I vizi denunciabili

 

Dr. Federico Furlan, assegnista di ricerca presso l’Università di Milano - Bicocca

 

(versione provvisoria)

 

 

INDICE : 1. Introduzione -  Il regionalismo italiano ed il giudizio in via principale dopo le modifiche costituzionali del 1999 / 2001 2. L’attuazione dell’art. 127 Cost. nella legge La Loggia: novità sostanziali o meramente processuali? 3. La sentenza 274 del 2003 : perdura l’asimmetria del giudizio in via principale? 4. Le impugnative regionali : i vizi denunciabili nei confronti delle legge statali (è possibile una rilettura del concetto di lesione della competenza?) e nei confronti delle leggi delle altre regioni (la Regione è portatrice degli interessi degli enti locali e può ergersi a tutela delle loro competenze ?) 5. De iure condendo : il progetto di riforma costituzionale della c.d. “devolution”

 

1. Introduzione - Il regionalismo italiano ed il giudizio in via principale dopo le modifiche costituzionali del 1999 / 2001

 

Il tema che mi è stato assegnato, che consiste nell’esaminare quali siano e come si atteggino, nel diritto costituzionale vigente, i vizi denunciabili nel giudizio in via principale (cui sono naturalmente correlati i profili del parametro invocabile e dell’interesse a ricorrere ed azionare questa modalità del giudizio sulla legittimità costituzionale degli atti normativi), non appare avvicinabile partendo unicamente dal dato processuale e dalle pronunce che (in numero sempre crescente) il giudice delle leggi sta sfornando a getto continuo nell’ultimo triennio.

A monte, si trova e va affrontata - come è ovviamente noto anche ai giudici che siedono a Palazzo della Consulta - una questione di fondo: la stagione delle grandi riforme del regionalismo italiano (che non può ancora considerarsi conclusa stante il decisivo passaggio referendario che attende, ad ottobre di quest’anno, la riforma costituzionale approvata dalle due Camere nell’ottobre 2005)  ha condotto ad una totale equiparazione dello stato e delle regioni i cui effetti si riverberano sul giudizio in via principale anche al di la del dato formale di cui all’art. 127 Cost. ? Oppure lo stato e gli enti regionali, pur nella loro ampliata autonomia, si trovano su due differenti livelli e, soprattutto, sono portatori (o se si vuole garanti) di differenziati interessi / valori ontologici, essendo l’uno chiamato ad impedire la generica violazione della Costituzione da parte delle regioni nell’esercizio dell’attività normativa primaria (la funzione di “polizia costituzionale” per dirla con Zagrebelski) e le altre unicamente a difendere la propria sfera di autonomia costituzionalmente individuata dagli sconfinamenti dello stato centrale?

La risposta al quesito riverbera i suoi effetti sul giudizio in via principale, che sembra diventato - anche per la suo intrinseca componente di politicità (legata come noto alla facoltatività dell’esercizio dell’azione) - il terreno di battaglia preferito da stato e regioni  per raggiungere quella pax romana che l’assenza di una seconda camera federale (sul modello del Bundesrat tedesco) rende impossibile da raggiungere in sede politica.

Le dispute che la Corte costituzionale è chiamata a risolvere discendono, quasi interamente, dai difetti (o, se si preferisce, dai lati oscuri) della riforma ed attengono, in primo luogo, al riparto/ritaglio delle competenze e, in secundis, alla incapacità (o, più correttamente, alle resistenze dell’amministrazione centrale) di portare fino al fondo il processo (accelerato con le leggi Bassanini e poi accolto nel novellato art. 118 della Costituzione) di trasformazione del nostro regionalismo in regionalismo “di esecuzione” (mutuando la terminologia dai sistemi federali).

Ma facciamo un passo indietro.

Prima della riforma del titolo V si sosteneva, da parte della dottrina maggioritaria, che diverse ragioni militassero a favore della c.d. asimmetria del giudizio in via principale[1] che la giurisprudenza del giudice costituzionale aveva, sin dai suoi primi anni di attività (si v. sent. 38/1957 e 30/1959 e 32/1960), riconosciuto come immanente al sistema e che comportava, quale fondamentale postulato, l’impossibilità per le regioni di sollevare questioni di legittimità costituzionale in relazione a parametri costituzionali diversi da quelli che disciplinavano la sfera di autonomia normativa costituzionalmente attribuita, laddove lo stato poteva censurare le leggi regionali per qualunque vizio di legittimità costituzionale:

a)                            da un lato, guardando all’aspetto sostanziale, si evidenziava sia il ruolo spettante al governo in qualità di garante e custode della legalità ed unità dell’ordinamento (e quindi anche di sentinella contro le violazioni della legalità costituzionale perpetrate dalla legislazione regionale) sia la difficoltà di impugnazione in via incidentale di leggi regionali che per loro stessa natura non potevano regolare i rapporti tra i privati;

b)                            dall’altro lato, sotto una prospettiva più formalistica e processuale, deponevano a favore di detta interpretazione sia la diversità lessicale tra le disposizioni di livello costituzionale che disciplinavano le modalità di accesso in via principale (l’art. 127, III comma, Cost. che legittimava il ricorso del governo alla Corte costituzionale nel caso di legge approvata dal Consiglio regionale che eccedesse la competenza della regione stessa e l’art. 2 l. cost. 1 del 1948, in forza del quale la regione era abilitata a promuovere ricorso in via diretta contro le leggi dello stato invasive della sfera di competenza ad essa assegnata dalla Costituzione) sia il carattere preventivo dell’impugnativa statale paragonato al carattere successivo dell’impugnativa regionale.       

Invero, lo stesso giudice costituzionale aveva reso, nel tempo, meno profondo il solco dell’asimmetria intervenendo sul parametro e consentendo alle regioni di lamentare non solo la violazione, da parte della legislazione statale, di norme costituzionali direttamente attributive di competenza (e quindi per le regioni ordinarie gli articoli 117, 118 e 119) ma anche di altri precetti  costituzionali collocati al di fuori del titolo V della Costituzione qualora il vizio rilevato “ridondasse” in violazione delle competenze regionali ovvero venisse ad incidere negativamente - sia pure indirettamente - sulla sfera di autonomia costituzionalmente assegnata (come affermato, in via di principio fin dalla sent. 32/1960).

Ugualmente, alle regioni è stato consentito - sia pure con le limitazioni di cui sopra -  di far valere, nel giudizio in via principale, il vizio di eccesso di delega da parte di un decreto legislativo (sent. 183/1987)[2].

In una celebre sentenza del 1991, la n. 276, il giudice costituzionale aveva pure ammesso la possibilità per le regioni di sollevare questione di legittimità costituzionale in riferimento al principio della parità di trattamento previsto dall’art. 3 Cost., anche al di fuori dell’incisione diretta o mediata sulle competenze regionali; insegnava la Corte che “quando la legge statale provvede in qualsiasi materia (od organizza una qualsiasi attività propria o regionale) assumendo come criterio il territorio e introducendo una disciplina differenziata in riferimento a una parte di esso, non può disconoscersi una pretesa, ugualmente rilevante ed egualmente tutelabile, della Regione il cui territorio sia stato ricompreso o no nel trattamento differenziato, al controllo che questo non sia manifestamente ingiustificato cioè irragionevole (art. 3 Cost.)”. [3]

Di fatto, se talvolta questi motivi di ricorso fondati sulla violazione di parametri posti al di fuori del Titolo V sono stati dichiarati ammissibili, nel merito sono sempre stati respinti.

Unica eccezione può essere considerato il precedente della sentenza 393 del 1992, nella quale il giudice delle leggi ha fondato la propria pronuncia di illegittimità costituzionale di una legge statale (la legge 179/1992, con la quale era stata istituita una nuova tipologia di piani territoriali,   i programmi integrati di intervento) anche sul contrasto con il parametro costituito dall’art. 97 della Costituzione[4].

Poi è arrivato il vento della riforma costituzionale che, per un verso, ha inciso fortemente (con conseguenza non ancora del tutto valutate) il versante dei rapporti stato - regioni - enti locali soprattutto in relazione all’esercizio delle funzioni legislative ed amministrative, mentre, per altro verso, ha lasciato pressoché inalterate le regole del giudizio in via principale.

Invero, nel nuovo testo dell’art. 127 Cost. trova la propria disciplina anche il ricorso regionale in via d’azione ma la promovobilità del ricorso rimane legata a parametri diversi almeno dal lato terminologico: così mentre il Governo può impugnare la legge regionale lamentando il vizio di “eccesso di competenza”, per la regione l’interesse a ricorrere resta subordinato ad una differenziata “lesione della sfera di competenza” (che prende il posto della “invasione”).

Ma, poiché non ci si può mai fermare alla sola interpretazione letterale (soprattutto quando si parla di norme di livello costituzionale),  la dottrina costituzionalistica si è interrogata sulle possibili ricadute (implicite) della novella sul processo costituzionale.

Una volta caduto il sistema dei controlli preventivi sulla legislazione e l’attività amministrativa delle regioni; invertita l’enumerazione delle competenze legislative con l’accoglimento del principio tipico delle costituzioni federali che riserva un elenco di materie allo stato centrale e attribuisce le residue agli enti membri; equiordinata, almeno quanto a limiti e vincoli, la potestà legislativa dei due enti; eliminato il riferimento all’interesse nazionale quale possibile vizio delle leggi regionali, il giudizio in via principale poteva dirsi ancora lo stesso?

Soprattutto il profilo dei vizi denunciabili (e dell’interesse a ricorrere) in questa modalità di accesso al giudice costituzionale ha movimentato un dibattito dottrinale nel quale si possono distinguere tre principali filoni interpretativi:

a) una pattuglia nutrita di commentatori [5] ha sostenuto che la riforma avesse determinato una “parificazione verso il basso” dei due soggetti nel giudizio principale, essendo stata di fatto eliminata la funzione di tipo tutorio assegnata allo stato nei confronti del legislatore regionale che giustificativa l’asimmetria, e che, di conseguenza, dopo il 2001, lo stato avrebbe potuto far valere davanti alla Corte costituzionale unicamente il vizio di competenza strettamente inteso ovvero lo straripamento regionale dalle materie assegnate. Questa linea interpretativa poteva appoggiarsi anche ai lavori preparatori della legge costituzionale 3/2001 e, in particolare, alla relazione di maggioranza al testo di riforma (on. Cerulli Irelli e Soda) che, nel commentare il nuovo testo dell’art. 127 Cost., espressamente postulava una parità di Stato e regioni nel giudizio in via principale e individuava la legittimazione del Governo a ricorrere avverso le leggi regionali solo “qualora ritenga che essa ecceda la competenza della Regione medesima e non per qualunque vizio di incostituzionalità”;

b) una opposta corrente di pensiero[6] annettendo, al contrario, una valenza decisiva alla formulazione letterale del nuovo art. 127 Cost., ha argomentato in favore del mantenimento dell’asimmetria e della facoltà per il Governo di impugnare le leggi regionali per qualunque vizio di legittimità costituzionale, così come avveniva in precedenza (la chiameremo corrente “continuista”);                          

c) altri ancora, in una posizione intermedia, hanno evidenziato nelle due tesi precedenti la contestuale presenza di elementi di forza e di debolezza [7].

Quanto al giudice ultimo della controversia, la Corte, in una prima decisione, la n. 282/2002, si lasciava sfuggire un obiter dictum che faceva esultare i sostenitori della tesi della “parificazione verso il basso” (in particolare D’Atena), osservando che, nel mutato quadro costituzionale di riparto della potestà legislativa, la ricerca del vizio di eccesso di competenza da parte della legge regionale dovesse partire “non tanto dalla ricerca di uno specifico titolo costituzionale di legittimazione dell’intervento regionale quanto al contrario, dall’indagine sulla esistenza di riserve, esclusive o parziali, di competenza statale”.

Non era ovviamente sufficiente questo inciso per ritenere che il giudice costituzionale avesse avallato l’una o l’altra delle possibili interpretazioni.      

E, infatti, nel 2003 sarebbe giunta quella che si potrebbe definire la svolta “unitarista” del giudice costituzionale, il cui apice viene toccato con le sentenze 274 e 303, con le quali la Corte fa propria una lettura del novellato Titolo V che sembra in parte confliggere sia con gli obiettivi che il legislatore di revisione si era posto sia con il tenore letterale delle norme e che annette alle clausole contenute nell’art. 120, II comma, Cost. il valore di clausole di chiusura e riferimento dell’intero complesso dei rapporti stato - regioni: la tutela dell’unità giuridica ed economica della Repubblica è, per i giudici costituzionali, il principale valore di riferimento che deve orientare il Giudice costituzionale non soltanto sul versante sostanziale (il concreto riparto delle funzioni legislative ed amministrative come emergente dagli articoli 117 e 118 Cost.)  ma anche il versante più squisitamente processuale e dunque il giudizio in via principale.

Una lettura alla tedesca, se vogliamo, del regionalismo italiano post 2001, ricordando che nel federalismo germanico l’art. 72 GG consente al legislatore federale di intervenire nelle 26 materie di potestà concorrente che sono attribuite alla potestà normativa dei Lander qualora ciò si renda necessario appunto per garantire la tutela dell’unità giuridica od economica, e, in particolar modo, la tutela dell’uniformità delle condizioni di vita, prescindendo dai confini territoriali d’ogni singolo Land (c.d. clausola di salvaguardia dell’unità).

 

2. L’attuazione dell’art. 127 Cost. nella legge La Loggia: novità sostanziali o meramente processuali?

 

Pochi giorni prima che la Corte sposasse (con la sent. 274/ 2003, su cui infra § 3)  la tesi della corrente “continuista”, aveva compiuto il suo complesso iter ed era stata pubblicata la c.d. legge La Loggia, ovvero la legge ordinaria di attuazione della riforma del Titolo V (legge 5 giugno 2003, 131).

Ai nostri limitati fini prenderemo in esame solo l’art. 9 della La Loggia, portante l’attuazione degli articoli 123 e 127 della Costituzione in materia di ricorsi alla Corte costituzionale e modificativo degli artt. 31, 32, 33 e 35 della l. 87/1953.

In particolare degno di interesse appare detto articolo nella parte in cui ha previsto che la questione di legittimità costituzionale della legge regionale possa essere sollevata dal Presidente del Consiglio dei Ministri “anche su proposta della Conferenza Stato-Citta e autonomie locali” e, parallelamente, che la regione (in persona del Presidente della Giunta previa delibera di Giunta) possa sollevare la questione di legittimità costituzionale di una legge o di un atto avente forza di legge “anche su proposta del Consiglio delle autonomie locali”.

Se appare evidente che con queste disposizioni è stato fornito agli enti locali un “surrogato”[8] per quell’accesso diretto alla Corte che non è stato previsto dalla novella costituzionale e che, ugualmente, la proposta non è in alcun modo vincolante per gli organi politici chiamati a decidere se promuovere ricorso[9], il punto controverso resta un altro: si tratta di stabilire se si tratti di norme puramente di natura processuale e dai limitatissimi effetti (considerando la mancanza di vincolatività) ovvero capaci di innovare, nella sostanza, anche la struttura del giudizio in via principale. In altre parole, dovremmo ritenere che con queste norme lo stato e le regioni siano divenuti enti esponenziali degli interessi degli enti locali che potrebbero essere oggetto di lesione da parte di leggi statali ovvero regionali e quindi possano far valere questi interessi avanti il giudice costituzionale?

Ancor più specificatamente: lo stato potrebbe ricorrere, in nome e per conto delle province, nei confronti di una legge regionale che comprima le loro funzioni amministrative in violazione dei principi posti dall’art. 118 Cost.? E le regioni potrebbero, da parte loro, ricorrere avanti la Corte per violazioni della legittimità costituzionale da parte delle legge dello stato che, ai sensi dell’art. 117 , comma II, lett. p), Cost., detti la disciplina della legislazione elettorale, degli organi di governo e delle funzioni fondamentali di Comuni, Province e Città Metropolitane?    

Cercherò di formulare una risposta al duplice quesito nei paragrafi successivi.

 

3. La sentenza 274 del 2003 : perdura l’asimmetria del giudizio in via principale ?

 

Come già accennato, la sentenza 274 del 2003 ha fugato ogni possibile dubbio interpretativo e riaffermato, anche nel vigore della novella, il principio dell’impugnabilità da parte dello stato di leggi regionali per la violazione di qualsiasi parametro costituzionale : lo stato conserva una posizione peculiare nell’assetto dei costituzionale perché l’istanza unitaria - che ancora permea l’intera struttura della repubblica e la divisione dei poteri in senso verticale - “postula necessariamente che nel sistema esista un soggetto - lo stato appunto - avente il compito di assicurarne il pieno soddisfacimento”.

Né, a detta della Corte, il dato letterale dell’art. 114 Cost., che pone sullo stesso piano stato, regioni, comuni, province  e città metropolitane, comporta “una totale equiparazione” tra questi enti che “dispongono di poteri profondamente diversi tra loro”.

Da ciò l’apodittica conclusione: “pur dopo la riforma, lo stato può impugnare in via principale una legge regionale deducendo la violazione di qualsiasi parametro costituzionale”.

Ovviamente, la sentenza ha creato nuova divisione in dottrina, ponendosi da un lato chi ha ritenuto corretto l’operato della Corte[10], dall’altro chi non l’ha condivisa nelle motivazioni giudicandola “gracile, evasiva, ambigua ed internamente oscillante”[11].  

Da parte di questi ultimi la critica è stata a trecentosessantagradi in quanto la Corte è stata accusata: a) di non aver fatto alcun riferimento al motivo che nel passato maggiormente era evocato a  giustificare l’asimmetria ovvero la lacuna originaria del sistema dei ricorsi che avrebbe impedito di far giungere in altro modo avanti la Corte leggi regionali non incidenti sui rapporti privati; b) di avere radicato in carico ad un organo politico (il Governo) e non tecnico una funzione, quella di garanzia della legalità  costituzionale, il cui esercizio è altamente discrezionale; c) di avere erroneamente considerato l’unità e l’autonomia quali beni e valori diversi quando, invece, si tratterebbe delle due facce di una stessa medaglia.

La mia impressione è che la Corte bene abbia fatto a mantenere in capo allo stato il potere di intervenire (senza dover attendere una impugnativa in via incidentale) nei confronti di leggi regionali che si pongano in contrasto con disposizioni costituzionali, trattati internazionali o vincoli comunitari non foss’altro perché, diversamente, sarebbe proprio lo stato a dover rispondere per la violazione del diritto pattizio (per inadempimento) o di quello comunitario (con una eventuale procedura di infrazione) non essendo le regioni dotate di personalità internazionale. Anzi in questi casi si potrebbe sostenere che vi sia un obbligo più che una facoltà di intervento da parte del governo.

Quanto alla violazione di tutti gli altri parametri costituzionali, al di là dell’argomento “unitarista” usato dalla Corte (con il quale il giudice costituzionale si espone alla critica di reintroduzione sotto mentite spoglie dell’abrogato riferimento all’interesse nazionale), non mi sembra che si possa negare che gli ordinamenti regionali continuano, pur nel rinnovato spettro delle competenze ad essi attribuite, ad avere una natura sub-statuale e derivata e ciò giustifica un intervento in via repressiva da parte dell’ordinamento originario qualora le sue principali regole di convivenza (le norme costituzionali) non siano rispettate.   

Quanto all’attribuzione al governo della predetta funzione si consideri che analoga configurazione è stata accolta dal legislatore della revisione sia per l’impugnazione degli statuti (di cui non mi occupo in questa sede ma che presenta notevoli spunti di riflessione per la teoria generale dei vizi) sia per l’esercizio del potere sostitutivo.

Ben altro è, allora, il problema: come giustamente osservato dal prof. Ruggeri, il punto cruciale di quella sentenza sembra consistere nella consapevolezza della Corte che la riforma costringe ad abbandonare l’antica sponda dello squilibrio (costituzionalizzato) di posizioni processuali tra lo stato e le regioni senza che, però, nel contempo, la Corte voglia o possa approdare alla sponda opposta della piena “simmetria” tra i due enti.  

La sentenza interveniva, infatti, in relazione ad una impugnativa statale e nulla (neppure in sede di obiter dictum) lasciava trasparire in ordine alle potenzialità (nel nuovo assetto delle competenze) dell’impugnativa regionale in relazione alle leggi statali, in relazione alla quale deve ora essere misurato il permanere o meno dell’asimmetria.

Proprio questo aspetto sembra, anche alla luce della “ondivaga” giurisprudenza costituzionale dell’ultimo triennio in materia di vizi e parametri denunciabili dalle regioni, quello da approfondire maggiormente.

Anticipo che chi scrive è pienamente d’accordo con quanto sostenuto dalla prof.ssa D’Amico nella sua relazione introduttiva sulla necessità di interpretare la novella del Titolo V come contenente quale corollario, per il processo in via principale, non tanto l’esigenza di una “parificazione verso il basso” quanto l’aspirazione ad un “livellamento verso l’alto” con un allargamento delle maglie dell’ammissibilità delle questioni presentate dalle regioni.  

Ma v’è, prima di analizzare detta questione, un quesito da sciogliere legato all’impugnativa statale: come si può collegare la svolta “unitarista” con il nuovo art. art. 31, comma 3, l. 87/1953?

Il fatto che la legge La Loggia abbia legittimato il Governo ad impugnare le leggi regionali anche su proposta della Conferenza stato-città ed autonomie locali ci porta a ritenere che la funzione di “polizia costituzionale” si sia arricchita di una nuova valenza: lo stato non si deve limitare a tutelare il valore dell’unità giuridica ed economica ma è chiamato a garantire la sfera di autonomia garantita dalla carta costituzionale agli enti locali impedendo (con lo strumento del giudizio in via principale) le possibili vulnerazioni derivanti da un uso della potestà normativa primaria da parte delle regioni non conforme ai principi costituzionali.       

 

4. Le impugnative regionali : i vizi denunciabili nei confronti delle legge statali (è possibile una rilettura del concetto di lesione della competenza?) e nei confronti delle leggi delle altre regioni (la Regione è portatrice degli interessi degli enti locali e può ergersi a tutela delle loro competenze ?)

 

Il punto di partenza del ragionamento mi sembra possa essere questo: vi è un rapporto di proporzionalità diretta e necessaria tra portato della novella costituzionale del titolo V (sinteticamente riassumibile nell’ampliamento delle competenze e nell’abolizione dei controlli di natura preventiva sui loro atti) e margini di intervento spettanti alle regioni nel giudizio in via principale? Ed ancora, fino a che punto si può spingere il livellamento verso l’alto?

La mia tesi, che ora vado a spiegare, si articola in tre punti . 1) appare auspicabile, alla luce della riforma costituzionale, una rilettura da parte del giudice costituzionale del concetto di “lesione della sfera di competenza” che porti il Giudice delle leggi ad ammettere le impugnative regionali con maggiore ampiezza; 2) questo non si può, tradurre, tuttavia, nella piena omologazione con il ruolo di tutore della legalità costituzionale spettante allo stato stante la diversità di posizione ed interessi da difendere da parte dei due enti; 3) l’allargamento delle maglie appare possibile in una duplice direzione: a) da un lato intervenendo sulle limitazioni in ordine al parametro costituzionale evocabile, che non sembrano più consone al nuovo ruolo costituzionale delle regioni; b) dall’altro lato ammettendo la piena facoltà delle regioni di porsi come enti esponenziali degli enti locali surrogandosi ad essi nella difesa della proprie prerogative.

I presupposti logici e di interpretazione costituzionale che supportano la tesi sono i seguenti:

I)                                                      la novella costituzionale non ha mutato il carattere di erma bifronte dell’impugnativa regionale nei confronti delle leggi statali, che, sin dalla legge costituzionale 1 del 1948, si è caratterizzato per essere “allo stesso tempo strumento per la risoluzione dei conflitti di competenza e meccanismo di attivazione del generale controllo di costituzionalità delle leggi”[12], punto di incontro tra le opposte concezioni della giurisdizione costituzionale di Verfassungsgerichtsbarkeit ovvero di Staatsgerichtsbarkeit. 

Non si trovano,  nel nuovo Titolo V, spunti che ci spingano ad affermare che il ricorso regionale possa oggi essere completamente slegato dall’ambito delimitato dalle competenze costituzionalmente attribuite.

Il presupposto/interesse costituito dalla lesione della competenza continua a vincolare l’impugnativa regionale non solo dal punto di vista del lessico impiegato nell’art. 127 Cost. ma soprattutto perché non è mutata la posizione costituzionale delle regioni.

La revisione costituzionale del 1999-2001 non ha, infatti, modificato, quanto alla divisione verticale dei poteri, la forma di stato delineata dal costituente del 1948, dovendosi ritenere che il nostro ordinamento statuale non sia ancora da annoverarsi tra quelli federali ma resti ancora di tipo regionale.

Ostano, infatti, a questo tipo di riconoscimento: i) la formulazione dell’art. 5 Cost. (che fa riferimento all’unicità ed indivisibilità della repubblica); ii) la mancanza di una seconda camera federale nel senso di una assemblea nella quale gli stati membri della federazione siano ugualmente rappresentati e possano far valere i propri interessi (come il Senato Usa, il Bundesrat tedesco, il Consiglio degli Stati in Svizzera); iii) il fatto che le regioni non siano titolari di funzioni giurisdizionali; iv) il fatto che le regioni non partecipino al procedimento di revisione costituzionale (art. V cost. Usa; art. 79 GG; art. 193 cost. Svizzera del 2000)[13]; v) il fatto che le regioni non dispongano della potestà normativa in materia di ordinamento degli enti locali minori[14].

II)                                                  Il solo ribaltamento delle competenze legislative contenuto nell’art. 117 Cost. (pure gravido di conseguenze, come si vedrà) non è in grado, da solo, di orientare in modo diverso l’interprete, così come - ad un primo esame - non sembra in grado di modificare la forma di stato l’ultima e controversa riforma costituzionale approvata nel 2005 (e sub condicione referendaria) che, pur contendo riferimenti letterali al federalismo (tra tutti la nuova denominazione di senato federale) non recepisce, nella sostanza, i tratti distintivi degli stati federali.

Si tenga ulteriormente in considerazione che la clausola dei poteri residui non ha la latitudine della legge fondamentale tedesca (art. 30 GG: “L’esercizio delle competenze statali e l’adempimento dei compiti statali spettano ai Lander qualora la presente legge fondamentale non disponga o conceda diversa regolazione”) ma è limitata all’esercizio della potestà legislativa.

Pertanto, non si può leggere l’art. 127 Cost. come se fosse la traduzione dell’art. 93, II, della Legge Fondamentale tedesca, in forza del quale i Lander sono legittimati ad impugnare le leggi federali per qualunque forma di incompatibilità formale o sostanziale del diritto federale con la legge fondamentale.

Questa forma ampia di impugnativa appare, invero, possibile solo in un contesto federale.

III)                                               Nella forma di regionalismo (ormai senza differenziazioni) che emerge dalla revisione costituzionale, gli ordinamenti regionali continuano a trovarsi all’interno dell’ordinamento costituzionale in una posizione ancora subordinata rispetto allo stato unitario, dal quale derivano ed all’interno del quale, come soggetti ad autonomia garantita, esplicano le funzioni che sono loro assegnate (si v. sul punto anche supra § 3).

In una organizzazione politica così strutturata solo lo stato è sovrano e solo lo stato è chiamato ad impedire che i precetti fondanti l’ordinamento costituzionale siano violati.

IV)                                               Non si può, tuttavia, non notare che, nel sottosistema delle fonti, la riforma ha creato una zona nella quale, eccezionalmente, le regioni si trovano sullo stesso livello dello stato: qui la legge dello stato ha perso (almeno così afferma la miglior dottrina[15]) il carattere di fonte a competenza generale e, quindi, se, dopo il 2001, il legislatore statale interviene in un settore deve fondare il proprio intervento su uno dei titoli di legittimazione costituiti dagli elenchi di materie di cui all’art. 117 II e III comma (sul punto si v. anche Corte cost. sent. 282/2002).

Ribaltando l’ordine logico su cui il giudice costituzionale aveva fondato la propria giurisprudenza sin dalla sent. 32/1960 è ora lo stato ad avere “una sfera determinata di poteri”.      

Almeno sul versante della normazione la lettera e lo spirito della riforma impongono, dunque, la parità delle armi tra i due contendenti.

Ma questa parità non deve essere ricercata tanto sul piano della funzione finale perseguibile attraverso l’impugnativa (che è legata alla diversa posizione nell’ordinamento costituzionale) quanto, piuttosto, proprio sul piano dei motivi deducibili a tutela di quel principio/valore dell’autonomia che ancora oggi, insieme al principio unitario, permea ed informa  il nostro regionalismo.

Ecco l’auspicio ad una rilettura, da parte del giudice costituzionale, del concetto di “lesione della competenza”, che ancora costituisce il presupposto legittimante il ricorso regionale e ne vincola in senso concreto il contenuto.  

Due sembrano le strade percorribili:      

a) parametri evocabili

Se, alla luce dei presupposti sopra enucleati, non appare sorretto da alcuna giustificazione logico - sistematica sostenere che le regioni possano portare all’attenzione del giudice costituzionale atti normativi di valore primario che disciplinino le materie (di cui al 117, II comma, Cost.) nelle quali la Costituzione ha riservato allo stato il potere di intervento (si pensi ad es. all’ipotetica impugnazione della legge di riforma dell’ordinamento giudiziario), appare invece essenziale che esse abbiano il potere di investire il giudice costituzionale di tutti i dubbi di legittimità costituzionale che coinvolgano leggi statali le quali esplicano i propri effetti (diretti ed indiretti) sopra una delle materie nelle quali è loro garantita, dal testo costituzionale, la sfera di autonomia ed il riparto delle competenze..

Le regioni non sono legittimate né hanno interesse, nella prospettiva accolta, alla tutela della legalità costituzionale tout court, ma devono poter intervenire a difendere la conformità alla costituzione nella misura in cui la legislazione statale intervenga in materie nelle quali esse siano titolari di una competenza.

A titolo di esempio si pensi all’impugnativa regionale di una legge cornice in materia di  previdenza complementare motivata con la violazione, da parte dei principi fondamentali in essa contenuti,  dei parametri costituiti dagli articoli 3 e 38 Cost.; oppure ad una legge statale in materia di professioni che le regioni ritengano approvata in violazione degli obblighi comunitari; oppure ancora ad una legge in materia di tutela della salute ritenuta  in contrasto con l’art. 32 Cost.[16].

Per questa strada si può giungere a sostenere che, in siffatte ipotesi, le Regioni siano abilitate a denunciare non solo vizi di natura sostanziale ma anche i vizi formali relativi al procedimento di formazione della legge e questo, a maggior ragione, se il referendum costituzionale dovesse confermare la complessa architettura costituzionale della funzione legislativa ripartita tra camera dei deputati e senato federale.    

E, dal punto di vista processuale, le regioni non dovrebbero più neppure dimostrare l’esistenza di un particolare interesse a ricorrere ma limitarsi ad individuare, nel ricorso, il titolo in base al quale sorge la competenza.

L’interesse al giudizio dovrebbe, infatti, essere valutato astrattamente ed unicamente in relazione alla sussistenza di una competenza regionale sulla materia nel cui ambito ricade la legge impugnata.

Si immagina che la Corte, in caso di impugnativa regionale si limiti ad effettuare un preliminare scrutinio sulla spettanza regionale della competenza e, in caso di esito positivo, giudichi ammissibili le censure mosse in relazione alla violazione di tutti i possibili parametri costituzionali.

In questa prospettiva si inverte anche l’onere della prova: non è più la regione a dover dimostrare la sussistenza di un proprio qualificato interesse ma è lo stato (per bocca del governo) a dover provare l’esistenza di una riserva in favore della legge statale ovvero il fatto che le censure non sarebbero ammissibili perché non vi è, in materia, competenza regionale. 

In fondo, mi sembra che la Corte qualche passo su questa strada l’abbia già compiuto: se pure in quasi tutte le pronunce si continua a richiedere, per l’ammissibilità di questioni che esulano dai parametri del Titolo V, che i profili evidenziati ridondino in lesioni della sfera di competenza (tra le altre sent. 6/2004, 286/2004, 50/2005, 279/2005), la giurisprudenza dell’ultimo periodo sembra concedere qualche chance in più quando il parametro è costituito dagli articoli 76 e 77 cost. (soprattutto sent. 196/2004, 272/2005 e 384/2005; su questi aspetti si v. l’esauriente relazione della prof.ssa D’Amico § 2.2.)

In altre decisioni si nota, con estrema evidenza, come la Corte stessa si trovi in difficoltà a giustificare, nel mutato quadro di riferimento costituzionale, la propria precedente giurisprudenza; interessanti mi sembrano, in proposito, alcuni spunti contenuti nella prima sentenza in materia di condono edilizio, la n. 196 del 2004.

In quella decisione, il giudice costituzionale, a fronte delle censure delle regioni che lamentavano presunte violazioni dell’art. 3 Cost. da parte del legislatore statale, da un lato ha dichiarato inammissibile la questione in relazione al principio di eguaglianza inteso come principio di non discriminazione mentre, nel contempo, ha giudicato nel merito (salvo poi ritenerla comunque infondata) la questione in relazione al principio di ragionevolezza. Ugualmente è stata esaminata nel merito (e respinta) la questione sollevata in relazione all’art. 79 Cost.. 

b) la regione come ente esponenziale degli interessi degli enti locali    

L’altra possibile via è legata al ruolo che le regioni possono svolgere nella loro qualità di enti esponenziali sia degli enti locali sia della collettività territoriale difendendone le prerogative costituzionalmente garantite. 

Che le regioni fossero enti esponenziali della collettività territoriale in relazione alla tutela del bene ambientale e paesaggistico, era stato già riconosciuto dal Consiglio di Stato (sez. VI, sent. 27 febbraio 1991 n. 119) quando il supremo consesso amministrativo aveva riconosciuto agli enti regionali la legittimazione ad impugnare atti e provvedimenti lesivi dell’integrità ambientale.

Analogo riconoscimento era giunto, nel medesimo periodo, con la sent. 276/1991 del giudice delle leggi, che aveva ammesso l’impugnativa regionale a tutela della irragionevole discriminazione (asseritamente illegittima per contrasto con l’art. 3 Cost.) patita dal territorio regionale ad opera di una legge statale.

Quanto alla possibilità che le regioni ad autonomia ordinaria[17] possano far valere la posizione di enti esponenziali anche rispetto agli enti locali minori, un’apertura della Corte costituzionale in questa direzione è stato compiuto con la sentenza n. 533/2002[18], con la quale è stato deciso il primo ricorso promosso da una regione nei  confronti di un’altra regione.

 In quel caso, a fronte dell’eccezione della regione resistente (la Provincia autonoma di Bolzano) che la ricorrente (il Veneto) non avrebbe posseduto interesse al ricorso dal momento che non aveva  lamentato lesioni delle proprie competenze legislative, la Corte ha tenuto a precisare (la legge provinciale era, infatti, stata impugnata anche dal Governo) che la legittimazione e l’interesse al ricorso nascevano dal fatto che la ricorrente aveva dedotto quale vizio la lesione dell’autonomia finanziaria dei comuni presenti sul territorio regionale e, quindi, mediatamente, anche della propria autonomia finanziaria.

Ora, il riferimento contenuto nell’art. 9 della legge La Loggia potrebbe portare un altro elemento a favore della tesi: se la disposizione che attribuisce al Consiglio delle autonomie locali (organo facente parte dell’ordinamento della regione ricordiamo) il potere di proposta in ordine al ricorso costituzionale non è da sola in grado, essendo una norma meramente processuale, di attribuire forme di ulteriore legittimazione alle regioni, essa può tuttavia indicare che, per il legislatore ordinario, questa legittimazione già esiste nei fatti.

Ed è legata, preliminarmente ed inscindibilmente, alla impossibilità per gli enti locali (sia pure equiparati alle regioni quanto a posizione costitutiva dell’ordinamento nell’art. 114 cost.) di far valere direttamente avanti il giudice costituzionale la lesione della propria sfera di autonomia. 

Portando alle estreme conseguenze questa impostazione, si potrebbe, dunque, sostenere che le regioni si surroghino (d’ufficio o su richiesta del Consiglio delle autonomie locali) agli enti territoriali presenti sul proprio territorio impugnando le leggi dello stato che, violando i precetti costituzionali, pregiudichino gli interessi degli enti locali e delle rispettive comunità[19].

 

 

5. De iure condendo : il progetto di riforma costituzionale della c.d. “devolution”

 

L’ultimo punto di cui vorrei occuparmi concerne il possibile impatto sull’argomento trattato del più recente progetto di riforma costituzionale, quello della c..d. devolution, che è stato definitivamente approvato dalle Camere il 20 ottobre 2005 ed è in attesa di essere sottoposto a referendum popolare confermativo.

Se, come già affermato supra, il progetto di riforma non trasforma la nostra forma di stato in federale e se, inoltre, complessivamente la posizione delle regioni non esce, dal testo, visibilmente e concretamente rafforzata, proprio per quanto riguarda il giudizio in via principale si avrebbero significativi sviluppi.

Due sono le novità principali in materia: a) la riproposizione del giudizio di merito avanti le Camere (in seduta comune) per violazione, da parte regionale, dell’interesse nazionale; b) il ricorso diretto al giudice costituzionale per comuni, province e città metropolitane[20].

Premesso che non si capisce il motivo per cui far rivivere un istituto che, pur previsto dal testo del 1948, non era mai stato attivato ed era, anzi divenuto desueto (se non implicitamente abrogato), mi sembra di poter osservare, quanto alla innovazione sub a) che l’entrata in vigore di questa disposizione da un lato non modificherebbe in nulla il giudizio in via principale (salva la possibile ri-giurisdizionalizzazione del vizio) ma, d’altro canto, confermerebbe (qualora ve ne fosse bisogno) la superiore posizione dello stato centrale nei confronti delle regioni.

Non verrebbero meno, tuttavia, le istanze che stanno alla base dell’allargamento dell’impugnativa regionale, tenendo nella giusta considerazione l’inserimento, nel testo costituzionale, del lemma “federale” e l’esplicita attribuzione, nella sfera di potestà esclusiva, di nuove materie quali l’organizzazione scolastica, la gestione degli istituti scolastici e la polizia amministrativa regionale.

Invece, il riconoscimento agli enti locali minori del diritto di accesso al giudizio in via principale farebbe venir meno, com’è ovvio, la legittimazione delle regioni a surrogarsi ad essi.        

 



[1] Per una ricostruzione della giurisprudenza costituzionale sul tema e per un completo panorama comparatistico si veda, di recente, la monografia di C. Padula, L’asimmetria nel giudizio in via principale, Padova, 2005.

[2] Si veda, però, la sentenza 302/1988 che ha dichiarato inammissibile, per mancanza di interesse, la questione di legittimità di un decreto legge proposta dalla regione denunciando la mancanza dei requisiti di necessità ed urgenza  e la violazione del divieto di reiterazione dei decreti non convertiti.

[3] Il precedente è stato invocato di recente per sostenere il diritto della regione Valle d’Aosta di impugnare la nuova legge elettorale proporzionale per la Camera dei Deputati, che non considera i voti espressi nella circoscrizione della Valle d’Aosta al fine dell’attribuzione del premio di maggioranza; si v. A. Pertici - E. Rossi, La possibilità di impugnare la nuova legge elettorale alla Corte Costituzionale e gli effetti della sua eventuale sospensione, in www.forumcostituzionale.it 23.1.2006.  

[4] Si veda il commento alla sentenza di R. Tosi, Pretese delle Regioni e parametri costituzionali nel giudizio principale, in Le Regioni, 1993, 947. Sottolinea, d’altronde, C. Padula, L’asimmetria, cit., p. 307, che la Corte avrebbe modificato l’impostazione data dalla ricorrente (Emilia Romagna), collegando l’accoglimento all’incidenza sulla materia dell’edilizia residenziale pubblica piuttosto che al supposto “ripristino di un legittimo quadro di riferimento per l’azione regionale”.

[5] A. D’Atena, La Consulta parla … e la riforma del Titolo V entra in vigore, in Giur. cost., 2002, 2028; T. Martines – A. Ruggeri – C. Salazar, Lineamenti di diritto regionale, VI ed., Milano, 2002, 299-301; E. Crivelli, La tutela dei diritti fondamentali e l’accesso alla giustizia costituzionale, Padova, 2003, 92; G. Rolla, Diritto regionale e degli enti locali, Milano, 2002, 236;  F. Drago, I ricorsi in via principale nel quadro del novellato Titolo V, in www.federalismi.it, 11 aprile 2003; E. Gianfrancesco, Il controllo sulle leggi regionali nel nuovo art. 127, in La repubblica delle autonomie - Regioni ed enti locali nel nuovo Titolo V, a cura di  T. Groppi e M. Olivetti, Torino, 2003, 150; F. Dello Sbarba, Le impugnazioni delle leggi statali e regionali, in G. Volpe (a cura di ) Alla ricerca dell’Italia federale, Pisa, 2003, 214.  

[6] P. Caretti, L’assetto dei rapporti tra competenza legislativa statale e regionale, alla luce del nuovo titolo V della parte seconda della Costituzione: aspetti problematici, in Le Regioni, 2002, 1230; R. Romboli, Le modifiche al Titolo V della parte seconda della Costituzione. Premessa, in Foro Italiano, 2001, V, 185; F. Teresi, Le istituzioni repubblicane, Torino, 2002, 467; G. Gemma, Impugnativa di leggi regionali e nuovo art. 127 della Costituzione, in E. Bettinelli - F. Rigano (a cura di), La riforma del Titolo V della Costituzione e la giurisprudenza costituzionale, Torino, 2004, 39;  S. Bartole - R. Bin – G. Falcon – R. Tosi, Diritto regionale, II ed. 2005, 244

[7] Ad es. A. Saccomanno, Il controllo di legittimità alla luce del nuovo art. 127 Cost. , in S. Gambino (a cura di), Diritto regionale e degli enti locali, Milano 2003, 233 ss., il quale sottolineava, tuttavia, che il nuovo art. 117, I comma, Cost. nella parte in cui subordina stato e regioni al rispetto dei medesimi parametri (costituzionale, internazione e comunitario) non può, da solo, fondare una equiparazione nel giudizio in via principale dal momento che i due enti non possiedono “uno stesso interesse alla difesa complessiva dell’ordinamento costituzionale, considerato che l’ordinamento regionale resta pur sempre un ordinamento parziale”.    

[8] Così E. Lamarque, Art. 9, in L’attuazione del nuovo Titolo V, parte seconda della Costituzione, a cura di Cavaleri e Lamarque, Torino, 2004, 242. Tra gli altri commenti alla norma si v. P. Caretti, Il contenzioso costituzionale, in Stato, Regioni ed enti locali nella legge 5 giugno 2003, n. 131, Bologna, 2003, 183 ss. e C. Pinelli, Art. 9, in Commento alla legge 5 giugno 2003, n. 131 di attuazione del Titolo V della Costituzione, Rimini, 2003, 182 ss..

[9] Ma sostiene Lamarque, op. cit., p. 244, che il Consiglio dei Ministri e la Giunta regionale sarebbero obbligati, quantomeno, a deliberare sulla proposta e, in caso di rifiuto, a motivare il diniego.

[10] G. Gemma, Vizi di leggi regionali ed impugnativa statale: la Corte ha sentenziato, e correttamente, in Giur. cost., 2003, 2260 ss.

[11] Così A. Ruggeri, La questione dei vizi delle leggi regionali e l’oscillante soluzione ad essa data da una sentenza che dice e … non dice (nota a Corte cost. n. 274 del 2003), in www.forumcostituzionale.it; con argomenti simili F. Drago, Il soddisfacimento delle istanze unitarie giustifica la vecchia giurisprudenza in merito ai vizi delle leggi regionali, (Brevi osservazioni sulla sent. n. 274/2003), in www.federalismi.it, numero 8/2003.

[12] Così G. Volpe, Art. 137, in G. Branca (a cura di), Commentario della Costituzione, Bologna. 1981, 333, per il quale, tuttavia, il collegamento del ricorso regionale al presupposto concreto della lesione della sfera di competenza non è sufficiente “a trasformare il ricorso di incostituzionalità in un conflitto di attribuzioni ma soltanto ad attenuarne il carattere di astrattezza”.

[13] Per l’individuazione di quali siano i  tratti distintivi dei sistemi federali si rinvia a G. Bognetti, Federalismo, Torino, 2001.

[14] Quest’ultimo aspetto è sottolineato da Bartole - Bin - Falcon - Tosi, Diritto regionale, cit., 47, i quali ugualmente concludono nel senso della non avvenuta trasformazione in uno stato federale.

[15] Si v. tra gli altri, M. Olivetti, Le funzioni legislative regionali, in Groppi - Olivetti (a cura di), La repubblica delle autonomie, Torino 2003, 93.

[16] In questo senso già R. Tosi, op. ult. cit., in relazione alla “vecchia” potestà concorrente e  C. Padula, L’asimmetria, cit., 308, ad avviso del quale la compressione dell’attività legislativa ed amministrativa regionale in un quadro di norme incostituzionali “non comporta solo una menomazione del generale interesse della Regione a non essere impedita nell’adempimento dell’obbligo di rispettare la Costituzione [..] ma sembra implicare una vera e propria lesione  della sfera regionale di competenza”.

[17] Le regioni ad autonomia speciale, infatti, sono titolari di potestà esclusiva in materia di ordinamento di enti locali e quindi non necessitano di un ulteriore titolo di legittimazione per ricorrere: si v. art. 3, comma I, lett. b) Statuto Sardegna; art. 14, lett. o), Statuto Sicilia; art. 2, lett. b), Statuto Valle d’Aosta (come modificato nel 1993); srt. 4, n.ro 1 bis. Statuto Friuli Venezia Giulia (come modificato nel 1993); art. 4, n. 3 Statuto Trentino Alto Adige (come modificato nel 1993).

[18] Sulla quale, si veda il commento di C. Padula, La problematica legittimazione delle Regioni ad agire a tutela della propria posizione di enti “esponenziali”, in www.forumcostituzionale.it , che tuttavia si dichiara scettico sulla possibilità di utilizzare il criterio dell’esponenzialità per interpretare in modo estensivo il concetto di “sfera di competenza di cui all’art. 127, II co., Cost., ritenendo che detta sfera di competenza “non può che essere intesa in senso tecnico come somma delle pubbliche potestà specificamente attribuite alle regioni dalla Costituzione e non comprende quei poteri che sostanzialmente costituiscono svolgimento dell’ordinaria capacità di agire”.

[19] Si dichiara contrario a questa ipotesi, C. Padula, L’asimmetria, cit., 300, ad avviso del quale il potere di proposta del Consiglio delle autonomie potrà trovare applicazione solo nel caso in cui alla lesione degli interessi locali si accompagni una possibile lesione delle competenze regionali.

[20] Scarso rilievo pratico sembrerebbe avere, invece, la partecipazione dei rappresentanti regionali (1 espresso dal Consiglio regionale ed 1 espresso dal Consiglio delle autonomie) all’attività del Senato federale, che dovrebbe consentire una sorta di diritto di tribuna, ma senza diritto di voto, agli enti territoriali.