ANNALISA GHIRIBELLI
IL POTERE DEL PRESIDENTE DELLA
REPUBBLICA IN SEDE DI EMANAZIONE DEI DECRETI-LEGGE: IL “CASO ENGLARO”
1.
Premessa. – La materia dei diritti costituzionali
sul caso Englaro è divenuta nuovamente oggetto dello scontro istituzionale [1] dopo il rifiuto da
parte del Capo dello Stato di firmare il decreto-legge approvato dal Consiglio dei
Ministri il
Partendo dall’esame del
caso Englaro, prenderemo in considerazione il ruolo che il Presidente della
Repubblica ha nei confronti della decretazione d’urgenza e vedremo quali sono i
suoi poteri in sede di emanazione dei decreti-legge [3],
se si tratta di poteri effettivi ed entro quali limiti possono essere
esercitati. Ricordiamo, infatti, che solo nel momento in cui il decreto viene
firmato dal Presidente e si provvede alla sua pubblicazione [4], il decreto può
dirsi adottato e in quello stesso giorno il decreto presidenziale – e non la
deliberazione governativa – deve essere presentato alle Camere per la
conversione [5].
Nel caso in esame il
Quirinale aveva ufficiosamente preso le distanze dal possibile decreto-legge la
sera del 5 febbraio nel corso del colloquio tra il Sottosegretario alla
Presidenza del Consiglio Gianni Letta e il Segretario Generale della Presidenza
della Repubblica Donato Marra. La mattina del 6 febbraio il Capo dello Stato,
nella sua veste di garante della costituzione, ha scritto al Presidente del
Consiglio una lettera riservata in cui esprime il proprio dissenso
all’intenzione del Governo di procedere con decreto-legge. Si tratta di un
consiglio, di moral suasion [6], alla quale il
Premier risponde portando all’attenzione del Consiglio dei Ministri la proposta
di adozione del provvedimento di necessità ed urgenza e contestando il
contenuto della missiva presidenziale. Ricordiamo, peraltro, che il
provvedimento non risultava inserito all’O.d.G. del Consiglio dei Ministri del
6 febbraio 2009 [7]. Il Consiglio dei
Ministri approva ad unanimità il provvedimento. Segue, quindi, il diniego
formale da parte del Capo dello Stato all’emanazione del decreto. A questo
punto, il Governo risponde presentando, in serata, un disegno di legge in
materia con gli stessi identici contenuti del provvedimento di urgenza per il
quale il Capo dello Stato concede l’autorizzazione alla presentazione alle
Camere.
2.
Il controllo del Capo dello Stato in sede
di emanazione dei decreti-legge: i precedenti. – Il controllo del Capo
dello Stato sui decreti legge si presenta come un controllo preventivo
all’emanazione. Il provvedimento governativo può essere emanato dal Capo dello
Stato (come avviene nella maggior parte dei casi) [8],
può essere negato ovvero, in base ai principi generali di collaborazione tra
Capo dello Stato e Governo, il Presidente della Repubblica può avanzare
richiesta di riesame mediante rinvio al Governo.
Una possibilità di
intervento del Presidente della Repubblica che, storicamente, è risultata
preferibile al diniego di autorizzazione è il rinvio al Governo del testo
deliberato dal Consiglio dei Ministri. Anzi, anche alla luce della prassi, in
virtù dei principi che regolano la collaborazione personale tra Capo dello
Stato e Governo [9].
Nella pratica, il Capo
dello Stato ha contestato, soprattutto, la mancanza dei requisiti di necessità
e di urgenza previsti dall’articolo 77 della Costituzione come presupposto per
l’adozione del decreto-legge [10]: in questo caso i
richiami mossi dal Presidente sono volti a rivendicare al Capo dello Stato una
meno formale partecipazione ad atti legislativi del Governo ed una più generale
funzione di garante del corretto svolgimento dei rapporti tra il Governo ed il
Parlamento [11]. Il Presidente,
storicamente, non è mai andato oltre qualche richiamo, più o meno esplicito, al
Governo affinché questi prestasse maggior attenzione al rispetto dei principi costituzionali
nel ricorso allo strumento del decreto-legge, anche per non esporsi troppo da
un punto di vista politico, dato che il Governo adotta i decreti-legge “sotto
la propria responsabilità”. Non è detto che il messaggio debba necessariamente
assumere forma scritta, potendo anche essere manifestato oralmente né che debba
essere reso pubblico, potendo avvenire attraverso comunicazioni riservate tra
Presidente della Repubblica e Governo [12].
Negli ultimi anni si è creata la prassi di una comunicazione preventiva al
Presidente della Repubblica da parte del Dipartimento per gli Affari giuridici
e legislativi dei decreti-legge che quest’ultimo intende adottare, in modo da
garantire al Capo dello Stato un maggiore spatium
deliberandi in merito all’emanazione.
E’ anche possibile che,
nell’ambito della collaborazione personale con il Governo, il Presidente faccia
presenti le proprie osservazioni in via orale o scritta, chiedendo chiarimenti
al Presidente del Consiglio, pur avendo già apposto la propria firma sull’atto.
In questo caso non sorge l’onere per il Consiglio dei Ministri di riapprovare
l’atto, ma soltanto il dovere di correttezza del Presidente del Consiglio di
informare i Ministri delle osservazioni presidenziali. Nel caso in cui questi
ultimi concordassero con l’intenzione del Presidente del Consiglio di insistere
nel mantenimento dell’atto, il decreto, già firmato per l’emanazione dal Capo
dello Stato, è pronto per la pubblicazione [13].
Infine, un’altra ipotesi
attenuata di rinvio si ha quando il Presidente della Repubblica, prima di
apporre la propria firma, chiede chiarimenti o comunque formula osservazioni al
Governo in via riservata senza però richiedere un riesame dell’atto. In questo
caso, se il Governo lo richiede, il Presidente dovrà procedere all’emanazione
dell’atto, anche nel caso in cui non intervenga una nuova riapprovazione da
parte del Consiglio dei Ministri.
Il primo caso
verificatosi, nella storia repubblicana, di mancata emanazione di un decreto legge risale alla
Presidenza Pertini che rifiutò di firmare un decreto-legge che tendeva a
sottrarre alla Corte di Cassazione, a favore delle Corti d’Appello, le
operazioni di controllo, certificazione e conteggio delle firme per la
richiesta di referendum abrogativi. Questa delibera del Consiglio dei Ministri
interveniva a pochi giorni dalla scadenza del termine per la raccolta delle
firme per dieci referendum abrogativi promossi dal partito radicale. Un
comunicato del Quirinale, in sede di emanazione dell’atto, chiarì che il
Presidente della Repubblica censurava la scelta dello strumento del
decreto-legge per introdurre una modifica che avrebbe inciso su procedimenti
referendari già in corso “alterando l’equilibrio sancito in Costituzione fra
democrazia rappresentativa e democrazia diretta” [14].
A seguito delle perplessità manifestate dal Capo dello Stato al momento della
firma, il Consiglio dei Ministri deliberò di revocare la precedente decisione
(“in virtù dell’acquiescenza e della deferenza del Presidente del Consiglio nei
confronti del Presidente della Repubblica”) rinunciando ad adottare il
decreto-legge e approvando un disegno di legge di contenuto identico [15].
Per quanto riguarda i
motivi del rinvio, un comunicato stampa del Quirinale [16]
precisava che “il Capo dello Stato ha preso la sua determinazione in piena
autonomia, in considerazione del fatto che la nuova normativa, adottata in
forma di provvedimento di urgenza, avrebbe inciso su procedimenti referendari
in corso”. Si è trattato, dunque, di un rinvio per motivi di merito
costituzionale, attinenti all’opportunità del provvedimento e non alla sua
legittimità costituzionale. Modificare infatti le regole vigenti per la
verifica delle firme necessarie alla richiesta di referendum mentre stava per
scadere il termine per la raccolta di tali firme “avrebbe prodotto conseguenze
indirette sul corretto funzionamento” [17]
di un istituto previsto dall’articolo 75 Cost.
Una più recente ipotesi
di invito rivolto dal Presidente della Repubblica al Governo a ritirare il
decreto presentato si è verificata nel marzo 1993 con riguardo ad un
decreto-legge (definito dalla stampa “salva-ladri”) che recava modifiche alla
legge relativa al finanziamento pubblico dei partiti per la quale era in via di
svolgimento la procedura per la sua abrogazione referendaria. Il Presidente
fece presente come l’emanazione del decreto avrebbe comportato l’effetto di
annullare la procedura referendaria, con il rischio poi che lo stesso non fosse
convertito dal Parlamento. Anche in questo caso l’invito del Presidente fu
accolto ed il Governo rinunciò alla presentazione del decreto [18].
Spesso i dubbi sollevati
dal Capo dello Stato hanno riguardato il profilo della effettiva necessità ed
urgenza del decreto-legge in presenza di un Governo dimissionario: si tratta di
motivi attinenti ad aspetti di legittimità costituzionale. Il Presidente della
Repubblica ha evidenziato come un Governo dimissionario, restando in carica per
l’ordinaria amministrazione, pur non essendo privato del potere di decretazione
d’urgenza, ne vede ristretta l’ampiezza di esercizio: i requisiti
costituzionali della necessità ed urgenza debbono, cioè, essere valutati più
rigorosamente di quando il Governo si trova nella pienezza delle sue funzioni.
E’ stata quindi posta in discussione la legittimità del comportamento del Governo
nei confronti del Parlamento in pendenza di una crisi governativa.
In alcuni casi,
l’intervento da parte del Presidente della Repubblica ha addirittura anticipato
la formale decisione del Governo, rappresentando quindi la contrarietà non ad
una deliberazione ma ad un atto che deve ancora iniziare a formarsi: ad
esempio, nel gennaio del 1986 il Consiglio dei Ministri aveva annunciato di
voler adottare un decreto legge in
materia di emittenti radiotelevisive private, che poi non venne adottato. Dalla
stampa tale decisione è stata attribuita ad un intervento del Capo dello Stato
che avrebbe manifestato la propria contrarietà al ricorso alla decretazione
d’urgenza, aderendo con ciò all’opinione dell’allora Presidente della Corte
Costituzionale Paladin, il quale, in un’intervista, si era pronunciato a favore
di una disciplina della materia tramite legge ordinaria.
Infine, nella sua
valutazione in sede di emanazione di un decreto legge, il Presidente Cossiga,
sempre nell’ambito dei rapporti informali con il Governo, ha richiamato
l’attenzione del Presidente del Consiglio pro tempore Goria su di una allora
recente sentenza della Corte costituzionale che aveva manifestato gravi dubbi
circa la legittimità costituzionale della reiterazione dei decreti legge e delle
norme degli stessi che dispongono la sanatoria degli effetti dei decreti legge
decaduti (sentenza 302/1988). Il Presidente della Repubblica ha, in
quell’occasione, chiesto che venisse operato “ogni sforzo perché le
enunciazioni della Corte costituzionale possano, da un lato, avviare una
corretta evoluzione normativa in materia e dall’altro anche trovare, fin d’ora,
una meditata verifica nella prassi” [19].
Per quanto riguarda la forma adottata dal Capo dello Stato per esternare i suoi
rilievi, si è fatto ricorso ad una forma attenuata di consiglio, di moral suasion: il Presidente ha infatti
restituito il decreto firmato corredandolo però con una lettera nella quale ha
espresso le sue osservazioni.
Gli episodi a cui si è
fatto cenno sono i precedenti conosciuti per quanto riguarda i rapporti tra
Presidente della Repubblica e Governo in
sede di emanazione di decreti legge: è ragionevole presumere che vi siano stati
altri interventi del Capo dello Stato, che però non sono stati resi noti. Come
si è visto nei casi citati, il più delle volte le fonti non sono ufficiali, ma
sono costituite da notizie o indiscrezioni giornalistiche e rimane in sostanza
nella disponibilità dei protagonisti rendere pubblici i rapporti intercorsi. La
riservatezza che circonda tali vicende trova in parte giustificazione nel fatto
che essa può favorire un rapporto più equilibrato e fluido tra gli organi
costituzionali interessati, mentre la pubblicità potrebbe portare ad
irrigidimenti delle rispettive posizioni in quanto esse sarebbero
automaticamente sottoposte ad un vaglio e ad un giudizio.
3.
Il diniego di emanazione nel “caso
Englaro”. – Passiamo adesso ad analizzare le ragioni del diniego del
Presidente Napolitano all’emanazione del decreto-legge deliberato nel Consiglio
dei Ministri del
La necessità e l’urgenza
costituiscono le basi per comprendere il fenomeno e la funzione pratica della
decretazione d’urgenza. Un’attività normativa fondata su tali presupposti è
utilizzata per far fronte a situazioni eccezionali in relazione alle quali i
modi normali della produzione giuridica risultano inadeguati.
Negli anni è emersa una
interpretazione che ha attribuito al Governo ed al Parlamento il compito di
verificare l’esistenza dei presupposti giustificativi; nella prassi, si è
diffusa, sempre più frequentemente, la tendenza ad adottare provvedimenti
considerati necessari ed urgenti solo in relazione ai fini proposti dal
Governo. In particolare, il Governo dovrebbe valutare che rispetto alla
situazione di fatto si pone una perentoria esigenza di regolamentazione
normativa e che è impossibile ricorrere ai normali strumenti di produzione
normativa per regolare la fattispecie. Il Governo nell’adozione di
decreti-legge fa leva su una discrezionalità politica molto ampia: l’esecutivo
ha, dunque, eluso il significato costituzionale della norma ed ignorato il
requisito della straordinarietà consentendo la trasformazione del decreto-legge
in uno “strumento prettamente politico” [23],
capace di rispondere rapidamente a domande legislative, che hanno un carattere
di urgenza politica [24]. D’altra parte, in
sede parlamentare, le Camere sono chiamate ad esprimere un giudizio sulla
riconducibilità della situazione ai canoni di straordinaria necessità ed urgenza,
senza che si valuti, contestualmente, il nesso di natura provvedimentale che
deve sussistere tra le norme dell’atto e la situazione, cioè il merito del
provvedimento.
Accanto ad un controllo
che potremmo definire “politico”, il giudice costituzionale italiano ha, negli
ultimi anni consolidato un orientamento affermato per la prima volta con la sentenza n. 29 del
27 gennaio 1995, stabilendo la propria competenza a sindacare la sussistenza
dei presupposti di necessità ed urgenza [25],
da un punto di vista strettamente giuridico, salvaguardando il controllo
iniziale del Governo e quello successivo del Parlamento in sede di conversione,
dove le valutazioni politiche potrebbero essere prevalenti. L’orientamento
definito recentemente dalla Corte costituzionale italiana con le sentenze n. 171/2007 e n.
128/2008 chiarisce,
dunque, in via definitiva la questione relativa al (necessario) rispetto dei
requisiti costituzionali ex art. 77
da parte del decreto-legge e della legge di conversione. Ma la pronuncia del
giudice delle leggi è interessante anche sotto un altro profilo: essa
costituisce – seppur indirettamente – un “monito” al Governo e al Parlamento
affinché, nelle rispettive sedi, si rendano garanti del rispetto dei principi
costituzionali (e non solo) di una fonte che appare sempre più “patologica”: il
vizio relativo alla “semplice mancanza” infatti può esser fatto valere
unicamente nell’ambito del rapporto di fiducia che lega Governo e Parlamento.
Ricordiamo infatti come il comma 2 dell’art. 96-bis del Regolamento della Camera prescrive al Governo di dare conto,
nella relazione che accompagna il disegno di legge di conversione, dei
presupposti di necessità ed urgenza per l’adozione del decreto-legge e di
precisare gli effetti attesi dall’attuazione del decreto e le conseguenze che
le norme dello stesso possono recare sull’ordinamento. La commissione in sede
referente può chiedere al Governo di integrare gli elementi contenuti nella
relazione anche per singole disposizioni del decreto-legge.
La dottrina si è più
volte interrogata per sapere se le Camere, in sede di conversione, svolgano una
sorta di controllo-verifica sui requisiti di necessità ed urgenza del
decreto-legge. Si è affermato l’orientamento secondo cui il Parlamento non
giudica l’attività normativa del Governo, escludendosi così l’esercizio di una
funzione di controllo-verifica del decreto-legge, ma può modificarla attraverso
la funzione legislativa, realizzando così una co-legislazione
governativo-parlamentare [26]. Se al Senato il
controllo “pregiudiziale” dei presupposti di necessità ed urgenza è rimesso
alla I Commissione permanente [27], alla Camera, dopo
le modifiche regolamentari del 1997 che hanno soppresso il procedimento di
verifica in capo alla Commissione Affari Costituzionali, per tale verifica è
competente la Commissione di merito che esamina il provvedimento in sede
istruttoria [28]. Si tratta di un
rapporto prettamente politico che si instaura tra Governo e Parlamento, mentre
il controllo sui requisiti di necessità ed urgenza sarebbe una forma di
controllo di tipo giuridico, che non viene esercitato dal Parlamento rispetto
al decreto-legge [29].
Se, dunque, il vizio
relativo alla “semplice mancanza” dei requisiti costituzionali può esser fatto
valere unicamente nell’ambito del rapporto di fiducia Governo – Parlamento e se
la “evidente mancanza” è oggetto di giudizio costituzionale, come possiamo
configurare l’intervento del Capo dello Stato in sede di emanazione? Come ha
avuto occasione di dire il Presidente Napolitano in un comunicato del
Dunque, la responsabilità
politica del Governo attiene alle scelte di indirizzo e di contenuto del
provvedimento d’urgenza che intende adottare, ma laddove il Capo dello Stato
ravvisi la mancanza dei presupposti costituzionali è legittimato ad
intervenire: nel “caso Englaro” tali presupposti non sussistevano.
[1] Ricordiamo come la Camera ed il
Senato avessero sollevato ricorso per conflitto di attribuzione tra poteri
dello Stato nei confronti della Corte di Cassazione sulla vicenda Englaro
evidenziando come sotto la formale apparenza della pronuncia giurisdizionale la
Cassazione avesse, in realtà, posto in essere un atto sostanzialmente
legislativo in una materia – quella dei diritti costituzionali della persona –
nella quale la tutela a livello giurisprudenziale è da escludersi in assenza di
una legge. Sul punto si rinvia a R.
Romboli, Il conflitto tra poteri
dello Stato sulla vicenda Englaro: un caso di evidente inammissibilità in www.associazionedeicostituzionalisti.it
del
[2] Ricordiamo come, pur trattando il
decreto-legge in esame della materia generale dal punto di vista formale, esso
nasceva e verteva su un caso specifico, il caso Eluana appunto.
[3] Il Presidente Pertini aveva
manifestato, in forma di dichiarazione orale e diretta al Presidente del
Consiglio (nel dicembre 1978), l’intenzione di esercitare sugli atti del
Governo per i quali è richiesta l’emanazione da parte del Presidente della
Repubblica, i relativi poteri di controllo in modo effettivo e pieno.
[4] Sul punto si veda quanto sostenuto
da A. Baldassarre, Il Capo
dello Stato in G. Amato, A. Barbera,
Manuale di diritto pubblico, Bologna, 1997, vol. II, p. 240 secondo cui
“Nel caso dei decreti-legge […], trattandosi di atti di urgenza adottati dal
Governo sotto la sua esclusiva responsabilità, possono essere rinviati
all’organo deliberante soltanto sotto il profilo della palese insussistenza dei
requisiti di costituzionalità della necessità e dell’urgenza”. Contra F.
Sorrentino, Le fonti del diritto in G. Amato, A. Barbera, Manuale di diritto pubblico,
cit. p. 155 secondo cui “la responsabilità specificatamente governativa e
l’urgenza del provvedimento dovrebbero escludere ogni intervento presidenziale”.
[5] D. Nocilla (a cura di), Diritto costituzionale vivente. Capo dello Stato ed altri saggi,
Giuffré, Milano, 1992, p. 249.
[6] Sul punto, F. Chiarelli, I rapporti informali tra il Presidente
della Repubblica e gli altri organi costituzionali in www.jei.it e E. Albanesi, Moral suasion presidenziale
e giurisprudenza costituzionale in materia di logistica. La vicenda del c.d.
decreto sicurezza in Rassegna Parlamentare n. 2/2008.
[7] Si veda M. Ainis, La lumaca e
l’elefante in La Stampa del
[8] A livello formale, l’emanazione è
una dichiarazione presidenziale di quanto il Consiglio dei Ministri, abbia, sotto
la propria responsabilità, deliberato. Con la Presidenza Pertini si è assistito
ad un’innovazione nella formula di emanazione: non si è più fatta menzione, nel
preambolo degli atti, all’espressione “sentito
il Consiglio dei Ministri”, ma il Presidente ha introdotto alcune formali
ma essenziali modificazioni in armonia con il testo costituzionale: nel
preambolo dei decreti di autorizzazione, si richiama, in modo espresso, la deliberazione del Consiglio dei Ministri
e la conseguente proposta del Presidente del Consiglio e dei Ministri
concertanti; si è adeguata, anche nella formula, la natura della partecipazione
presidenziale all’atto di cui all’ articolo 87.5 Cost., sottolineando così
l’estraneità del Presidente al procedimento formativo dell’atto con la
sostituzione del termine “emana” al
precedente “decreta”.
[9] Ad esempio, con una lettera del
[10] Da molti è stata lamentata la scarsa
attenzione e la poca severità mostrata dal Presidente della Repubblica di
fronte alla pressoché costante violazione, da parte del Governo, del dettato
costituzionale, nella parte in cui richiede l’esistenza di presupposti
straordinari di necessità e di urgenza, quale condizione legittimante la
decretazione d’urgenza, e dei principi fissati dalla legge 400/1988. Ciò
soprattutto nella considerazione della difficoltà di intervento da parte
dell’altro garante della Costituzione, cioè la Corte costituzionale. Questa,
infatti, non può svolgere alcun efficace controllo a causa del carattere
provvisorio del decreto legge, in quanto la limitata vigenza dello stesso a
sessanta giorni, comporta che la Corte sia chiamata ad intervenire quando il
decreto impugnato non esiste più, o perché convertito in legge o perché
decaduto. Anche se la Corte costituzionale, recentemente (sentenze n. 171/2007 e n. 128/2008), ha
ribadito che sussiste un vizio in
procedendo della legge di conversione in caso di mancanza originaria dei
requisiti di necessità ed urgenza del decreto-legge.
[11] Infatti, soprattutto prima che
venisse introdotto nel Regolamento della Camera l’articolo 96-bis, che
ha attribuito alla Commissione parlamentare competente per materia un
preliminare controllo sulla sussistenza dei presupposti di necessità e di
urgenza del decreto legge, solo il controllo operato dal Presidente della
Repubblica, in sede di emanazione, appariva astrattamente idoneo a frenare la
prassi dei decreti-legge adottati anche in assenza dei presupposti previsti
dalla Costituzione.
[12] S.M.
Cicconetti, Decreti-legge e poteri
del Presidente della Repubblica in
Diritto e società, n. 1/1980, p. 568 osserva che, nella pratica, il potere
di rinvio di decreti legge può esercitarsi “in
forme per così dire attenuate”
da parte del Presidente della Repubblica.
[13] Ibidem.
In questo caso, tra l’altro, il Presidente del Consiglio non ha l’obbligo di
convocare nuovamente il Consiglio dei Ministri perché, se da un lato l’atto è
già stato deliberato dal Governo, dall’altro la decisione se insistere o no su
di esso sembra, in questo caso, spettare al solo Presidente del Consiglio
nell’ambito della funzione di direzione della politica generale del Governo che
l’articolo 95 Cost. gli attribuisce. Soltanto se una larga parte dei Ministri
consultati manifestasse un’opinione diversa rispetto a quella del Presidente
del Consiglio, quest’ultimo dovrebbe convocare il Consiglio dei Ministri per
valutare, in termini politici, le conseguenze di tale eventuale dissidio.
[14]
S. Labriola, Presidente della Repubblica, struttura di governo, Consiglio di
Gabinetto, in Diritto e società, 2/1985, p. 357, secondo il quale in questo caso
si è configurata un’ipotesi di “eccesso
di potere normativo, che il Presidente, con il suo atto, ritiene sussistere nel
decreto e, si può presumere, debba estendersi anche alla eventuale successiva
legge di conversione”.
[15] Il Presidente della Repubblica aveva
infatti considerato non adeguato un mutamento della disciplina referendaria che
fosse posto in essere mediante lo strumento del decreto legge, i cui
presupposti per l’adozione sono la necessità e l’urgenza; sembra che il
presidente Pertini abbia formulato in una lettera un invito all’allora
Presidente del Consiglio Cossiga a riprendere in esame l’opportunità di adottare
la disciplina censurata mediante un disegno di legge. Quindi, l’intervento
presidenziale non ha dato luogo ad alcuna crisi dei rapporti tra Presidente
della Repubblica e Governo poiché non è insorto alcun conflitto, né, tanto
meno, tensioni di ordine politico o costituzionale tra i due organi.
Sulla stampa
quotidiana (cfr. l’articolo di S. Tosi,
La prima volta, pubblicato in La Nazione in data
[16] Si tratta di un comunicato emesso a
seguito di un articolo apparso su L’Unità,
nel quale si affermava che non era chiaro se il rifiuto di firmare era
dovuto a “volontà autonoma o se invece
abbiano giocato un ruolo alcune pressioni all’interno della compagine governativa”.
[17] S.M.
Cicconetti, Decreti-legge e poteri
del Presidente della Repubblica, cit., p. 569.
[18] Un altro caso che, a suo tempo, aveva riproposto il tema dei poteri del Presidente della Repubblica in sede di emanazione dei decreti-legge, si è verificato durante la Presidenza Cossiga ed ha ad oggetto la reiterazione del decreto legge sui tickets sanitari (decreto-legge n. 199/1989). Volendo il Governo, in piena crisi, reiterare tale decreto, che aveva provocato uno sciopero generale e contro il quale il Partito comunista aveva condotto una decisa opposizione, il segretario Occhetto in una conferenza stampa aveva annunciato di aver inviato una lettera al Presidente della Repubblica, in quanto garante della Costituzione, affinché non procedesse alla emanazione del decreto reiterato, considerato un “atto istituzionalmente e politicamente inammissibile” in quanto avrebbe comportato “una sorta di esproprio dei poteri del Parlamento”. Il Partito comunista contestava, in definitiva, la legittimità costituzionale della preannunciata rinnovazione del decreto legge, in primo luogo, sotto l’aspetto dei poteri di un Governo dimissionario: un tale atto sarebbe, infatti, andato oltre il disbrigo degli affari di ordinaria amministrazione che spettano ad un Governo dimissionario. A ciò si aggiungeva il ricorso alla reiterazione, prassi sempre discussa e sulla quale sono cadute anche le censure della Corte costituzionale (sentenza 302 del 1988). Non vi sono comunicati ufficiali del Quirinale, ma, come emerge da una nota dell’ufficio stampa del partito comunista ed anche da quanto riportato da organi di stampa, il Capo dello Stato aveva inviato una lettera di risposta all’on. Occhetto in cui gli annunciava di aver trasmesso la sua iniziale missiva al Presidente del Consiglio assieme ad un’altra lettera in cui, dopo aver richiamato i principi costituzionali in materia di decretazione, in particolare per quanto concerne i poteri del Presidente della Repubblica, aveva invitato il Presidente del Consiglio a valutare le osservazioni sull’opportunità di procedere alla rinnovazione del decreto legge, soprattutto alla luce del fatto che le osservazioni provenivano dal maggior partito di opposizione cui spetta un ruolo importante di controllo dell’azione governativa. Nonostante la missiva fosse giunta a Palazzo Chigi prima della riunione del Consiglio dei Ministri, il Consiglio, seppur con qualche modifica rispetto al testo precedente, decise di approvare il decreto, che venne emanato dal Capo dello Stato, senza che fosse manifestato alcun rilievo (V. Lippolis, op.cit., p. 537 e G. Guiglia, Ancora un intervento del Presidente della Repubblica in tema di decreti-legge, in Quaderni costituzionali, 3/1989, p. 547 che riporta un passo della lettera indirizzata dal Presidente Cossiga al Presidente del Consiglio De Mita: “quando la decretazione d’urgenza da parte del Governo dimissionario…tende ad affievolire la distinzione tra Governo nella pienezza delle funzioni e Governo dimissionario, i doveri del Capo dello Stato non possono non assumere una diversa intensità e il controllo da parte sua non può non diventare di più penetrante incisività a tutela dei fondamenti stessi dell’ordinamento costituzionale, la cui ripartizione dei poteri rischia di essere profondamente alterata”. Con le dimissioni del Governo, infatti, viene meno ogni forma di responsabilità politica del Governo nei confronti del Parlamento e, in questa situazione, “non può non entrare in gioco, a tutela della Costituzione,il potere di riserva che l’ordinamento attribuisce al Presidente della Repubblica”). Quindi, anche se il testo integrale delle lettere non è mai stato reso noto e, di conseguenza, non si ha un documento certo ed ufficiale sui poteri che il Presidente della Repubblica riteneva gli spettassero in sede di emanazione, dall’esito della vicenda si deduce che Cossiga abbia escluso la possibilità di rifiutare l’emanazione del decreto nel caso in cui il Governo, nonostante l’invito al riesame, avesse deciso di riapprovare il decreto.
[19] Il Capo dello Stato sembra aver
voluto, più che sollevare una questione specifica riguardo al decreto-legge che
aveva originato il suo intervento, porre il problema generale del rispetto
degli indirizzi manifestati dalla Corte costituzionale in materia di
reiterazione di decreti.
[20] Queste le parole del Capo dello
Stato che si leggono nella nota: “Io non
posso […] farmi guidare da altro che da un esame obiettivo della rispondenza o
meno di un provvedimento legislativo di urgenza alle condizioni specifiche
prescritte dalla Costituzione e ai principi in essa sanciti.”
[21] Per un esame dettagliato delle
argomentazioni addotte dal Capo dello Stato sulla regolamentazione prodotta dal
Governo si rinvia a A. Spadaro, Può il Presidente della Repubblica
rifiutarsi di emanare un decreto-legge?, cit.
[22] Giustamente C. Salazar, Riflessioni
sul “caso Englaro” in www.forumcostituzionale.it
del
[23] Così, A. Celotto, L’abuso
del decreto-legge, Cedam, Padova, 1997, p. 410.
[24] Il ricorso al decreto-legge
sostitutivo di legge ordinaria è ammissibile quando lo svolgimento del procedimento legislativo
ordinario non consente il raggiungimento tempestivo dell’obiettivo che il
Governo si è posto. E’ necessaria, d’altra parte, la sussistenza di un caso
straordinario di necessità e d’urgenza. L’A. ammette, in conclusione, che il
Governo ha ampia discrezionalità politica nel decidere l’adozione di un
decreto-legge di necessità ed urgenza.
[25] Tale compito non sostituisce e non
si sovrappone a quello iniziale del Governo e a quello successivo del
Parlamento in sede di conversione, ma ha, piuttosto, la funzione di preservare
l’assetto delle fonti normative e il rispetto dei valori a tutela dei quali
esso è predisposto.
[26] G.
Pitruzzella, La legge di
conversione del decreto-legge, Cedam, Padova, 1989, pp. 245 e ss., C. Nasi, L’art. 96-bis del
Regolamento della Camera ed il procedimento di conversione dei decreti-legge
in Rassegna Parlamentare, n. 2/2001, pp. 457 e ss. e A. Celotto, A. Mencarelli, Prime
considerazioni sul nuovo art. 96-bis del Regolamento della Camera in Rassegna
Parlamentare, 1998, pp. 651 e ss.
[27] In realtà tale controllo nella
prassi più recente non si realizza quasi mai.
[28] Il Presidente della Camera,
investito della questione da parte dei membri del Comitato per la Legislazione,
ha stabilito che le Commissioni di merito sono competenti a valutare le
esigenze straordinarie di necessità ed urgenza, dato che tra i compiti del
Comitato non rientra la valutazione sostanziale dei testi normativi, ma solo
l’esame formale, secondo i parametri di cui all’art. 16-bis comma IV.
[29] In linea di massima, se esiste compattezza tra il Governo e la sua maggioranza governativa, la maggioranza sosterrà l’iniziativa del Governo in Parlamento; se questa compattezza manca, potranno verificarsi diverse situazioni che vanno dall’approvazione di emendamenti al disegno di legge di conversione del decreto-legge alla sua reiezione: ma se ciò avviene non è dovuto ad una verifica negativa in ordine alla sussistenza dei presupposti costituzionali del decreto-legge, ma alla debolezza politica del Governo e alla divisione interna alla sua maggioranza. Dunque, nella valutazione del disegno di legge di conversione in legge del decreto-legge saranno prevalenti le considerazioni in ordine al valore politico delle scelte del Governo ed esse potranno spingersi a considerare anche la stessa decisione di utilizzo del decreto-legge.