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Federico Girelli

È consentito sollevare questione di legittimità costituzionale con sentenza?

 

Il TAR del Lazio, Sede di Roma, Sezione III quater, nell’ambito di un’articolata vicenda processuale si è pronunciato, in sede di rinvio, sulla legittimità del Decreto del Ministro della salute del 21 luglio 2004 recante le «Linee guida in materia di procreazione medicalmente assistita», censurato sotto diversi profili con nove motivi di ricorso.

Con la sentenza 21 gennaio 2008, n. 398 il giudice amministrativo ha ritenuto infondate sette delle censure formulate, mentre ha accolto «nei limiti di cui in motivazione» uno dei motivi di ricorso (il sesto), annullando quindi in parte qua il decreto; sul settimo motivo, relativo a norme regolamentari che «costituiscono letterale e pedissequa espressione della legge», non si è pronunciato, reputando dovesse essere verificata la legittimità costituzionale della norma di legge che «costituisce il letterale fondamento» della normativa secondaria oggetto del ricorso[1]. Il TAR ha così sollevato questione di legittimità costituzionale dell’articolo 14, 2° e 3° comma, della L. 19 febbraio 2004, n. 40 (Norme in materia di procreazione medicalmente assistita) per contrasto con gli articoli 3 e 32 della Costituzione e sospeso il giudizio in attesa della decisione della Consulta.

Il giudizio di legittimità costituzionale è stato dunque introdotto con sentenza e non con ordinanza così come l’art. 23 della legge n. 87 del 1953 prescrive.

Non è la prima volta che un incidente di costituzionalità viene aperto con sentenza: a quanto consta, già il Giudice di pace di Riva del Garda con sentenza del 30 maggio 1996 (in Gazz. Uff., I Serie speciale, n. 40 del 1996) aveva investito la Corte di una questione di legittimità costituzionale, come anche il Giudice di pace di Roma con la sentenza del 20 novembre 2000 (in Gazz. Uff., I Serie speciale, n. 23 del 2001).

In questi casi, però, il provvedimento di rimessione, pur recando l’intestazione «sentenza», poteva ben essere considerato quale ordinanza ai sensi dell’art. 23 della legge n. 87 del 1953 in quanto risultava riconoscibile come tale, atteso che la sostanza del suo contenuto si appalesava come quello tipico di un’ordinanza di rimessione.

Con queste due “sentenze”, in effetti, si è sollevata unicamente la questione di legittimità costituzionale con conseguente sospensione del giudizio in corso e trasmissione degli atti alla Consulta: i due provvedimenti erano dunque realmente interlocutori e privi di alcun contenuto decisorio circa il merito dei giudizi a quibus.

Tali atti introduttivi, dunque, presentavano semplicemente un’intestazione non corretta, che di per sé non poteva certo snaturare radicalmente la loro sostanza. La stessa Corte costituzionale, del resto, sulla qualificazione del provvedimento quale “sentenza”, effettuata dal Giudice di pace di Riva del Garda, così si è pronunciata: «La circostanza non comporta inammissibilità della questione, posto che, come si desume dalla lettura dell’atto, nel promuovere questione di legittimità costituzionale, il giudice a quo ha disposto la sospensione del procedimento principale e la trasmissione del fascicolo alla cancelleria della Corte costituzionale, sì che a tale atto, anche se autoproclamantesi “sentenza”, deve essere riconosciuta natura di “ordinanza”, sostanzialmente conforme a quanto previsto dall’art. 23 l. n. 87 del 1953» (sent. 452/1997, n. 2.1. del considerato in diritto). Questa argomentazione è stata poi richiamata, e confermata, quando la Consulta ha deciso la questione sollevata con la “sentenza” del Giudice di pace di Roma (vedi la ord. 153/2002).

La sentenza TAR ora in esame non può essere assimilata quale atto introduttivo del giudizio costituzionale alle due “sentenze-ordinanze”, di cui s’è detto.

Con tale provvedimento il giudice amministrativo, infatti, non si è limitato ad adire la Corte costituzionale, ma ha altresì deciso diversi motivi del ricorso di cui era stato investito. Il TAR ha, come dire, deciso tutto quello che poteva decidere, mentre ha sospeso il giudizio (con trasmissione degli atti alla Consulta) in relazione al solo settimo motivo di ricorso, onde poter sciogliere, per la via incidentale, il dubbio di costituzionalità sull’art. 14, 2° e 3° comma, della legge n. 40 del 2004, che costituisce il fondamento di legittimità di quella parte del decreto ministeriale oggetto di ricorso.

Ci troviamo allora di fronte ad un vero e proprio provvedimento decisorio con cui si solleva anche questione di legittimità costituzionale: un atto che si potrebbe definire “anfibio” se non addirittura “a due teste”.

Il TAR, infatti, non ha adottato una ordinanza erroneamente denominata sentenza, bensì una vera e propria sentenza, che nella parte motiva e nel dispositivo reca, oltre al contenuto suo proprio di decisione nel merito, anche quello tipico di un’ordinanza di rimessione.

Fermo che la citata sentenza della Corte costituzionale n. 452 del 1997 già è stata definita «clemente» dalla dottrina[2], occorre interrogarsi ora se anche in questa diversa ipotesi lo scoglio dell’inammissibilità possa essere in qualche modo superato.

Per accedere alla soluzione positiva del quesito si dovrebbe ritenere che l’atto introduttivo del giudizio costituzionale sia, per così dire, “frazionabile”: la Corte costituzionale, forte del suo potere interpretativo, potrebbe distinguere nel complessivo testo della sentenza quella parte idonea a costituire la sostanza dell’ordinanza di rimessione prevista dall’art. 23 della legge n. 87 del 1953, che, quindi, verrebbe “recuperata” ermeneuticamente dal Giudice delle leggi.

Così ragionando, si potrebbe parlare di provvedimento “anfibio”, in quanto parimenti idoneo sia a decidere il decidibile sia a sollevare questione di legittimità costituzionale.

La sentenza TAR, però, in quanto sentenza nella sostanza, si appalesa quale provvedimento unitario in parte decisorio ed in parte di rimessione e sembra quindi configurabile piuttosto quale atto “a due teste”.

Questo provvedimento, invero, non è unidirezionalmente volto a promuovere l’incidente di costituzionalità, ma presenta un’intrinseca doppiezza che pare renderlo inidoneo ad introdurre ritualmente il giudizio di costituzionalità.

Effettivamente la sua forma ed il suo contenuto sono tali da impedirne la riconducibilità all’ordinanza di cui all’art. 23 della legge n. 87 del 1953.

Anche a voler ammettere una certa flessibilità nell’applicazione delle regole processuali in genere, e magari nel ricorso agli strumenti processuali da parte del giudice amministrativo in particolare, ritenere in questo caso sussistenti i presupposti stabiliti dalla legge può risultare una forzatura del contenuto prescrittivo della norma.

La praticabilità di un intervento interpretativo della Consulta dalla portata sanante così ampia quale quella sopra descritta imporrebbe di interrogarsi seriamente sulla utilità della posizione di regole processuali: se investita della questione con sentenza, dunque, non sembra che la Corte possa, sulla base del discutibile assunto della natura “anfibia” dell’atto di rimessione, procedere sic et simpliciter alla disamina del merito della questione.

In fondo la stessa previsione legislativa della «immediata trasmissione degli atti» appare coerente con la logica di un giudizio che deve essere sospeso, in attesa dell’esito del sindacato di costituzionalità. Pur intuendosi le ragioni di economia processuale che possono aver spinto il TAR a decidere quel che si poteva decidere e sollevare, al contempo, questione di legittimità costituzionale con un solo anomalo provvedimento, nondimeno resta evidente la irritualità della scelta operata dal giudice a quo, che, come detto, non sembra convergere con il disposto dell’art. 23 della legge n. 87 del 1953.

Un certo rigore nella valutazione di ammissibilità della questione sotto il profilo dell’atipicità dell’atto introduttivo andrebbe valutato quale manifestazione di quel potere di conformazione del giudizio costituzionale che nel corso del tempo ha contraddistinto la giurisprudenza della Consulta: il Giudice delle leggi, giudice del suo processo, non farebbe altro che applicare le norme che disciplinano il rito che si svolge davanti a sé.

In senso contrario, inoltre, non apparirebbe del tutto conferente richiamare la consolidata giurisprudenza costituzionale formatasi nell’ambito dei giudizi per conflitto di attribuzione, in base alla quale il conflitto introdotto con ordinanza e non con ricorso (come, invece, stabiliscono l’art. 37 della legge n. 87 del 1953 e l’art. 26 delle Norme integrative per i giudizi davanti alla Corte) sarebbe comunque ammissibile ove l’ordinanza contenga gli elementi di sostanza prescritti per il ricorso, risultando così l’ “ordinanza-ricorso” idonea a promuovere regolarmente il conflitto (vedi, da ultimo, sent. 97/2008 e, specificamente sul punto, sent. 452/2006).

Nel caso in esame, tale fungibilità non sembra possa darsi proprio perché, come sopra rilevato, siamo di fronte ad un provvedimento “a due teste”, non votato esclusivamente ad investire la Corte della questione di costituzionalità. La sentenza del TAR potrebbe essere reputata quale atto introduttivo idoneo a svolgere la sua funzione tipica solamente tramite una sua interpretazione orientata a dimostrarne la valenza di ordinanza di rimessione, pur in assenza delle precondizioni di configurabilità di un provvedimento di tal fatta, unitamente ad una lettura talmente flessibile dell’art. 23 della legge n. 87 del 1953 da disancorarsi dal testo della disposizione stessa.

La giurisprudenza costituzionale sui conflitti, peraltro, di fronte ad un atto introduttivo di un’autorità giurisdizionale, che presentava «frammisti, elementi di due diversi schemi tipici relativi, rispettivamente, al conflitto di attribuzione ed alla questione incidentale di legittimità costituzionale», reputando che lo stesso recasse un contenuto talmente «atipico» da non poter «essere propriamente qualificato in termini di ricorso per conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato», si è pronunciata nel senso dell’inammissibilità (vedi ord. 266/2002).

Sia chiaro: in quest’ipotesi era ben riconoscibile l’intenzione di promuovere il conflitto di attribuzione, ma le modalità prescelte dall’autorità ricorrente risultavano del tutto irrituali; anche nel caso in esame non pare si possa negare che emerga dalla sentenza la volontà di sollevare la questione di legittimità costituzionale, ma il TAR ha deciso di intraprendere la via incidentale su binari diversi da quelli fissati dalla legge.

La Corte costituzionale di fronte ad una questione così (mal) posta si trova a dover scegliere fra diverse «formule» decisorie[3] che in questo caso si potrebbero ridurre a tre:

l’irricevibilità: tale formula potrebbe sembrare in effetti la più appropriata, dato che l’impedimento a decidere nel merito è rappresentato proprio da un vizio dell’atto introduttivo in sé, nondimeno lascerebbe trasparire una severità forse eccessiva rispetto alla fattispecie in esame. Non si può trascurare poi che essa è stata utilizzata nei primi anni di attività della Corte e successivamente assai di rado ed in casi limite, come quando, ad esempio, l’ordinanza di rimessione venne in realtà indirizzata non alla Corte costituzionale ma all’Alta Corte per la Regione siciliana (vedi ord. 161/2001) ovvero quando l’ordinanza di rimessione non era volta ad adire la Corte costituzionale, ma solamente a sospendere il giudizio in corso (vedi ord. 216/2001, che per la verità qualifica l’ordinanza di rimessione «irricevibile» e dispone il rinvio degli atti trasmessi);

la restituzione degli atti: questo tipo di decisione elaborata in via pretoria potrebbe recare in sé quella duttilità che le deriva proprio dal fatto di essere svincolata da specifici riferimenti positivi e che quindi la rende gestibile dalla Corte più elasticamente di altre. Non determinandosi, inoltre, effetti preclusivi in ordine alla riproposizione della questione di costituzionalità, dato che il senso di una decisione di questo tipo riposa proprio nel mantenere aperto il dialogo con il giudice a quo, sembrerebbe in prima battuta questa la formula decisoria utile per la soluzione della vicenda qui commentata. Tuttavia, la restituzione degli atti, ormai, viene quasi sempre disposta in caso di ius superveniens, che incida sulla disposizione censurata (o sul quadro normativo in cui è inserita) ovvero sul parametro di legittimità costituzionale;

l’inammissibilità: nel caso in esame la Corte potrebbe (rectius dovrebbe) adottare proprio una decisione nel senso dell’inammissibilità. In fondo tale formula è quella in genere utilizzata ogniqualvolta vengano individuati impedimenti alla decisione nel merito per le ragioni più diverse. L’inammissibilità, inoltre, viene spesso pronunciata anche quando la «formula» della restituzione degli atti sarebbe forse la più appropriata. La giurisprudenza costituzionale, anzi, ha distinto tra pronunce di inammissibilità aventi natura decisoria, che dunque precludono la riproposizione da parte del giudice a quo della medesima questione nell’ambito dello stesso procedimento, e pronunce che natura decisoria non hanno, prive dunque di effetto preclusivo.

Di recente, peraltro, la Corte costituzionale in sede di giudizio per conflitto di attribuzione ha pronunciato un’interessante sentenza, la n. 241 del 2007, avente senz’altro natura interlocutoria, atteso che il dispositivo così recita: «per questi motivi, la Corte costituzionale, non definitivamente pronunciando e riservata ogni decisione sul merito del conflitto; dichiara non fondate le eccezioni pregiudiziali di inammissibilità del conflitto per nullità assoluta della notificazione, nonché di improcedibilità dello stesso per sopravvenuta carenza di interesse, sollevate dalla Camera dei deputati; assegna alla Camera dei deputati ed alla ricorrente Procura della Repubblica presso il Tribunale ordinario di Roma il termine di giorni sessanta, decorrente dalla data della pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale della presente sentenza, per la eventuale presentazione di memorie difensive» (corsivo mio). Il conflitto è stato poi deciso in via definitiva con la sentenza n. 26 del 2008.

Fermo l’uso promiscuo che la Consulta fa delle «formule» a sua disposizione come anche della forma stessa della decisione, poiché in linea di massima, secondo quanto stabilisce l’art. 18 della legge n. 87 del 1953, opta per la sentenza dovendo chiudere il giudizio e per l’ordinanza negli altri casi (ma una deroga, com’è noto, è prevista già dall’art. 29 della legge medesima a proposito delle ordinanze di manifesta infondatezza), alla Corte costituzionale non mancano, per la verità, strumenti per assicurare il rispetto delle regole processuali, senza che il suo rigore appaia come una “fuga” dal sindacato sulla legge n. 40 del 2004. Va ricordato, infatti, che con l’ordinanza n. 369 del 2006 il Giudice delle leggi già ha dichiarato la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell’art. 13 della legge n. 40 del 2004, sollevata dal Tribunale di Cagliari.

Una soluzione ottimale per il caso in esame potrebbe essere rappresentata da una decisione di inammissibilità (se nella forma della sentenza o della ordinanza sarà la prudenza della Corte a valutarlo) che richiami, magari con una certa qual fermezza, il giudice a quo al rispetto delle forme rituali e che al contempo consenta a quest’ultimo di sollevare di nuovo la questione, secondo un modus procedendi volto ad incardinare correttamente il giudizio costituzionale.

Non si può escludere, tuttavia, che la Corte eventualmente rilevi profili ulteriori di inammissibilità, diversi rispetto a quello oggetto di queste brevi note, che pregiudichino l’adozione di una pronuncia non avente carattere decisorio, venendo così preclusa al TAR la possibilità di ricorrere una seconda volta alla Corte costituzionale; così come, in astratto, nemmeno può escludersi che nessun impedimento di ordine processuale venga ravvisato, restando quindi in questo senso impregiudicata l’eventualità che la questione di costituzionalità venga decisa nel merito.

Ai sensi dell’art. 7 della legge n. 40 del 2004 le Linee guida sono state «aggiornate» con decreto del Ministro della salute dell’11 aprile 2008 (pubblicato in Gazz. Uff., Serie generale, n. 101 del 30 aprile 2008). Tale nuovo decreto, che, stando alla sua lettera, «sostituisce» quello precedente, non ha modificato le norme secondarie oggetto del settimo motivo di ricorso, nello scrutinio del quale il TAR ha sollevato la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 14, 2° e 3° comma, della legge n. 40 del 2004. A prescindere dall’impatto che il nuovo testo del decreto complessivamente considerato possa avere sul processo amministrativo, ora sospeso, resta fermo il principio, ricavabile dall’art. 22 delle Norme integrative per i giudizi davanti alla Corte, di autonomia del giudizio costituzionale rispetto alle vicende di quello principale. Va sottolineato, altresì, come non sia intervenuta, sino ad ora, modifica alcuna né della normativa primaria indubbiata né dei parametri costituzionali invocati.

Il recente aggiornamento delle Linee guida, quindi, non dovrebbe comportare di per sé ripercussioni immediate e dirette sul processo costituzionale “introdotto” con sentenza dal TAR del Lazio.  

Non pare poi senza rilievo la circostanza per cui sempre il TAR del Lazio, Sede di Roma, Sezione III quater, nell’ambito di un diverso giudizio, abbia investito in precedenza la Corte costituzionale della questione di legittimità relativa all’art. 1, 796° comma, lett. o) della legge n. 296 del 2006. Anche in quest’occasione il provvedimento di rimessione decide alcuni motivi di ricorso ed al contempo promuove l’incidente di costituzionalità, presentando, per usare le sopra citate parole della Corte, «frammisti, elementi» del contenuto riferibile sia ad una sentenza sia ad un’ordinanza di rinvio.

Tale provvedimento è ora pubblicato nella Gazz. Uff., I Serie speciale, n. 14 dell’anno 2008 quale atto di promovimento del giudizio della Corte costituzionale iscritto al n. 78 del registro ordinanze 2008 con la seguente intestazione: «Ordinanza del 6 dicembre 2007 emessa dal Tribunale amministrativo regionale per il Lazio sui ricorsi riuniti proposti dall’Unione Regionale Sanità Privata – U.R.S.A.P. ed altri contro Ministero della salute ed altri». Il testo qui pubblicato così esordisce: «Il Tribunale Amministrativo Regionale ha pronunciato la seguente ordinanza sui ricorsi riuniti n. 1664 e n. 6998 del 2007», mentre nella parte finale a chiusura del dispositivo si legge la formula di rito: «Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’Autorità amministrativa».

Il testo disponibile sul sito istituzionale della giustizia amministrativa (www.giustizia-amministrativa.it), a cura del Segretariato Generale della Giustizia Amministrativa, invece, si apre con le seguenti parole: «ha pronunciato la seguente sentenza sui ricorsi riuniti n. 1664 e n. 6998 del 2007». Nel sito, peraltro, tale provvedimento è catalogato come sentenza n. 12623/2007. In ogni modo, che trattasi proprio di sentenza e non di ordinanza è difficilmente dubitabile: la lettura completa del testo lascia emergere un modus procedendi simile a quello riscontrato nella sentenza in commento, il quale, per la verità, non si ravvede in ordinanze di rimessione adottate da tribunali amministrativi di altre regioni pubblicate negli ultimi mesi in Gazzetta Ufficiale.

Per completezza non ci si può esimere dal precisare che il testo delle richiamate “sentenze di rimessione” del Giudice di pace di Riva del Garda e del Giudice di pace di Roma pubblicato in Gazzetta Ufficiale ha conservato nell’intestazione e nell’incipit la dicitura «sentenza».

La questione sollevata con la “sentenza-ordinanza”, ora iscritta al n. 78 del registro ordinanze 2008, presumibilmente sarà decisa prima della questione sollevata dalla sentenza TAR in commento non ancora pubblicata in Gazzetta Ufficiale: le valutazioni che vorrà svolgere la Corte costituzionale in punto di ammissibilità rappresenteranno un indice prezioso per prefigurare le sorti della questione di legittimità costituzionale relativa all’articolo 14, 2° e 3° comma, della legge n. 40 del 2004.

 

 



[1] Per una disamina critica dei motivi di ricorso sesto e settimo vedi Costantini, Nota a prima lettura, in federalismi.it, n. 3/2008.

[2] Ruggeri-Spadaro, Lineamenti di giustizia costituzionale, III ed., Torino, 2004, 175.

[3] Da intendersi nel significato chiarito da Luciani, Le decisioni processuali e la logica del giudizio costituzionale incidentale, Padova, 1984, 17, nota 35.