettera la Commissione ha inoltre
ricordato alle autorità italiane l'obbligo loro incombente di procedere alla
notifica di qualunque progetto volto ad istituire o a modificare aiuti e di non dare esecuzione alla misura progettata
prima che la procedura di esame della Commissione abbia condotto ad una
decisione finale. (4) Infine la
Commissione ha precisato in questa lettera che, in mancanza di risposta da
parte delle autorità italiane entro il termine di 10 giorni lavorativi, sarebbe
stata eventualmente tenuta ad avviare la procedura formale di esame prevista
all'articolo 88, paragrafo 2, del trattato sulla base delle informazioni
disponibili e ad ingiungere la
sospensione della misura in applicazione dell'articolo 11, paragrafo 1, del
regolamento (CE) n. 659/1999 del Consiglio, del 22 marzo 1999, relativo alle
modalità di applicazione dell'articolo 93 del trattato CE» (corsivo mio).
[58]
Per tutte, si veda la sentenza C-24/95: «24 La récupération de l'aide doit avoir lieu, en principe, selon les
dispositions pertinentes du droit national, sous réserve toutefois que ces
dispositions soient appliquées de manière à ne pas rendre pratiquement
impossible la récupération exigée par le droit communautaire … En particulier,
l'intérêt de la Communauté doit être pleinement pris en considération lors de
l'application d'une disposition qui soumet le retrait d'un acte administratif
irrégulier à l'appréciation des différents intérêts en cause …. 41 Sans qu'il
soit besoin d'apprécier le comportement des autorités allemandes dans l'affaire
au principal, appréciation qui relève de la compétence des seules juridictions
nationales et non pas de celle de la Cour dans le cadre de la procédure en
vertu de l'article 177 du traité, il convient de constater que, ainsi qu'il
ressort des points 30 et 31 du présent arrêt, le bénéficiaire de l'aide ne peut
faire valoir de confiance légitime dans la régularité de l'octroi de celle-ci.
L'obligation du bénéficiaire de s'assurer que la procédure de l'article 93,
paragraphe 3, du traité a été respectée ne saurait en effet dépendre du
comportement de l'autorité étatique, même si cette dernière était à ce point
responsable de l'illégalité de la décision que son retrait apparaît comme contraire
à la bonne foi».
[59] Manca insomma, anche ogni azione presso la giurisdizione
nazionale italiana, il che, forse ingenuamente lo affermo, sorprende visto il
clamore notevole suscitato dalla vicenda e le “denunce” comunitarie! Cfr. infra § 5 e poco più avanti
nel testo.
[60] Così come, va sottolineato sia pure di sfuggita in
questa sede, non costituisce né un’esimente né una giustificazione il fatto che
la legge interna non lo consenta o che il recupero sia particolarmente
complesso se non impossibile, sentenza C-5/89. È appena il caso di rilevare
come questa regola sia perfettamente consona (e di nuovo non credo che si possa
trattare di un caso) al diritto internazionale, dove, ad es., l’art. 27 della Convenzione di Vienna sul diritto dei
trattati del 1969, esplicitamente vieta di considerare una legittima
esimente del mancato rispetto di un trattato il fatto che una legge interna vi
osti.
[61] L’introduzione di questa norma, dunque, è di estrema
importanza nella misura in cui fino alla sua introduzione, uno stato in quanto
tale non correva rischio alcuno, per così dire, nel compimento di un atto
illecito, dato che comunque solo le imprese ne avevano conseguenze. Ora,
invece, e per quanto marginale possano esserne le conseguenze, anche lo stato
in quanto tale è chiamato a rispondere di un suo comportamento colpevole. Nel
nostro ordinamento, è appena il caso di sottolinearlo, il pagamento di una
multa per una deliberata inadempienza dello stato, potrebbe incorrere in
notevoli sanzioni amministrative e contabili, anche a carico degli stessi
amministratori.
[62] Insomma, come vedremo più avanti, la convinzione dello
stato di agire correttamente (senza chiederne conferma alla Commissione) lungi
dall’essere un modo per abbreviare i tempi di azione, si rivela un confetto
avvelenato, non per lo stato (procedura ex art. 260 a parte), ma per le
imprese, di fatto (o almeno apparentemente, come vedremo più avanti) ignare di tutto
e del tutto “innocenti”.
[63] V. in https://www.ttgitalia.com/pagine/pagina.aspx?ID=News_Details001&L=IT&id_news=238787, la notizia dell’avvenuto accredito in data 06.05.2008.
l’Italia dunque, non si può non sottolinearlo in questa sede, avrebbe avuto
tutto il tempo di sospendere l’erogazione e di trovare magari altra più
corretta soluzione. Ma anche le imprese interessate (italiane e “straniere”,
posto che ve ne siano) hanno brillato per la loro ... discrezione.
[64] È però appena il caso di ricordare che il ricorso
pregiudiziale in questione, si rende obbligatorio solo se manchi, ad esempio,
una decisione precedente analoga della Corte di Giustizia o se il giudice
interno non ritenga evidente (e quindi non suscettibile di richiesta di
giudizio pregiudiziale) la natura lecita o illecita dell’aiuto.
[65] V. infatti la Decisione 2000/128 della Commissione, che
addirittura precisa che nemmeno di aiuti si tratta: «62) I contratti di
formazione e lavoro, quali erano disciplinati dalla legge 863/84, non
configuravano un aiuto ai sensi dell'articolo 87, paragrafo 1, bensì una misura
generale. I benefici previsti erano infatti applicabili in maniera uniforme,
automatica, non discrezionale e sulla base di criteri obiettivi a tutte le
imprese».
[66] V. la Decisione cit. supra
nel testo: «(63) Le modifiche apportate a questo istituto nel 1990 dalla legge
407/90 hanno modificato la natura di misure. Le nuove disposizioni hanno
modulato le riduzioni accordate in
funzione del luogo di insediamento dell'impresa beneficiaria e del settore di
appartenenza. Di conseguenza alcune imprese sono venute a beneficiare di
riduzioni maggiori di quelle accordate ad imprese concorrenti». Per questi
motivi, la Commissione aggiunge: «(64) Le riduzioni selettive che favoriscono determinate
imprese rispetto ad altre dello stesso Stato membro, che la selettività operi
al livello individuale, regionale o settoriale, costituiscono, per la parte
differenziale della riduzione, aiuti di Stati ai sensi dell'articolo 87,
paragrafo 1, del trattato, aiuti che falsano la concorrenza e rischiano di
incidere sugli scambi fra gli Stati membri. Infatti tale differenziale va a
vantaggio delle imprese che operano in determinate zone del territorio
italiano, favorendole nella misura in cui lo stesso aiuto non è accordato alle
imprese situate in altre zone. (65) Tale aiuto falsa la concorrenza, dato che
rafforza la posizione finanziaria e le possibilità d'azione delle imprese
beneficiarie rispetto ai loro concorrenti che non ne beneficiano. Nella misura
in cui tale effetto si verifica nel quadro degli scambi intracomunitari, questi
ultimi sono pregiudicati dall'aiuto. (66) In particolare tali aiuti falsano la
concorrenza ed incidono sugli scambi tra Stati membri nella misura in cui le
imprese beneficiarie esportano una parte della loro produzione negli altri
Stati membri; analogamente, anche se le imprese non esportano, la produzione
nazionale è favorita perché l'aiuto riduce la possibilità da parte delle
imprese insediate in altri Stati membri di esportare i loro prodotti verso il
mercato italiano».
[67]
Infra § 5.
[68] Rispetto alla quale dunque non vi sarebbe stato in
nessun caso problema alcuno, fatta eccezione per l’infrazione della mancata
notifica.
[69] Salvo che i finanziamenti non si riferiscano a
situazioni particolari, elencate
analiticamente dalla Commissione in particolare nella Decisione 2000/128 con
cui ne respinge la maggior parte, alla luce, anche del Documento 95/C 334/04,
che contiene gli «Orientamenti in materia
di aiuti all’occupazione» e 96/C 68/06 (Commission
notice on the de minimis rule for
State aid).
[70] Anche qui, sia detto del tutto incidentalmente, ci si
troverebbe di fronte ad un illecito comportamento dello stato verso le imprese,
qualora alle stesse venisse o fosse stato richiesta la restituzione degli
interi importi, senza prima effettuare quella distinzione e classificazione
degli interventi leciti e di quelli illeciti.
[71] La circostanza è dedotta solo dal fatto che non
risultano notizie ufficializzate in merito. Il punto è che, sia pure in
astratto, se le imprese avessero saputo della vicenda avrebbero potuto
intervenire direttamente sia nella fase della contestazione dinanzi alla
Commissione che in quella della fase contenziosa dinanzi alla Corte di
Giustizia delle CE. Viceversa, se non avessero saputo nulla (per deliberata o
casuale mancata comunicazione degli avvenimenti, sia da parte dello stato che
della Confindustria) si potrebbe pensare ad una azione di risarcimento del
danno.
[72] Va rilevato che, la stessa giurisprudenza comunitarie in
materia è molto netta, in quanto afferma semplicemente che, nella misura in cui
una procedura del genere è di pubblica conoscenza, nessuno può invocare un
legittimo affidamento o la buona fede, nel senso di pretendere di non essere
sottoposto alla procedura di restituzione in quanto in buona fede abbia
ritenuto quell’intervento lecito. Ma ciò, nel caso di specie, vale solo per le
agevolazioni precedenti all’inizio della procedura dinanzi alla Commissione e
non per le altre, anche se, come già osservato, il fatto che lo stato ritenga
di poter adottare certi provvedimenti, non è
di per sé sufficiente per escludere che l’impresa debba porsi il problema,
anche se ciò richiede un pesante supplemento organizzativo nelle aziende. Alle
quali comunque è sempre aperta la via della giurisdizione nazionale, come
vedremo più avanti e infra nt.
successiva.
[73] Non così è accaduto nel caso Brandt, sentenze T-239/04 –
T-323/04, dove l’impresa fu informata e partecipò al procedimento compreso il
giudizio dinanzi alla Corte, salvo che, coscientemente e a
suo rischio e pericolo, essendo vicino il termine di scadenza per poter godere
del finanziamento sospetto, la ditta lo richiese a titolo cautelativo (per
evitare, cioè, di venirne esclusa per scadenza dei termini per richiederlo),
pur senza utilizzarlo. Di tal che la ditta medesima avanzò l’obiezione del
legittimo affidamento e della buona fede, al quale la Corte rispose (come la
giurisprudenza prevalente che vedremo meglio più avanti) negativamente
affermando, tra l’altro: «153 Come emerge dai fatti e come dichiarato ai precedenti punti 70 e
104, la misura in questione è incompatibile con il mercato comune, essendo
stata adottata in violazione delle norme comunitarie, sia sostanziali che
formali, relative agli aiuti di Stato. 154 Secondo il Tribunale sembra impossibile nel caso di specie che un
operatore economico diligente come la Brandt abbia potuto ignorare il carattere
illegittimo della misura in questione. Al riguardo il Tribunale ricorda
che, ai sensi di una giurisprudenza costante, tenuto conto del carattere imperativo della vigilanza sugli aiuti
statali operata dalla Commissione ai sensi dell’art. 88 CE, le
imprese beneficiarie di un aiuto possono
fare legittimo affidamento, in linea di principio, sulla regolarità dell’aiuto solamente qualora quest’ultimo sia stato
concesso nel rispetto della procedura
... Infatti, un operatore
economico diligente deve normalmente essere in grado di accertarsi che tale
procedura sia stata rispettata anche
quando l’illegittimità della decisione di concessione dell’aiuto sia imputabile
allo Stato considerato in una misura tale che la sua revoca appare
contraria al principio di buona fede ...
155 Il Tribunale ricorda infine come, sempre per giurisprudenza
costante, se, così come nel caso della Brandt, il beneficiario dell’aiuto in
esame ritiene che sussistano circostanze eccezionali sulle quali abbia potuto
fondare il proprio legittimo affidamento circa la regolarità dell’aiuto, tale valutazione spetta al giudice
nazionale, eventualmente adito, dopo aver proposto alla Corte, se necessario,
questioni pregiudiziali di interpretazione
... » (corsivi miei).
[74]
V. infra ntt. 91 ss.
[75]
Infra § 4 e nt. 98.
[76] Cfr. la Decisione cit.: « Articolo 1: 1. Gli aiuti illegittimamente concessi
dall'Italia, a decorrere dal novembre 1975, per l'assunzione di lavoratori
mediante i contratti di formazione e lavoro previsti dalle leggi 863/84,
407/90, 169/91 e 451/94, sono compatibili
con il mercato comune e con l'accordo SEE a condizione che riguardino: - la creazione di nuovi posti di
lavoro nell'impresa beneficiaria a favore di lavoratori che non hanno ancora
trovato un impiego o che hanno perso l'impiego precedente, nel senso definito
dagli orientamenti in materia di aiuti all'occupazione; - l'assunzione di
lavoratori che incontrano difficoltà specifiche ad inserirsi o a reinserirsi
nel mercato del lavoro. Ai fini della presente decisione, per lavoratori che
incontrano difficoltà specifiche ad inserirsi o a reinserirsi nel mercato del
lavoro s'intendono i giovani con meno di 25 anni, i laureati fino a 29 anni
compresi, i disoccupati di lunga durata, vale a dire le persone disoccupate da
almeno un anno. 2. Gli aiuti concessi per mezzo di contratti di formazione e
lavoro che non soddisfano alle condizioni menzionate al paragrafo 1 sono
incompatibili con il mercato comune. Articolo 2: 1. Gli aiuti concessi
dall'Italia in virtù dell'articolo 15 della legge n. 196/97 per la
trasformazione di contratti di formazione e lavoro in contratti a tempo
indeterminato sono compatibili con il mercato comune e con l'accordo SEE purché
rispettino la condizione della creazione netta di posti di lavoro come definita
dagli orientamenti comunitari in materia di aiuti all'occupazione. Il numero
dei dipendenti delle imprese è calcolato al netto dei posti che beneficiano
della trasformazione e dei posti creati per mezzo di contratti a tempo determinato
o che non garantiscono una certa stabilità dell'impiego. 2. Gli aiuti per la
trasformazione di contratti di formazione e lavoro in contratti a tempo
indeterminato che non soddisfano la condizione di cui al paragrafo 1 sono
incompatibili con il mercato comune. Articolo 3: L'Italia prende tutti i
provvedimenti necessari per recuperare presso i beneficiari gli aiuti che non
soddisfano alle condizioni di cui agli articoli 1 e 2 già illegittimamente
concessi. Il recupero ha luogo conformemente alle procedure di diritto interno.
Le somme da recuperare producono interessi dalla data in cui sono state messe a
disposizione dei beneficiari fino a quella del loro recupero effettivo. Gli
interessi sono calcolati sulla base del tasso di riferimento utilizzato per il
calcolo dell'equivalente sovvenzione nel quadro degli aiuti a finalità
regionale.»
[77] In altre parole, avendo lo stato ormai concesso quelle
agevolazioni legittime, è esso solo passibile delle eventuali sanzioni
derivanti dalla mancata notifica, mentre, mi sembra, l’obbligo generale di non
concedere o di richiedere il rimborso, pendente il procedimento, sarebbe ormai
superato nei fatti. Non avrebbe senso richiedere ad un’azienda il pagamento di
certe cifre, salvo poi a dovergliele riconcedere, ma ciò non esclude la
responsabilità dello stato verso la UE.
[78] Cosa che, a quanto pare, almeno nel caso di una azienda
specifica della quale per motivi di riservatezza non faccio il nome, non è
affatto accaduto, essendosi l’INPS limitato a richiedere la restituzione di una
grossa somma, corrispondente all’intero ammontare degli incentivi derivati da
tutte quelle leggi, senza alcuna precisazione ma solo motivando con un
riferimento generico alla sentenza della CGCE. Lascio aperta la domanda (su cui
infra § 5) sulla eventuale
responsabilità dell’INPS (e specialmente dei suoi funzionari!), che, secondo la
citata giurisprudenza TAR (v. supra
nt. 15 e il testo
corrispondente) avrebbe dovuto rifiutare di emettere un atto del genere.
[79] Cfr. sul
punto, per tutte le articolazioni del caso, ma sempre alla luce del principio
per cui la mancata notifica implica di per sé l’obbligo di ripetere le somme,
salvo a compensare qualora la Commissione successivamente giudichi l’intervento
lecito, Causa C- 199/06.
[80] In merito, la indicazione della Commissione è
chiarissima, quando afferma: «(113) Sulla base dell'analisi esposta nelle sezioni V.1.a) e V.1.b) della
presente decisione la Commissione constata che unicamente gli aiuti concessi
per l'assunzione di lavoratori che, al momento dell'assunzione, non avevano
ancora ottenuto un impiego o che l'avevano perso e la cui assunzione ha
contribuito alla creazione netta di nuovi posti di lavoro nelle imprese
interessate, sono compatibili con il mercato comune. (114) Gli aiuti concessi
ai lavoratori che incontrano difficoltà specifiche ad inserirsi o a reinserirsi
nel mercato del lavoro, vale a dire dopo aver perso un impiego, sono anch'essi
compatibili con il mercato comune. Si tratta di persone che, in considerazione
delle loro caratteristiche proprie, si collocano in una condizione di debolezza
di fronte al sistema di selezione imposto dal mercato del lavoro. È il caso in
particolare dei giovani con meno di 25 anni, dei laureati fino a 29 anni
compresi e dei disoccupati di lunga durata (più di un anno di disoccupazione).
Tuttavia, per poter beneficiare delle agevolazioni i datori di lavoro non
devono aver proceduto a riduzioni di organico nei 12 mesi precedenti e devono
inoltre aver mantenuto in servizio (assumendoli con contratto a tempo
indeterminato) almeno il 60 % dei lavoratori il cui contratto di formazione e
lavoro è scaduto nei 24 mesi precedenti. (115) Le misure che rispettano la
regola de minimis non rientrano nel campo di applicazione dell'articolo 87. In
applicazione di detta regola, l'importo complessivo di tutti gli interventi
effettuati a favore delle imprese che hanno assunto lavoratori per mezzo di un
contratto di formazione e lavoro non deve superare il limite di 100.000 EUR su
un periodo di tre anni. Come precisato nella comunicazione della Commissione
relativa agli aiuti de minimis, detta regola non si applica ai settori
disciplinati dal trattato CECA, alla costruzione navale ed al settore dei
trasporti, ed agli aiuti concessi per spese inerenti ad attività
dell'agricoltura o della pesca. (116) Tutti gli aiuti per l'assunzione per
mezzo di contratti di formazione e lavoro che non rispettano le condizioni
indicate ai considerando 113-115 sono incompatibili con il mercato comune e
devono pertanto essere recuperati.»
[81] V. Invito all’Italia ad adeguarsi IP/08/133, Bruxelles,
31 gennaio 2008, Aiuti di Stato: la
Commissione invita l'Italia a rispettare le sentenze della Corte sul recupero
degli aiuti di Stato incompatibili.
[82] V. in https://ec.europa.eu/comm/competition/state_aid/legislation/rules.cfm, il documento State
aid: Commission issues guidance to speed up implementation of state aid
recovery decisions, che recita testualmente: « In its State Aid Action Plan
of 2005 (see IP/05/680), the Commission already highlighted the long delays in
the execution of recovery decisions at national level and subsequently took
steps to improve their enforcement, for example through a closer monitoring of
national recovery proceedings. These measures have proved to be effective. The
amount of illegal aid recovered has increased to some €7.2 billion from €6
billion in 2005, and the backlog of recovery decisions that have not been
implemented has fallen significantly (as shown in the June 2007 State Aid
Scoreboard, see IP/07/955). In recent judgments, the European Court of Justice
has clearly ruled in favour of an effective execution of recovery decisions
(see Case C-415/03, Commission against Greece, case C- 232/05, Commission
against France and C-441/06, Commission against France)...... The Member
States' role is to adopt the most
effective measures available in their national legal systems to proceed to
a rapid and effective recovery of the illegal and incompatible aid. This
implies that Member States, after having
determined the aid to be recovered, notify without delay the recovery order
to the beneficiary and ensure that the aid is repaid within the deadline
prescribed by the Commission Decision» (corsivo mio). Cfr. Anche sulle modalità di recupero il Memorandum MEMO/05/482, 14/12/2005.
[83]
Supra nt. 15.
[84] Non a caso, la Commissione nel valutare la legittimità o
meno di una concentrazione di imprese, deve tenere conto anche degli eventuali
aiuti, che potrebbero falsarne la legittimità. V. sentenza T-156/98 (RIB Nininc c. Commissione): « 113. It follows in particular that, when adopting a
decision on the compatibility of aid with the common market, the Commission
must be aware of the risk of individual traders undermining competition in the
common market .... 114. It also follows
that in adopting a decision on the compatibility of a concentration between
undertakings with the common market the Commission cannot ignore the consequences which the grant of State aid to those
undertakings has on the maintenance of effective competition in the relevant
market» (corsivo mio). È appena il caso di ricordare qui la descritta questione Alitalia.
[85]
In generale sulla questione si veda Tesauro,
Diritto, cit., pag. 800 ss.; Daniele, Diritto materiale della Comunità Europea, Milano (Giuffrè) 2000,
pag. 242 ss; Castronovo, Mazzamuto (a
cura di), Manuale di diritto privato
europeo, Milano (Giuffrè) 2007, vol III, Libertini,
Gli aiuti pubblici alle imprese, pag.
423 ss. e ivi ampi riferimenti
bibliografici ai quali faccio rinvio. Per un bel compendio di giurisprudenza
recente, cfr. NAscimbene, Condinanzi,
Giurisprudenza di diritto comunitario,
casi scelti, Milano (Giuffrè) 2007.
[86]
V. tra le altre le sentenze C-6/97, « 16 Or, une mesure par laquelle les
autorités publiques accordent à certaines entreprises une exonération fiscale
qui, bien que ne comportant pas un transfert de ressources d'État, place les
bénéficiaires dans une situation financière plus favorable que les autres
contribuables constitue une aide
d'État au sens de l'article 92, paragraphe 1, du traité», C-387/92, 295/97,
53/00 e anche le sentenze del Tribunale di primo grado T-204/97 e 66/02, nella
quale ultima il Tribunale conferma : «77 Selon une jurisprudence
constante, la notion d’aide est plus
générale que celle de subvention, parce qu’elle comprend non seulement des
prestations positives, telles que les subventions elles-mêmes, mais également
des interventions qui, sous des formes diverses, allègent les charges qui
normalement grèvent le budget d’une entreprise et qui, par là, sans être
des subventions au sens strict du mot, sont de même nature et ont des effets
identiques …78 Il en découle qu’une mesure par laquelle les autorités publiques
accordent à certaines entreprises une exonération fiscale qui, bien que ne
comportant pas un transfert de ressources d’État, place les bénéficiaires dans une
situation financière plus favorable que les autres contribuables constitue une
aide d’État au sens de l’article 87, paragraphe 1, CE …» (corsivi miei).
[87] E se lo stato non risponde adeguatamente alle
sollecitazioni della commissione, questa può interrompere il procedimento di
contestazione e passare direttamente alla decisione in merito, cfr. C-142/87.
[88]
C- 142/87 «15 La Commission, lorsqu' elle constate qu' une aide a
été instituée ou modifiée sans avoir été notifiée, a le pouvoir, après avoir
mis l' État membre concerné en mesure de s' exprimer à cet égard, d' enjoindre
à celui-ci, par une décision provisoire, en attendant le résultat de l' examen
de l' aide, de suspendre immédiatement le versement de celle-ci et de fournir à
la Commission, dans le délai qu' elle fixe, tous les documents, informations et
données nécessaires pour examiner la compatibilité de l' aide avec le marché
commun».
[89] In altre parole, la Commissione deve comunque portare a
termine l’intera procedura prima di poter dichiarare illecito l’aiuto, e non
usare il silenzio dello stato come una sorta di ammissione di colpa, cfr. sul
punto specifico, C- 142/87.
[90] C- 142/87 il recupero
della somma illecitamente versata è la conseguenza
logica della dichiarazione della illiceità dell’aiuto, per cui il recupero
non può essere considerata una misura sproporzionata rispetto all’oggetto, v.
anche C- 110/02 e C- 169/95 anche con
riferimento agli interessi, nell’intento di ricostruire la situazione
pregressa, C-110/02 anche se, come osservo più avanti non
sarà comunque necessariamente questo il risultato.
[91] E sul punto la giurisprudenza è pacifica ormai e si veda
per tutte C-173/73.
[92] Per cui, ad es. nel caso Alitalia, qualora l’UE
definisca quell’intervento un aiuto, nonostante la certezza in contrario dello
stato, non solo se ne dovrebbe richiedere la restituzione con gli interessi, ma
l’Italia sarebbe suscettibile della procedura dell’art. 228 (ora 260) per
l’inflizione di una multa imposta allo stato direttamente, oltre all’obbligo di
restituzione del versamento, da parte di Alitalia o dei suoi aventi causa.
[93] Il che è perfettamente vero, ma se lo stato non ha
avvertito la Commissione di nulla, ben può darsi che l’impresa non sappia nulla
in perfetta buona fede. In tal caso dovrebbe essere l’impresa stessa a farsi
parte diligente contro l’aiuto, ma la cosa, a dire il vero, appare quanto meno
improbabile, salvo che un’impresa concorrente e danneggiata non agisca.
[94] Beninteso, sul
piano strettamente internazionalistico e al di là delle procedure comunitarie,
resta il fatto che lo stato che non abbia regolarmente adempiuto agli obblighi
assunti incorre nella relativa responsabilità internazionale.
[95]
Cfr. C-332/98 Francia Commissionne: «31. Il convient de rappeler que, selon une jurisprudence constante,
l'objectif poursuivi par l'article 93, paragraphe 3, du traité est de prévenir
la mise en vigueur d'aides contraires au traité … En outre, la Cour a souligné
à plusieurs reprises que la dernière phrase de l'article 93, paragraphe 3, du
traité constitue la sauvegarde du mécanisme de contrôle institué par cet
article, lequel, à son tour, est essentiel pour garantir le fonctionnement du
marché commun. Il s'ensuit, selon cette jurisprudence, que, même si l'État membre estime la mesure
d'aide compatible avec le marché commun, cette circonstance ne saurait
l'autoriser à passer outre aux dispositions claires de l'article 93 du traité…32.
Il en résulte que l'objet de la disposition introduite par l'article 93,
paragraphe 3, du traité n'est pas une
simple obligation de notification, mais une obligation de notification
préalable qui, en tant que telle, comporte et implique l'effet suspensif
consacré par la dernière phrase de ce paragraphe. Contrairement à ce que
prétend le gouvernement français, cette disposition ne permet dès lors pas de procéder à une dissociation entre les
obligations qui y sont prévues, à savoir celles de notification de toute aide
nouvelle et celles de suspension provisoire de la mise à exécution de cette
aide» (corsivo mio).
[96]
Oltre ovviamente quello della “denuncia” a livello comunitario, con la
conseguente eventuale apertura della procedura di infrazione.
[97]
Supra nt. 73. Sembra qui evidente la posizione di “minorità”
dell’impresa rispetto allo stato, nella misura in cui l’impresa in pratica è
stata costretta (pur sapendo della dubbia legittimità dell’intervento statale,
rispetto al quale agiva insieme allo stato contro la Commissione) a prelevare
l’aiuto posta di fronte al rischio di perderlo del tutto rispetto alla
concorrenza (per la scadenza dei termini per richiederlo) qualora fosse stato
giudicato lecito. Se non si vuole parlare addirittura di dolo, di colpa dello
stato membro verso il sistema delle imprese, è difficile tacere.
[98] Cfr. le sentenze C- 173/73, C- 27/95, dove si afferma
che nulla osta che la giurisdizione nazionale riconosca la legittimità del
comportamento della impresa. Non è però chiaro come si concili questa eventuale
decisione, con l’obbligo assoluto di recuperare comunque l’aiuto per non
falsare la concorrenza. L’unica possibilità, a mio parere, sarebbe dunque
quella di agire contro lo stato per
ottenere il risarcimento del danno derivato all’impresa dal comportamento dello
stato, ma non la esenzione dal rimborso, comunque dovuto. Cfr.
la sentenza C-143/99 (Adria) dove appunto si afferma: «27. Les juridictions
nationales doivent garantir aux justiciables que toutes les conséquences d'une
violation de cette disposition seront tirées, conformément à leur droit
national, en ce qui concerne tant la validité des actes comportant mise à
exécution des mesures d'aide que le recouvrement des soutiens financiers
accordés au mépris de cette disposition ou d'éventuelles mesures provisoires
»…tra « tutte » le conseguenze, penso, potrebbe esservi anche il
risarcimento del danno.
[99] Ancora di recente, cfr. C-206/06 17.07.08: «86. Sulla scorta di tali criteri,
utilizzabili mutatis mutandis per
valutare se le compensazioni di costi non conformi al mercato causati dallo
Stato costituiscano un aiuto, spetta al
giudice nazionale verificare se, o in quale misura, l'importo di NLG 400
milioni possa considerarsi una
compensazione che rappresenta la contropartita delle prestazioni effettuate
dalla società designata per eseguire obblighi di servizio pubblico, o se tale
importo dovesse essere utilizzato ai fini del pagamento di costi non conformi
al mercato di altra natura, nel qual caso si tratterebbe di un vantaggio
economico corrispondente alla nozione di «aiuto» ai sensi dell'art. 87 CE. 87. Dal momento che la misura in questione
avvantaggia la SEP e/o le imprese produttrici di energia elettrica, un
vantaggio siffatto favorisce il settore della produzione di energia elettrica e
ha quindi carattere selettivo»
(corsivo mio).
[100] Cfr. la sentenza di cui alla nota precedente, «29. En effet, si les juridictions nationales sont amenées, à
cette fin, à déterminer si une mesure nationale doit ou non être qualifiée
d'aide d'État au sens du traité, elles ne peuvent pas, pour autant, se
prononcer sur la compatibilité des mesures d'aide avec le marché commun, cette
appréciation relevant de la compétence exclusive de la Commission, sous le
contrôle de la Cour ….» e v. anche C-39/94 (SFEI) :« 41 Dans le cadre du
contrôle du respect par les États membres des obligations mises à leur charge
par les articles 92 et 93 du traité, les
juridictions nationales et la Commission remplissent des rôles complémentaires
et distincts. 42 Lorsqu' elles tirent les conséquences d' une violation de
l' article 93, paragraphe 3, dernière phrase, les juridictions nationales ne peuvent pas se prononcer sur la
compatibilité des mesures d' aide avec le marché commun, cette appréciation
relevant de la compétence exclusive de la Commission, sous le contrôle de la
Cour …. » (corsivo mio).
[101] Per talune recentissime applicazioni, v. ad es., Cass.
Civile I, n. 21129 05.08.2008, Cass. C. I, n. 20996 01.08.2008, Cass. C. I, n.
16033 13.06.2008, che afferma: « Peraltro, in riferimento all'azione
revocatoria fallimentare - che è l'azione per la quale era stata posta la
questione - è stata offerta soluzione positiva in ordine della compatibilità
della disciplina nazionale con le norme comunitarie. Inoltre, è stato ricordato
che, sebbene non sussistessero elementi in grado di fondare la non applicazione
della norma che disciplina la revocatoria, sussisteva tuttavia l'esigenza di un
intervento correttivo, che è stato poi realizzato con la L. 12 dicembre 2002,
n. 273, art. 7 che ha rimosso l'incongruenza della previsione di un organo,
quale il commissario straordinario, rispetto ad una procedura che ormai non può
più avere una gestione conservativa dell'impresa, secondo le modalità già
previste dalla L. n. 95 del 1979. Su questo intervento si è pronunciata la
Corte di giustizia con una decisione (ordinanza 24 luglio 2003, C-297/01,
Sicilcassa), dalla quale emerge che a) non sono recuperabili gli aiuti
di Stato concessi in base alla L. n. 95 del 1979 sino al momento della
sua abrogazione pertanto, anche ammettendo - ma lo si è escluso - che la
disciplina della L. 95 del 1979 costituiva di per sè un regime di aiuti
di Stato, il beneficio dell'apertura della procedura non potrebbe essere
"recuperato", ma dovrebbero essere soltanto esclusi nuovi benefici
nell'ambito della procedura; b) la proroga della disciplina della L. n. 95 del
1979 non rappresenta di per sè un regine di aiuti se può essere interpretata in
modo da escludere nuovi aiuti di Stato alle imprese che vi sono
sottoposte; il che è quanto si impone per le considerazioni sopra svolte. Pertanto,
in base a detti principi ed agli argomenti svolti nelle sentenze sopra
richiamate, da ritenersi qui integralmente trascritti, perchè condivisi, senza
che sussista necessità di riesaminarli, ... , la sentenza non merita censura ... »
(corsivo mio). Curiosamente in riferimento, giustamente ignorato dalla Corte, è
stato fatto in materia di intercettazioni, in quanto affidate ad imprese
italiane così ingiustamente beneficiate! (Cass. S.U.C n. 18039 02.07.2008. per
un recentissimo obiter dictum in
merito della Corte Costituzionale (che constata la conformità della
legislazione alle norme in materia di aiuti di stto) v. C.C. 01.08.2008 n. 326.
[102]
Cfr. C-110/02 (Commissione c. Consiglio): «43. Dans ces conditions, admettre qu’un État membre
puisse octroyer aux bénéficiaires d’une aide illégale, antérieurement déclarée
incompatible avec le marché commun par une décision de la Commission, une aide
nouvelle d’un montant équivalent à celui de l’aide illégale, destinée à
neutraliser l’impact des remboursements auxquels ces derniers sont tenus en
application de ladite décision, reviendrait à l’évidence à mettre en échec
l’efficacité des décisions prises par la Commission en vertu des articles 87 CE
et 88 CE (voir, par analogie, arrêts du 20 septembre 1990,
Commission/Allemagne, C-5/89, Rec. p. I-3437, point 17, et du 7 mars 2002,
Italie/Commission, précité, point 104). Questa, vale la pena di sottolinearlo, è un’ulteriore
complicazine : l’impresa, infatti, può chiedere un risarcimento del danno,
ma facendo sorgere il problema delicato della sua natura, dato che lo stato non
potrebbe limitarsi a non ripetere l’aiuto, perchè altrimenti incorrerebbe nella
sanzione della illecita surrettizia riproposizione dell’aiuto.
[103] Del resto quelle agevolazioni sono proprio sempre
mirate, lecite o meno che siano, a favorire l’impiego.
[104] Per un accenno in materia, v. Corte costituzionale
sentenza 249/1995 § 4 dei considerando in diritto, e, con maggiore
attinenza al tema di cui nel testo, 443/1997 §§ 5 e
6 dei medesimi :« 5. ... Ma, si diceva,
in questa sede non è il punto di vista comunitario che interessa. Anche a voler
ritenere che, nell'attuale fase evolutiva del processo di integrazione europea,
sia questo un portato del rapporto di separazione che tuttora sussiste tra
ordinamento comunitario e ordinamento interno, è certo che all'impatto con il
nostro sistema giuridico, quello spazio
di sovranità che il diritto comunitario lascia libero allo Stato italiano
può non risolversi in pura autodeterminazione statale o in mera libertà del
legislatore nazionale, ma è destinato ad
essere riempito dai principî costituzionali e, nella materia di cui si tratta,
ad essere occupato dal congiunto operare del principio di eguaglianza e della
libertà di iniziativa economica, tutelati dagli artt. 3 e 41 della
Costituzione, che sono stati invocati a parametro dal giudice remittente. 6. La disparità di trattamento tra imprese
nazionali e imprese comunitarie, seppure è irrilevante per il diritto
comunitario, non lo è dunque per il diritto costituzionale italiano. Non
potendo essere da questo risolta mediante l'assoggettamento delle seconde ai
medesimi vincoli che gravano sulle prime, poiché vi osta il principio
comunitario di libera circolazione delle merci, la sola alternativa praticabile
dal legislatore (in assenza di altre ragioni giustificatrici costituzionalmente
fondate) è l'equiparazione della disciplina della produzione delle imprese
nazionali alle discipline degli altri Stati membri nei quali non esistano
vincoli alla produzione e alla commercializzazione analoghi a quelli vigenti
nel nostro Paese» (corsivo mio).
[105] Dolo che, come già accennato, potrebbe rilevare non poco
per la giurisdizione contabile dello stato!