Giancarlo Guarino
Per
una ricostruzione, in termini di sistema, dei diritti dell’uomo*
Sommario:
1. Introduzione: un’ipotesi di lavoro per
un sistema dei diritti dell'uomo. - 2. L’inesigibilità
di taluni diritti dell’uomo in circostanze specifiche. - 3.Un
caso paradigmatico:l’uso della lingua nella scuola in Belgio e le sue
conseguenze in termini di valore delle norme in materia di diritti dell’uomo.
- 4. La logica della struttura dei
diritti dell’uomo come risultante dalle ipotesi fin qui fatte e il problema
della responsabilità. - 4.1 Il
sistema dei diritti dell'uomo, nella ricostruzione ipotizzata. - 5. Il contenuto degli obblighi. - 6. La valenza “specifica” dei diritti dell’uomo
e il superamento dell’idea dei diritti dell’uomo regionali. - 7. Diritti dell’uomo e autodeterminazione.
- 8. La struttura del sistema dei diritti
dell’uomo. - 9. La compatibilità
“necessaria” tra le norme convenzionali in materia. - 10. Per la ricostruzione di una gerarchia
funzionale delle norme in materia di diritti dell’uomo. - 10.1. Il contenuto delle norme in materia di
diritti dell'uomo e i rapporti tra di esse. - 10.2. Una classificazione delle norme in materia di diritti dell'uomo, sotto
il profilo della loro trasformazione in norme di diritto interno. - 10.3. In conclusione: i termini della gerarchia
funzionale ipotizzata. - 11. Le
disposizioni regolatrici del sistema. - 11.1. L’art. 5 comune dei Patti delle NU sui diritti dell'uomo (1966). - 11.2.
L’art. 30 della Convenzione di Vienna sul
diritto dei trattati (1969). - 12. La
valenza pratica della visione sistemica delle norme in materia di diritti
dell’uomo: un’ipotesi applicativa.
1. Introduzione: un’ipotesi di lavoro
per un sistema dei diritti dell'uomo.
Quando
si fa riferimento a singoli “diritti umani” [1],
non si può prescindere dalla constatazione, apparentemente solo di fatto, per
la quale non è possibile parlare di uno di essi, senza tenere conto in maniera
complessiva anche degli altri [2].
Ciò, come vedremo, lungi dall’essere un semplice fatto, in realtà, propone
degli sviluppi molto interessanti, ai quali dedico attenzione nelle pagine che
seguono.
Ciò
che cercherò di fare dunque, è appunto, di mostrare come i diritti dell'uomo,
per lo più definiti, sul piano internazionale in molteplici e diverse
convenzioni non sempre esplicitamente, o solo, dirette a regolarli, ma anche in
norme di diritto internazionale generale [3],
costituiscano sempre più chiaramente un vero e proprio “sistema” organico,
benché non intenzionalmente organizzato. In esso, come vedremo, confluiscono tutte le singole disposizioni contenute
in accordi universali e “regionali”, le norme di diritto internazionale di
altra natura (generali e derivate, come talune importanti risoluzioni delle
NU), così come le norme di diritto interno in materia [4].
Tutte queste norme devono essere interpretate e analizzate in termini giuridici
per scoprirne i collegamenti reciproci e ricostruirne quindi il coordinamento e
la compatibilità (anche quando apparentemente in contraddizione, poiché una
contraddizione tra norme va comunque superata) [5]
per ricondurle ad un tutto, appunto organico, dove l’un diritto non vive da
solo in un assoluto asettico, ma esiste (e dunque può essere esatto) in quanto
collegato agli altri: giuridicamente,
non solo politicamente, che è il punto che mi preme di sottolineare. Ciascun
diritto (o meglio: la pretesa del riconoscimento di ciascun diritto), dunque,
non può prescindere da uno o più altri, anche se ciò non vale per tutti i diritti rispetto a tutti gli
altri [6].
Con la
ulteriore conseguenza per cui le singole specifiche disposizioni di singole
specifiche convenzioni (per non parlare delle norme generali e derivate di
diritto internazionale, e di quelle statali in materia) vanno lette in un
quadro unitario, che, non sopporta né può sopportare contraddizioni o
“eccezioni” [7].
Talché può accadere che una norma, che formalmente vincoli un soggetto a
garantire certi diritti agli individui, in concreto non trovi applicazione (e
dunque non consenta di esercitare quei diritti) in quanto o un'altra, migliore
o contenuta in un accordo a più vasta partecipazione soggettiva [8],
gli si sovrapponga oppure un’altra, preliminare, ne preceda necessariamente
l’applicazione in quanto ad essa strumentale [9].
Ciò, ed è questo una delle tesi che mi propongo di illustrare nel presente
lavoro, non accade per una circostanza di fatto, casuale [10],
ma perché non è lecito che si applichi, con la ulteriore conseguenza per cui la
mancata applicazione di quella norma, formalmente valida ed efficace, non determina responsabilità né interna né internazionale a carico di chi non vi
abbia dato seguito; responsabilità che, altrimenti e in linea di principio,
sarebbe perfettamente consequenziale.
Quanto
appena affermato costituisce, beninteso, la conclusione sintetica dell’analisi
che segue e dalla quale, appunto, derivano le constatazioni di cui sopra,
destinate come sono ad una prima riflessione sul problema.
A tal
fine, parto da un esempio che possa servire, e infatti servirà, come guida per
l’intero discorso, che intendo sviluppare. L’esempio in questione è quello del
diritto all’istruzione (e quindi alla scuola, intesa in ogni senso, da quello
addirittura fisico dell’edificio in cui svolgere la relativa attività a quello
culturale, politico e organizzativo) [11]
regolamentato e imposto in tutte le convenzioni in materia di diritti
dell'uomo, e già, come noto, nella stessa Dichiarazione
universale dei diritti dell'uomo del 1948 [12], e in particolare regolamentato
nella Convenzione sui diritti del bambino [13]
- la convenzione più sottoscritta al mondo (e anche la meno applicata!) -
per non parlare di quella europea sui
diritti dell'uomo, delle altre convenzioni regionali, ma, prima di tutto,
nei Patti delle Nazioni Unite sui diritti
dell'uomo (1966). Il “diritto” ivi previsto in termini generici, si
risolve, come di consueto in questo tipo di accordi e diversamente da quanto
accade per
Questo
diritto o aspettativa, che, a mio parere viene assai meglio definito come una garanzia offerta dalla Comunità
internazionale agli individui e in virtù appunto di quella garanzia, obbligatoriamente offerto (o da offrire)
da parte degli stati agli individui (tutti), per la realizzazione di questi
diritti, va collocata, come vedremo tra poco, in un vero e proprio sistema
organico di diritti e obblighi [16].
Dove per sistema intendo un insieme coordinato (o meglio, coordinabile, quanto
meno per via interpretativa) di norme positive [17]
che si integrano e in certo senso si sostengono a vicenda in un tutto organico,
che, oltre ad essere un sistema, di fatto, appare ordinato in maniera in
qualche modo gerarchica: una struttura, dunque, nel senso tecnico del termine [18].
2. L’inesigibilità di taluni diritti dell’uomo in circostanze specifiche.
Gerarchia,
appunto, ma in termini del tutto impropri, dato che non mi riferisco alla
gerarchia tra norme di primo e secondo grado, o ad altre analoghe
classificazioni normative, al loro “rango”, insomma, ma al fatto che,
indipendentemente dalla natura formale delle singole norme (e dunque
indipendentemente dal loro rango) [19],
tra le norme stesse si viene a costituire una sorta di gerarchia “necessaria”,
riferibile, come accennato, non al rango di ciascuna di esse, bensì alla strumentalità di alcune rispetto ad
altre. Dove cioè, per spiegarmi meglio, le une (quelle “strumentali”)
determinano, accanto alla possibilità materiale di realizzare le altre e
pertanto di realizzare quella determinata aspettativa (in termini, dunque,
politici e amministrativi), anche la stessa possibilità
giuridica di pretenderne l’effettiva realizzazione: ma non in termini di
legittimità (nel senso che il diritto in questione essendo legittimo è anche
dovuto, in astratto, indipendentemente dalla realizzazione di quello
strumentale), bensì solo di “azionabilità”. Insomma: di quel diritto, in quelle determinate circostanze, non è
giuridicamente consentito chiedere, e
pertanto ottenere, la realizzazione.
Tale,
ad esempio, è il caso di quelle norme che garantiscono, tra gli altri, il
diritto del bambino all’istruzione (per non parlare del diritto al gioco! [20]).
È fin troppo evidente, infatti, che il diritto all’istruzione può trovare
soddisfazione a due precise e preliminari condizioni:
a.- ovviamente che esistano in loco gli strumenti (principalmente processuali) per rendere quel
diritto “azionabile”da parte dei singoli
aventi diritto (e quindi anche ma non
solo delle collettività di cui essi individualmente fanno parte) ma principalmente
b.- che
altri “più fondamentali” diritti siano (stati) a loro volta effettivamente garantiti. Fondamentali, però, non per la loro importanza,
quale quelli alla vita o alla sopravvivenza o alla partecipazione politica,
ecc. [21],
bensì, se mi è consentito di offrirne una definizione, per la loro
“strumentalità necessaria” rispetto agli altri, a seconda delle circostanze
specifiche delle singole situazioni, quali potrebbero essere, ad es., quelli
all’acqua, alle strade, alla consistenza della popolazione, ecc.: diritti,
dunque questi ultimi, strumentali
(non “più importanti” o di rango superiore agli altri) ma proprio per questo necessariamente preliminari rispetto ad
essi, anche se non definibili ed elencabili a
priori. Diritti e non situazioni
di fatto [22],
nel senso che la mancata realizzazione della pretesa per “legittimi” motivi di
fatto, se può valere ad esentare dalla responsabilità politica, non basterebbe
e non basta ad evitare quella giuridica. Viceversa, se un diritto può essere
definito al momento non esigibile, non vi è responsabilità nel non concederlo [23],
fin tanto che non divenga esigibile.
E
dunque, come si vede, non mi riferisco ad un concetto di ordinamento gerarchico
nel senso tecnico-giuridico del termine - in cui cioè l’una norma “giustifica e
determina” l’altra - ma ad una struttura, appunto, nella quale le norme si
ordinano (in senso procedimentale) tra di loro non (o meglio, non solo) per la loro posizione
gerarchica, ma per la loro reciproca strumentalità: quando, se e finché detta strumentalità esista e permanga. Sarebbe,
infatti, solo banalmente ovvio affermare che, in mancanza della garanzia piena
del diritto alla vita (o alla sopravvivenza fisica, ecc.) non ci si possa
ragionevolmente attendere la realizzazione di quello all’istruzione o anche
solo che sia preliminarmente necessario realizzare innanzitutto il primo. Al
contrario, sta in fatto che, mentre quest’ultimo diritto può essere
legittimamente preteso (e perfino ottenuto) anche
in mancanza delle garanzie di cui sopra, è invece difficilmente
immaginabile, nonché che sia concretamente realizzabile, che sia semplicemente
legittimo pretenderlo in assenza, ad esempio, di aggregazioni stabili di
persone, in assenza di strade o di edifici adeguati fino all’ipotesi della
mancanza degli stessi studenti, come vedremo fra un momento. La “gerarchia” tra
le varie aspirazioni, cioè, è diversa da quella “classica”. Infatti, se, come
ho osservato, in assenza di garanzia del diritto alla vita è, però, egualmente
ragionevole pretendere quello all’istruzione, invece in assenza delle
strutture, e quindi in assenza della realizzazione dei diritti che consentono
di realizzare quest’ultima, la richiesta di istruzione può essere pretermessa [24]
senza incorrere in un illecito: ha,
infatti come mi accingo a mostrare, senso giuridico pretenderla, solo dopo che
le altre garanzie siano state assicurate. Non occorre, per fare un altro
esempio, un regime politico adeguato alle esigenze richieste dalle varie
convenzioni in materia di diritti dell'uomo per poter pretendere l’istruzione,
ma le condizioni materiali e strumentali per realizzarla effettivamente,
invece, occorrono, per cui, in mancanza di queste ultime - questo è ciò che mi
propongo di mostrare - non ha senso
giuridico pretendere l’istruzione, ragione per la quale quel diritto resta
non azionabile, benché perfettamente valido. La pretesa, dunque come vedremo
tra poco, non può più (o non può ancora) legittimamente essere quella
all’istruzione, bensì alla soddisfazione di quel diritto ad essa strumentale,
sempre che quel diritto non sia stato
altrimenti soddisfatto in maniera adeguata anche se non “puntuale” [25].
L’affermazione
in sé potrebbe apparire del tutto ovvia, ed espressa in termini politici lo è,
ma, se espressa in termini giuridici, lo è molto meno. Ciò che, infatti, si
intende sottolineare è che il problema del diritto all’istruzione trova posto
ed ha una sua veste giuridica, alla precisa condizione che il “clima generale”
della situazione giuridico politica del luogo in cui deve essere soddisfatto,
sia tale da consentirne effettivamente
la realizzazione. Altrimenti esso diventa solo un’affermazione astratta, concretamente non realizzabile. Un
giurista deve dunque porsi il problema, innanzitutto, di comprendere in che
misura quel “diritto” sia e possa essere, di volta in volta, un fine in se
stesso o uno strumento per la
realizzazione di un risultato più complessivo. Ma, in secondo luogo, deve anche
porsi il problema di valutare l’effettività di quel diritto quando la sua
realizzazione (e perciò la corrispondente pretesa) appaia impossibile in quel
determinato momento [26].
A ben
vedere, infatti, sembrerebbe che, se tra i diritti dell'uomo una
differenziazione può essere fatta in termini di rilevanza, essa è solo quella
tra diritti, per così dire, “primari” e gli altri. E ciò vale solo per dire che
la realizzazione dei primi in una situazione data è in qualche modo più urgente
di quella degli altri. Resta il fatto, però, che molti dei diritti, se vogliamo
chiamarli così, “secondari” possono essere pretesi indipendentemente dalla
realizzazione di quelli primari e viceversa.
Il
punto che desidero mettere in evidenza è che, una volta acquisito ciò, taluni
diritti non possono giuridicamente
essere pretesi, se altri (primari o secondari che siano) non siano stati
realizzati: manca la possibilità giuridica di pretenderne la realizzazione, non
manca la loro esistenza e la conseguente titolarità. Ma può anche accadere il
contrario, e cioè che, sempre parlando in senso strettamente giuridico, quei
diritti, perfettamente legittimi e suscettibili di essere, astrattamente,
pretesi, non lo siano nel concreto, non lo siano, ripeto, giuridicamente, in quanto essi si configurano come altrimenti
soddisfatti o, addirittura, ultronei o perfino dannosi.
Il
passaggio, quindi, dall’affermazione etica e moralistica di un diritto
dell’uomo, quale ad esempio quello all’istruzione (mai negato da nessuno, ma
realizzato in concreto da assai pochi stati) alla sua affermazione come
principio giuridico attuale, e quindi obbligatorio (nel senso stretto del
diritto internazionale, innanzitutto, ma
anche del diritto interno), implica che esso debba trovare una adeguata
collocazione logica nell’ambito dell’intero sistema, convenzionale e non, a cui
appartiene: non solo dunque (e già è un passo avanti rispetto alla affermazione
generica del “diritto” all’istruzione isolatamente inteso) nell’ambito della
specifica Convenzione, ad esempio, sui diritti dell’infanzia, ma nel quadro più
generale delle convenzioni (e delle norme generali di diritto internazionale)
in materia di diritti dell’uomo. In questo senso davvero, ben più che “umani”,
perché possono risolversi perfettamente in diritti individuali di singole persone, o, come vedremo tra
poco, essere diritti legittimamente negati, ma sempre a singoli, indipendentemente dal fatto che appartengano a gruppi o
etnie particolari.
Valga,
a spiegare, in termini concreti, il discorso fin qui svolto e come guida, un
esempio ben noto a tutti.
Nella
famosissima polemica (culminata in una ancora più famosa sentenza della Corte
Europea dei diritti dell'uomo) [27] sul diritto dei singoli cittadini
belgi [28]
(sia pure in quanto discendenti di una collettività di lingua e costumi
specifici: francese o fiamminga) all’istruzione nella propria lingua madre, i
giudici della Corte [29],
chiamati a valutare della legittimità della pretesa di alcuni singoli cittadini di lingua francese a
ricevere l’istruzione nella propria lingua piuttosto che in quella olandese,
affermavano, negando la legittimità di
quella pretesa, un principio proprio nell’ordine di idee su enunciato. E
cioè: quello all’istruzione nella propria lingua è un diritto assoluto e
fondamentale, ma [30]
la sua mancata piena soddisfazione non
può considerasi una violazione dei diritti fondamentali dell’uomo se è
frutto solo di un contesto socio amministrativo particolare (la schiacciante
predominanza della popolazione di lingua fiamminga in quella determinata zona
del paese), che si colloca in una
situazione generale, innanzitutto giuridica, nella quale i diritti e le
esigenze fondamentali dei singoli e delle collettività sono in realtà
ampiamente rispettati; nel quale contesto, perciò, una scuola ad hoc avrebbe rappresentato nonché un
costo eccessivo, uno spreco visto il numero limitato di allievi interessati e
un fattore di disturbo per la popolazione locale, nella quasi totalità
fiamminga [31].
Anche
se
Inesigibile, dunque, perché non si nega affatto che
quel diritto esista, né che sia assolutamente doveroso garantirlo e pertanto
astrattamente legittimo pretenderlo, ma si constata che, considerato il
complesso di garanzie amplissimo dato agli individui (di ogni etnia o lingua)
in un paese come il Belgio – lo affermo, ampliando alquanto e integrando le
parole stesse della sentenza - quella situazione individuale specifica non richiede una specifica protezione [36]:
è appunto, perciò, giuridicamente inesigibile, in quanto in quella particolare
situazione esso non può legittimamente
essere preteso né vi è, in conseguenza, obbligo alcuno di assicurarlo [37], o, se si preferisce, non vi è
violazione (e quindi responsabilità) nel non assicurarlo. In quella situazione specifica e solo in essa, quel diritto
semplicemente è tamquam non esset è
“sospeso” insomma (perché ve ne sono altri, che richiedono di essere applicati
e garantiti) [38],
salvo a ricomparire in tutta la sua concretezza (e quindi esigibilità) al mutare di quelle condizioni che oggi lo rendono inesigibile. Nel caso di
specie, e mi sembra rilevante, qualora vi fossero le strutture adeguate, in loco, sarebbe stato illecito non
consentire l’accesso agli studenti che ne avevano fatta richiesta [39].
Detto
del tutto incidentalmente, anche ciò che ho appena sostenuto, può servire a
chiarire meglio il senso di quanto ho affermato, all’inizio di questo lavoro, a
proposito della preferenza a parlare di diritti dell'uomo piuttosto che umani.
Nel caso descritto, infatti, il singolo, anche se “lontano” dalla sua collettività,
ha sicuramente un diritto all’uso della propria lingua, ma in quanto
quell’individuo si trovi inserito in un contesto sociale largamente
“garantista”, questo suo diritto (derivante appunto dalla sua appartenenza ad
una etnia riconosciuta e protetta, ma insediata altrove e che, dove è
prevalentemente insediata, dispone appieno di quelle garanzie, come
ripetutamente afferma anche
4. La logica della struttura dei
diritti dell’uomo come risultante dalle ipotesi fin qui fatte e il problema
della responsabilità.
Esprimendo
in sintesi quanto è risultato nella prima parte di questa indagine, mi sembra
che si possa dire che: è il contesto giuridico [41]
nel quale le singole pretese (tutte in sé legittime e doverose) devono essere
soddisfatte quello che determina la loro stessa esigibilità e, dunque,
l’effettività, immediata, o meno, di quei diritti.
Se
infatti è evidente, per restare all’esempio che ci ha accompagnati fin qui,
come la pretesa, in sé assolutamente legittima, all’istruzione (anche nella
propria lingua) può essere disattesa - come descritto sopra: e cioè in presenza
di circostanze particolarmente favorevoli ai diritti dell'uomo in genere e
quindi non solo a quelli in questione - esprimendo la insussistenza della
pretesa avanzata dai ricorrenti e quindi, non solo, senza violare quello
specifico diritto, ma addirittura affermandone uno in certo senso più complesso
e articolato - quello, come ipotizzato, ad evitare lo spreco di risorse e la
distorsione degli equilibri linguistici, in sé lesivi di interessi generali e, questa
volta sì, di diritti umani, cioè collettivi ma non etnici ecc. - [42]
si è mostrato anche come è altrettanto vero che la pretesa (astrattamente
legittima) a detta istruzione, ma in una situazione giuridico sociale in cui la
struttura fondamentale dei diritti dell’uomo sia invece priva delle garanzie
strumentali a quel diritto, può essere, di nuovo, considerata in quanto tale non legittimamente
suscettibile di azione, e perciò addirittura infondata, o almeno, in quello
specifico momento, inefficace e dunque inesigibile.
Insomma: il diritto c’è, ma non è effettivo.
Ripeto,
dunque, quel diritto è tecnicamente
inesigibile anche in quest’ultimo caso, ma per una motivazione esattamente
opposta a quella, citata, del Belgio: la mancanza
di garanzie sufficienti che devono essere necessariamente realizzate prima. Almeno nel senso che
l’assicurazione dei diritti strumentali
è giuridicamente preliminare e pertanto, per dir così, la pretesa “si sposta”
sul diritto strumentale, soddisfatto il quale, si potrà, anzi, si dovrà
soddisfare l’altro. La pretesa all’istruzione, insomma, è espressa, almeno
inizialmente, in maniera mediata attraverso la pretesa alla soddisfazione dei
mezzi per la sua realizzazione e ne risulta, per certi versi, rafforzata: la mancata realizzazione
della pretesa strumentale, impedendo
“a cascata” le altre, ne rende particolarmente pressante la realizzazione.
In
entrambi i casi, dunque, il diritto all’istruzione c’è e resta. Ma, nel primo è inesigibile in quanto altre
garanzie prevalgono e, in certo senso indirettamente, lo soddisfano, mentre nel secondo caso è di nuovo inesigibile,
ma perché la mancanza delle strutture giuridiche che ne consentano l’efficace
realizzazione, ne impedisce la stessa pretesa: essa potrà ricomparire, però,
perfettamente esigibile, una volta soddisfatte le menzionate esigenze
strumentali, sulle quali, come accennato, si è spostata la richiesta
originaria. Viceversa, nel primo caso, quel diritto potrebbe riemergere come
giuridicamente esigibile, laddove, ad es., la collettività di quella
particolare lingua divenga in quel luogo sufficientemente numerosa.
Ragionando
diversamente, del resto, ci si troverebbe di fronte ad una serie indistinta di
diritti e pretese, tutti posti sul medesimo piano e rispetto ai quali, la
mancata soddisfazione di qualcuno di essi, non su una inefficacia giuridica
della pretesa si potrebbe fondare, ma semplicemente su una incapacità politica
o amministrativa di realizzarla: una incapacità generatrice di responsabilità,
che potrebbe addirittura essere personale (dell’amministratore, del politico,
ecc.). In assenza, infatti, di una motivazione giuridica per escludere la
realizzazione di quelle pretese (strumentali e non), la responsabilità
politico-amministrativa sarebbe di tutta evidenza, sul piano interno, in conseguenza della violazione della norma
interna frutto di quella internazionale, e sul
piano internazionale, per la violazione di quest’ultima.
Cambiano,
invece, nei due casi i termini della
responsabilità, perché, grazie alla proposta ricostruzione, mentre nel caso del Belgio la responsabilità
non vi sarebbe - in nessun caso e sia a livello interno che internazionale,
dato che il diritto viene negato solo per l’eccessiva onerosità e quant’altro
di riconoscerlo specificamente - nell’altro
caso mancherebbe, sì, la responsabilità, per la specifica pretesa di istruzione, ma solo per quella, poiché
essa vi sarebbe appieno per la mancata realizzazione degli strumenti necessari,
la cui assenza impedisce la realizzazione del diritto all’istruzione e la sua
azionabilità: in questo senso ho parlato di rafforzamento
della pretesa [43].
Con un
corollario tanto evidente quanto importante. Posto che il diritto in capo ai
singoli individui esiste, sia pure in stato “quiescente”: 1.- nel caso del Belgio esso riemergerebbe con tutta la sua forza al
mutare delle circostanze che lo hanno reso finora inesigibile (ma senza
responsabilità per la sua mancata attuazione in passato), mentre 2.- negli altri casi esso si risolve nella
pretesa, attuale ed effettiva e quindi esigibile, alla realizzazione delle
esigenze strumentali (con la relativa responsabilità per la loro eventuale
mancata concretizzazione), salvo a riemergere, anche in questo caso, quando,
una volta ottenute le realizzazioni strumentali, a quel diritto non si dia
soddisfazione.
4.1. Il sistema dei diritti dell'uomo, nella ricostruzione ipotizzata.
Se,
dunque, l’analisi che precede è corretta, è impossibile sottrarsi alla
necessità di costruire i singoli diritti dell'uomo come parti di un sistema in
cui, posto che tutti e sempre quei
diritti sono da assicurare, la loro concreta azionabilità dipende dalle
circostanze giuridiche in cui devono
essere azionati. Giuridiche, non
sociali: nulla giustifica la mancata soddisfazione di un diritto, meno che mai
la mancanza dei diritti ad esso strumentali. Ma, la mancanza (per così dire,
“dolosa” o meno che sia) delle strutture fondamentali necessarie alla
soddisfazione di un diritto, può rendere la stessa pretesa alla soddisfazione
di quel diritto, come quello per restare all’esempio iniziale, all’istruzione,
giuridicamente infondata perché non
realizzabile in quel determinato momento
storico e in quella determinata temperie giuridica, ma non per questo
illegittima. Non diversamente da come, quel medesimo diritto, a sua volta
perfettamente legittimo, può, come detto, risultare egualmente non suscettibile
di una legittima pretesa, laddove esso sia incluso in un contesto più
ampiamente, benché altrimenti, garantito.
A ben
vedere, del resto, se si ragionasse diversamente (affermando cioè la permanente
esigibilità dei singoli diritti purchessiano), non si comprende che senso
avrebbe affermare, come sarebbe inevitabile, che un individuo o una certa
collettività ha un certo diritto e può legittimamente (e dunque,
processualmente) pretenderlo, ma detto diritto non gli viene in pratica
concesso sulla base della “giustificazione” per cui chi deve attuarlo non
dispone degli strumenti per farlo. Ciò, infatti, determinerebbe la conseguenza
poco logica (per non dire assurda) per cui o l’autorità, che non realizzi quel
diritto, possa al massimo attenuare la propria responsabilità (comunque
inevitabile) a causa delle difficoltà tecniche di realizzazione, oppure, di
fatto, la pretesa verrebbe semplicemente lasciata cadere (o addirittura
ignorata) sulla base, magari, di motivazioni tecnico amministrative, che, di
nuovo però, non esimono dalla responsabilità dello stato e dei suoi
amministratori, ma al massimo la attenuano [44].
D’altro
canto, quest’ultima costruzione, già di per sé assai claudicante, non
“coprirebbe” una situazione del “tipo belga”, dove la pretesa, che non viene
soddisfatta, non diversamente da quella di cui all’ipotesi precedente, ma in
nome di un principio superiore (che ne vuole legittimare la mancata
soddisfazione), resterebbe però tale: una pretesa legittima e non soddisfatta e
pertanto anche qui generatrice di responsabilità, ma non “attenuabile” ad es.
per l’ipotizzata impossibilità (o grande difficoltà) di attuazione, poiché la
sua mancata soddisfazione deriverebbe da un’esplicita e deliberata volontà di non realizzazione.
Ironicamente: una vera e propria responsabilità dolosa!
Ciò
che sto cercando di ipotizzare, invece, è proprio l’opposto, e cioè che, date
certe circostanze oggettive, il diritto non può, illico et immediate, essere esatto, neanche processualmente, per
cui la sua mancata realizzazione non genera responsabilità di sorta, né
internazionale né interna.
In
questo senso, e solo in questo senso, a mio parere, si può tornare a parlare di
diritti dell'uomo regionali. Non dunque per intendere che taluni diritti siano
validi (e validamente pretesi) in un posto e non in un altro del globo, ma nel
senso che singoli specifici diritti
possono risultare giuridicamente non azionabili in determinate circostanze
(anche geograficamente delimitabili) o perché non proceduralmente esigibili
oppure perché soddisfatti altrimenti [45].
Insomma,
se una differenziazione tra i molteplici diritti dell'uomo può essere fatta (e,
a mio parere, come si comprende, deve
essere fatta) essa non è tra diritti locali e diritti universali (religiosi o
laici, ecc., che siano) ma tra diritti, per così dire, “comuni” e diritti
strumentali, in mancanza della realizzazione dei quali i primi non possono
nemmeno essere validamente pretesi. Il che impone di individuare, nel complesso
dei diritti dell'uomo, quelli che ho definito “strumentali” (e quindi, tornando
a quanto affermato all’inizio, in questa prospettiva, definibili di “primo
grado”) [46]
e quelli in qualche modo di “secondo grado”. Ma in nessun caso, il problema può
essere posto in termini di rango delle norme e dei corrispondenti diritti:
taluni diritti giustificano l’esigibilità
di altri, ma non ne definiscono la legittimità. Ovviamente ciò non esclude
che taluni diritti siano esigibili tout
court semplicemente perché non ne esistono di strumentali ad essi o,
essendone stati realizzati quelli strumentali, quelli conseguenti non lo siano
stati.
Salvo
ogni necessario ulteriore approfondimento del tema, che non può avere luogo in
questa sede, questo ragionamento può valere a superare le problematiche, spesso
non risolvibili, legate, da un lato
alla pretesa in assoluto di rispetto di ogni singolo diritto dell’uomo, e, dall’altro, alla affermazione acritica
della loro non applicabilità in pratica per la mancanza delle condizioni socio
politiche necessarie [47].
Non a
caso, le convenzioni in materia di diritti dell'uomo, se ipotizzano la
sospensione di certi diritti in
situazioni particolari (di emergenza) ne consentono, altrettanto
eccezionalmente, una certa gradualità di realizzazione, corrispondente alle
situazioni specifiche di ogni singolo paese, e comunque sempre per un tempo
limitato.
E
quindi, come detto, si può addirittura considerare largamente superata l’idea
della regionalizzazione, affermando addirittura che i singoli diritti dell'uomo
siano differentemente realizzabili e legittimamente esigibili in parti diverse
non solo del mondo, ma di un medesimo paese a seconda delle diverse situazioni
socio-giuridiche locali [48],
fin tanto che esse non mutino, e perfino sotto una sorta di controllo
internazionale [49].
Occorre,
però, aggiungere che, affermando quanto sopra con particolare riferimento allo
“spostamento” della pretesa dal diritto immediatamente vantato a quello ad esso
strumentale, è d’obbligo una breve precisazione, anche qui solo per un rapido
accenno.
Le
situazioni ipotizzabili sono infatti due: quella dell’individuo che possa
rivolgersi direttamente allo stato (con adeguati strumenti processuali) e quella
dell’individuo che possa rivolgersi (anche o esclusivamente) ad istanze
internazionali. Nel primo caso, infatti, l’individuo può trovarsi di fronte
alla obiezione, squisitamente politica, per cui spetterebbe allo stato (qualora
molti siano i passi da compiere per poter soddisfare non solo quella
insoddisfatta aspettativa) scegliere e graduare la realizzazione non solo dei
diritti vantati, ma anche di quelli strumentali. Ciò, peraltro, non farebbe
altro (secondo il ragionamento fin qui svolto) che spostare ulteriormente
l’oggetto della pretesa, lasciando valida la mia tesi: l’inesigibilità di quel diritto, con la conseguente assenza di responsabilità per la sua mancata
soddisfazione, ma non per la mancata soddisfazione di quello ad esso (o di
quelli ad essi) strumentale. Né sarebbe diversa la situazione, quando non (o
non solo) ad una istanza interna possa l’individuo riferirsi, ma ad una
internazionale, che ben potrebbe, a sua volta, come, mutatis mutandis, nel caso del Belgio, “spostare” anch’essa la
pretesa, senza perciò interferire neanche negli affari interni dello stato.
Ciò
che, invece, a mio parere non è sostenibile è che in talune parti del mondo
valgano dei diritti diversi da quelli validi altrove, come cercherò di mostrare
ancora più avanti.
5. Il contenuto degli obblighi.
Tornando
ora all’esempio di cui fin qui, non solo il diritto all’educazione del bambino
è in realtà un “diritto” realizzabile e addirittura suscettibile di essere validamente preteso solo in presenza di
determinate condizioni (lo ripeto: giuridiche) di carattere preliminare locali
e non [50],
ma, inoltre, permette all’individuo, nella migliore delle ipotesi, solo di
pretendere dallo stato di adoperarsi perché quella esigenza venga soddisfatta o
addirittura, semplicemente di ottenere l’applicazione di qualche sanzione
internazionale allo stato che non abbia adempiuto all’obbligo, sempre che, come
in questo caso, vi sia una istanza internazionale abilitata a sanzionare il
comportamento dello stato.
Portando
alle sue ultime necessarie conseguenze quanto sto affermando, ne consegue
dunque che:
a.- in primo luogo, non solo, come
spiegato più sopra, all’individuo (prima e più che alle “collettività” [51]) potrebbe essere nel concreto negata
la stessa facoltà giuridica di pretendere il rispetto nei suoi confronti di quel determinato diritto, che, in questa
maniera diverrebbe un diritto inesigibile o inefficace,
b.- ma, inoltre, anche nel caso più “sofisticato”, citato
sopra (quello relativo alla Convenzione europea) se pure il sistema permette al
cittadino, soddisfatte le condizioni di cui in a, di ottenere direttamente l’applicazione di una sanzione
(pecuniaria, per lo più) allo stato inadempiente, non gli permette, comunque,
di avere concretamente la scuola, ma solo (al massimo) di pretendere
validamente, ma con altra e diversa
azione, che si predispongano gli strumenti per realizzarla.
Da un
lato, dunque, la descritta ambivalenza del sistema definisce, accanto a diritti
immediatamente esigibili, diritti mediati non direttamente azionabili
dall’individuo e, dall’altro, la garanzia degli specifici diritti è legata, più
o meno strettamente e inscindibilmente, alla presenza effettiva in loco delle strutture giuridiche
strumentali necessarie.
Ciò
non solo non impedisce, come vedremo tra un momento, ma addirittura impone di
costruire i diritti dell'uomo come un insieme organico, tale che, pur in
presenza dei limiti descritti, in ogni circostanza sia possibile che un
individuo possa o riesca ad esercitare validamente la pretesa di vederseli riconosciuti
direttamente [52].
In
sostanza, la situazione che deriva da questo sistema, così come descritto al
precedente paragrafo, è che, da un lato,
l’ordinamento internazionale, imponendo agli stati, obblighi di facere o di non facere [53]
chiede agli stessi di predisporre al loro interno tutti i meccanismi necessari
per la soddisfazione di quei diritti (nel modo e con le procedure proprie di
ogni singolo regime giuridico, sulla base di quanto indicato nel paragrafo che
precede), mentre d’altro canto, gli
individui sono titolari di quei dritti, mediati
e non, sia verso lo stato che, se del caso, verso altri individui [54].
È
infine appena il caso di sottolineare come in questa circostanza (ma in realtà
non solo) l’obbligo dello stato deve necessariamente essere costruito come un
obbligo assoluto [56]
verso
Del
resto, anche negli ordinamenti giuridici statali più complessi ed evoluti,
talune aspirazioni difficilmente possono trovare immediata soddisfazione, fin
tanto che le necessarie strutture non siano state messe in funzione o create tout court dallo stato. Ai cittadini,
talvolta, è solo aperta la possibilità di far valere le proprie pretese
direttamente verso lo stato, almeno in termini di risarcimento del danno.
Va,
infine, aggiunto che i diritti dell'uomo, specie così come indicati nelle
convenzioni in materia, sono sempre diritti concreti e attuali. Quasi mai,
nelle convenzioni si fanno affermazioni di carattere politico o filosofico. Non
si afferma ad esempio e genericamente, la libertà di cambiare religione, ma la
libertà di sceglierla [59],
così come non si afferma il diritto alla democrazia, ma se ne affermano le
caratteristiche [60].
In compenso, ciascuno stato deve realizzare quei diritti concreti e, cosa
importante al di sopra di tutto,
6. La valenza “specifica” dei diritti
dell’uomo e il superamento dell’idea dei diritti dell’uomo regionali.
Per
concludere il quadro generale del sistema che desidero descrivere e prima di
passare alla sua articolazione, giunge a questo punto opportuno un breve
ritorno al tema, ricorrente in dottrina, della regionalizzazione: sull’idea,
cioè, che esistano (e siano magari anche auspicabili) sistemi o cataloghi di
diritti dell'uomo regionali, diversi. Ora, se è indubbio che di convenzioni
“regionali” ne esistano varie (tenuto conto che di diritti dell'uomo non si
parla solo nelle convenzioni esplicitamente rivolte al tema), e che le varie
convenzioni abbiano accenti diversi nei contenuti, legate come sono alle
specifiche realtà culturali in cui vengono redatte, è assolutamente evidente
che non si può concepire un regime dei diritti dell'uomo (inteso come elencazione
di prerogative e diritti specifici) differenziato da regione a regione, fatte
salve le eventuali situazioni o esigenze particolari, che però sono legate a
fenomeni e convinzioni di natura culturale [62].
Ciò non solo perché ovviamente sarebbe assurdo pensare che, ad esempio, la
tortura sia vietata in Africa e non in Europa [63],
ma principalmente perché non si deve dimenticare che i diritti dell'uomo sono
parte integrante del diritto internazionale, che è l’ordinamento giuridico che
regola e gestisce
Quello
che, invece, emerge con chiarezza, anche solo dalla breve analisi che precede,
è che le situazioni specifiche delle singole regioni della terra, fanno sì che
in certi posti sia necessario prevedere e regolamentare certi determinati
diritti o accentuarne certi aspetti, che altrove non occorre più regolamentare
in maniera esaustiva, quando addirittura non si abbia il caso del superamento
di certi diritti, in quanto soddisfatti altrimenti o, se si preferisce, con
strumenti più sofisticati [65].
Beninteso,
nulla osta a che in una “regione” si decida di garantire maggiori diritti di quanto usualmente avviene altrove. Ma, come
vedremo tra poco, anche il solo fatto che le norme, benché “regionalizzate”,
siano parte di un sistema unitario quale è quello dell’ordinamento
internazionale, determina la conseguenza per cui le situazioni di maggiore
garanzia finiscano per estendersi anche alle zone o ai gruppi umani meno
protetti. Ciò che, invece, può certamente accadere (ma attiene più alla
possibilità materiale di ottenere soddisfazione delle proprie aspirazioni,
piuttosto che al catalogo dei diritti per dir così materiali) è che i meccanismi previsti in una certa convenzione,
siano tali da assicurare all’individuo la possibilità concreta di fare valere
le proprie aspirazioni in maniera diversa e più efficace di quanto accada
altrove. Ma, almeno per lo più, (me lo si permetta, in questa fase della
riflessione in materia) i diritti materiali specifici sono quelli, anche quando
con espedienti vari si cerchi di aggirarne il significato. Emblematica, in
questo senso, è la polemica nata intorno alle pratiche di tortura, negate dagli
usa, per non parlare delle
alquanto fantasiose definizioni destinate a sottrarre gli individui al
controllo della legislazione comune, che progressivamente sembrano sempre più
riconosciute come tali dalle stesse giurisdizioni statunitensi [66].
E,
inoltre, un altro punto va sottolineato per evitare di incorrere in un discorso
sostanzialmente rituale, ma assai poco corrispondente alla realtà. Lo stesso
concetto di regionalismo, infatti, tende ormai a perdere sempre di più di
significato, nella misura in cui (una misura, sembrerebbe, sempre più ampia) [67]
l’identificazione che i popoli e le collettività anche minuscole (ma
principalmente lo stesso diritto internazionale e, comunque, parte consistente
del movimento convenzionale in materia) definiscono di se stessi, non è più
riferita né riferibile alla sola regione geografica in senso “tradizionale”,
anzi ne prescinde ormai del tutto, trasferendosi
quell’identità sulla cultura, la religione, ecc., su quella, insomma, che
oggi viene convenzionalmente definita civiltà
[68].
Sempre
meno l’identificazione dei gruppi umani è, strettamente parlando, geografica [69]. La
stessa convenzione europea ne è un esempio abbastanza evidente, se si pensa che
ad essa fanno riferimento e sono legati paesi sempre meno geograficamente
europei, ma sempre più “culturalmente”, starei per dire ideologicamente, legati,
cioè, ad una (magari discutibile) tradizione europea, o, addirittura,
interessati a farne parte (ad aderirvi con questo mezzo) pur essendone
strutturalmente e storicamente assai lontani. La scelta di fare parte di un
ambito (ormai non più) geografico è sempre più politica e addirittura
emozionale, comunque, culturale.
Non
credo, del resto, che sia utile chiudere gli occhi di fronte ad una realtà
oggettiva, che vede, ad esempio, l’evidente volontà [70]
di coincidenza di interessi e di idee (anche determinata da una, vera o
presunta, ostilità altrui) [71]
in un “mondo islamico”, che ormai (anche convenzionalmente parlando se solo si
pensa alla Carta del Cairo) geograficamente non ha nulla di regionale (per non
parlare della totale assenza di contiguità), visto che si estende dall’estremo
occidente africano all’estremo oriente asiatico, ma che ha fortissimo un senso
di coesione, per certi versi addirittura revansciste! [72] Ma anche altrove la situazione non è
molto diversa, se solo si pensi all’evidente e sempre più stridente contrasto,
ai limiti di un vero e proprio confronto, tra il mondo sud e centroamericano e
il resto del continente: un mondo che, diviso magari anche al suo interno,
sempre meno si trova in consonanza con il settentrione del continente.
Nemmeno,
infine, va dimenticato che una parte consistente del mondo (specie “orientale”)
non partecipa ad esperienze regionali in materia, pur essendo, almeno in parte,
legato alle convenzioni universali.
Beninteso,
anche questo è un discorso tutto da approfondire, ma sia anche qui consentito
un brevissimo esempio, che può valere a chiarire il senso delle affermazioni
che precedono e specialmente il modo in cui cerco di proporre l’interpretazione
e la costruzione della descritta struttura dei diritti dell'uomo.
Come
noto - sorvolando a fine esemplificativo sul fatto che taluni strumenti non
sono ancora in vigore - il progetto di nuova Carta Araba dei diritti dell'uomo,
all’art. 3, afferma l’eguaglianza tra uomo e donna, sia pure (con una
affermazione alquanto imbarazzante) « dans le cadre de la discrimination positive instituée au profit de la femme par la
charia islamique et les autres lois divines et par les législations et les
instruments internationaux», ma gli stati parte della futura Carta, sono
attualmente parte della Carta Araba del 1994, che all’art. 2, si limita a
definire la parità dei sessi, mentre la cd. Carta del
Cairo [73]
(che riguarda tutti i paesi islamici e non solo quelli arabi, dunque) all’art.
6 afferma, con una norma alquanto più complessa: «a) Woman is equal to man in
human dignity, and has her own rights to enjoy as well as duties to perform,
and has her own civil entity and financial independence, and the right to
retain her name and lineage. (b) The
husband is responsible for the maintenance and welfare of the family» [74].
La
domanda da porsi è quale sia, alla fine, il regime che si applica ad una donna
in un paese che abbia sottoscritto le tre convenzioni e, magari, anche i Patti delle
Nazioni Unite sui diritti dell'uomo e, perché no,
Ciò
che cerco di dimostrare, nei paragrafi che seguono, è che, a conti fatti, la
norma applicabile a tutti in ciascuno stato, sarà, nell’ordine: quella più
favorevole [76]
e, in mancanza (o a parità di condizioni), quella contenuta in norme
contrattuali a partecipazione più ampia [77].
7. Diritti dell’uomo e
autodeterminazione.
Merita
di essere ricordato a questo punto, che, riproducendo in qualche maniera il
principio espresso già nel famosissimo art. II della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789 [78],
ribadito nell’altrettanto famosa formula della Dichiarazione universale dei diritti
dell'uomo [79],
i Patti delle NU sui diritti dell'uomo, si aprano entrambi (art. 1, comune) con
l’affermazione del “diritto” all’autodeterminazione [80].
L’enunciazione,
apparentemente superflua e ridondante, di quella norma vale, a mio parere, ad
indicare una cosa, tanto semplice quanto fondamentale: non può (per definizione) esservi
rispetto effettivo dei diritti dell’uomo se non vi è assoluto rispetto per
l’autodeterminazione, se, cioè, il processo di autodeterminazione non si
sia regolarmente sviluppato e si continui a sviluppare in quanto si tratta di
un processo permanente [81].
Anzi, a voler essere più precisi, si può affermare che, per definizione, non
può esservi rispetto effettivo dei diritti dell'uomo, se non risultino
assicurate (in permanenza, posta la natura procedimentale
dell’autodeterminazione) le aspirazioni popolari in materia di
autodeterminazione: indipendentemente sia dal modo di accertamento di quella
volontà (realizzato, per intenderci, attraverso meccanismi di voto periodico o
altro) sia dal regime politico (“democratico”, o meno) vigente [82].
Un
popolo sottomesso, ad esempio, ad un regime coloniale o ad una occupazione
militare [83],
che ne limiti dunque grandemente la libertà, non può (per definizione)
considerare realmente rispettati i diritti dell'uomo, se non altro perché
quanto meno quello alla libertà di scelta del regime politico internazionale ne
risulta conculcato, così come (ed è cosa, a mio parere di estrema importanza)
un popolo il cui regime politico sia irrispettoso della sua libertà di scelta,
non può considerarsi (di nuovo: per definizione) garantito effettivamente nelle
sue aspettative al rispetto dei diritti dell'uomo.
La
riproduzione delle su indicate norme internazionali in una loro articolata,
benché sintetica, elencazione, è, del resto ormai chiaramente contenuta in
quella sorta di summa del diritto
internazionale vigente, che è la risoluzione delle NU sulle relazioni
amichevoli tra gli stati, 2625 (XXV), che garantisce l’autodeterminazione
(“interna” e “tradizionale”), ma che, unita all’Atto finale della Conferenza di
Helsinki sulla sicurezza e la cooperazione in Europa, dove si afferma il
principio per cui ad ogni stato deve essere riconosciuta la libertà di scelta
delle proprie alleanze politiche economiche e militari [84],
garantendo anche l’autodeterminazione “esterna”, definisce una sorta di
decalogo di norme inderogabili di diritto internazionale.
I
predetti documenti, come noto, si concludono con una disposizione ormai
standard: quella per cui nessuna norma di essi può essere intesa come destinata
a derogare alle norme della Carta (secondo quanto affermato al suo art. 103),
nella quale, peraltro, sia pure in maniera estremamente sintetica, quei
principi sono espressi: nell’art. 1.2 dello Statuto [85],
dove si afferma che le relazioni amichevoli tra gli stati possono essere
realizzate solo se e quando siano rispettati i principi dell’eguaglianza dei
diritti dei popoli e dell’autodeterminazione, entrambi, perciò, strumentali
alla pace. Come dire (e come in sintesi già aveva intuito la dichiarazione
francese del 1789) che senza libertà (uso il termine in senso lato e quindi con
riferimento agli ordinamenti interni e all’ordinamento internazionale) non
possono esservi diritti dell'uomo effettivamente assicurati, ma, quel che conta
di più, suscettibili di essere ritenuti dalla Comunità internazionale
soddisfacenti: per definizione, in
qualche modo. In quelle circostanze, infatti, quei diritti si possono affermare
e garantire sulla carta, ma senza l’una non vi sono, non possono, logicamente,
esservi gli altri.
Già
altrove, peraltro, avevo segnalato come quella pretesa di “eguaglianza dei
popoli” (di cui al menzionato articolo 1.2 della Carta, sempre legato alla
autodeterminazione, anche nei documenti citati) abbia un’implicazione estremamente
pregnante ed evolutiva, che conduce alla affermazione per cui a tutti i popoli
devono essere assicurati eguali diritti di carattere anzitutto interno [86],
visto, tra l’altro, che si parla di popoli e non di stati [87].
Come dire che ogni regionalizzazione dei
diritti dell'uomo, implica comunque almeno una robusta base comune, garantita
dall’ordinamento internazionale, espresso, nel caso, dalle NU.
In
questo senso, mi pare, la costruzione dei diritti dell'uomo come un sistema
integrato a livello universale, svolge, come vedremo tra poco e già accennato
più sopra, una sua funzione positiva: assicura, a dir poco, l’obbligo
internazionale di garantire a tutti i popoli eguali diritti, a cominciare da
quelli umani, da rafforzare e approfondire a norma del § 3 del medesimo
articolo 1 della Carta, non a caso separato dal precedente, che rappresenta
pertanto una specificazione e integrazione dell’obbligo generale definito al
numero precedente.
Il
fatto per cui, a livello regionale vi siano strutture capaci di creare diritto
“locale” e quindi anche diritti dell'uomo, è dunque soltanto un corollario
dell’affermazione per cui i diritti dell'uomo sono parte integrante del diritto
internazionale e, in quanto tali, sono universali anch’essi, specie se
integrabili tra di loro. In questo senso un ruolo molto importante ha giocato e
gioca
Ma, se
le cose stanno così, non è solo
8.
La struttura del sistema dei diritti dell’uomo.
Le
osservazioni fin qui fatte, sono servite a mettere in luce gli elementi che
inducono, a mio parere, a considerare la natura “sistemica” dei diritti
dell'uomo. Mi sono infatti proposto di mostrare come i singoli diritti di cui i singoli
individui sono titolari (sia pure, in molti casi, solo in maniera mediata) [90]
non possono essere visti come un puro e semplice elenco indifferenziato, poiché
il collegamento logico giuridico che li lega fa sì che determinati diritti, pur
non essendo definibili come subordinati ad altri in termini di rango [91],
e pur essendo, quindi, tutti e ciascuno formalmente
suscettibili di una pretesa attuale in ogni momento, in realtà non possano essere legittimamente pretesi
dai singoli nei confronti degli stati in cui agiscono:
a.- fin tanto che non siano stati
realizzati i diritti che a ciascuno di essi siano strumentali - dato che, per
restare all’esempio che ci ha accompagnati dall’inizio, pretendere la scuola in
una determinata situazione, può essere semplicemente e giuridicamente impraticabile in mancanza della preliminare
soddisfazione di altri diritti e quindi, se del caso, delle relative strutture
- per cui quei diritti, nello stato in cui si trovano, possono, e a mio parere
devono, definirsi come giuridicamente
inesigibili così come
a.1.- inesigibili possono risultare quei diritti,
rispetto ai quali situazioni locali oggettive,
in presenza della soddisfazione adeguata del complesso dei diritti dell'uomo,
ne sconsiglino la realizzazione;
b.- tanto più che, la natura particolare
degli obblighi contrattuali in
materia di diritti dell'uomo, assunti dagli stati sul piano internazionale, pur
determinando, in caso di loro disapplicazione o violazione, la responsabilità
dello stato stesso nei confronti (in senso lato) della Comunità internazionale [92],
non crea di per sé le condizioni perché quei diritti siano concretamente
esigibili all’interno dello stato:
i.- sia perché
lo stato è obbligato internazionalmente alla realizzazione degli strumenti e
delle strutture (giuridici e materiali, dunque) necessari alla soddisfazione di
quei diritti, in mancanza della quale realizzazione il diritto resta inoperoso
a causa del fatto che l’obbligo internazionale è, come rilevato prima, un
obbligo di facere (responsabilità
interne e internazionali, a parte),
ii.- sia perché in assenza della
soddisfazione (sempre attraverso strumenti giuridici e materiali messi in opera
dallo stato) di alcuni diritti ad esso preliminari, quelli da pretendere non
risultano tecnicamente esigibili, quando addirittura
iii.- non risultino giuridicamente “superati” dalla presenza di altre esigenze
altrimenti soddisfatte e giuridicamente valide, che ne rendano inutile, quando
non addirittura ultronea, la concreta realizzazione.
A
questo punto, dunque si deve porre il problema del contenuto esatto degli
obblighi - esigibili o meno che siano i relativi diritti - effettivamente gravanti
sugli stati in quanto detti obblighi risultano da un movimento convenzionale
complesso e ad alta variabilità di partecipazione soggettiva, su cui più avanti
e in particolare al § 11.
Con
un’ulteriore, fondamentale premessa: perché in effetti, differenze non
marginali si determinano tra gli ordinamenti giuridici che, nel ratificare le
norme convenzionali le trasformano (automaticamente o meno) in norme interne a
tutti gli effetti e quelli in cui ciò non avviene. Nel primo caso, infatti, a
prescindere dai meccanismi adottati dai vari ordinamenti, è indispensabile che
le giurisdizioni e gli operatori giuridici nazionali tengano il debito conto
del fatto che quelle norme internazionali sono
norme di diritto interno a tutti gli effetti e vanno applicate tenendo conto
del loro significato (e interpretazione) anche alla luce e nell’ambito del
diritto internazionale.
Infatti,
nella misura in cui l’obbligazione internazionale è assunta da parte dello stato
ne deriva, delle due, l’una conseguenza:
a.- o lo stato “introduce” quelle norme
(o meglio, il loro contenuto) [93]
nell’ordinamento interno, rendendole così norme a tutti gli effetti di diritto
interno e
a.1.- qualora non self-executing [94], assume l’obbligo, di diritto interno [95]
e non “solo” di diritto internazionale, di realizzarle in concreto [96],
oppure
b.- ne trascura la trasformazione e
pertanto quelle disposizioni mantengono il proprio valore sul solo piano del
diritto internazionale, dove, peraltro, la loro esecuzione può essere
legittimamente pretesa, in termini di responsabilità internazionale, sia dagli
altri soggetti (quando, ipotesi mi pare assai rara, ne sia verificabile una
natura reciproca) sia dagli individui qualora essi siano ammessi ad una
procedura che consenta di accertare la responsabilità dello stato e il
conseguente eventuale risarcimento a vantaggio dell’individuo stesso, sia,
infine, dalla collettività internazionale nei modi classici di quest’ultima:
dalla Comunità internazionale «as a whole» [97],
insomma.
Tornerò
brevemente su questa questione in conclusione, per illustrarne alcune possibili
conseguenze “operative”. Per ora, mi limito alla discussione del tema dal punto
di vista strettamente internazionalistico; sotto il punto di vista, cioè, degli
obblighi effettivi degli stati.
9. La compatibilità “necessaria” tra
le norme convenzionali in materia.
Le varie disposizioni convenzionali in materia di diritti
dell'uomo (ovviamente tutte, e non solo quelle esplicitamente intitolate all’argomento),
dato che le norme di diritto internazionale generale sul punto sono valide per
tutti i soggetti, vanno studiate non solo per il loro contenuto specifico, ma
anche e preliminarmente, alla luce delle norme che regolano il coordinamento e
la successione dei trattati, dato che, i vari accordi realizzati in materia,
pur vertendo grosso modo sul medesimo oggetto, hanno, però, una partecipazione
soggettiva non solo diversa e variata, ma notevolmente “intrecciata”. Molto
spesso, infatti, uno stesso stato è parte di più convenzioni regionali o
comunque particolari aventi ad oggetto questioni di diritti dell'uomo, magari a
loro volta a partecipazione differenziata, per non parlare del fatto che in
pratica tutti i soggetti sottoscrittori delle singole convenzioni sono anche
parti degli accordi universali in materia [98].
E, a
dire il vero, nemmeno ciò è, a stretto rigore, sufficiente. In quanto i vari
stati sono anche legati a strutture organiche più o meno forti, che emettono
norme talvolta solo esortative, ma talvolta obbligatorie o almeno
“consuetudinariamente” considerate tali, come
Quello
appena descritto è, per dir così, il quadro normativo all’interno del quale
tutto il discorso sulla compatibilità, il collegamento, la graduazione e
l’efficacia delle norme di diritto internazionale in materia di diritti
dell'uomo va condotto [101].In
questo quadro, ovviamente, è particolarmente importante analizzare i rapporti
reciproci tra le norme contrattuali sul punto, utilizzando, anche, le
disposizioni vigenti in materia di coordinamento tra norme contrattuali, per
collocare le singole disposizioni (e dunque per conseguenza i singoli trattati)
in un sistema coordinato che ne consenta l’applicazione senza determinare
violazioni di nessuna di esse, quando pure siano tra di loro contraddittorie: [102] nel rispetto, insomma, di quelle
regole che, da un lato, definiscono la non contraddittorietà delle specifiche
disposizioni contrattuali con quelle delle NU e strumenti ad esse collegati e
da esse derivati [103]
e, dall’altro, affermano il divieto di usare la propria legislazione interna e
le stesse norme contrattuali internazionali, per limitarne la validità o
derogarvi. Occorre, cioè in altre parole, ricostruire i contorni precisi di una
struttura che, permetta di accertare il contenuto effettivo degli obblighi
incombenti sui vari soggetti [104].
Per
restare al sistema strettamente pattizio, nel caso specifico dei diritti
dell'uomo, la regola comune del diritto dei trattati, che vuole che un soggetto
sia obbligato nei confronti di un altro con il quale abbia un accordo senza che
ciò gli impedisca di essere vincolato sul medesimo oggetto ad altro obbligo con
altro soggetto sottoscrittore di un altro trattato, pur essendo e restando
formalmente valida, in realtà non può trovare applicazione; anzi, potrebbe
risultare addirittura assurda (per non dire semplicemente: inefficace tout court), specie tenuto conto del
fatto che allo stato compete di rendere concreti nel suo ordinamento interno
gli obblighi in materia di diritti dell'uomo mediante la propria legislazione.
Se, infatti per esempio, uno stato sottoscriva, e lo applichi, un accordo in
cui si obblighi, che so, a consentire libertà di scelta religiosa sul proprio
territorio, non può evidentemente onorarne un altro in cui si impegni a non
consentire quella libertà di scelta o a limitarla. Proprio la menzionata natura
“programmatica” di quelle norme, il fatto più precisamente per il quale quelle
norme sono, per lo più, applicate e rispettate correttamente da un soggetto solo se e quando siano rese in norme
interne, può puramente e semplicemente impedire di applicare la ricordata
regola corrente in materia di coordinamento tra norme contrattuali, con le
conseguenze che vedremo tra poco [105].
E
dunque, solo costruendo i diritti dell'uomo come un sistema organico, composto
da norme universali e particolari, che, però tutte devono trovare composizione in un insieme ordinato, è
possibile eliminare le antinomie (e le “eccezioni”) tra le varie disposizioni
contrattuali e le ambiguità cui mi riferivo più sopra, ma specialmente solo
così è possibile sapere quali norme, e con quali contenuti, devono i singoli
soggetti applicare e, per conseguenza, quali gli individui possano legittimamente
pretendere che vengano applicate.
10. Per la
ricostruzione di una gerarchia funzionale delle norme in materia di diritti
dell’uomo.
Sebbene,
dunque, non si possa parlare di gerarchia in senso formale tra le menzionate norme,
l’effetto della convivenza di regole di diversa provenienza, ma indirizzate a
stati in qualche modo legati solo ad alcune di esse, impone di analizzare quel
complesso di norme come parte di un sistema, non preordinato, ma tale che, in
ultima analisi, le norme si organizzano (quasi naturalmente) in un sistema
gerarchico, il cui effetto non è però quello della prevalenza formale (e quindi
predeterminata una volta per tutte) dell’una norma sull’altra o dell’un gruppo
di norme sull’altro, ma della creazione, appunto, di un sistema unitario nel
quale si articola un meccanismo che permette, di volta in volta, di sapere,
oltre quanto già sottolineato con riferimento alla inesigibilità di quelle
pretese i cui diritti strumentali non risultino realizzati, quali norme
“locali” (cioè, contenute in accordi a partecipazione ristretta di stati) e che
siano divergenti da quelle contenute in accordi a partecipazione più vasta
(quelli universali, ad esempio) siano semplicemente inapplicabili a vantaggio
di queste ultime e quali invece restino applicabili e efficaci. Ma, come già
rilevato, anche con l’effetto ulteriore per cui le norme “migliori” (più
garantiste, cioè) tendono a
sostituirsi a quelle meno garantiste [106]
indipendentemente dal fatto che
trovino posto in accordi universali o regionali o perfino, in norme interne dei
soggetti partecipi del sistema.
E
dunque, essendo il risultato quello per cui alcune norme prevalgono
necessariamente (benché occasionalmente) su altre, e talune si rivelano
addirittura inapplicabili o “semplicemente” inesigibili, si determina una sorta
di effetto gerarchico, che, piuttosto che essere definito in termini di
gerarchia in senso tradizionale è definibile come una vera e propria gerarchia funzionale tra di esse,
determinata dal fatto oggettivo per
il quale talune norme possono trovare applicazione solo se ed in quanto,
i.- non trovino altre norme, che in
quanto “migliori” o più generalmente condivise prevalgano sulle disposizioni
specifiche da applicare (che dunque ne risultano modificate, di fatto e per via
di interpretazione, nel contenuto),
ii.- altre norme (strumentali) siano già
state, a loro volta, applicate e realizzate, con la conseguenza, ampiamente
discussa sopra, per la quale non solo di una certa norma non sia legittimo
pretendere l’applicazione in quanto già “superata” da altre, ma anche che non
sia lecito agire per la realizzazione di una disposizione fin tanto che quella
strumentale (in questo senso gerarchicamente superiore, ma, appunto, solo in
senso funzionale) non sia stata realizzata, per cui, infine, iii.- il contenuto effettivo di alcune
norme si determina, nel modo descritto, in maniera difforme dal suo contenuto
letterale, grazie ad una corretta interpretazione di esse.
Detta
gerarchia funzionale, ovviamente e diversamente dalla gerarchia fondata sul
rango delle norme, non è suscettibile di essere costruita una volta e per tutte
e meno che mai in base alla “qualità intrinseca” delle norme, ma, norma per
norma, in funzione delle disposizioni da applicare di volta in volta.
10.1. Il contenuto delle norme in
materia di diritti dell'uomo e i rapporti tra di esse.
Posto
che, per quanto attiene alla definizione della posizione rispettiva delle norme
contrattuali, rinvio per un maggiore approfondimento ai paragrafi successivi,
sintetizzo qui di seguito le conclusioni fin qui raggiunte in materia di
rapporti (benché non di gerarchia) tra le varie norme in materia di diritti
dell'uomo.
Come è
ben noto, in materia di diritti dell'uomo, non molto diversamente da altre materie
nel diritto internazionale benché con certe caratteristiche aggiuntive, si
danno, sia,
a.- norme di diritto internazionale generale: di
formazione, per così dire, “tradizionale” [107]
oppure,
a.1.- scaturenti da accordi
internazionali, e in particolare assai di frequente, da atti di Organizzazioni
internazionali (risoluzioni, decisioni, dichiarazioni ecc.: dunque formalmente
norme di terzo grado), come ad esempio, per venire al tema che ci occupa,
b.- norme di diritto, strettamente parlando,
convenzionale [108].
Le
prime (quelle di cui in a), molto
spesso, oltre a determinare, qualora non self-executing [109],
la consueta necessità da parte degli stati di renderle efficaci nei propri
ordinamenti interni, pena la violazione del diritto internazionale e la
conseguente responsabilità, possono anche definire (e infatti per lo più
definiscono, specie nella materia che ci occupa) piuttosto che obblighi di facere in capo al soggetto di diritto
internazionale, direttamente diritti ed obblighi per gli individui all’interno
degli stati [110],
nella misura in cui quei principi siano direttamente applicabili e quindi
applicati come tali, anche se non presenti nella legislazione positiva degli
stati fino a quel momento [111].
Le
norme del tipo di cui sopra in a.1,
nel caso dei diritti dell'uomo, sono, come accennato, in particolare quelle
derivate dalla Dichiarazione universale sui diritti dell'uomo [112]
e da quella sui diritti del bambino [113],
ecc. [114],
che indicano, senza mediazioni, gli elenchi dei diritti umani in capo a tutti
gli individui. I quali dunque, ciascuno nel proprio o in altro ordinamento,
sono titolari del diritto di pretenderne immediatamente e direttamente il
riconoscimento e l’applicazione. Insomma, per fare un esempio, una volta
affermato il principio del divieto di tortura (posto che non sia già una norma
di diritto internazionale generale), benché quel principio sia contenuto in una
Dichiarazione, ad esempio delle NU, che stimoli la formazione di una norma
generale di diritto internazionale corrispondente, può essere direttamente
preteso dagli individui in tutti gli stati, sottoscrittori o meno della
Convenzione da cui, in via mediata, scaturisce [115].
Sia pure in via teorica, dato che dipenderà poi dalla struttura degli
ordinamenti giuridici dei singoli stati, se, in concreto un’azione sarà
possibile da parte dell’individuo. Che inoltre vi possa o meno essere anche una
responsabilità dello stato sul piano del diritto internazionale è problema
ulteriore qui non rilevante.
Sempre
per restare ai diritti dell'uomo, le norme convenzionali per lo più determinano
la necessità per gli stati sottoscrittori di adottare gli strumenti legislativi
o altro necessari per rendere efficaci ed effettive quelle norme nei rispettivi
ordinamenti giuridici: quel procedimento che noi conosciamo come ordine di
esecuzione, insomma. Ordine di esecuzione del trattato in quanto tale, come
vedremo fra un momento, perché in qualche caso (e in particolare in quello che
ci occupa) la cosa risulta essere alquanto più complessa.
10.2.Una classificazione delle norme in materia di
diritti dell'uomo, sotto il profilo della loro trasformazione in norme di
diritto interno.
E
infatti: in primo luogo, non è un
caso che, molto spesso, quelle norme siano definite (e ritenute) dalle
giurisdizioni nazionali (e tra di esse si distingue la giurisprudenza
italiana), “norme programmatiche”, nel senso che si riconosce loro una valenza
più indicativa di tendenze (o addirittura di esortazioni) che di obblighi concreti:
norme insomma, più simili a raccomandazioni che a decisioni vincolanti, al
massimo, simili alle direttive dell’UE.
È nota
la discussione in Italia sulla valenza delle norme provenienti dalla
Convenzione europea sui diritti dell'uomo e le libertà fondamentali,
orientativamente risolta a favore della tesi per cui le norme ivi fissate vanno
rispettate comunque dallo stato, ragion per cui il cittadino, anche in assenza
dei provvedimenti legislativi o amministrativi, eventualmente necessari può
validamente, e con successo, ricorrere contro lo stato: sia all’interno che,
esauriti i ricorsi interni, innanzi ad organismi internazionali. La storia
infinita dei ricorsi per la eccessiva durata dei processi, per non parlare
della recentissima diatriba sulla contumacia, basterebbe da sola a dimostrare
ampiamente quanto affermo [116].
A mio
parere,infatti, contro la tesi della natura programmatica delle norme della
Convenzione europea sui diritti dell'uomo e le libertà fondamentali, osta del
tutto l’art. 1 della Convenzione stessa [117],
che, da un lato, è una norma che, non chiede agli stati di organizzare
determinati diritti (e le corrispondenti garanzie) ma li istituisce
direttamente in capo ai sudditi, sia pure (per non addentrarci in un altro
campo molto vasto) affidando alla sola Corte europea dei diritti dell'uomo il
compito di sanzionarne le violazioni [118].
Dall’altro, ciò non toglie che lo stato debba necessariamente andare oltre il
semplice ordine di esecuzione se non vuole incorrere nella responsabilità
internazionale e in quella interna laddove, appunto,la prescrizione richieda di
fatto interventi dello stato (di facere)
per poter risultare effettivamente soddisfatta.
In secondo luogo ( e qui la cosa appare più
complessa), talvolta nelle
convenzioni si indica anche ed esplicitamente un ulteriore obbligo, solo
apparentemente del tutto ridondante rispetto al primo: quello di legiferare per
realizzare effettivamente i singoli
diritti ivi previsti, come ad es. accade all’art. 2.2 del Patto delle
Nazioni Unite sui diritti civili e politici e all’art. 2.1 del Patto delle
Nazioni Unite sui diritti economici sociale e culturali
[119], e anche, con una formulazione più
vicina a quella della Convenzione europea, all’art. 4 della Convenzione sui
diritti del bambino [120].
E
dunque, grazie a quelle disposizioni, ne deriva che allo stato sottoscrittore
competono due obblighi formalmente (ma anche strutturalmente) diversi. L’uno,
quello di “adattare” il diritto interno alla Convenzione, è una diretta
conseguenza della norma pacta sunt servanda
e pertanto discende dal diritto internazionale generale (espresso anche negli
artt. 26 e 27 della Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati). L’obbligo
viene dunque soddisfatto, “trasformando” la norma in diritto interno mediante
l’ordine di esecuzione salve le eventuali integrazioni normative per la parte
non self-executing di essa.
L’altro,
quello degli articoli citati delle Convenzioni, è un ulteriore obbligo di
legiferare (se necessario) per rendere le norme ivi previste, efficacemente
funzionanti nell’ordinamento interno dello stato, non in applicazione della
regola generale che lo impone, ma in applicazione della disposizione specifica
in questione, e quindi nei termini in cui ciò è ivi disposto. Termini che sono
diversi da quelli comuni e assai più analitici.
Anzi,
a ben vedere, le convenzioni predispongono due “serie” di obblighi: 1.- quello di legiferare [121],
con l’ordine di esecuzione, ma anche con le norme citate sopra, per assicurare i diritti previsti nelle
Convenzioni [122],
e, 2.- quello di garantire,
similmente alla Convenzione europea, che i diritti ivi previsti (enunciati o riconosciuti) siano
esercitati effettivamente e senza discriminazioni: art. 2.2 Patto delle Nazioni
Unite sui diritti economici sociali e culturali [123]
e art. 2.1 del Patto delle Nazioni Unite sui diritti civili e politici [124],
nonché art 2 della Convenzione sui diritti del bambino [125],
legiferando se e quando necessario per concretizzarli. E non solo, perché nel
caso del Patto delle Nazioni Unite sui diritti economici sociali e culturali,
gli stati, mentre devono svolgere il massimo impegno per la realizzazione di
quei diritti eventualmente con la
cooperazione internazionale [126],
qualora siano paesi in via di sviluppo possono determinare in quale misura intendono garantire quei diritti. Come
dire che, premesso che occorre trasformare in norme interne le disposizioni del
Patto, per la parte evidentemente non self-executing, i diritti ivi previsti
sono da considerare garantiti subito o almeno al più presto [127],
a meno che non ci si trovi in presenza di paesi in via di sviluppo, che possono
graduare l’entrata in vigore
effettiva di certi diritti di natura prevalentemente economica.
E per
di più, merita di essere sottolineata, in maniera del tutto incidentale, anche
un’ulteriore, non marginale, differenza tra i due Patti. Mentre, infatti, nel
caso del Patto delle Nazioni Unite sui diritti economici sociali e culturali,
gli stati si impegnano innanzitutto a trasformare in diritto interno (con tutti
gli interventi internazionali, ecc.) le norme del Patto e solo in secondo luogo si impegnano a garantire che i diritti ivi enunciati vengano effettivamente goduti,
nel caso del Patto delle Nazioni Unite sui diritti civili e politici la
situazione è esattamente rovesciata: innanzitutto i diritti sono riconosciuti, e, in secondo luogo, gli stati si impegnano a trasformarli in norme
interne e quindi a garantire che quei diritti (trasformati e non!) siano anche
garantiti sul piano giurisdizionale. Non è ascrivibile ad un puro caso la
differenza di terminologia e di logica delle disposizioni, posto che, in altri
casi, si è utilizzato il facile meccanismo di riprodurre, identiche tra le
Convenzioni, determinate disposizioni.
L’impressione
che si ricava da questa diversa struttura di norme, solo apparentemente,
identiche è che nel caso del Patto delle Nazioni Unite sui diritti economici
sociali e culturali si voglia deliberatamente
lasciare tempo agli stati (tanto più che esiste anche una sorta di clausola di
salvaguardia per i paesi in via di sviluppo [128])
di organizzare i propri sistemi economici e sociali prima di applicare effettivamente tutti i diritti ivi individuati, mentre nel caso del Patto delle
Nazioni Unite sui diritti civili e politici, stante l’importanza fondamentale
di quei diritti che coinvolgono interessi “primari” dell’uomo, e dato che in
linea di massima sono già parte degli ordinamenti interni dei firmatari, se ne
preferisca disporre intanto e subito
l’efficacia, salvo poi a disporre perché si agisca adeguatamente integrando
all’interno le norme necessarie, per realizzarli più compiutamente [129].
Ne
consegue che le norme in materia di diritti dell'uomo hanno natura e contenuti
notevolmente diversi, con riferimento ai destinatari. E precisamente:
a.- vi sono norme di diritto internazionale generale (in
parte di formazione per così dire,
mediata (in quanto formate per conseguenza di norme pattizie o da esse
derivate, come spiegato prima), che istituiscono direttamente diritti per gli
individui (e quindi obblighi anche per gli stati, tutti);
b.- altre norme, invece, pattizie, definiscono a loro
volta diritti ed obblighi come sopra, ma necessariamente diretti agli individui
dei soli stati che quelle norme abbiano ratificato o sottoscritto e (se
necessario) trasformato in norme interne [130],
sia pure con le precisazioni di cui più avanti [131];
c.- altre norme ancora, sempre pattizie, impongono agli
stati l’obbligo di trasformare in diritto interno i diritti garantiti e
definiti dalle convenzioni, e dunque agli individui verosimilmente non è
consentito pretendere dallo stato direttamente quei diritti (fin tanto che non
siano stati realizzati), ma è loro consentito di agire contro lo stato per la
mancata ottemperanza alla norma che impone di regolamentare quei diritti
nell’ordinamento interno. È appena il caso di aggiungere che la mancata
assunzione dei procedimenti necessari alla trasformazione delle norme in
questione in diritto interno, costituisce di per sé sola una violazione del
diritto internazionale, rispetto alla quale si determina la responsabilità
internazionale dello stato.
Sarà
poi lasciato all’apprezzamento del giudice e delle parti, stabilire se le
regole siano state correttamente applicate, visto che la norma richiede di
trasferire i menzionati diritti nell’ordinamento giuridico di ciascuno stato
solo “progressivamente” (Patto delle Nazioni Unite sui diritti economici
sociali e culturali) oppure di valutare se le norme non siano già
nell’ordinamento giuridico dello stato interessato (Patto delle Nazioni Unite
sui diritti civili e politici, art. 2.2) e infine se ad esse sia data effettiva
garanzia giurisdizionale (Patto delle Nazioni Unite sui diritti economici
sociali e culturali, art. 2.3).
Non è
qui il caso di entrare nel merito di una problematica complessa che ci porterebbe
assai lontano, basta rilevare soltanto, al fine del discorso che ci interessa,
che dunque molte norme in materia di diritti dell'uomo hanno, per gli
individui, un effetto mediato, nella misura in cui il destinatario di esse non
può normalmente valersene direttamente, ma può solo farlo pretendendo - con i
mezzi che eventualmente gli metta a
disposizione l’ordinamento interno - che lo stato, vero destinatario della
norma, si adegui, sia pure con le molteplici sfumature indicate in questo
paragrafo.
Beninteso,
esistono meccanismi e sistemi giuridici nazionali e internazionali
profondamente diversi e anche abbastanza sofisticati e complessi (un esempio in
tal senso è quello europeo della Convenzione sui diritti dell'uomo, tanto più
se vista integrata con le norme comunitarie) [132]
che consentono all’individuo di ottenere direttamente
la soddisfazione di certi diritti (pur non, ancora, regolamentati nel diritto
interno benché probabilmente non di tutti) [133], ma nella maggior parte dei casi non
è così.
Tutto
ciò, inoltre, non esclude affatto che i singoli stati siano latori di
consuetudini particolari o che, di propria iniziativa, adottino al loro interno
disposizioni legislative o altro, non derivanti da accordi esistenti, sulla
materia: originali, insomma. Queste ultime norme, come vedremo fra un momento,
oltre a richiedere di essere applicate (e garantite) all’interno degli stati
interessati, finiscono per entrare anch’esse nel “gioco” delle norme
internazionali in materia di diritti dell'uomo per effetto del meccanismo
(descritto meglio più avanti) per cui non solo allo stato non è interdetto di
adottare norme più favorevoli, ma al medesimo è anche consentito di pretenderne
l’applicazione.
L’intero
complesso di disposizioni elencate deve trovare, e a mio parere trova
effettivamente, composizione in un sistema organico che non può né deve
tollerare antinomie, tra norme più o meno garantiste incluse in accordi a
diversa partecipazione soggettiva.
10.3. In
conclusione: i termini della gerarchia funzionale ipotizzata.
Cerco,
dunque, di trarre in poche parole le conclusioni dal discorso che precede.
Il
funzionamento della norma pacta sunt
servanda, e delle procedure ad essa collegate, sarebbe di per sé
sufficiente a garantire l’adempimento dell’obbligo assunto dallo stato di
conformarsi alle norme in materia di diritti dell'uomo regolarmente
sottoscritte; la norma pacta sunt
servanda infatti nella sua accezione usuale (del resto specificata anche
attraverso gli artt. 26 e 27 della Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati)
basta da sola ad obbligare lo stato ad adottare le misure interne necessarie ad
ottemperare alle norme convenzionali [134],
per quanto attiene alle norme generali, invece, le regole comuni sono ben note
e si sostanziano nel procedimento di produzione giuridica innescato dall’art.
10 Cost.
Il
fatto che, invece, in quei trattati, questo obbligo venga ribadito e anche
analiticamente specificato impone di ritenere che quelle disposizioni sono
intese ad esprimere un’esigenza ulteriore rispetto a quella di per sé
soddisfatta dal funzionamento comune dei meccanismi di trasformazione del
diritto internazionale in diritto interno.
E
infatti, in primo luogo, la
disposizione vale a ribadire che lo stato deve riconoscere al suo interno i
diritti elencati nelle convenzioni così come sono, deve cioè considerarli di
per sé norme interne valide e rivendicabili dagli individui, in aggiunta al
normale effetto delle norme di diritto internazionale generale.
In secondo luogo quelle disposizioni servono a
consentire, allo stato, una graduazione
nella introduzione di quei diritti all’interno degli stati, ma non in termini potestativi da parte
dello stato, che, proprio grazie a quella norma può graduare [135],
sì, ma fin tanto che
In terzo luogo, la norma consente agli individui di
pretendere dallo stato (all’interno dello stato) l’esecuzione di quelle norme
sottoscritte. La cosa in sé è sempre fattibile in astratto (almeno nei sistemi
giuridici più “evoluti” in questo senso), ma nel concreto con quella specifica
disposizione si determina in capo all’individuo un diritto soggettivo (o un
interesse legittimo, almeno) a pretendere dallo stato (e verosimilmente non
solo dal proprio stato) che
l’adeguamento vi sia, che sia corretto o che almeno inizino le necessarie
procedure.
Infine, effetto di quelle disposizioni è di
permettere alla Comunità internazionale, come dicevo sopra, una sorta di
“controllo” sull’effettivo adeguamento dello stato alle norme e sui tempi della
loro trasformazione in diritto interno: e quindi sul loro contenuto. E inoltre,
anche, che detta trasformazione non avvenga “in frode alla legge”, e vale a
dire sfruttando in maniera scorretta la possibilità di impedire la inserzione
delle necessarie norme, sulla base della pretesa per cui la necessaria
legislazione sia già presente nell’ordinamento
interno dello stato interessato.
11. Le disposizioni regolatrici del sistema.
Premesso,
dunque, che l’analisi della compatibilità tra le norme va condotta anche con
riferimento alle norme di diritto internazionale generale in materia, allo
scopo di poterla realizzare in concreto (secondo i criteri già sommariamente
indicati più sopra) bisogna innanzitutto accertare il contenuto effettivo
delle, diverse e spesso divergenti, norme convenzionali vigenti.
A tal
fine, due disposizioni convenzionali vengono, a questo punto, in
considerazione: quella - in realtà espressione di una norma di diritto
internazionale generale largamente preesistente – di cui all’art. 30 della
Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati (1969), e quella di cui all’art.
5 [136],
comune, dei Patti delle Nazioni Unite sui diritti dell'uomo. Norme, a loro
volta, da leggere in connessione e integrazione con altre analoghe contenute in
accordi “regionali” in materia di diritti dell'uomo [137].
11.1. L’art. 5 comune dei Patti delle
NU sui diritti dell'uomo (1966).
L’art.
5 di cui sopra, afferma un principio abbastanza usuale nei documenti
internazionali: quello per cui (§ 1 dell’articolo) nessuna disposizione della
convenzione può essere utilizzata in maniera da limitare l’applicabilità delle sue stesse norme, né (§ 2, e questo
è assai meno usuale) per impedire l’applicazione, nei singoli stati, di norme
legislative o derivanti da convenzioni internazionali e consuetudini [138]
più favorevoli di quelle
convenzionali, sulla base della giustificazione che esse non sono presenti
nella Convenzione stessa [139].
È appena il caso di sottolineare come la prima parte della disposizione citata
sia sostanzialmente identica alla precedente dell’art. 30 della Dichiarazione
Universale dei diritti dell'uomo [140],
mentre molto originale e significativa è la seconda parte della disposizione
medesima.
In sostanza nella norma, mi sembra, si affermano due
principi:
a.- quello per cui, qualora una norma più favorevole di quelle previste nelle
Convenzioni sia presente nella legislazione di uno stato (comunque formata e
quindi anche derivante, a sua volta, da
accordi internazionali o da consuetudini, ecc.), questa si applica a preferenza di quella delle convenzioni.
E dunque non solo lo stato nella cui legislazione sia contenuta una norma
fondamentale (in materia di diritti dell'uomo) più favorevole di quella delle
Convenzioni, la applica in perfetta legalità [141],
ma, è lecito affermare, a stretto rigore di logica, che può legittimamente
pretenderne l’applicazione anche nei suoi rapporti con altri stati, pur privi
di quella disposizione, se non altro perché in nessun caso sarebbe possibile
limitare o negare uno dei «rights and freedoms recognized herein» [142]:
il diritto più favorevole, grazie al § 2 della disposizione, diviene uno dei
diritti “qui riconosciuti” del § 1. Del resto, se un soggetto ha diritto ad applicare una certa
disposizione (del proprio ordinamento o convenzionale o consuetudinaria, non
importa) in deroga ad altra che lo lega ad altro stato, quest’ultimo (non potendovisi legittimamente opporre:
«there shall be no restriction upon or derogation from ... ») si troverà nella
condizione di doverla, a sua volta, applicare o, almeno, di doverne tenere il
debito conto.
Con l’ulteriore conseguenza, tutt’altro che marginale, per
cui non solo ne potrà legittimamente rivendicare l’applicazione [143]
mettendo eventualmente altri stati nella necessità di regolarsi di conseguenza,
ma ne potrà anche chiedere all’altro soggetto l’applicazione, senza incorrere
né in una violazione del trattato né nella lesione del limite degli affari
interni [144].
Solo per completezza di discorso, merita di essere qui
sottolineato come questa interpretazione può considerarsi implicita, anche per
simmetria tra il § 1 del medesimo articolo (dove si dice solo «recognised
herein») con il § 2 dello stesso, dove si fa riferimento ai diritti «recognised
or existing». In un certo senso
(anche se l’interpretazione della norma è sicuramente alquanto esasperata) si
potrebbe affermare che le singole norme fondamentali
in materia di diritti dell'uomo presenti in uno stato (per l’effetto
descritto sopra) possono diventare norme di livello universale, almeno nella
misura in cui riguardino i rapporti tra quello stato e altri, magari meno
garantisti e dunque, almeno tendenzialmente sono destinate a partecipare alla
definizione del contenuto di una norma della stessa convenzione universale (nel
caso, una norma dei Patti, ma il discorso, come ovvio, vale anche per altre
ipotesi) il cui contenuto originario muta in corrispondenza con le norme che
via via vi si aggiungono.
Ma inoltre, b.- è
vero anche il contrario, perché le norme delle Convenzioni, prevalgono comunque
sulle norme nazionali o convenzionali meno garantiste, per sintetizzare così il
senso della frase del § 1 dell’articolo in commento, che vieta «any act aimed
at the destruction of any of the
rights and freedoms recognized herein…». Si potrebbe anche aggiungere a mo’ di
conclusione che, se le norme più garantiste della Convenzione prevalgono, pacificamente,
anche sulle norme interne dei soggetti, non si vede perché una norma più
garantista di un soggetto, riconosciuta legittima e applicabile dalla stessa
Convenzione grazie alla citata formula, non debba divenire a sua volta parte
della stessa. In altre parole, per effetto del medesimo meccanismo, la stessa
Convenzione ne potrebbe risultare modificata, e modificata per tutti i soggetti
che la hanno sottoscritta [145].
Insomma: quello che ne risulta, e che sto cercando di
descrivere, è una sorta di circuito di auto-alimentazione normativa o, se si
preferisce, un processo autopoietico [146],
non poi tanto diverso da altri di cui si è a lungo discusso in passato e si
discute, come quello determinato dall’art. 38 dello Statuto della CIG.
Queste due norme, lette insieme e in coordinamento l’una con
l‘altra, valgono, infatti, a costruire quella struttura in continua evoluzione
(e proprio perciò, definibile come una struttura)
cui più volte ho fatto riferimento: mentre, infatti, le norme delle Convenzioni
prevalgono sistematicamente su qualunque altra norma (interna e internazionale)
meno garantista di quelle convenzionali, le norme più garantiste (di nuovo:
nazionali, o internazionali) prevalgono comunque sulle norme convenzionali
degli stessi Patti, e, per il descritto effetto di cui al numero 1 della
disposizione, di esse è perfettamente legittimo pretendere l’applicazione anche
da chi non ne sia direttamente vincolato. E quindi, gli ordinamenti giuridici
più “avanzati” tendono ad espandersi a livello universale, cosa del resto, ben
nota alla teoria generale del diritto internazionale [147].
Molto simile a quella appena descritta, è la disposizione
dell’art 53 [148]
della Convenzione europea, abbastanza originale in quanto realizzata prima
delle convenzioni “universali”, e che in qualche modo ambisce, almeno
culturalmente, ad esserlo. E infatti,
Anche nelle altre citate convenzioni, del resto, si trovano
norme analoghe (spesso nella parte preambolare degli accordi), che sarebbe
troppo lungo in questa sede analizzare una per una, ma che inducono tutte alla
medesima conclusione.
Posto
che non solo tutto il movimento convenzionale direttamente o meno legato ai
diritti dell'uomo, ma anche, in misura importante, gli ordinamenti giuridici
dei singoli soggetti (grazie ad un processo simile a quello ipotizzato all’art.
I-9.3 del Trattato che istituisce una Costituzione per l’Europa, oggi art. 6 nella formulazione del trattato di Lisbona [150])
vanno presi in considerazione per la ricostruzione del contenuto delle norme in
materia, il primo punto, al quale
siamo dunque giunti è che, in ogni caso e senza equivoci, dal complesso delle
disposizioni discusse, risulta chiaramente che le norme, per così dire, più
garantiste, siano esse derivanti da legislazioni interne o da norme
convenzionali internazionali, prevalgono sempre
su quelle meno garantiste. E, ribadisco, se un soggetto deve applicare
(legiferando in materia, come richiesto dalla gran parte delle convenzioni) una
norma più garantista non può contemporaneamente
applicarne, legiferando (o, avendo legiferato), una che garantista lo sia di
meno [151].
11.2. L’art. 30 della Convenzione di Vienna sul
diritto dei trattati (1969).
Già
solo quanto esposto fin qui, basterebbe a dimostrare la attendibilità della mia
tesi sui diritti dell'uomo come struttura. Ma, la concatenazione delle norme in
questione, lette alla luce dell’art. 30 della Convenzione di Vienna sul diritto
dei trattati, assume un significato ancora più chiaro nel senso illustrato e
specialmente inteso a determinare l’effetto di rendere sempre prevalenti, per tutti i soggetti dell’ordinamento
internazionale, non solo le norme più garantiste, privilegiate grazie all’art.
5 comune dei Patti, ma anche quelle universali su quelle regionali [152].
Va senza
dire, infatti, che la gran parte dei soggetti sottoscrittori di convenzioni
regionali in tema di diritti dell'uomo, sono altresì sottoscrittori dei due
Patti delle Nazioni Unite sui diritti dell'uomo, e inoltre, in quanto membri
delle nu, sono sicuramente
soggetti [153]
(quand’anche se ne volesse negare la valenza di norme di diritto internazionale
generale) alle disposizioni della Dichiarazione
universale sui diritti dell'uomo del 1948, dove la sostanza dei diritti
affermati nei Patti è già indicata.
Orbene,
come noto, l’art 30 della Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati,
stabilisce che 1.- quando vi siano riferimenti a norme di altri accordi da
ritenere non incompatibili con quelle contenute nell’accordo, le prime
prevalgono [154];
2.- tra stati che facciano parte dell’accordo generale, e solo in parte di
quello particolare, si applicano le norme dell’accordo generale. Resterebbero,
così “scoperti” solo i rapporti tra stati tutti
parti dell’accordo particolare, che potrebbero nei loro rapporti reciproci,
applicare norme diverse da quelle indicate nei Patti o risultanti dalla
proposta interpretazione di quelle norme. Ma, a parte il fatto che quegli stati
sarebbero probabilmente pur sempre parti dell’accordo generale e quindi le
relative norme devono applicarle, di nuovo non si vede come uno stato, che è
obbligato a determinare, e determina nella sua legislazione, la normativa
necessaria a conformarsi ai Patti [155],
possa, contemporaneamente, stabilire una legislazione diversa con riferimento
alle situazioni giuridiche verificatesi sotto la sola vigenza delle convenzioni
particolari.
E
dunque, il secondo punto che si intende
affermare è, in estrema sintesi, quello per cui, il sistema, mentre assicura la chiara prevalenza
delle norme più garantiste sulle altre, indipendentemente dal fatto che siano
contenute in un accordo regionale o in un accordo universale (o addirittura
nella legislazione di uno stato), d’altro
canto, assicura con altrettanta sicurezza che le disposizioni presenti
nell’accordo universale ma non in quello regionale, debbano essere comunque
applicate da tutti i soggetti.
E
dunque mi sembra adeguatamente dimostrato fin qui, sia pure in via di una prima
approssimazione al tema, che le norme in materia di diritti dell'uomo
costituiscono un sistema organico tale che non solo comunque le norme
“migliori” siano applicabili ovunque, ma anche che il contenuto di quelle norme
sia in continua evoluzione, sulla base, tra l’altro, anche della legislazione
interna degli stati che fanno parte del sistema. Con l’ulteriore conseguenza
per cui l’applicazione di una norma diversa da quella specifica apparentemente
(per dir così) da applicare in quanto, secondo la mia interpretazione, la prima
prevalga, non comporta ovviamente la violazione della seconda. E ciò anche nei
confronti di un soggetto, in ipotesi, vincolato solo ad una convenzione
specifica poco garantista.
12. La valenza pratica della visione
sistemica delle norme in materia di diritti dell’uomo: un’ipotesi applicativa.
A
questo punto, la domanda da porsi sul piano pratico è: quali siano i limiti in
cui l’obbligo di rispetto dei diritti fondamentali [156],
così ricostruiti nella loro complessità, possa, ma forse debba, determinare
obblighi anche per chi, all’interno degli stati, non sia direttamente responsabile
della loro attuazione, ma che, con i suoi atti e comportamenti, ne possa
determinare la violazione [157].
Come
si è, infatti, cercato di illustrare fin qui, l’ipotesi intorno alla quale si è
lavorato è quella della identificazione di un vero e proprio sistema dei
diritti dell'uomo, nel quale, per conseguenza della integrazione (necessaria)
tra le norme generali, pattizie a carattere universale, contrattuali a
carattere “regionale” e altresì statali, da
un lato si afferma la prevalenza sempre e comunque, ma specialmente ovunque, delle norme più garantiste
sulle altre, indipendentemente dalla loro
collocazione originaria, e, dall’altro,
si afferma, in termini di una vera e propria norma di chiusura del sistema, la
prevalenza (in caso di contrasto e a prescindere dal livello di garantismo
della disposizione) della norma generale o contenuta in accordi di natura
universale su quella regionale o particolare.
Ebbene,
almeno negli ordinamenti giuridici interni più evoluti, il contenuto delle
norme in materia di diritti dell'uomo, non è desumibile solo da quanto espresso
nel singolo accordo specifico sottoscritto dallo stato, sia pure letto alla
luce della norma universale eventualmente rilevante [158]
(contrattuale o non, il che già modifica o almeno integra l’accordo specifico
tenuto in considerazione), perché ad esso vanno aggiunte le norme più
garantiste degli ordinamenti giuridici degli stati che partecipano
(necessariamente) al sistema, per non parlare di quelle di altri accordi
(magari “regionali”, ma anche altri) a diversa partecipazione soggettiva.
Se le
norme da applicare sono quelle
risultanti dal sistema come descritto (e come, altresì, integrate grazie alla
autopoiesi della struttura, per definizione, permanente) e quindi non soltanto
quelle specificamente sottoscritte dal soggetto determinato (anzi, alcune di
esse potrebbero risultare, come visto, addirittura inapplicabili) l’operatore
giuridico interno (il giudice, innanzitutto, ma anche il professionista o il
funzionario titolare di funzioni di garanzia
come il notaio, o infine il pubblico amministratore) deve tenere conto di
quelle norme materiali e regolarsi di
conseguenza. In altre parole: la norma materiale da applicare al caso concreto
è la risultante di quel processo di integrazione derivante da quanto fin qui
descritto.
Anche
qui, provo a spiegarmi con un esempio.
È
possibile ipotizzare che sia ormai consolidata la norma che vieta di sfruttare,
magari danneggiandola, una risorsa naturale appartenente ad una collettività (o
anche ad un singolo individuo ma che sia di interesse collettivo, oppure
ancora, una risorsa che sia “patrimonio comune dell’umanità”) senza il consenso
cosciente dell’interessato o degli interessati, o addirittura, nel caso del
patrimonio comune, della stessa Comunità internazionale. Ebbene la domanda (che
mi permetto di lasciare allo stato interrogativo) potrebbe essere: è consentito
stipulare validamente un contratto (in un paese diverso da quello in cui si
trovi la menzionata risorsa) tra persone diverse dai titolari della risorsa
stessa, il cui effetto reale sia lo sfruttamento o la distruzione o anche la
consumazione della risorsa?
O
ancora, nel caso si tratti di una risorsa patrimonio dell’umanità, sarebbe
lecito, alla fine di questo discorso, domandarsi se sia legittimo un contratto
(e se la sua redazione addirittura non determini conseguenze di responsabilità
per gli individui che lo stipulano e consentono di stipularlo) in cui si
concordi su azioni dannose per quella risorsa.
La
domanda tende, insomma, a chiedersi se non si possa o si debba (secondo me: si
debba) ritenere, alla luce di quanto detto, che un contratto del genere possa
addirittura essere considerato nullo (o annullabile) alla luce della stessa legislazione dello stato in cui
venga redatto. Se ciò fosse, potrebbero derivarne conseguenze non marginali in
tema di responsabilità sia per le parti dell’ipotetico contratto, sia per il
menzionato professionista, che, infine, per il pubblico funzionario.
Ovviamente
gli esempi potrebbero moltiplicarsi: basti pensare ai problemi posti dalla
difesa delle cd. biodiversità (e non solo di quelle dei paesi cd. “emergenti”,
ma anche di quelli più “evoluti”) - posto che anch’esse, come mi sembra
probabile, siano un dritto fondamentale dell’uomo - la cui mancata o cattiva
conservazione o difesa può avere effetti molto gravi per il paese interessato e
non solo [159].
L’ipotizzata
situazione, la presunta illegittimità del relativo contratto ecc., non
deriverebbe, dunque, da motivazioni di carattere etico o politico [160],
ma strettamente parlando giuridiche
di diritto interno (non a caso parlavo di nullità dell’ipotetico contratto) a
causa del fatto che quelle garanzie sono parte dell’ordinamento giuridico
internazionale e, per effetto della trasformazione delle norme internazionali
in norme interne (o comunque per effetto dell’assunzione dei corrispondenti
obblighi internazionali da parte degli stati) sono parte dell’ordinamento
giuridico interno e vanno dunque rispettate come ogni norma interna.
Rispetto
ai quali obblighi, lo stato non potrebbe (in applicazione dell’art. 27 della
Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati) nemmeno obiettare nulla in
termini di esenzione dalla responsabilità internazionale per la mancata o
contraria legislazione interna.
E per
tirare alle estreme conseguenze un discorso, me ne rendo conto, alquanto
estremizzato, nel caso dell’ordinamento italiano, la cosa sarebbe
particolarmente evidente, se solo si tenga conto del disposto del primo comma
dell’art. 117 Cost. Questa disposizione [161],
a mio parere di enorme importanza, impone, come noto, allo stato e alle regioni
(pena l’annullamento delle leggi in contrasto, successive o anche precedenti al
formarsi della norma internazionale) di legiferare in maniera conforme al
diritto internazionale [162]
anche convenzionale.
In
effetti, per il combinato complesso disposto degli artt. 10 e 117 primo co.
Cost. e della prassi costituzionale relativa alla ratifica ed esecuzione dei
trattati internazionali, si determinerebbe un effetto normativo assai
significativo. Mentre, infatti, le norme generali di diritto internazionale (in
materia di diritti dell'uomo e non solo) sono a tutti gli effetti norme di
diritto interno, la trasformazione in norme italiane degli accordi, regionali e
universali, in materia di diritti dell'uomo, rende tutte quelle norme, regole di diritto interno a tutti gli effetti
(e, per di più, a sentire
Non
più soltanto le norme generali di diritto internazionale, pertanto, sarebbero
inderogabili nel nostro ordinamento, ma, essendolo ormai anche quelle
contrattuali, lo sarebbero quelle così come risultati dall’interpretazione
proposta nelle pagine precedenti.
In
altre parole e per concludere, qualunque norma interna, che consentisse, di
fatto, la realizzazione dell’atto su ipotizzato, sarebbe in conflitto con il
diritto internazionale, così ricostruito, e pertanto la norma che lo ha
permesso (benché indirettamente) sarebbe suscettibile di annullamento per
violazione della menzionata disposizione costituzionale dell’art. 117 primo co.
e il contratto, a sua volta, nullo o annullabile [163].
* Le pagine che seguono traggono spunto dalla relazione di
sintesi tenuta al termine del convegno di Parigi del 17.1.2005 della Union Internationale du Notariat,
pubblicata nel volume Le droit et les
Droits, Conseil Supérieur du Notariat, Paris, 2005, p. 90 ss. Una versione precedente,
sensibilmente più breve, di questo scritto è pubblicata nella Rivista della cooperazione giuridica
internazionale, 2008, pag 7 ss.. Manoscritto chiuso il 5.3.2008 ([email protected]).
[1] Ma, personalmente, continuo a preferire la
tradizionale dizione «diritti dell'uomo», meno di moda, ma assai più efficace e
significativa, perché mette al centro dell’attenzione del sistema l’uomo in
quanto tale, piuttosto che l’uomo in quanto parte di una collettività, o
addirittura, la collettività tout court.
È chiaro, infatti, come in questa seconda accezione, ben si può immaginare una
situazione nella quale i diritti individuali delle persone (o i diritti
individuali di alcune persone) possano trovarsi
“sacrificati “a vantaggio dei diritti o delle esigenze (ovviamente più che
legittimi) dei gruppi umani ai quali appartengono o di altri gruppi, siano essi
definiti o definibili come “gruppi etnici”, “etnie”, “gruppi autoctoni”, ecc.,
come sempre più appare d’uso oggi nel linguaggio giuridico internazionale e non
solo, in accezioni, a loro volta, non sempre molto perspicue, considerata
l’ambiguità della terminologia e dei riferimenti molto spesso motivati
politicamente quando addirittura non ideologicamente (sul punto cfr. ampiamente
il mio Autodeterminazione dei popoli e
diritto internazionale, Napoli (Jovene) 1984, passim). Indipendentemente da ciò, peraltro, può accadere, come
vedremo tra poco, che il diritto di un singolo non trovi soddisfazione (magari anche
in ragione di un interesse collettivo, infra
§ 12), ma non
perché politicamente inopportuno,
bensì perché giuridicamente inesigibile
in quel determinato momento e in quel determinato luogo, come cerco di spiegare
infra paragrafo successivo.
[2] L’affermazione dei diritti dell'uomo come diritto
degli uomini come singoli, non è certo nuova nella prassi internazionale. Basti citare
[3] Infra § 10.1.
[4] Infra §§ 9 ss., e, inoltre, non va
trascurata la funzione svolta dall’art. 6.3 del trattato CE nella versione di
Lisbona, che, sia pure con una terminologia leggermente diversa dall’art. I-9.3
del Trattato che istituisce una Costituzione per l’Europa, afferma l’esistenza
di una sorta di diritto pubblico europeo, derivato dalle norme del sistema
comunitario, da quelle della Carta sociale e della Convenzione europea sui
diritti dell'uomo, e dalle norme derivanti dalle tradizioni costituzionali degli stati membri. V.ne
il testo infra nt. 150.
[5] In applicazione di una ovvia e ben nota regola di
ermeneutica, peraltro codificata, tra gli altri all’art. 24 del Patto delle
Nazioni Unite sui diritti economici sociale e culturali (1966), e all’art. 46
del Patto delle Nazioni Unite sui diritti civili e politici (1966), o anche, in
termini più generali nella ben nota disposizione del n. 2 della General Part della A/RES/2625 (XXV): «Declares that: In their interpretation and application the above principles are interrelated and
each principle should be construed in the context of the other principles./Nothing in this
Declaration shall be construed as prejudicing in any manner the provisions of the Charter or
the right. and
duties of Member States under the Charter or the right. of peoples under the
Charter, taking into account the elaboration of these rights in this Declaration».
[6] Come si mostrerà infra §§ 2 e 4.
[7] Nel senso che, se di sistema o struttura si tratta,
come credo (v. infra nt. 18), non può
darsi il caso di una norma valida e in contraddizione con altra egualmente
valida: una delle due non è (più) valida. Come vedremo, infatti, uno dei
risultati di queste riflessioni è anche quello che porta ad escludere la
possibilità di parlare di diritti dell'uomo regionali, non diversamente da
come, a mio parere, è errato parlare di diritto internazionale regionale,
consuetudini o esigenze locali a parte, cfr. infra § 6.
[8] Infra § 11.2.
[9] Il che ovviamente, come mi accingo a cercare di
mostrare, è in contrasto con la tesi (invero dominante) dell’opponibilità
sempre e ovunque dei singoli diritti dell'uomo. V. ad es. (in termini piuttosto
sommari e approssimativi) Brems E., Human Rights: universality and diversity,
The Hague (Nijhoff) 2001, p. 12 s.
[10] Ma neanche quando allo stato sia lecito di graduare
la realizzazione in concreto dei vari diritti dell’uomo nel proprio
ordinamento, il che discende da altre motivazioni giuridiche su cui v. infra § 10.2.
[11] V. in generale sul problema dell’istruzione e del
trattamento dei bambini, il mio La
convenzione internazionale sui diritti dell’infanzia, Quaderni UNICEF 2, 2005.
[12] A/RES/217/A (III), 1948, art. 26. è appena il caso
di segnalare come, diversamente dalle convenzioni dove si definiscono obblighi
per gli stati parte di predisporre gli strumenti necessari alla
concretizzazione dei vari diritti ivi elencati,
[13] Preceduta, come noto, da una famosa Dichiarazione
A/RES/1386(XIV) del 20.11.1959, il cui Principio
Settimo, fonda l’obbligo (e il diritto corrispondente) all’istruzione.
[14] Da come è formulata, pertanto,
[15] V. in generale sul punto, Pineschi L., Il Patto
delle Nazioni Unite sui diritti civili e politici, in Pineschi L. (a cura di), La tutela internazionale dei diritti umani:
Norme, garanzie prassi, p. 84 ss. e Id.
, Il Patto delle Nazioni Unite sui
diritti economici sociale e culturali, ibidem, p. 130 ss. e v. anche più
ampiamente infra § 10.2.
[16] Ma, a mio parere, non separato dal sistema generale
del diritto internazionale o addirittura autonomamente garantito. In questo senso, invece,
ad es. v. Simma B., Self contained Règimes, in
[17] Nel senso di cui al bel libro di Ferrajoli L., Principia juris. Teoria del diritto e della democrazia, Bari
(Laterza) 2007, vol. I, p. 727 s., che sottolinea efficacemente come non si
possa parlare di diritti “naturali”, dato che di diritti dell'uomo e quindi
delle relative aspettative non è possibile parlare che nell’ambito di un
ordinamento positivo, che li definisce (li pone) e, aggiungerei, li organizza e
li garantisce. Cfr. Anche le ben note e interessantissime considerazioni di Falzea A., Introduzione alle scienze giuridiche: il concetto del diritto,
Milano (Giuffré) 1996, p. 247 ss., la cui definizione del diritto (p. 494) pare
utile riportare: «Il diritto risulta essere, in questa definizione integrata, l’insieme degli interessi sociali
derivanti dalla vita comune congiunto all’insieme dei valori dell’azione umana orientati alla loro realizzazione,
manifestati socialmente e evidenziati oggettivamente dall’esperienza comune e dalla comune cultura».
[18] Cfr, in merito qualche accenno già nel mio La revisione dei trattati internazionali:
spunti critico ricostruttivi, Napoli (Jovene) 1971, pg. 3 ss. e in
particolare ntt. 6, 11 e 24 per i molti riferimenti bibliografici. Sono
impliciti, per quanto attiene al testo, i riferimenti agli Autori più rilevanti
in materia, dal Kelsen H., Reine Rchtslehre, Wien (Deuticke) 1960
(II Ediz.), § 42 c, e § 43, all’ Anzilotti
D., Corso di diritto
internazionale, Padova (cedam)
1964, p. 37 ss., al Perassi T., Lezioni di diritto internazionale, II, introduzione al diritto internazionale
privato, Padova (cedam) 1962,
e v. anche il ben noto e lucidissimo scritto di Kelsen H., Zur Lehre
vom Primat des Völherrechts, in Intternationale
Zeitschrift für Theorie des Rechts, 1938, p. 211 ss. Per la dottrina
italiana, si rinvia per tutti agli scritti ben noti di Bernardini A.,
Formazione delle norme internazionali e adattamento del diritto interno, Pescara
(Libreria dell’Università) 1973 e, più di recente del medesimo Autore, La sovranità popolare violata nei processi
normativi internazionali ed europei, Napoli (Editoriale Scientifica) 1997.
[19] Tanto più che le norme in materia, fatta eccezione
per quelle generali, sono di natura contrattuale e quindi difficilmente
ordinabili in termini di rango rispettivo. Ciò non toglie che, il fatto per cui
talune di esse siano realizzabili logicamente e concretamente solo se altre
siano state già realizzate, non è un fatto solo politico, ma determina la loro
inesigibilità fin tanto che queste ultime non siano state attuate. Sorvolo qui,
per mancanza di spazio, sulla problematica scaturente dalle ben note tesi ed
elaborazioni conseguenti in materia di differenza tra gerarchia propriamente
detta e competenza di Crisafulli V.,
Gerarchia e competenza nel sistema costituzionale
delle fonti, in Rivista Trimestrale
di Diritto Pubblico, 1960, pag. 775 ss. e Idem, la legge regionale nel sistema delle fonti,
ibidem, pag. 262 ss. (dove appunto
per definire la funzione normtiva delle Regioni, le definisce come «…altrettanti
ordinamenti giuridici [nel senso di Santi
Romano, sia detto incidentalmente] : tipicamente derivati,
naturalmente, e inclusi in quello della comunità statale complessiva, nel
quale, per dir così, tutti insieme comfluiscono
senza soluzione di continuità», corsivo
mio). Cfr. Anche, Esposito C., Diritto vivente, legge e regolamento di
esecuzione, in Nocilla D. (a
cura di), Esposito C., Diritto costituzionale vivente, Capo dello
Stato ed altri saggi, Milano (Giuffrè) 1992, pag. 343 ss. E, ovviamente, Modugno F., Appunti dalle lezioni sulle Fonti del Diritto, Torino
(Giappichelli) 2005.
[20] Art. 31 della Convenzione cit. supra nt. 13.
[21] E infatti, anche in assenza di quelle garanzie,
nulla impedisce di assicurare (e quindi di pretendere) il diritto
all’istruzione.
[22] V. infra
§§ 2 e 4.
[23] O, al massimo, può esservi la responsabilità
derivante dalla necessità di realizzare i diritti ad esso strumentali.
[24] Nel senso della disposizione di cui, ad es.,
all’art. 2.1 del Patto delle Nazioni Unite sui diritti economici sociali e
culturali, alla luce dell’art. 13, relativo appunto al diritto all’istruzione.
[25] Del resto, al di là del discorso teorico di cui nel
testo, una affermazione concreta di questa regola la si può trovare ad es.
nell’art. 2.2 Patto delle Nazioni Unite sui diritti civili e politici, su cui
ampiamente infra § 10.2.
[26] Non ha senso, in altre parole, considerarsi
legittimati a pretendere la soddisfazione di un diritto quando esso non può essere soddisfatto: ha senso poter
pretendere che ciò che impedisce di soddisfarlo venga rimosso.
[27] CEDU 23.7.1968, Application no 1474/62;
1677/62; 1691/62; 1769/63; 1994/63; 2126/64, Case Relating To Certain Aspects Of The Laws On
The Use Of Languages In Education In
[28] V. infra
nt. 33 per il testo
rilevante sul punto.
[29] Giudici, è appena il caso di ricordarlo, del
calibro tra gli altri di G. Balladore
Pallieri, H. Mosler, R. Cassin, Sir H.
Waldock, A. Verdross, ecc.
[30] Cfr. La sentenza cit. alla nt. 27, p. 36 s.: « The Commission, referring to
"contemporary theory" and to its own decisions is of the opinion that
the Convention does not prohibit the
establishment of legitimate "differentiation" in the enjoyment of the
rights and freedoms guaranteed: an "extensive
interpretation" based on the French text of Article 14 ("sans
distinction aucune"), "would
lead to absurd results". Article 14 condemns only
"discrimination", and the Commission makes a point of stating
precisely how it understands this word. In its opinion a State does not
discriminate if it limits itself to conferring an "advantage", a
"privilege" or a "favour" on a particular group or
individual which it denies to others. The
question of a possible discrimination arises only if the difference in
treatment in issue amounts to a "hardship" inflicted on certain
people.»
[31] Anche di recente
[32] Il che è formalmente esatto, ma allo stato compete
l’obbligo di assicurare l’istruzione di tutti nel rispetto, tra l’altro, delle
loro esigenze linguistiche: questo è il contenuto effettivo e sostanziale della
disposizione, che altrimenti non avrebbe senso. E, infatti, a ben vedere,
nemmeno si è in presenza nel caso di una legislazione parziale o “progressiva”,
ma si tratta di una scelta amministrativa precisa dello stato. Lo stato,
infatti, non ha legiferato, usando della propria supposta libertà di
legiferare, in modo da non realizzare quel risultato (altrimenti avrebbe
ampiamente violato
[33] Nelle parole
della Corte, ibidem p. 28 ss.: « By
the terms of the first sentence of this Article (P1-2), "no person shall
be denied the right to education"… In spite of its negative formulation,
this provision uses the term "right"
and speaks of a "right to education". Likewise the preamble to
the Protocol specifies that the object of the Protocol lies in the collective
enforcement of "rights and freedoms". There is therefore no doubt that Article 2 (P1-2) does enshrine a right»,
ma «… persons subject to the
jurisdiction of a Contracting State cannot draw from Article 2 of the Protocol
(P1-2) the right to obtain from the public
authorities the creation of a particular kind of educational establishment;
nevertheless, a State which had set up such an establishment could not, in
laying down entrance requirements, take discriminatory measures within the
meaning of Article 14 ».
[34] Ai ricorrenti, infatti e come risulta dalla
sentenza, non si nega per nulla che il diritto esista, ma si nega loro il
diritto di pretenderne legittimamente la realizzazione, nel caso concreto e
specifico per quelle persone in quel determinato luogo.
[35] Come vedremo fra poche righe, una logica analoga
vale anche nell’ipotesi inversa, di mancanza di tutte o molte (o comunque di
quelle essenziali, strumentali, come si accennava sopra) garanzie dove quello
specifico diritto risulterebbe a sua volta giuridicamente inefficace.
[36] Se non altro, dice
[37] Riportando
ancora le parole della Corte, ibidem
p. 31 s.: «It is important, then, to look for the criteria which enable a
determination to be made as to whether or not a given difference in treatment,
concerning of course the exercise of one of the rights and freedoms set forth,
contravenes Article 14. On this question the Court, following the principles
which may be extracted from the legal practice of a large number of democratic
States, holds that the principle of
equality of treatment is violated if the distinction has no objective and
reasonable justification. The
existence of such a justification must be assessed in relation to the aim and
effects of the measure under consideration, regard being had to the principles
which normally prevail in democratic societies. A difference of treatment in the exercise of a right laid down in the Convention
must not only pursue a legitimate aim: Article 14 is likewise violated when it
is clearly established that there is no reasonable relationship of
proportionality between the means employed and the aim sought to be realised…. In
attempting to find out in a given case, whether or not there has been an
arbitrary distinction, the Court cannot
disregard those legal and factual features which characterise the life of the
society in the State which, as a Contracting Party, has to answer for the
measure in dispute. … The national authorities remain free to choose the
measures which they consider appropriate in those matters which are governed by
the Convention. Review by the Court concerns only the conformity of these
measures with the requirements of the Convention».
[38] In realtà, a ben vedere, si potrebbe anche
utilizzare un’altra categoria giuridica per descrivere la fattispecie,
affermando cioè che il diritto, indubbio, è però sottoposto alla condizione
sospensiva per cui, nel caso ipotizzato, qualora mutino le circostanze attuali
quel diritto potrebbe essere lecitamente preteso, poiché non se ne nega
l’esistenza, ma solo l’attuabilità. Condizione sospensiva che si potrebbe
determinare anche qualora la mancata esigibilità del diritto derivi dalla
mancata realizzazione di altri diritti ad esso strumentali, come vedremo fra
poche righe.
[39] Supra
nt. 33.
[40] L’interesse protetto, mi preme sottolinearlo, è un
interesse collettivo e dunque dell’intera comunità belga, per la quale
risulterebbe dannoso o improprio soddisfare quell’indiscusso diritto
individuale in una situazione nella quale quella soddisfazione “danneggerebbe”
gli interessi collettivi. A costo di apparire pedante: il diritto c’è
indiscutibilmente, ma, in quella specifica situazione, non è esigibile. Non
diversamente, a ben vedere, dalla situazione dell’Alto Adige con riferimento
all’Italia: dove, se il diritto all’uso della lingua tedesca è garantito ai
cittadini italiani di lingua tedesca, lo è in
loco, ma non sull’intero territorio nazionale. L’interesse dell’etnia,
dunque, viene posposto a quello dell’intera popolazione. Del resto, come già
rilevato nel mio Autodeterminazione dei
popoli, passim, anche in caso di aspirazione di parte della popolazione di
uno stato (unitario) alla secessione, essa viene consentita solo se l’intera
popolazione si pronunci a favore (o comunque sia a favore) e non solo la parte
aspirante alla secessione. Il riferimento alle brutture giuridiche in atto in
Kosovo non è casuale. Per una situazione analoga, v. anche Sinagra A., Nota alla sentenza Oçalan c. Presidenza
del Consiglio dei Ministri e Ministero dell’interno, in Rivista della cooperazione giuridica
internazionale, 1999, p. 184 ss. e specialmente 193.
[41] Sia pure determinato da quello sociale, come
sempre, del resto, per ogni norma giuridica. Quel “contesto” in senso lato, del
resto, è anche quello che ne determina il contenuto, che molto di frequente non
è più solo quello testuale della singola specifica disposizione: v. infra §§ 10.1 ss.
[42] Nelle parole
della Sentenza, p. 40 s. « It is true that the legislature has instituted an
educational system which … exclusively encourages teaching in Dutch, in the same way as it establishes the
linguistic homogeneity of education in the French unilingual region... Article 14 does not prohibit distinctions in
treatment which are founded on an objective assessment of essentially different
factual circumstances and which, being based on the public interest strike a fair balance between the protection
of the interests of the community and respect
for the rights and freedoms safeguarded by the Convention……[p. 41] In other words,
it tends to prevent, in the Dutch-unilingual region, the establishment or
maintenance of schools which teach only in French. Such a measure cannot be
considered arbitrary. To begin with, it is based on the objective element which
the region constitutes. Furthermore it is based on a public interest, namely,
to ensure that all schools dependent on the State and existing in a unilingual
region conduct their teaching in the language which is essentially that of the region». In altre parole, se mi si consente una chiosa: si
applica nel caso di specie una regola diversa, non si fa eccezione ad una
regola, dato che l’”eccezione” costituirebbe in quanto tale una violazione
della norma.
[43] Cfr.
anche infra nt. 144. Va senza dire che lo stato inadempiente, per mancata
realizzazione degli obblighi strumentali, può, a mio giudizio, obiettare che è
suo compita stabilire le priorità nella realizzazione dei vari diritti,
strumentali e non (invocando cioè, il limite degli affari interni), ma li deve
realizzare tutti ed in tempi ragionevoli: ne può “graduare” la realizzazione
(art. 2 Patto delle Nazioni Unite sui diritti economici sociali e culturali) ma
li deve realizzare, pena una violazione del diritto internazionale e la
conseguente responsabilità (v. infra
§ 10.2).
[44] Saranno, come ovvio, i singoli ordinamenti giuridici
interni a predisporre o meno i meccanismi per far valere quella responsabilità
e per trarne le necessarie conseguenze. Ma, almeno in astratto, sul piano
internazionale la mancata realizzazione di quei diritti, comunque motivata,
determinerebbe sempre la responsabilità dello stato fin tanto che la relativa
pretesa fosse azionabile.
[45] Rispetto a ciò, diverso è l’approccio della cd.
«inclusive universality», che, peraltro, centra l’attenzione, come io stesso
più sopra, sull’individuo, piuttosto che sulle collettività, v. Brems E., Human, cit., 338.
[46] E quindi, si tratta, a mio parere di una gerarchia
del tutto atipica, funzionale, come
spiego meglio infra § 10.2.
[47] Per quanto possa apparire un’osservazione solo
formalistica, non è un caso, a mio parere, che nelle convenzioni in materia di
diritti dell'uomo non si condiziona la realizzazione dei singoli diritti ivi
ipotizzati alle situazioni socio-politico-giuridche locali. Nulla, cioè,
“giustifica” la mancata realizzazione di quei diritti. L’ipotesi che sto
formulando nel testo, serve dunque a graduare
l’esigibilità giuridica delle singole pretese.
[48] Per portare all’estremo le conseguenze di questo
ragionamento, il regionalismo andrebbe inteso in senso socio-giuridico e non
certamente geografico, talché, come accennato nel testo, non sarebbe
impossibile affermare che diversi regimi giuridici di diritti dell'uomo possano
coesistere in un medesimo contesto geografico, perfino all’interno di uno
stesso stato. V. anche più ampiamente infra
§ 6.
[49] È il caso degli artt. 2 del Patto delle Nazioni
Unite sui diritti economici sociali e culturali e del Patto delle Nazioni Unite
sui diritti civili e politici. Cfr. più ampiamente sul punto infra § 10 ss.
[50] Supra §§
5 ss.
[51] Anzi, non sembra privo di significato il fatto per
cui mentre è proprio alla collettività che il diritto non viene negato (anzi,
viene ufficialmente e pienamente riconosciuto), è invece all’individuo che
quello stesso diritto può, legittimamente, venire negato, o, almeno, ne può
venire negata la facoltà di pretenderlo.
[52] Ovviamente con tutte le differenze che derivano
dagli ordinamenti costituzionali e processuali dei vari soggetti e dal tipo di
obblighi (sempre processuali, come la possibilità di ricorso individuale) da
essi assunti sul piano internazionale.
[53] V. Zanghì C.,
La protezione, cit., p. 18 s.
[54] Infra § 10.2.
[55] Perché, come osservato sopra e come si approfondirà
più avanti (§§ 10 ss.) alla Comunità internazionale compete il compito
di verificare che gli obblighi, dei quali ha spesso esplicitamente imposto la specifica realizzazione (v. art. 2 dei
Patti delle Nazioni Unite sui diritti dell'uomo) nella legislazione interna,
con la conseguenza che è alla stessa Comunità internazionale che sta di
controllare se la richiesta sia stata correttamente soddisfatta.
[56] Salvo a verificarne la possibilità di agire, sia da
parte della Comunità internazionale che da parte degli stati uti universi. Benché l’ipotesi non sia
frequente, non manca la possibilità di definire la legittimità di vere e
proprie “contromisure” (individualmente o collettivamente gestite) in materia
di violazioni dei diritti dell'uomo. V. anche Tams
C., Enforcing obligations erga
omnes in International Law, Cambridge
(Un. Press) 2005, p. 233 e passim.
[57] Pur se una sorta di “effetto di reciprocità” può
essere determinato dall’utilizzazione dell’istituto della protezione
diplomatica. Non a caso si parla di «human rights of aliens», ad es. nella
sentenza Le Grand: Le Grand (Gernany v. United Stutes of America),
Judgrnent, I. C. J. Rc.ports 2001, p. 466, § 75, ma v. anche il complesso
caso United States, Petitioner V. Humberto Alvarez-Machain, 504
U.S. 655, ecc.
[58] Come noto, peraltro, un effetto di reciprocità, può
essere indotto anche dal fatto che in determinate circostanze la pretesa al
rispetto di un certo standard minimo di diritti dell'uomo sia legato alla
pretesa di applicazione di un trattato. È il caso della ben nota
advisory opinion cig, Interptretation of Peace treaties with
Bulgaria Hungary and Romania, 30.3.1950, in cig, Reports of
Judgements and Advisory Opinions, 1950, p. 72 ss. (p. 9 ss. dell’opinione: https://www.icj-cij.org/docket/files/8/1863.pdf).
[59] Non va
dimenticato, peraltro, che l’art. 9.1 (frutto del Protocollo 11) della
Convenzione europea, definisce la libertà religiosa proprio con questa formula un po’
complessa e per molti versi ridondante: «1 Everyone has the right to
freedom of thought, conscience and religion; this right includes freedom to change his religion or belief and
freedom, either alone or in community with others and in public or private, to
manifest his religion or belief, in worship, teaching, practice and
observance». Una disposizione analoga
(art. 12) si trova anche nella Convenzione interamericana. Quanto poi, quella
disposizione, corrisponda a talune concitate e affannose pretese a ottenere che
nessun simbolo religioso sia esposto
sulle persone, sarà interessante vedere.
[60] Anzi, non mancano casi in cui esplicitamente si
esclude che la stessa democrazia rappresentativa, come sistema, sia un obbligo
internazionale e comunque legato ai diritti dell'uomo: v. ad es. CIG, Case Concerning Military And
Paramilitary Activities In And Against Nicaragua (Nicaragua V. United States Of America) Merits Judgment
27.06.1986, § 263: «…. However the régime in Nicaragua be defined,
adherence by a State to any particular doctrine does not constitute a violation
of customary international law; to hold otherwise would make nonsense of the
fundamental principle of State sovereignty on which the whole of international
law rests, and the freedom of choice of the political, social, economic and
cultural system of a State».
[61] Già in passato, nel mio volume sulla Autodeterminazione dei popoli, avevo
fatto rilevare come
[62] Sul punto, con particolare riferimento al
regionalismo americano, v. ampiamente Di
Stasi A., Il sistema americano dei
diritti umani: circolazione e mutamento di una International Legal Tradition, Torino
(Giappichelli) 2004, specialmente pagg. 64 ss.
[63] Anche se non è mancato chi lo abbia sostenuto, come
noto. Cfr. per un resoconto in materia, Strauss,
Torture, in NYL School L Review, 2003-2004, p. 216, e v. anche infra nt. 66.
[64] Non va sottovalutato il fatto per cui anche nella Dichiarazione di Vienna del 1993 (UN
Doc. A/(CONF/157/23)
si afferma esplicitamente: «5. All human rights are universal, indivisible and
interdependent and interrelated. The international community must treat human
rights globally in a fair and equal manner…..8. Democracy, development and
respect for human rights and fundamental freedoms are interdependent and
mutually reinforcing…» mentre: « 37. Regional arrangements play a fundamental
role in promoting and protecting human
rights. They should reinforce universal
human rights standards, as contained in international human rights instruments,
and their protection. The World
Conference on Human Rights endorses efforts under way to strengthen these
arrangements and to increase their effectiveness, while at the same time stressing the importance of cooperation with the
United Nations human rights activities..» è difficile sottrarsi all’impressione, che in fin dei conti si dica quanto
da me affermato, circa I rapporti tra le norme particolari e quelle generali;
impressione rinforzata dal fatto che tutta la seconda parte della Dichiarazione è dedicata precisamente
alla «Increased coordination on human rights within the United Nations system».
[65] Cfr.
[66] Si evolve, certo, lo stesso concetto di tortura,
per cui può bene accadere che in uno o più specifici ordinamenti giuridici (o
magari anche ordini convenzionali) siano lette come tortura anche talune pene
come la morte o l’ergastolo, per cui in determinate situazioni ne possano
derivare le conseguenze corrispondenti. Sarà poi compito dell’interprete quello
di vedere in che maniera certe norme specifiche influiscono sul contenuto della
norma valida per tutti. V. sul punto anche infra
§ 11 ss. Per una bibliografia in materia cfr. ad es.: Ackerman B., Emergency Constitution, in
Yale L J, 2003-2004, p. 1029; Ackerman B., This Is Not a War Response, in Yale
J. Int'I L, 2003-2004, p. 1871; Dershowitz
A., Torture Warrant: A Response to
Professor Strauss, in N. Y. L. Sch.
L. Rev, 2003-2004, p. 275; Dershowitz
A., Torture Warrant: A Response to
Professor Strauss, The Center for Professional Values and Practice Symposium:
Criminal Defense in the Age of Terrorism., in NYL School L Review, 2003-2004, p. 275; Paust J., Executive
Plans and Authorizations to Violate International Law Concerning Treatment and
Interrogation of Detainees, in (https://www.coiumbia.edu/cu/jtl/Vol_43_3_files/Paust.pdf); Strauss
M., Torture, cit.; Becker J., Legal War on Terrorism: Extending New York v. Quarles and the Departure
from Enemy Combatant Designations, in DePaul
L. Rev, 2003-2004, p. 831; Geraghty
T., Criminal-Enemy Distinction:
Prosecuting a Limited War against Terrorism following the September 11, 2001
Terrorist Attacks, in McGeorge L.
Rev, 2001-2002, p. 551; Harris G.,
Terrorism, War and Justice: The Concept
of the Unlawful Enemy Combatant, in Loy.
L.A. Int'I & Comp. L. Rev, 2003-2004, p. 31; McCormick E., Enemy
Aliens: Double Standards and Constitutional Freedoms in the War on Terrorism,
in Conn. J. Int'I L, 2003-2004,
p.423; Perkins J., Habeas Corpus in the War against Terrorismi
Hamdi v. Rumsfeld and Citizen Enemy Combatants, in BYU J. Pub. L,
2004-2005, p. 437.
[67] Gli studi in materia di cd. conflitto di civiltà,
ne sono una dimostrazione lampante, perfettamente confrontabile con la realtà
anche di certe convenzioni internazionali, dove il riferimento di tipo
culturale è addirittura dichiarato: basti pensare alla convenzione del Cairo
sui diritti dell'uomo dell’islam. V. sul punto, anche il mio Autodeterminazione dei popoli e successione,
cit., passim.
[68] Secondo le definizioni di Huntington S., Lo
scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale, trad it. di The Clash of Civilization and the Remaking
of World Order (1996) Milano (Garzanti) 2003.
[69] Non solo con riferimento ai diritti dell'uomo, ma
anche, ad es., con riferimento all’autodeterminazione dei popoli (come ho avuto
occasione di mostrare nel mio Autodeterminazione,
cit.), rispetto alla quale la stessa identificazione del popolo destinatario
della garanzia è legata a fattori ormai non più etnici, quando addirittura non
si possa giungere a parlare di una aspirazione espressa da gruppi
identificabili per motivi culturali e per nulla geografici: v. il mio Autodeterminazione dei popoli e successione
di norme contrattuali: alle radici di un conflitto, in Rivista della cooperazione giuridica internazionale, 2005, p. 7 ss.
e specialmente p. 55 ss.
[70] E parlo deliberatamente di “volontà”, per
sottolineare che la coincidenza di culture è, in certi casi, ricercata
deliberatamente, anche se, troppo spesso, in un’ottica difensiva.
[71] O anche nella pretesa, di nuovo vera o presunta, di
determinati comportamenti in maniera non rispettosa dell’autonomia (e quindi
della pretesa all’eguaglianza) di altri. È inevitabile che in questa ottica
vengano viste dai destinatari azioni (nel caso, magari, perfettamente
ragionevoli, ma inevitabilmente viste come delle imposizioni) del tipo adottato
nelle S/RES/1747, 1737 e 1696 con riferimento all’Iran.
[72] Il che, sia detto del tutto incidentalmente, impone
di riconsiderare a fondo il concetto di “popolo”, almeno ai fini
dell’autodeterminazione, come già osservavo nel mio Autodeterminazione dei popoli e successione, cit., p. 34 ss. Ma
rafforza anche la mia tesi, del resto non certamente isolata, per cui il popolo
non dispone di soggettività giuridica internazionale per l’impossibilità di
azionare i conseguenti diritti, mentre è e resta oggetto di una garanzia
offerta dalla Comunità internazionale al popolo, di volta in volta identificato
nella sua dimensione e, approssimativa, collocazione geografica. V. anche infra nt. 80
[73] Più precisamente:
Cairo Declaration on Human Rights in Islam, 5.08.1990, adottata
durante la 19° conferenza dei ministri degli estri islamici al Cairo, tra il 31
Luglio il 5 Agosto 1990 ( UN Doc. A/CONF.157/PC/62/Add.18, 1993.
[74] Un problema analogo, v.lo analizzato da Novi C., Le droit de l’Union Européenne et l’égalité entre femnes et hommes,
in Curtotti, Novi, Rizzelli (a
cura di), Donne, civiltà e sistemi
giuridici, Milano (Giuffrè) 2007, specialmente p. 397 s. e 417 ss.
[75] Che, all’art. 18.3, oltre a prevedere la
eliminazione di ogni forma di discriminazione verso la donna, fa un esplicito
riferimento alle altre convenzioni
internazionali, ma anche alle
dichiarazioni internazionali. Il riferimento agli atti di Organizzazioni
internazionali, come le NU, appare troppo evidente per richiedere ulteriori
considerazioni.
[76] Infra § 11.1.
[77] Cfr. infra
§ 11.2.
[78] Che adotta la formula famosa, oggi ancora spesso
usata da taluni documenti specie dei paesi ex coloniali, del diritto alla
resistenza all’oppressione: « Article
II : Le but de toute association politique est la
conservation des droits naturels et imprescriptibles de l'Homme. Ces droits sont la
liberté, la propriété, la sûreté et la résistance à l'oppression.» Questa formulazione è utilizzata anche nel Progetto
di Nuova Carta Araba dei diritti dell'uomo, esattamente con le medesime parole.
[79] Co. 3 del preambolo: « Whereas it is
essential, if man is not to be compelled to have recourse, as a last resort, to
rebellion against tyranny and oppression, that human rights should be protected
by the rule of law».
[80] Sia consentito di ribadire in questa sede quanto
già affermato ripetutamente in passato (ma v. anche supra nt. 72), circa il
fatto che il termine “diritto” riferito all’autodeterminazione può considerarsi
correttamente utilizzato solo con riferimento al diritto dei soggetti di
diritto internazionale (innanzitutto, dunque, gli stati, ma non solo) di
scegliere liberamente le proprie alleanze politiche, economiche e militari
(diritto riconosciuto nell’Atto finale della csce,
quella che ho chiamato “autodeterminazione esterna”). Viceversa, per
quanto attiene all’autodeterminazione in senso tradizionale (volontà e
conseguente eventuale lotta di un popolo per la realizzazione di uno stato
autonomo, se del caso in unione con altri soggetti di diritto internazionale,
ma con esclusione assoluta di un diritto alla secessione) e
all’autodeterminazione interna (aspirazione permanente di un popolo alla
realizzazione di un regime politico giuridico corrispondente alle proprie
aspirazioni) è più corretto parlare di “garanzia” che
[81] Così come ampiamente dimostrato nel già cit. mio Autodeterminazione dei popoli, p. 188 ss. e 268.
[82] Del tutto non condivisibile, mi pare, l’analisi di Fodella A., La tutela dei diritti collettivi: popoli, minoranze, popoli indigeni,
in Pineschi L. (a cura di), cit.,
p. 711 ss.
[83] O comunque ad un regime che non sia originariamente voluto e determinato
oltre che condiviso da parte della popolazione. Tale dunque è il caso anche di
regimi retti da governi fantoccio o da regimi non interamente autonomi nelle
loro determinazioni, ma, specialmente, nella loro origine.
[84] E chi ricorda le sciagurate teorie in materia di
sovranità limitata e di zone di influenza, può ben capire quanto ciò sia
fondamentale per gli stati appartenenti ad entrambi i vecchi “blocchi”
sovietico e statunitense, anche se ancora oggi pretese del genere sembrano
ritornare.
[85] Che costituisce una consistente base normativa
dell’intero sistema, v. Lauterpacht H.,
Towards an International Bill of Rights,
in Lauterpacht
E., International Law being the
Collected Papers of H. Lauterpacht, Cambridge (Un. Press) 1977, p. 410 ss.
[86] Quello « esterno » essendo garantito
dall’autodeterminazione in generale e agli stati (o meglio ancora, ai soggetti
di diritto internazionale), non ai popoli. Non è un caso che nella gran parte
dei documenti internazionali le due esigenze sono sempre presentate in una
endiadi inscindibile.
[87] Come
curiosamente ritiene invece il Kelsen H.,
The Law of the United Nations, A Critical
Analysis of its Fundamental Problems, London (Stevens) 1951, p. 17 ss.
[88] Basterebbe
citare le ampie e ripetute considerazioni in merito della CIG nel parere
consultivo Legal
Consequences of The Construction of A Wall in The Occupied Palestinian
Territory, in particolare §§
102 ss. dove, tra l’altro,
[89] Per questo motivo, lo osservo solo incidentalmente,
dispiace molto vedere che
[90] Infra, §
10.
[91] Infra,
§§ 4 s.
[92] Magari azionabile direttamente dagli individui che
in quegli stati agiscano, e che in conseguenza e a titolo strettamente individuale ne derivano risarcimenti, ma non obblighi di facere in capo allo stato.
[93] Supra
nt. 18.
[94] Tema di recente affrontato a fondo dalla
giurisprudenza statunitense con riferimento, in particolare, all’applicabilità
della IV Convenzione di Ginevra. V. ad es.: In Re: Iraq And Afghanistan Detainees
Litigation, United States District Court For The District Of Columbia, 27.3.2007,
[95] È appena il caso di ricordare come, nel diritto
italiano, l’introduzione della fondamentale disposizione di cui al co. 1
dell’art. 117 Cost., renda la mancata o la non corretta realizzazione di quella
norma costituzionalmente illegittima e comunque abiliti l’individuo a
pretenderne l’esecuzione o, in mancanza, il corrispondente risarcimento del
danno. Sul punto, cfr. anche le recenti sentenze Corte costituzionale 348/07 e 349/07, su cui
v. ampiamente anche Zanghì C.,
[96] Per cui quelle norme non possono essere considerate
solo programmatiche, poiché capaci di determinare, all’interno, anche diritti
veri e propri a vantaggio degli individui.
[97] Cfr. Draft
articles on Responsibility of States for
internationally wrongful acts, 2001, UN Doc.
A/56/10, art. 48,b (e v. anche artt. 25.1,b,
33.1, 42,b).
[98] Basterebbe, per fare solo un esempio
particolarmente evidente, pensare agli stati parte della Carta araba sui
diritti dell’uomo, alcuni dei quali
sono anche parte della corrispondente Carta africana (a partecipazione di molti
altri soggetti), e tutti i quali
sono, a loro volta, parte della Convenzione del Cairo, a sua volta, a
partecipazione più larga e, per di più, tutti o quasi sono a loro volta parti
dei Patti delle NU sui diritti dell'uomo.
[99] E già solo questo sarebbe di grandissima rilevanza,
se si tiene conto di quanto detto più sopra con riferimento alla intenzione
dello Statuto delle NU di garantire l’eguaglianza
dei diritti dei popoli. Una affermazione simile non può non avere come conseguenza,
sia pure minimale, quella per cui la mancata assicurazione di un diritto
dell’uomo in una convenzione regionale non vorrebbe necessariamente dire che
quel diritto specifico è interdetto o negato ai popoli di quegli stati. Più
ampiamente v. supra § 7.
[100] Sorvolo in questo lavoro sull’altro problema, più
squisitamente di diritto interno, relativo al modo in cui le varie norme
possono essere trasformate in diritto interno (in particolare in quello
italiano), grazie ai vari meccanismi costituzionali previsti, che influiscono
sul “rango” delle norme immesse a seconda della provenienza delle norme
internazionali e che non si possono ricondurre tutti e solo all’art. 10
Costituzione (se non altro per il recentemente novellato co. 1 dell’art. 117)
come sembra ritenere il Ferrajoli L.,
op. cit., p. 740..
[101] Infra, §§ 10 ss.
[102] Cosa, in fin dei
conti, non poi tanto nuova, se si pensa, ad es., alla giurisprudenza
comunitaria, fin dal caso Nold (C-4/73, J. Nold, Kohlen- und Baustoffgroßhandlung contre
Commission des Communautés européennes), dove la Corte afferma: «13
attendu que , ainsi que la cour l ' a déjà affirmé, les droits fondamentaux
font partie intégrante des principes généraux du droit dont elle assure le
respect ; qu’ en assurant la sauvegarde de ces droits , la cour est tenue de s'
inspirer des traditions constitutionnelles communes aux états membres et ne
saurait , des lors , admettre des mesures incompatibles avec les droits
fondamentaux reconnus et garantis par les constitutions de ces états ; que les
instruments internationaux concernant la protection des droits de l ' homme
auxquels les états membres ont coopéré ou adhère peuvent également fournir des
indications dont il convient de tenir compte dans le cadre du droit
communautaire ; que c ' est a la lumière de ces principes que doivent être
apprécies les griefs soulèves par la requérante».
[103] Non
contraddizione da realizzare in concreto mediante l’interpretazione delle
norme, che, però in questo senso, è per così dire “guidata” da questa esigenza.
[104] Su ciò § 11.2.
[105] Ma,
del resto, la stessa logica deve valere per altre situazioni in tutto analoghe.
In particolare, ad esempio, per quelle determinate dalla sottoscrizione da
parte di vari stati dello Statuto della Corte Penale Internazionale e
contemporaneamente dalla sottoscrizione di accordi bilaterali con cui si
assumono obblighi assolutamente confliggenti. La logica, come dicevo, vale per
tutte le situazioni, e dunque sarei propenso a suggerire, anche in questo caso,
la invalidità dell’accordo bilaterale e anche, laddove gli ordinamenti interni
degli stati interessati lo consentissero, la loro disapplicazione tout court, per non parlare della certa
non opponibilità del trattato bilaterale in deroga agli altri sottoscrittori
dello Statuto della Corte Penale Internazionale, se non altro in ragione
dell’art. 26 Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati e forse anche
dell’art. 35 ss. della medesima Convenzione: buona fede e illiceità di effetti
per i terzi.
[106] Un primo tentativo di analizzare la questione sotto
questo profilo, v.lo nel mio Autodeterminazione
dei popoli e successione, cit. p. 7 ss. E anche in commento agli artt. 1 e
2 della Nuova Carta Araba dei diritti dell'uomo, nel volume collettaneo a cura
di Zanghì C., Ben Achour R., La nouvelle Charte Arabe des droits de
l’homme, Torino (Giappichelli) 2005. V. infra § 11.
[107] Derivanti cioè
dalla prassi o dalla consuetudine o dalla loro presenza iu ordinamenti
giuridici interni (ex art. 38 dello
Statuto cig, per riferirmi al
caso più noto), ecc. Basti citare la ben nota sentenza cig, Reservations to
the Convention on the Prevention And Punishment Of The Crime of Genocide,
Advisory Opinion Of May 28th,
[108] Cfr. per tutti, Zanghì
C., La protezione, cit., p. 86
ss. V. anche, con particolare riferimento al sistema interamericano, le
considerazioni di Di Stasi, Il sistema americano, cit. p. 170 ss.
[109] Con tutte le articolazioni che questo concetto comporta.
V. per tutti, Bernardini A., Formazione, cit., p. 92 s., che però, mi
sembra, ipotizza che, qualora la norma generale di diritto internazionale non
sia self-executing, per renderla norma interna non vi sia altro modo che
seguire il «procedimento ordinario» di trasformazione per l’intera norma,
mentre, a mio parere, si determina solo l’obbligo di integrazione normativa, ma il principio giuridico è senz’altro immediatamente parte del nostro
ordinamento, come già sottolineato nel mio Autodeterminazione
dei popoli e successione, cit., loc. cit. Il senso della disposizione,
peraltro, mi sembra abbastanza inequivoco nella interpretazione da me accolta,
e trova conferma in una lettura della discussione in sede di Assemblea
Costituente (Commissione per
[110] Per spiegarmi con un esempio, su cui anche più
avanti nel testo: posto che il contenuto della Dichiarazione universale sui
diritti dell'uomo sia (divenuto) norma di diritto internazionale generale, il
contenuto dell’art. 5 della Dichiarazione stessa, che impone di non sottoporre
alcuno a tortura, non richiede, per determinare i suoi effetti, alcun atto
normativo ulteriore e quindi potrebbe essere (a mio parere, è) immediatamente applicabile ed
esigibile. Viceversa, sempre nella stessa ipotesi, il contenuto dell’art. 6
della stessa Dichiarazione, se pone, come detto prima, certamente il principio
del riconoscimento della personalità giuridica degli individui negli
ordinamenti interni, necessariamente richiede delle norme integrative per
essere effettivamente applicato. All’individuo, perciò, spetterebbe anche (o
almeno) il diritto di pretendere dallo stato la realizzazione concreta di quel
diritto.
[111] Un caso, potrebbe essere quello delle norme
richiamate a fondamento dei processi di Norimberga, a stretto rigore non
contenute in norme interne tedesche: v. London
Agreement of August 8th 1945, e Charter
of the International Military Tribunal, 8.8.1945 art. 6, stipulato sulla
base del precedente accordo di Mosca del 30.10.1943, v.li in https://www.yale.edu/lawweb/avalon/imt/proc/imtconst.htm.
[112] Cit. supra
nt.12.
[113] A/RES/1386 (XIV), 20.11.1959, che elenca i diritti,
divisi in dieci Principi, tutti riportati con la formula: « The child shall….».
[114] È il caso, ed es. anche delle disposizioni della
stessa Risoluzione sulle relazioni amichevoli tra gli stati (2625-XXV), o anche
di alcuni atti e dichiarazioni e quant’altro derivati dalla Conferenza sulla
sicurezza e la cooperazione in Europa e dalla conseguente OSCE, ecc., che molto
spesso definiscono direttamente diritti degli individui; come potrebbe essere,
per esempio, la norma che vieta di praticare la tortura, attraverso
l’affermazione del diritto
dell’individuo a non esservi sottoposto. A stretto rigore, una norma del genere
non obbliga lo stato a legiferare in merito, mentre non solo lo obbliga a
comportarsi in maniera coerente alla norma, ma, e specialmente, abilita
l’individuo a pretendere dallo stato il rispetto di quella norma, a prescindere
dalla sua trasformazione in norma interna.
[115] Né richiede o può richiedere di essere
trasformato : la norma, infatti, è perfettamente self-executing e dunque
applicabile senza ulteriori prescrizioni. Starà poi agli organi
(giurisdizionali) interni di valutare se abbia trovato corretta applicazione ed
analogamente starà agli organi internazionali di valutarne l’efficace
realizzazione nella prassi degli stati interessati.
[116] Per tutti si veda, di recente, Cartabia C, La cedu e l’ordinamento
italiano: rapporti tra fonti, rapporti tra giurisdizioni, relazione introduttiva,
in Bin, Brunelli, Pugiotto, Veronesi
(a cura di), All’incrocio tra
costituzione e cedu: Il rango
delle norme della Convenzione e l’efficacia interna delle sentenze di
Strasburgo, Atti del Seminario Ferrara, 9.3.2007, Torino (giappichelli ) 2007, p. 6 ss. e ivi
ampi riferimenti bibliografici e giurisprudenziali.
[117] Che cito solo
per completezza, trattandosi di norma di notorietà assoluta: «The High
Contracting Parties shall secure to everyone within their jurisdiction the
rights and freedoms defined in Section I of this Convention».
[118] Tipico in questo senso è il caso della cd. Legge
Pinto (24.3.2001 n. 89), intervenuta per risolvere all’interno i problemi di
risarcimento posti dalla eccessiva lunghezza dei processi, o quello della
problematica in materia di contumacia, pure sollevata dalla CEDU, e egualmente
risolta con una conseguente normativa interna, su cui v. per tutti Maratea L., Processo contumaciale e cooperazione europea in materia penale, in https://www.sioi.org/Sioi/Maratea.pdf e Guarino A.
jr.,Il procedimento in contumacia nel confronto con gli ordinamenti di Gran
Bretagna, Scozia, Spagna, Svizzera, Stati Uniti, Sud Africa ed Australia,
in https://www.sioi.org/Sioi/guarino.pdf.
[119] Cfr. International Covenant on Civil and
Political Rights (1966), art. 2.2: «Where not already provided
for by existing legislative or other measures, each State Party to the present
Covenant undertakes to take the necessary steps, in accordance with its
constitutional processes and with the provisions of the present Covenant, to
adopt such legislative or other measures as may be necessary to give effect to
the rights recognized in the present Covenant», ma anche: «3. Each State
Party to the present Covenant undertakes: (a) To ensure that any person whose rights or freedoms as herein recognized are violated shall have an effective remedy,
notwithstanding that the violation has been committed by persons acting in an official
capacity; (b) To ensure that any
person claiming such a remedy shall have
his right thereto determined by competent judicial, administrative or
legislative authorities, or by any other competent authority provided for by
the legal system of the State, and to develop the possibilities of judicial
remedy; (c) To ensure that the competent authorities shall enforce such
remedies when granted». Analoga è la
disposizione dell’art. 2.1 del Patto sui diritti economici: «1. Each State Party
to the present Covenant undertakes to take steps, individually and through
international assistance and co-operation, especially economic and technical,
to the maximum of its available resources, with a view to achieving
progressively the full realization of the rights recognized in the present
Covenant by all appropriate means, including particularly the adoption of
legislative measures.». Non diversa è la disposizione dell’art. 1 della
Convenzione europea, supra nota
precedente, e così via.
[120] Adottata con la
A/RES/44/25, 20.11.1989, art. 4: «States
Parties shall undertake all appropriate legislative, administrative, and other
measures for the implementation of the rights recognized in the present
Convention. With regard to economic, social and cultural rights, States Parties
shall undertake such measures to the maximum extent of their available
resources and, where needed, within the framework of international
co-operation»
[121] Con l’ulteriore strana, ma molto significativa
clausola, nel Patto delle Nazioni Unite sui diritti economici sociali e
culturali, di legiferare attraverso la cooperazione internazionale e mettendo
in opera il massimo delle risorse necessarie per realizzare lo scopo! Infra nt. 126.
[122] V. il testo, supra
ntt. 119 e 120.
[123] Art. 2.2 e 2.3 Patto delle Nazioni Unite sui
diritti economici sociali e culturali : « 2. The States Parties to the
present Covenant undertake to guarantee
that the rights enunciated in the
present Covenant will be exercised without discrimination of any kind as to
race, colour, sex, language, religion, political or other opinion, national or
social origin, property, birth or other status. 3. Developing countries, with due regard to human rights and their
national economy, may determine to what
extent they would guarantee the economic rights recognized in the present
Covenant to non-nationals.». Si noti,
come accennato nel testo: lo stato si impegna a garantire che i diritti enunciati (e quindi istituiti)
siano esercitati senza discriminazioni.
[124] Art. 2.1 Patto delle Nazioni Unite sui diritti
civili e politici : « 1. Each State Party to the present Covenant undertakes to respect and to ensure to all individuals within its
territory and subject to its jurisdiction the rights recognized in the
present Covenant, without distinction of any kind, such as race, colour,
sex, language, religion, political or other opinion, national or social origin,
property, birth or other status....». Si
noti, anche qui: «recognised», quasi si voglia affermare che, in questo caso,
quei diritti già esistono (il che
corrisponde alla realtà, visto che si tratta per lo più, in quella Convenzione,
di diritti dell'uomo fondamentali) e quindi ne deve essere assicurato
concretamente il rispetto. In altre parole, posto che quei diritti sono già
validi, si impone agli stati anche
(qualora già gli ordinamenti interni di essi non lo abbiano fatto, o non lo
facciano istituzionalmente, come nel caso dell’ordinamento italiano) di renderli efficaci ed esigibili, come
esplicitamente affermato al n. 3 dell’art. 2 del Patto delle Nazioni Unite sui
diritti civili e politici (v. supra
nt. 119), cosa, non a caso, non affermata nel Patto delle
Nazioni Unite sui diritti economici sociali e culturali.
[125] Art. 2: « 1.
States Parties shall respect and ensure the rights set forth in the present
Convention to each child within their jurisdiction without discrimination of
any kind, irrespective of the child's or his or her parent's or legal
guardian's race, color, sex, language, religion, political or other opinion,
national, ethnic or social origin, property, disability, birth or other status»
[126] Il che, a sua volta, potrebbe determinare un
obbligo di cooperazione internazionale, che non sarebbe cosa di poco momento.
Gli stati (in via di sviluppo) insomma, sarebbero non solo tenuti a trasformare
in diritto interno le norme del Patto, ma dovrebbero farlo in stretta
cooperazione con la Comunità internazionale, la quale a sua volta, avrebbe un
obbligo di cooperazione. E quindi, in altre parole, mentre i paesi in via di
sviluppo potrebbero in qualche maniera vedere limitata la propria autonomia
dalla “collaborazione” necessaria con quelli più sviluppati, questi ultimi non
potrebbero ostacolare (anzi dovrebbero favorire) l’immissione negli ordinamenti
dei paesi meno fortunati, di quelle regole, anche qualora in contrasto con i
loro interessi.
[127] Ovviamente cum grano salis : cfr. il commento
generale del Comitato dei diritti dell’uomo, General Comment No. 3, 1990, «§ 2…while the full realization of the
relevant rights may be achieved progressively, steps towards the goal must be
taken within a reasonably short time…§ 9 It thus imposes an obligation to move
as expeditiously and effectively as possible…», ctt. in Pineschi, cit. p. 131.
[128] Supra
nt. 119.
[129] È, insomma, il discorso che facevo prima: i diritti
(in capo ai cittadini ecc.) ci sono
nel momento stesso in cui le Convenzioni siano state ratificate (e, se del
caso, trasformate). La legislazione a sua volta, posto che i diritti ormai ci
sono, interviene per organizzarli in maniera appropriata. Progressivamente,
invece, si rendono effettivi quei diritti, quando si tratti di diritti
economici e sociali, ecc., e dunque, in
questo caso e limitatamente a quei soli diritti, l’individuo non può
pretenderli subito. Anche qui, forse, una caso di inesigibilità di un diritto
esistente!
[130] Per quanto attiene ai due Patti, si tratta
dell’art. 2.2 Patto delle Nazioni Unite sui diritti economici sociali e
culturali, e art. 2.1 Patto delle Nazioni Unite sui diritti civili e politici.
[131] §§ Errore. L'origine riferimento non è stata
trovata. ss.
[132] V.ne un caso infra
nt. 151 e il relativo
riferimento bibliografico, cui adde
di recente il mio Corte Europea dei
Diritti dell'uomo e estradizione italiana, in https://www.europeanrights.eu/index.php?funzione=S&op=5&id=34, 14.7.2007, p. 5, ora in Studi in memoria di Vincenzo Starace, in corso di stampa, Napoli
(Editoriale Scientifica) 2008.
[133] È, in questo senso, lecito domandarsi, come infatti
si è cercato di discutere nelle pagine che precedono, se anche in questi casi
(come ormai appare giurisprudenza acquisita in riferimento alla normativa
comunitaria non direttamente applicabile) non sia possibile, da parte del
singolo cittadino, pretendere dallo stato (e quindi dai suoi organi, ivi
compresi i funzionari) l’esecuzione in forma specifica dell’obbligazione non
trasformata in norma interna, o comunque non resa operativa. V. per tutti di
recente, Contaldi, Atti amministrativi contrastanti con il
diritto comunitario, in Il diritto
dell’Unione Europea, 2007, p. 747 ss.
[134] Basti citare in merito la classica opera del McNair A., The Law of Treaties, Oxford (Clarendon) 1961, p. 345 ss e 493 ss.
[135] Superando così la norma che in linea di principio
obbliga ad applicare subito tutti i diritti definiti nelle convenzioni.
[136] Sui quali v.ne già ampiamente una discussione nel
lavoro cit. alla nota 132 specialmente p. 25 ss.
[137] E più precisamente, per limitarci alle norme di
maggiore rilevanza : artt. 17 e 53 della Convenzione europea per la
salvaguardia dei diritti dell'uomo, l’art. 31 della Convezione interamericana
sui diritti dell'uomo, l’art. 60 e 61 della Convenzione africana (anche se
riferita alla Commissione da detta Convenzione istituita) l’art. 3 della Crta
araba sui diritti dell'uomo e l’art. 43 del progetto di nuova Carta araba sui
diritti dell'uomo.
[138] Da intendere, a mio parere, come consuetudini
locali interne o interstatali, ma non da ritenere riferita alle norme
consuetudinarie internazionali.
[139] Per comodità di lettura, riporto il testo integrale
della norma, che recita : « 1. Nothing in the present
Covenant may be interpreted as implying for any State, group or person any
right to engage in any activity or perform any act aimed at the destruction of
any of the rights and freedoms recognized herein or at their limitation to a
greater extent than is provided for in the present Covenant. 2. There shall be
no restriction upon or derogation from any of the fundamental human rights recognized or existing in any State Party
to the present Covenant pursuant to law, conventions,
regulations or custom on the pretext
that the present Covenant does not recognize such rights or that it recognizes
them to a lesser extent.” Insomma, se
una norma è riconosciuta (in quanto di provenienza “esterna”) o esiste in uno
stato, essa non solo è applicabile a preferenza di quelle convenzionali meno
“garantiste”, ma, una volta che quelle norme esistano e siano riconosciute in
uno stato, esse devono necessariamente essere considerate come riconosciute dalla convenzione, che,
infatti, ne permette l’utilizzazione e anzi ne sollecita l’applicazione.
[140] A/RES/217A
(III), 1948, il cui art. 30 recita: «Nothing in this Declaration may be
interpreted as implying for any State, group or person any right to engage in
any activity or to perform any act aimed at the destruction of any of the
rights and freedoms set forth herein.»
[141] Il che permette di soddisfare la esigenza di alcuni
stati o gruppi di stati di predisporre, tra di loro, sistemi più “avanzati”,
rispetto a quelli comuni, v. supra § 6.
[142] È
appena il caso di sottolineare come qui, la norma “comune” usi il termine
“recognize”, senza distinguero da “enunciate”, supra nt. 115 e § 10.3.
[143] Sulla implicita limitazione della domestic
jurisdiction operata dagli accordi in materia di diritti dell'uomo, v. Smith, G., The European Convention on Human Rights and the right of Derogation: a
Solution to the Problem of Domestic Jurisdiction, in Howard Law Journal, 1965, p. 594 ss.
[144] Sul punto cfr.
Ampiamente già Arangio-Ruiz G., Le domain réservé: l’Organisation
internationale et le rapport entre droit international et droit interne,
Cour général de droit international Public, RC 229 (1990-VII), pag 220 ss. e passim, che conclude sul punto
specifico, affermando (p. 229) : «les réclamations .. étaient des
doléances de nature international portées sur le plan international et
apparemment destinée à être résolues … sur un plan strictement international.
Aucune élément opérationnel n’était envisage come susceptible d’entrer en jeu»,
interpretazione che, mi sembra, si applica perfettamente al nostro caso. Cfr. anche più oltre, specialmente p. 378 ss.
[145] Come rilevato anche sopra qualcosa del genere
accade ed è accaduto grazie alla giurisprudenza comunitaria, dove, per restare
al caso citato supra nt. 102,
[146] Espressione usata in maniera analoga, da D’Amato A., International
Law As An Autopoietic System, paper to be read at the Max Planck Institute for
Comparative Public Law and International Law on November 15, 2003, per affermare
e definire un meccanismo di formazione delle norme internazionali ben noto da
gran tempo, sia pure con terminologie meno “raffinate” dalla dottrina
specialmente italiana. Basterebbe pensare a Quadri
e Arangio-Ruiz!.
[147] Vale la pena di ricordare che è con un meccanismo analogo
che certa giurisprudenza statunitense sembra “smontare” talune norme volute
dall’Amminstrazione, che alla giurispdudenza in questione, appunto, appaiono in
contrasto con altre norme internazionali. Cfr. ad es. Per citare una sentenza
molto recente: Moshe Saperstein, Et. Al., Plaintiffs, V. The Palestinian Authority, The
Palestine Liberation Organization, et. al., Defendants. United States District
Court For The Southern District Of Florida, 2006 U.S. Dist, 22.12.2006, § 25, dove si afferma, citamdo la
sentenza famosa Tel Oren726 F.2d at 795: « In Hamdan, the Supreme Court was presented
with the question of whether the provisions of the various Geneva Conventions,
specifically Common Article 3, applied to a combatant fighting for A1 Quaeda,
who was apprehended in Afghanistan. In finding that Common Article 3 did apply,
the Supreme Court stated that the conflict between the U.S. and A1 Quaeda in
Afghanistan was a "conflict not of an international character" and
that "the scope of the Article must be as wide as possible." …..13
Judge Edwards' discussion of terrorism as it relates to the law of nations was
in the context of state action rather than private action. Within the
analytical framework developed in the cases discussed above, if state action
does not violate the law of nations, then there is an even higher threshold to
hold private action as a violation the law of nations….», con la conseguenza
che la IV Convenzione di Ginevra, va applicata direttamente dalla
giurisdizione, In Re: Iraq And Afghanistan Detainees Litigation, United States District Court For The District
Of Columbia,
[148] La norma dell’art. 53 recita
infatti : « Nothing in this Convention shall be construed as limiting
or derogating from any of the human rights and fundamental freedoms which may
be ensured under the laws of any High Contracting Party or under any other
agreement to which it is a Party”, quella dell’art. 17 aferma: «Nothing in this
Convention may be interpreted as implying for any State, group or person any
right to engage in
any
activity or perform any act aimed at the destruction of any of the rights and
freedoms set forth herein or at their limitation to a greater extent than is provided for
in the Convention». Le due norme, sommate,
corrispondono qusi perfettamente all’art. 5 Patti delle Nazioni Unite sui
diritti dell'uomo, cit. V. anche CEDU, Affaire Leempoel & S.A. Ed. Cine Revue C.
Belgique, (Requête no 64772/01), 9.11.2006, dove la Corte, pur
non entrando nel merito del problema, afferma, § 86 : «Les requérants
invoquent également une violation de l’article 53 de la Convention, estimant
que leur condamnation a méconnu l’article 25 de la Constitution belge, et que,
dans la mesure où cette disposition
constitutionnelle organise un régime plus protecteur que celui de
l’article 10 de la Convention, son application aurait dû être garantie par
l’article 53 de la Convention».
[149] Questa logica si ritrova richiamata in particolare
in vari casi della CEDU (v. Vogt v. Germany, 2.09.1995), con riferimento ai
tentativi di partiti sovversivi di utilizzare la stessa Convenzione per poter
cercare di rovesciare il governo legittimo. In questo senso, v. ad es. Ždanoka V. Latvia (Application no. 58278/00)17.06.2004, che afferma: « However, it cannot be ruled out
that a person or a group of persons will rely on the rights enshrined in the
Convention or its Protocols in order to attempt to derive therefrom the right
to conduct what amounts in practice to activities intended to destroy the
rights or freedoms set forth in the Convention; any such destruction would put
an end to democracy. It was precisely this concern which led the authors of the
Convention to introduce Article 17,.... Consequently, in order to guarantee the
stability and effectiveness of a democratic system, the State may be required
to take specific measures to protect it. Thus, in the above-cited Vogt
judgment, with regard to the requirement of political loyalty imposed on civil
servants, the Court acknowledged the legitimacy of the concept of a “democracy
capable of defending itself. In so far as the Government rely on Article 17 of
the Convention, the Court reiterates that the purpose of this provision is to
prevent the principles laid down by the Convention from being exploited for the
purpose of engaging in any activity or performing any act aimed at the
destruction of the rights and freedoms set forth in the Convention. In
particular, one of the main objectives of Article 17 is to prevent totalitarian
or extremist groups from justifying their activities by referring to the
Convention. However, in the present case, the applicant’s disqualification from
standing for election is based on her previous political involvement... It
follows that the applicant’s disqualification from standing for election to
Parliament and local councils on account of her active participation in the
CPL, maintained more than a decade after the events held against that party, is
disproportionate to the aim pursued and, consequently, not necessary in a
democratic society....». E’ interessante sottolineare come in questo caso la Corte non abbia avuto
difficoltà a pronunciarsi, ma su basi molto chiare e nette, sulla legittimità
di certi regimi in termini di “democrazia”.
[150] Il primo, come noto, non è in vigore, ma fu sottoscritto
e ratificato dall’Italia, con relativo ordine di esecuzione. Ora, è in attesa
di ratifica e entrata in vigore il Trattato Di Lisbona, che modifica il
Trattato sull'Unione Europea e il Trattato che istituisce la Comunità Europea
(2007/C 306/01) per effetto del quale, l’art. 6 del trattato CE recita, in
maniera quasi identica: «1. L'Unione riconosce i diritti, le libertà e i
principi sanciti nella Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea del 7
dicembre 2000, adattata il 12 dicembre 2007 a Strasburgo, che ha lo stesso
valore giuridico dei trattati. Le disposizioni della Carta non estendono in
alcun modo le competenze dell'Unione definite nei trattati. I diritti, le
libertà e i principi della Carta sono interpretati in conformità delle disposizioni
generali del titolo VII della Carta che disciplinano la sua interpretazione e
applicazione e tenendo in debito conto le spiegazioni cui si fa riferimento
nella Carta, che indicano le fonti di tali disposizioni. / 2. L'Unione aderisce
alla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle
libertà fondamentali. Tale adesione non modifica le competenze dell'Unione
definite nei trattati. / 3. I diritti
fondamentali, garantiti dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei
diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali e risultanti dalle tradizioni
costituzionali comuni agli Stati membri, fanno parte del diritto dell'Unione in
quanto principi generali». Non può essere dimenticato, che proprio alla
medesima norma si riferisce esplicitamente la Corte Europea dei diritti
dell'uomo, in una recente sentenza Bosphorus
Hava Yollari Turizm Ve Tìcaret Anonìm Sìrketì v. Ireland, 20.6.2005, §
[151] La
sentenza di cui alla nota 150, infatti
afferma nel cit § 155 s.: « ... State action
taken in compliance with such legal obligations is justified as long as
the relevant organisation is considered to protect fundamental rights, as
regards both the substantive guarantees offered and the mechanisms controlling
their observance, .... By “equivalent” the Court means “comparable”.... If such
equivalent protection is considered to be provided by the organisation, the
presumption will be that a State has not departed from the requirements of the
Convention. However, any such presumption can be rebutted if, in the
circumstances of a particular case, it is considered that the protection of
Convention rights was manifestly deficient. In such cases, the interest of international co-operation would be
outweighed by the Convention's role as a “constitutional instrument of European
public order” in the field of human rights» per cui, addirittura, §
157: « It remains the case that a State would be fully responsible under the
Convention for all acts falling outside its strict international legal
obligations….».
[152] Anche qui, per comodità di lettura, riporto il
testo della disposizione: «Application of successive treaties relating
to the same subject-matter: 1. Subject to Article 103 of
the Charter of the United Nations, the rights and obligations of States parties
to successive treaties relating to the same subject-matter shall be determined
in accordance with the following paragraphs. 2. When a treaty specifies that it
is subject to, or that it is not to be considered as incompatible with, an
earlier or later treaty, the provisions of that other treaty prevail. 3. When
all the parties to the earlier treaty are parties also to the later treaty but
the earlier treaty is not terminated or suspended in operation under article
59, the earlier treaty applies only to the extent that its provisions are
compatible with those of the latter treaty. 4. When the parties to the later
treaty do not include all the parties to the earlier one: (a) as between States
parties to both treaties the same rule applies as in paragraph 3; (b) as
between a State party to both treaties and a State party to only one of the
treaties, the treaty to which both States are parties governs their mutual
rights and obligations. 5. Paragraph 4 is without prejudice to article 41, or
to any question of the termination or suspension of the operation of a treaty
under article 60 or to any question of responsibility which may arise for a
State from the conclusion or application of a treaty the provisions of which
are incompatible with its obligations towards another State under another
treaty.
[153] Quand’anche non si ritenesse che la gran parte
almeno delle sue disposizioni è da considerarsi norma di diritto internazionale
generale.
[154] È appena il caso di ricordare qui che nei Patti gli
artt. 46 e 47 di quello sui diritti civili e politici (corrispondente
perfettamente agli artt. 25 e 26 dell’altro Patto, sui diritti economici) affermano:
« Art. 46.- Nothing in the present Covenant shall be interpreted as impairing
the provisions of the Charter of the United Nations and of the constitutions of
the specialized agencies which define the respective responsibilities of the
various organs of the United Nations and of the specialized agencies in regard
to the matters dealt with in the present Covenant…. Art. 47.- Nothing in the
present Covenant shall be interpreted as impairing the inherent right of all
peoples to enjoy and utilize fully and freely their natural wealth and
resources»
[155] Tenuto conto che, come ripetutamente ricordato, le
norme sono programmatiche nel senso che chiedono ai soggetti di legiferare in
maniera conforme e dunque, o vengono violate o una legislazione conforme è stata
effettivamente realizzata e non può essere difforme dalle altre di altri
soggetti.
[156] E non più solo dell’uomo, v. infatti, ad es., Regolamento (CE) § 168/2007 del Consiglio, del 15 febbraio 2007
, che istituisce l’Agenzia dell’Unione
europea per i diritti fondamentali in GUCE,
§ L 053 del 22/02/2007, dove, appunto si fa riferimento ai diritti fondamentali nel senso
dell’art. 6 TUE (cfr. Considerando 9), la cui avventurosa procedura di
insediamento è in itinere, almeno all’atto della chiusura del presente lavoro
nel Febbraio 2008.
[157] Un caso recente e che merita di essere ricordato, è
quello relativo al divieto di commercializzazione dei prodotti atti a praticare
la pena di morte, sui cui v. Magi,
Il commercio di beni utilizzabili per
praticare la pena di morte, la tortura e altri trattamenti disumani e recenti
misure comunitarie di contrasto, in Rivista
di Diritto internazionale, 2007, p. 387 ss.
[158] Cosa, del resto, già affermata nella giurisprudenza
della CEDU. V. ad es., solo per citare i casi più recenti.: Romashov v. Ukraine (§ 67534/01) 27.7.2004;
Ždanoka c. Lettonie ( § 58278/00)
17.6. 2004; Affaire Refah Partisi (Parti
De La Prospérité) et Autres c. Turquie
( § 41340/98, 41342/98, 41343/98 et 41344/98) 13.2.2003. sul punto cfr. il mio Autodeterminazione dei popoli e successione,
cit. p.29 ss.
[159] Un altro esempio potrebbe essere legato al fenomeno
delle « compulsory licence» per certi medicinali, rispetto alle quali
altrove si potrebbe redigere un contratto che, di fatto, le impedisca. V. sul punto di
recente, Hestmeyer H., Canadian-made Dugs for Rwanda : the
first Application of the wto
Waiver on Patents and Medicines, in Asil Insights, 2008, https://www.asil.org/insights/2007/12/insights071210.html.
[160] E vuole essere del tutto indipendente dalla
possibilità, esistente o meno poco importa, che uno stato agisca contro un
altro perché ha consentito la redazione di quell’accordo. L’ipotesi trascende
il diritto internazionale, per cercare di ipotizzare le conseguenze interne di un atto del genere.
[161] Sorvolo sulle amenità derivanti dalla emissione
della legge di « applicazione » dell’art. 117 Cost., in cui, tra le
altre cose si afferma all’art. 6, che le Regioni sono tenute ad applicare i
trattati … ratificati: no comment! V. L
05/06/2003 n. 131, art. 6. E infatti, può ben darsi il caso di una legge
regionale in contrasto con una norma contrattuale in materia di diritti
dell'uomo, sottoscritta in forma semplificata, e non obbligatoria dato che la
legge cit., recante disposizioni per l'adeguamento dell'ordinamento della
Repubblica alla legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3 (insomma l’art. 117
primo comma) dispone all’art. 6: « 1. Le Regioni … nelle materie di propria competenza
legislativa, provvedono direttamente all'attuazione e all'esecuzione degli accordi internazionali ratificati,
dandone preventiva comunicazione al Ministero degli affari esteri ed alla
Presidenza del Consiglio dei ministri …».
[162] Come noto,
[163] Sul punto, rinvio a due scritti in cui ho
approfondito alquanto la questione, in vista di un lavoro più ampio in corso di
redazione proprio sul problema specifico : Lo strumento europeo di lotta alla discriminazione razzialee la sua
applicazione in Italia alla luce del diritto internazionale e convenzionale,
in Riv. Coop. Giur. Int., 2006; Terrorismo, conflitti interni e
internazionali: la legge applicabile, in La Giustizia Penale, 2006, coll. 257 ss.