Consulta OnLine

 

Federico Girelli

 

L’inammissibilità utiliter data

(note a margine alle sentt. nn. 324/2006 e 461/2005)

 

Se le decisioni di inammissibilità, per definizione, non suscitano particolare interesse in relazione al merito del giudizio costituzionale, che appunto in esse non viene trattato, possono, cionondimeno, risultare comunque significative nell’ambito del giudizio a quo. È questo il caso, ad esempio, della sentenza n. 324 del 2006, che ha dichiarato inammissibile la questione concernente il combinato disposto dell’art. 80, comma 19, della legge 23 dicembre 2000, n. 388 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – legge finanziaria 2001), e dell’art. 9, comma 1, della legge 30 luglio 2002, n. 189 (recte: dell’art. 9, comma 1, del decreto legislativo 25 luglio 1998, recante “Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero”, come modificato dall’art. 9, comma 1, della legge 30 luglio 2002, n. 189), in relazione all’art. 12 della legge 30 marzo 1971, n. 118 (Conversione in legge del d.l. 30 gennaio 1971, n. 5 e nuove norme in favore dei mutilati ed invalidi civili).

Con le medesime argomentazioni, ed invocando gli stessi parametri (artt. 2, 3, 10, 32, 35, terzo comma, 38, primo e secondo comma, e 117, primo comma, Cost.), il Tribunale di Milano ed il Tribunale di Monza, in funzione di giudici del lavoro, dubitano della costituzionalità di tale complesso normativo nella parte in cui si prevede la necessità del possesso della carta di soggiorno e della relativa condizione reddituale, affinché gli stranieri inabili civili possano fruire, o continuare a fruire, della pensione di inabilità. Le eccezioni sono state sollevate nel corso delle due controversie in materia di assistenza obbligatoria promosse, avanti al Tribunale di Milano, da un cittadino egiziano nei confronti del Comune di Milano e dell’INPS, e, avanti al Tribunale di Monza, da un cittadino somalo avverso l’INPS, in vista dell’affermazione del diritto alla pensione di inabilità.

Il cittadino egiziano, munito di permesso di soggiorno per lavoro dal 1991, dopo aver prestato in Italia lavoro subordinato per quasi tre anni, era stato riconosciuto invalido civile al 100 % ed aveva percepito la pensione di inabilità ex art. 12 della legge n. 118 del 1971 dal settembre 1998 all’aprile del 2001. L’erogazione della provvidenza venne però sospesa per via della mancata presentazione della carta di soggiorno, requisito indispensabile in base all’art. 80, comma 19, della legge n. 388 del 2000. La carta di soggiorno, però, pur richiesta, non potrà essere rilasciata: in base all’art. 9 del d.lgs. n. 286 del 1998, come modificato dalla legge n. 189 del 2002, infatti, essa viene attribuita allo straniero soggiornante in Italia regolarmente da almeno sei anni, che sia titolare di un permesso di soggiorno rinnovabile per un numero di volte indeterminato e che dimostri di avere un reddito sufficiente per il sostentamento di sé e della propria famiglia; il cittadino egiziano proprio in quanto inabile al lavoro non è in grado di produrre tale reddito.

Analoga è la posizione del cittadino somalo, ricorrente innanzi il Tribunale di Monza, il quale, dopo aver prestato lavoro subordinato in Italia per dieci anni ed essere stato riconosciuto invalido al 67 %, in un primo momento, ed al 100 %, il 10 luglio 2000, con diritto alla pensione di cui all’art. 12 della legge n. 118 del 1971, non ha mai potuto godere del beneficio per via della mancata presentazione della carta di soggiorno.

In base alla lettura data all’attuale quadro normativo i giudici a quibus ritengono necessaria, dunque, la declaratoria d’incostituzionalità al fine di rimuovere il requisito legale del possesso della carta di soggiorno, la cui inevitabile mancanza nei due casi di specie impedisce ora, sempre a giudizio dei Tribunali rimettenti, il riconoscimento della pensione ai due cittadini stranieri invalidi.

La forma della decisione di inammissibilità, prescelta dalla Corte costituzionale, sembrerebbe frustrare in radice le esigenze dei giudici a quibus, ma dall’esame del considerato in diritto emerge per converso una pronuncia, che pur censurando l’operato dei giudici, indica agli stessi come superare il ritenuto impedimento normativo all’affermazione del diritto alla pensione.

La Consulta, infatti, dopo aver puntualizzato che il diritto alla pensione di inabilità è disciplinato dalla legge e dà luogo ad un rapporto di durata e che il legislatore, nel rispetto dei «principi costituzionali» e, quindi, di «posizioni aventi fondamento costituzionale», può «in linea di principio» incidere su tale rapporto anche con misure sfavorevoli al destinatario delle prestazioni, statuisce che non necessariamente la nuova disciplina restrittiva debba essere sempre applicata ai rapporti già costituiti sulla base della normativa previgente. Se, del resto, il divieto di retroattività è costituzionalizzato solamente per la legge penale, esso resta comunque in base all’art. 11 delle Preleggi «un criterio cui uniformarsi in carenza di deroghe».

Fatte queste premesse, per la verità già piuttosto “eloquenti”, la Corte, nel passaggio successivo della parte motiva, nel “rimproverare” i giudici a quibus mostra loro, in modo anche abbastanza esplicito, la via per l’affermazione di quel diritto, che allo stato reputano di non poter riconoscere. Rileva, infatti, come essi non abbiano adeguatamente motivato la ritenuta applicabilità della normativa censurata nei casi di specie, considerato soprattutto che tale normativa «non si autoqualifica interpretativa» né deroga in modo espresso al ricordato principio generale sull’efficacia temporale della legge, e come, anziché optare per una possibile interpretazione conforme a Costituzione «peraltro seguita dalla giurisprudenza comune», non siano riusciti a superare i dubbi di costituzionalità sulla scorta soltanto di «prassi amministrative di un ente locale» e di «un atto meramente consultivo».

A volte, dunque, dietro dispositivi di inammissibilità si celano indicazioni assai preziose ai fini della definizione del giudizio principale. La Corte costituzionale pur utilizzando la tecnica decisoria con cui di norma tiene meno in cale le istanze del giudice rimettente, ed anzi spesso ne sanziona l’operato, offre al giudice a quo, nel corpo della decisione, gli strumenti per conseguire comunque quel risultato, che le circostanze non consentono di ottenere tramite la pronuncia di incostituzionalità richiesta. Se le condizioni oggettive (determinate magari anche da ordinanze di rinvio predisposte non sempre con la migliore avvedutezza) non consentono di dare la più certa tutela ad un diritto, la Corte, pur “costretta” alla decisione di rito, non rinuncia alla sua alta funzione di garanzia suggerendo il “concreto da farsi” nel giudizio principale.

La Consulta assume dunque un ruolo attivo: non solo chiede collaborazione ai giudici, come di norma accade con la pronuncia di sentenze interpretative di rigetto, ma offre collaborazione, dando in motivazione la soluzione del caso all’esame del giudice a quo. Questa decisa volontà della Corte di abbandonare ogni tentazione rinunciataria anche di fronte a questioni di costituzionalità non proprio ponderate al meglio (se non addirittura mal poste), d’altra parte, sembra emergere, e forse in modo ancor più evidente, anche nella sentenza n. 461/2005.

Il Tribunale di Trento, in funzione di giudice del lavoro, aveva sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 6, della legge 25 luglio 1997, n. 238 (Modifiche ed integrazioni alla legge 25 febbraio 1992, n. 210, in materia di indennizzi ai soggetti danneggiati da vaccinazioni obbligatorie, trasfusioni ed emoderivati), nella parte in cui non prevede che i benefici di cui alla medesima legge spettino anche al convivente more uxorio che risulti contagiato da uno dei soggetti di cui all’art. 1 della legge 25 febbraio 1992, n. 210 (Indennizzo a favore dei soggetti danneggiati da complicanze di tipo irreversibile a causa di vaccinazioni obbligatorie, trasfusioni e somministrazione di emoderivati), ritenendo la normativa censurata confliggente con gli articoli 2 e 3 della Costituzione.

Il giudice a quo era stato investito del ricorso promosso dalla Signora M. M. volto ad ottenere il riconoscimento del diritto di percepire l’indennizzo di cui alla legge n. 210 del 1992 (già negatole dalla Commissione medica ospedaliera di Verona il 10 settembre 2002), in quanto persona affetta da epatite cronica C da HCV correlata, manifestatasi nel 1991 e confermata a seguito di biopsia epatica nel 1993; la ricorrente era stata contagiata dall’allora convivente more uxorio, ed attuale marito, portatore di epatopatia cronica HCV, contratta a seguito di trasfusioni e trattamento con emoderivati.

La Corte dichiara inammissibile la questione per «per difetto di motivazione sulla rilevanza» poiché della «complessa concatenazione di norme», che nel corso del tempo hanno interessato la materia de qua, «non v’è alcun cenno nell’ordinanza di rimessione». Tale scrutinio, infatti, sarebbe stato determinate ai fini dell’esatta individuazione della norma da applicarsi alla domanda di indennizzo presentata da M. M. nel 1996 ed in relazione alla quale solamente andava semmai vagliata la necessità di proporre questione di costituzionalità. La Consulta, però, non si limita a stigmatizzare l’operato del giudice a quo, bensì, praticamente sostituendosi a quest’ultimo, essa stessa, ed in modo analitico, effettua la necessaria ricostruzione dell’intricato quadro normativo di riferimento, di cui la norma censurata costituisce solamente l’ultimo tassello.

Il Giudice delle leggi, intanto, precisa che la giurisprudenza ordinaria ha stabilito che, in assenza di una previsione specifica per i danneggiati da emotrasfusione, alla fattispecie in esame si applica il termine ordinario di prescrizione di dieci anni del diritto all’indennizzo (decorrente dalla presentazione della domanda in via amministrativa); passa in rassegna i diversi decreti-legge non convertiti, che, incidendo su quanto stabilito dalla legge n. 210 del 1992, non solo hanno individuato i soggetti titolari del diritto all’indennizzo, ma hanno anche previsto l’applicabilità della disciplina rispettivamente recata agli anni 1995 e 1996; puntualizza come gli effetti di tutti i decreti-legge via via succedutisi nel tempo siano stati fatti salvi «indiscriminatamente» dall’articolo unico della legge 17 gennaio 1997, n. 4 (Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 18 novembre 1996, n. 583, recante disposizioni urgenti in materia sanitaria). Di questi decreti-legge, i primi della serie (d.l. 28 agosto 1995, n. 362; d.l. 30 ottobre 1995, n. 448; d.l. 29 dicembre 1995, n. 553) estendevano i benefici previsti dalla legge n. 210 del 1992 a coloro che risultassero contagiati dai soggetti di cui all’art. 1 della legge medesima, mentre quelli successivi (d.l. 26 febbraio 1996, n. 89; 26 aprile 1996, n. 224) hanno ristretto la tutela al coniuge contagiato da uno dei soggetti di cui all’art. 1 citato e al figlio contagiato durante la gestazione.

Sono stati emanati inoltre il d.l. 1 luglio 1996, n. 344 e il d.l. 30 agosto 1996, n. 450 recanti disciplina identica a quella più restrittiva appena richiamata, nonché il d.l. 23 ottobre 1996, n. 548 del medesimo tenore e convertito nella legge 20 dicembre 1996, n. 641 (Conversione in legge con modificazioni, del decreto-legge 23 ottobre 1996, n. 548, recante interventi per le aree depresse e protette, per manifestazioni sportive internazionali, nonché modifiche alla legge 25 febbraio 1992, n. 210), che ha fatto salvi gli effetti anche dei due decreti-legge non convertiti (d.l. n. 344 del 1996 e d.l. n. 450 del 1996). Il d.l. 4 aprile 1997, n. 92 (Modifiche ed integrazioni alla legge 25 febbraio 1992, n. 210, in materia di indennizzi ai soggetti danneggiati da vaccinazioni obbligatorie, trasfusioni ed emoderivati), anch’esso non convertito, ha poi riprodotto il contenuto dei decreti-legge n. 344 del 1996 e n. 450 del 1996 e ne ha stabilito l’applicabilità al solo anno 1997. Infine interviene la norma censurata, di eguale contenuto, l’art. 1, comma 6, della legge 25 luglio 1997 n. 238, che, peraltro, ha sanato gli effetti dell’ultimo d.l. n. 92 del 1997 (l’art. 3, comma 2, della legge 14 ottobre 1999, n. 362 sopprimerà poi il limite di applicazione all’anno 1997 previsto altresì dall’art. 1, comma 8, della legge 25 luglio 1997 n. 238).

Illustrata dunque l’evoluzione della normativa rilevante, la Corte non si ferma qui, ma ne effettua anche un’analisi, come dire, “in concreto”, quasi esclusivamente in vista, sembrerebbe, dell’individuazione della norma da applicarsi nel giudizio principale, piuttosto che nella più ampia ottica di una valutazione della “rilevanza” funzionale alla proposizione della questione di legittimità costituzionale.

Il Giudice delle leggi, invero, anche in questa occasione di fronte ad una questione, che non può non dichiarare inammissibile, mostra comunque al giudice a quo come uscire dall’impasse che lo ha spinto a sollevare la questione e che non si potrà superare con una decisione di accoglimento. Precisa infatti che il Tribunale doveva fornire adeguata motivazione sull’applicabilità, o meno, «ad una domanda presentata nel 1996 delle norme di legge vigenti in quell’anno, che risultano peraltro contenere una diversa estensione soggettiva della tutela». In base alla normativa recata dal d.l. n. 362 del 1995 e da quelli successivi sino al d.l. n. 89 del 1996 «il diritto all’indennizzo spettava a tutti i terzi contagiati dagli emotrasfusi» (corsivo mio) e solo dopo l’entrata in vigore del citato decreto n. 89 la tutela è stata limitata al coniuge e al figlio contagiato durante la gestazione. Sottolinea, inoltre, la Corte come tutti gli effetti di questi decreti siano stati sanati dalle leggi n. 641 del 1996 e n. 4 del 1997. Era allora compito del giudice a quo «valutare se una domanda, in ipotesi presentata prima dell’entrata in vigore del decreto-legge n. 89 del 1996, ricadesse sotto la previsione più ampia del regime giuridico precedente a tale atto normativo o dovesse essere valutata alla stregua della più restrittiva disciplina susseguente» (corsivo mio). Non solo; poiché non è dato sapere se la domanda è stata presentata prima o dopo il 26 febbraio 1996 (rectius 28 febbraio 1996) si sarebbe dovuto anche verificare l’interazione tra le disposizioni che dichiarano applicabili i decreti recanti la disciplina più favorevole agli anni 1995 e 1996 e la disposizione del d.l. n. 89 del 1996 che stabilisce l’applicazione del decreto stesso ai medesimi anni, considerato che, come detto, la legge n. 4 del 1997 «fa salvi indiscriminatamente gli effetti prodottisi e i rapporti giuridici sorti sia sotto la più estensiva normativa precedente, che sotto quella più restrittiva susseguente, entrambe recate peraltro da decreti-legge non convertiti» (corsivo mio).

Il giudice a quo non ha sciolto il «dubbio interpretativo» circa la norma da applicarsi (e da cui dipende il riconoscimento o meno del diritto all’indennizzo), ma lo ha sciolto, almeno per il caso di domanda presentata prima del 28 febbraio 1996, la Corte stessa, rivelando chiaramente un’opzione interpretativa favorevole alla concessione del beneficio. Insomma, seppure anche in quest’occasione “costretta” a decidere nel senso dell’inammissibilità, la Consulta pare aver inteso fare al non troppo accorto Tribunale rimettente un vero e proprio “regalo di Natale” (la sentenza è stata depositata il 23 dicembre 2005).

Le due decisioni ricordate in queste brevi note, del resto, anche a fronte di irrigidimenti, non sempre del tutto motivati, che hanno caratterizzato altre vicende, rappresentano importanti segnali di una giustizia costituzionale che quantomeno si sforza di divenire sempre più “giusta”, cercando intanto di promuovere un circolo virtuoso di comunicazione con i giudici, chiamati in primis all’affermazione ed al riconoscimento dei diritti, specie in vista di quella concreta tutela che va assicurata in particolare ai cosiddetti soggetti deboli.