DANIELE FERRARI
LA PRATICA DI
PORTARE IL BURQA DAVANTI AL
PARLAMENTO FRANCESE: ATTO PRIMO (UNA CRONACA)
1.
Il principio di laicità in Francia: dalla Dichiarazione del 1789 alla legge sul
velo islamico. - Nell’esperienza francese, il principio di laicità ha
vissuto varie fasi di sviluppo, espressioni di alcuni dei passaggi fondamentali
della storia d’Oltralpe. A tal proposito, sono state individuate tre principali
momenti di caratterizzazione di tale nozione[1].
Il suo primo fondamento ideologico compare nell’ordinamento francese, con la
Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789, che, all’articolo
3, afferma in modo totale la sovranità della Nazione, di cui sarebbe diretta
emanazione quella dello Stato. Già in questa enunciazione, troviamo il segno di
quel conflitto fra Stato e Chiesa che avrebbe attraversato la società francese
per tutto l’ottocento. A fronte, infatti, di una religione tradizionale, per i
più compromessa irrimediabilmente con l’ancien
regime, si faceva spazio un credo civile, nato dall’incontro fra gli ideali
rivoluzionari di libertà e uguaglianza, che, in questa fase, andavano
disegnando una nuova idea di laicità, intesa anche come ostilità aperta verso
la religione in genere, e il Cattolicesimo, in particolare.
L’affermazione
della laicità in senso giuridico sarebbe avvenuta poco più tardi, tentando una
mediazione fra posizioni opposte. Conferma di questo tentativo furono alcune
leggi, come quelle “Ferry”, tra cui particolare rilievo ebbe la legge che, nel
1882, soppresse l’insegnamento religioso dalle pubbliche scuole, sostituendovi
l’istruzione morale e civica. Quindi, assistiamo ad una prima affermazione del
rilievo che assume la libertà di coscienza degli alunni, attraverso
l’affermazione di una scuola laica[2].
Con la legge del 1905, si introdusse il principio della separazione tra Stato e
confessioni religiose, che, ancora oggi, costituisce il fondamento del regime
giuridico della laicità francese. Tale legge tradusse quello spirito
interventista e attivista dello Stato, che si ritrovava già nella Dichiarazione
del 1789, in un’ottica di limitazione e delimitazione del fenomeno
confessionale a tutela dell’identità dello Stato laico (siffatta tendenza
riemergerà, molto tempo dopo, nella legge che vieta l’esposizione dei simboli
religiosi nei luoghi pubblici).
Con la
Costituzione del 1946, l’espressione Stato
laico faceva, per la prima volta, il suo ingresso formale nell’ordinamento
francese, proclamandosi, all’articolo 1, che la Repubblica francese era una
Repubblica laica[3].
Anche il Preambolo instaurava un significativo nesso con tale principio, là
dove si affermava la gratuità e la laicità della scuola pubblica. Questi
riferimenti espressi confermavano, peraltro, un processo di profondo
cambiamento della nozione di laicità, non più arma dello Stato per comprimere
il fenomeno religioso, ma impegno da parte del medesimo a garantire la libertà
di coscienza di tutti i consociati, pur rimanendosi
in un’ottica di separazione fra sfera pubblica e sfera confessionale.
La
Costituzione del 4 ottobre 1958, richiama, anch’essa, direttamente tale
categoria all’articolo 2, nel quale si esprime un’ulteriore configurazione di
tale principio, che non appare più soltanto un postulato ideologico, teso a
segnare le distanze fra Stato e Chiesa, ma si riempie di un più “mite”
contenuto di neutralità, di rispetto e di non discriminazione nei confronti dei
rivolgimenti interiori di tutti i consociati. Tuttavia, il grande limite di
tale separazione garantista fra Stato e Chiesa sarebbe quello di costituire un
freno alla libertà religiosa, almeno nella misura in cui pretenderebbe di dare
riconoscimento alle istanze dei cittadini e di gruppi sociali, in materia
confessionale, in termini di stretta uniformità ed omogeneità, rispetto alle
altre manifestazioni della libertà di pensiero, circoscrivendo la rilevanza di
tale fattore in nome di parametri estranei alla stessa esperienza spirituale e
rispondenti, piuttosto, a criteri sociologici.
Comunque
sia, col trascorrere degli anni, lo Stato-comunità
francese è pervenuto ad esprimere nuove identità, frutto di quei fenomeni
globali che vedono l’arrivo di popoli portatori di nuovi contenuti culturali,
ponendo ulteriori interrogativi e la conseguente ricerca di moduli di
convivenza differenziati. Proprio alla luce di tali vicende, per cui, tra
l’altro, l’Islam è divenuta la seconda religione francese per numero di fedeli,
si può interpretare la legge n. 228/2004, maggiormente nota, come “legge sul
velo islamico”, ma che, in realtà, vieta indiscriminatamente l’esposizione o la
manifestazione di simboli religiosi o di tenute manifestanti un’appartenenza
religiosa nelle scuole, collegi e licei pubblici. Uno dei processi che ha
determinato l’esigenza di approdare ad un testo legislativo “forte”, si
manifesta, infatti, quando l’Islam inizia ad esprimere, in una società
frammentata e problematica come quella francese, un valore aggiunto di difficile
elaborazione. In particolare, ormai immemore dei conflitti fra Stato e
religione, la Francia si trova davanti ad un paradigma antropologico e
culturale indenne dai contraccolpi della modernità, ancora portatore di quei
caratteri, ai quali le religioni occidentali, sottoposte alle sfide dei tempi,
avevano dovuto in tutto o in parte rinunciare[4].
Lontano, infatti, dagli orizzonti democratici e di libertà individuale
dell’esperienza occidentale, l’Islam sembra avere tutte le carte in regola per
essere il nuovo destabilizzatore dell’equilibrio maturato fra Stato francese e
Cristianesimo. Le due conseguenze più importanti dell’inculturazione dell’Islam
in Europa sono, del resto, rappresentate dalla centralità dell’individuo fedele[5],
e dalla progressiva trasformazione in “discorso razionalmente comprensibile”
del contenuto etico e politico del suo messaggio.
Espressione,
però, della difficoltà, per una certa classe politica e intellettuale, di
comprendere ragionevolmente il messaggio islamico è tutto il dibattito
scatenato dal foulard islamico. Si
pensi alle numerose decisioni con le quali le autorità scolastiche hanno
allontanato dalle scuole pubbliche studentesse musulmane, perché indossavano il
velo. Tutto questo, forse, accade dal momento che lo Stato francese, avendo un
ordinamento ispirato al costituzionalismo liberaldemocratico, ha costruito un
modello repubblicano basato sul mito dell’integrazione dell’individuo cittadino
nella nazione, e, di conseguenza, si sente minacciato da un’idea alternativa di
comunità, come è quella espressa dall’Islam[6].
Davanti
a questa sensazione di minaccia, occorre chiedersi se, tenendo conto che ci
troviamo nella culla dei diritti inviolabili dell’uomo di rivoluzionaria
memoria, una risposta repressiva rischierebbe di apparire irragionevole e
lesiva dei valori fondanti dell’ordinamento francese[7].
Infatti, com’è convinzione abbastanza diffusa, la percezione della violazione
dei diritti supererebbe di gran lunga la soddisfazione per le violazioni
effettivamente accertate e punite, mentre, corrispondentemente, eventuali
sanzioni infrangerebbero in maniera fatale il principio di uguaglianza,
sancendo il privilegio dei soli “autoctoni” con riguardo al potere di incidere
sulla cultura e sugli spazi pubblici, attraverso la manifestazione del loro
convincimento religioso.
La
repressione, per altro verso, potrebbe attuarsi attraverso la determinazione di
reati associativi. Tuttavia tali fattispecie delittuose non si adattano
facilmente all’obiettivo di sciogliere i gruppi, ritenuti genericamente
pericolosi: mentre i così detti reati di opinione risulterebbero troppo
infaustamente evocativi perché si possa pensare di farvi sistematico ricorso
per impedire la libera circolazione di idee e proclami. La linea meramente
repressiva, dunque, perdendosi lungo tanti sentieri quanti sono i casi
affrontati, non riuscirebbe a costruire uno schermo capace di contenere le
proiezioni del pericolo comunitarista[8].
Si
potrebbe individuare, per così dire, una via più morbida, nella quale si
sottolinea il processo di secolarizzazione, individuandosi, nell’affrancamento
dei giovani dalla loro comunità confessionale un necessario passaggio evolutivo[9].
La scuola, in questo senso, è venuta ad assumere un significato peculiare come
simbolo della Repubblica, capace di emancipare ogni singolo individuo. Qui si
pone un aspetto specifico della scuola pubblica francese, dal momento che gli
studenti vengono definiti liberi di autodeterminarsi in uno spazio che deve
essere neutrale, come neutrali devono essere i suoi operatori[10].
Quindi, nel sistema francese, la laicità della scuola pubblica consiste
essenzialmente nella neutralità dell’insegnamento, che risulta garantita da una
serie di disposizioni[11]
che formulano il divieto dell’insegnamento religioso al suo interno[12].
In
questo senso, appare importante il Code
de l’education, che, all'art. L 2, riconosce la
libertà di informazione e di espressione agli studenti dei collegi e dei licei,
subordinandola, però, al rispetto del pluralismo, del principio di neutralità e
delle attività di insegnamento. Proprio questa disposizione ha manifestato una
valenza profondamente ambigua nei confronti di un fenomeno che, come quello del
velo islamico, si è molto diffuso nelle scuole pubbliche[13].
Qui lo Stato, infatti, anziché essere coerente con le indicazioni espresse nel Code de l’education,
ha ristretto le maglie della laicità, stigmatizzando la manifestazione di
simboli identitari, e, conseguentemente,
compromettendo la possibilità di sviluppo di un desiderio informato di
preferenza critiche[14].
2.
Il legislatore francese di fronte ad un fenomeno nuovo: il burqa. - La scelta di disciplinare il
manifestarsi delle diverse libertà religiose e la loro convivenza ha
un’ulteriore conferma nell’ordinamento francese, dopo la legge n. 228/2004,
nella proposta di legge n.1121, presentata all’Assemblea Nazionale il 23
settembre 2008, dal deputato del gruppo dell'Unione per un movimento popolare,
Jacques Myard, rubricata “Invito a lottare contro gli attacchi alla dignità della donna,
determinati da certe pratiche religiose”[15].
Già nella presentazione del disegno di legge, viene delineata una definizione
del principio di laicità, come garanzia per vivere in pace nel rispetto delle
religioni, con un ampio riferimento alla legge n. 228/2004, identificata come
un presidio di garanzia per il mantenimento e il rispetto dei valori
repubblicani, in un’ottica di serena convivenza tra tutti i consociati,
liberati dall’oppressione dei simboli religiosi, e in particolare, per le
donne, dal chador, dal quale bisogna
distinguere pratiche più estreme, come quella del burqa, che diventa una sorta di barriera che avvolge il corpo della
donna, rendendolo invisibile agli occhi degli altri soggetti, e negandone di
fatto l’identità[16]
A livello di tecnica normativa, il testo presenta una struttura di chiaro
stampo penalistico[17],
e , segnatamente, ricorda il reato di mascheramento, così com’è recato,
nell’ordinamento italiano, dall’art. 85 del T.U.L.P.S.,
dal momento che, anche in quest’ultimo caso, il divieto di mascherarsi trae la
propria ragion d’essere dall’esigenza di un sicuro ed immediato riconoscimento
del soggetto al fine di tutelare l’ordine pubblico.
Per
vero, la proposta appare, almeno per quanto attiene ai suoi profili
sanzionatori, di dubbia legittimità costituzionale, dal momento che, se l’art.
2 della Costituzione dichiara come la Francia sia una Repubblica laica, nel
medesimo articolo è contenuta anche la garanzia dell’uguaglianza di tutti i
cittadini davanti alla legge, senza distinzioni di origine, razza o religione,
nel rispetto di tutte le credenze. Ma, leggere una manifestazione religiosa,
com’è la pratica di indossare il burqa,
unicamente con riferimento ad un’astratta esigenza di tutela dell’ordine
pubblico, senza distinguere e qualificare la natura del simbolo religioso,
nonché la sua portata oggettiva e soggettiva, rischia di costituire anche una
grave discriminazione nei confronti di quegli stessi soggetti che si vorrebbe
tutelare, i quali vengono spogliati dallo Stato della loro identità in modo autoritativo, sulla base di una non meglio definita
valutazione di pericolosità sociale. A ben vedere, se l’obiettivo del divieto è
quello di tutelare la dignità della donna, non parrebbe efficace la soluzione
prospettata, dal momento che, pur non essendoci dubbi sul fatto che una donna
debba lasciarsi identificare per ragioni di sicurezza, imporle di togliersi il
velo integrale nei luoghi pubblici, di fatto verrà percepito come una condanna
senza processo dalle donne stesse, con esiti controproducenti, in quanto
impedirà a molte di queste di uscire dall’ambiente domestico[18].
Nonostante
tutti questi profili problematici, la proposta di legge in questione non è
rimasta isolata, trovando conferma in una seconda proposta tesa ad interdire
gli abbigliamenti e gli accessori, che permettono di mascherare l’identità di
una persona[19].
Il proponente, il deputato Christian Vanneste, del
gruppo dell'Unione per un Movimento Popolare, individua le ragioni del divieto
di indossare abbigliamenti che impediscano l’identificazione di un soggetto,
nell’esigenza di tutelare e garantire la sicurezza pubblica, qualificata come
la prima delle libertà pubbliche. A tal proposito, viene richiamato anche il
disposto dell’articolo 9 della C.E.D.U., che prevede
la possibilità di limitare le libertà di manifestazione religiosa, quando si
rendano necessarie misure preordinate, in una società democratica, alla tutela
dell’ordine, della sanità, della morale pubblica, o alla protezione dei diritti
e delle libertà altrui[20].
Il 9
giugno 2009 è stata, poi, presentata all’Assemblea Nazionale una proposta di
risoluzione “bipartisan”, tendente a creare una commissione d’inchiesta sulla
pratica di portare il burqa o il niqab[21]
sul territorio nazionale. Il testo della risoluzione ripercorre la storia del
principio di laicità nell’ordinamento francese, dalla Dichiarazione del 1789
fino alla Costituzione del 1958, individuando in tale principio la piattaforma
di valori condivisi, che accomunano tutti i membri dello Stato-comunità,
a prescindere dalle loro coloriture confessionali, nella dimensione della
cittadinanza[22].
Il 23 giugno 2009, attraverso la Conferenza dei Presidenti, si è proceduto,
quindi, alla nomina di una Missione d’informazione, avente come obiettivo
quello di individuare lo stato dei luoghi in Francia, in cui v’è la pratica di
portare il velo integrale, con particolare attenzione alla comprensione delle
origini di questo fenomeno, della sua ampiezza e della sua evoluzione. Inoltre,
la missione avrebbe
dovuto rivolgere la sua attenzione anche alle conseguenze concrete di questa
pratica nella vita sociale, così come alla sua compatibilità con i principi
della Repubblica francese e, in particolare, con la garanzia della libertà e
della dignità delle donne. Con tali propositi, la Commissione avrebbe dato
inizio ad un ciclo di audizioni, concluse il 15 dicembre 2009, con la
presentazione di proposte conclusive all’Assemblea[23]:
3. L’obiettivo di una legge anti-burqa: tra sofferenze di legittimità e problemi precettivi. - I lavori della Commissione sono spesso tornati, al di là della necessità di inquadrare la pratica oggetto di inchiesta in un’ottica giuridico-sociologica, sulla possibilità di formulare una legge di divieto di indossare il burqa nei luoghi pubblici.
Orbene, non pochi
interrogativi hanno posto le possibili tecniche redazionali di una legge
siffatta, sia con riferimento alla scelta degli strumenti sanzionatori
eventualmente apprestati dall’ordinamento, sia in comparazione con leggi simili
già esistenti in Francia[24].
Il primo problema da risolvere ha riguardato, dunque, la stessa possibilità per
il legislatore di dettare una disciplina con riferimento ai luoghi pubblici,
giacché v’è una differenza radicale con le regole che possono essere decretate
per disciplinare lo svolgimento dei pubblici servizi come, appunto, la scuola.
È evidente, infatti, come il funzionamento dei servizi pubblici possa
comportare delle costrizioni, che legittimano l’adozione di regole specifiche,
mentre non ritroviamo tali costrizioni nello spazio pubblico, dove le libertà
fondamentali sono il principio e la restrizione è l’eccezione.
In quest’ottica, il divieto del burqa
è parso, infatti, determinare gravi interferenze con l’esercizio di almeno tre
diritti fondamentali:
- la libertà di religione, dal
momento che essa include in sé il diritto di manifestare la propria religione
e, quindi, di esprimere anche attraverso l’abbigliamento la propria identità
confessionale;
- la libertà di opinione e, pertanto,
ancora una volta, la libertà di esprimere i propri convincimenti, anche
riguardo al comportamento che i consociati vogliono adottare in pubblico;
- la libertà di circolazione, dal
momento che una legge che impedisca alle donne di camminare con il burqa per la strada potrebbe essere
considerata una limitazione alla loro mobilità.
Da questo punto di vista, poiché le
leggi francesi vivono sotto lo stretto controllo dei giudici, questi ultimi, in
applicazione dell’art. 55 della Costituzione della Quinta Repubblica,
potrebbero disapplicare una legge anti-burqa,
ritenendola contrastante con la superiore norma internazionale: quale, ad
esempio, la Convenzione europea dei diritti dell’uomo[25]
(ove questo non dovesse avvenire, la Corte europea dei diritti dell’uomo
potrebbe anche essere chiamata a pronunciarsi direttamente), mentre non può
escludersi che, in base alla riforma sul sindacato di costituzionalità, il
Consiglio costituzionale, possa essere chiamato - anche prima - a pronunciarsi
sui contenuti di una legge anti-burqa
dalla via a posteriori [26].
Per
essere, invece, considerata valido dai giudici, a sommesso parere di chi
scrive, il divieto del burqa dovrebbe probabilmente venire incontro a
due esigenze. Esso dovrebbe essere giustificato da un obbligo giuridico di pari
valore delle norme da cui discendono i diritti che ne sarebbero limitati, vale
a dire derivare da una prescrizione costituzionale o europea. Inoltre, la
limitazione, nell’economia del giudizio di ragionevolezza in senso stretto, non
dovrebbe apparire sproporzionata, chiedendosi, in ultima analisi, se, stante il
fatto che la democraticità di un ordinamento è espressa dalla capacità di
difesa delle minoranze, sia veramente necessaria una restrizione di tale
libertà, o se essa non appaia invece sbilanciata rispetto all’esercizio delle
altre libertà.
Gli
strumenti giuridici, individuati durante i lavori della Missione, utili per
esaminare la validità di un eventuale divieto del burqa sono
principalmente tre:
1) il
principio di laicità,
2) la
protezione dell'ordine pubblico e della sicurezza pubblica e
3) la
dignità della persona umana e di genere, specificamente delle donne
3.1. La laicità. - Preliminarmente, l’esigenza di
laicità, potrebbe giustificare il divieto in questione? Questa strada
costituisce, senza dubbio, una tentazione per l’ordinamento, tanto più alla
luce delle risposte date in argomento dalla Corte europea dei diritti
dell'uomo, soprattutto nel famoso caso Leyla
Şahin v. Turkey[27].
I giudici di Strasburgo, chiamati a pronunciarsi sulla legittimità del divieto
del velo imposto dalla legislazione turca, lo hanno ritenuto accettabile nelle
Università, in nome della tutela e dell’affermazione della laicità dello Stato.
Tuttavia, tale pronuncia non sembrerebbe tanto utilizzabile in Francia, in
quanto, nella sua decisione, la Corte ha insistito molto sulla situazione
abbastanza peculiare della Turchia, descrivendola come un paese assediato ed
indebolito dalla minaccia
islamica, la cui esistenza si affida alle politiche di identità, basate sulla
forza della premessa di laicità. E se, nella causa del 2009, Aktas contro Francia, la stessa Corte europea
non ha condannato la Francia per il divieto del velo islamico, ma, al
contrario, ha ritenuto legittima l’esclusione dalla scuola di una ragazza che
aveva rifiutato di togliere il velo durante le ore di ginnastica, ancora una
volta la decisione rischia di essere “un falso amico” per i nemici del burqa
in strada, proprio perché riguarda il caso di una scuola, nonché soggetti
giuridici ritenuti sensibili, rispetto ai quali vi è un dovere specifico di
protezione[28].
Conclusivamente, anche alla luce
della giurisprudenza sopra nominata, l’esigenza di laicità rappresenta una
fondamentale connotazione dello Stato e del suo divenire istituzionale, ma deve
essere illuminata dalla libertà di coscienza e, quindi, dal rispetto di tutte
le confessioni[29].
Di conseguenza i privati non possono essere soggetti ad un obbligo di laicità,
se non quando svolgono funzioni pubbliche, in quanto in quella sede incarnano
lo Stato ed hanno un obbligo di neutralità, mentre non si giustificherebbe, a
parere di chi scrive, l’imposizione di obblighi a carico di cittadini che non
svolgono alcuna funzione pubblica.
3.2. L’ordine pubblico. - Un altro possibile presupposto
su cui fondare il divieto in questione potrebbe essere costituito dall’esigenza
di tutelare l’ordine pubblico, anche perché l’esibizione della carta
d’identità, ai fini di una compiuta identificazione, non sarebbe sufficiente,
essendo necessario mostrare anche il viso[30].
Con riferimento a tale profilo. si
potrebbe, dunque, evidenziare come abbigliamenti che coprono tutto il corpo
possano essere ritenuti pericolosi, non solo perché impediscono
l’identificazione della persona, ma anche perché vi è un rischio di occultamento
di armi ed esplosivi, come accade in India o in Pakistan ad esempio, dove il burqa è visto con preoccupazione per il
rischio di attentati[31].
Un’altra possibile declinazione dell’esigenza di garanzia dell’ordine pubblico,
su cui si potrebbe incardinare il divieto del burqa, potrebbe discendere da un obbligo di identificazione
aprioristico e continuativo posto a carico di tutti i consociati, tenuti a
circolare a viso scoperto. Ma, se non v’è dubbio che un ufficiale di polizia
abbia il diritto di chiedere ad una donna in burqa di rivelare la propria identità (e
quindi il suo viso) sul campo, diversa è la questione se una immediata
identificazione possa essere imposta in generale, al di fuori di qualsiasi
applicazione di sicurezza o ordine pubblico. Anche in questo secondo caso non
mancano, infatti, i dubbi circa la fondatezza di un tale obbligo, mentre la
giurisprudenza attuale del Consiglio costituzionale non individua affatto un
obbligo per cittadini a mostrare il loro volto in ogni momento, ad essere riconosciuti
ovunque e in tutte le circostanze, fuori, appunto, dai casi in cui un ufficiale
di polizia effettua un controllo d'identità[32].
Inoltre ancora una volta ciò potrebbe sembrare discriminatorio, anche se
fondato su un’esigenza d’identificazione, dal momento che non dovrebbe
riguardare solo il burqa, ma, ad
esempio, anche chi indossa un casco integrale o qualsiasi abbigliamento idoneo
a travisare[33].
Peraltro, su una simile pretesa a
controllare in modo ampio e generale la vita dei consociati, la Corte europea
dei diritti dell'uomo potrebbe non essere affatto favorevole, dato che il grado
di sfida alla vita privata sarebbe troppo alto, mentre, per quanto riguarda i
meccanismi di sorveglianza posti in essere dai privati, non sussisterebbero
sufficienti garanzie circa la gestione dei dati sensibili. Anche se va,
comunque, rimarcato che, pur essendo lo spazio
pubblico il luogo delle libertà costituzionalmente protette, esistono dei
limiti, rappresentati, per esempio, da alcuni principi costituzionali, come la
dignità della persona umana e l’uguaglianza tra i sessi; tali limiti devono
essere comunque valutati in un più ampio arco, di diritti e libertà
costituzionalmente sanciti, tra i quali vi è anche, tra l’altro, la libertà di
coscienza[34].
Proprio da qui, mi pare consegua il diritto alla differenza per ogni
consociato, non ragionevolmente emendabile sulla base di un principio assoluto
di uguaglianza e sicurezza, declinato in termini di divieto. Infatti la libertà
alla differenza, comporta necessariamente anche la differenza nei diritti e
conseguentemente nei limiti che caso per caso l’ordinamento può formulare[35].
Comunque sia, la strada
costituzionale per dimostrare la legittimità del divieto appare molto
insidiosa, dal momento che libertà e diritti devono andare di pari passo
3.3. La tutela della dignità della donna. - Sembra, infine, opportuno riflettere anche sulla
possibilità che provvedimenti che vadano ad interdire l’uso del velo integrale
in pubblico possano, anziché tutelare le donne, rinforzarne l’esclusione dal
circuito sociale, dal momento che, a parere dei rappresentanti della Ligue des droits de l’Homme, già la
legge n. 228/2004, anche se limitatamente agli ambienti scolastici, sembra aver
accentuato tale esclusione[36].
Tra l’altro, in un paese come la Francia, dove “in luogo di una religione di Stato, si pone la libertà di coscienza,
che può essere esercitata, nel rispetto e nei limiti dei diritti e dei valori
dell’ordinamento, sia in pubblico che in privato, difficilmente può apparire
ragionevole una censura mirata a colpire una specifica identità confessionale
nella sua proiezione pubblica”[37].
Inoltre, è anche vero come alcune donne non siano costrette ad indossare il
velo integrale, ma lo rivendichino come simbolo identitario
forte, capace di distinguerle dal resto dei consociati. In tale quadro, se
l’obiettivo è quello di difendere le vittime di violenze o costrizioni, non
sembrerebbe necessaria una legge, come quella anti-burqa, dal momento che già esiste un complesso arsenale
legislativo, per promuovere l’uguaglianza tra uomo e donna (la difficoltà è, se
mai, nell’applicazione di queste normative, per cui il Parlamento dovrebbe
aprire una riflessione per individuare tali difficoltà e superarle)[38].
Quindi una buona risposta
al velo integrale, non sarebbe un divieto o una prescrizione, ma la promozione
dei valori repubblicani.
Tuttavia, e la domanda viene quasi spontanea, se, nel sistema valoriale della
Quinta Repubblica, trovano posto anche la parità dei sessi e la dignità della
persona, proprio alla luce di questi principi si potrebbe costruire e
legittimare il divieto[39]?
Il principio della dignità della
persona umana non è scritto nella Costituzione del 1958, ma il Consiglio
costituzionale lo ha senza difficoltà dedotto dal Preambolo della Costituzione
del 1946[40],
richiamato da quello della Costituzione del 1958[41].
Il Preambolo del 1946, nell’enunciare dignità e libertà, attribuisce il ruolo
di maggiore pregnanza al libero arbitrio: ognuno ha la stessa volontà libera,
lo stesso diritto come il suo vicino di governare il proprio corpo ed il suo
comportamento in città. Se ci atteniamo a queste ipotesi forti, non dovrebbe
esserci nulla che possa giustificare un governo al di fuori dei corpi e delle
menti. Al contrario, c'è tutto il bagaglio giuridico necessario per tutelare la
libertà di tutti di autodeterminarsi liberamente, nel rispetto della libertà di
pari valore degli altri.
Sulla scorta di tale valutazione, il
giudice costituzionale potrebbe allora non condividere la validità del divieto
riguardante il burqa. Infatti, se il cuore della dignità delle donne si
realizza esercitando il libero arbitrio, e quindi la libertà, esso potrebbe
esprimersi anche attraverso l’uso del burqa.
A questo proposito, spesso si afferma però, come le donne che indossano il burqa non siano libere in tale pratica,
ma indotte e coartate da meccanismi culturali e sociali[42].
Tale riflessione non cambierebbe tuttavia i termini del problema, in quanto il
destino delle democrazie è necessariamente quello di vivere nella finzione del
libero arbitrio (si pensi, ad esempio, alle influenze a cui è sottoposto il
corpo elettorale quando esercita il diritto di voto, ma questo non incide sulla
portata dei loro diritti). La libertà sarebbe quindi una finzione, ma le
democrazie raramente intervengono per irreggimentarla, e solo con procedure
molto rigorose e garantiste, come nel caso dell’ospedalizzazione involontaria.
Quindi, a prescindere dal fatto che le donne in burqa siano o non siano libere, lo Stato non potrebbe decidere per
loro, privandole della libertà, e negando in buona misura i principi più
importanti di organizzazione della società moderna[43].
L’interrogativo fondamentale sembra, dunque, riferirsi ai limiti che si
possono porre alle libertà individuali, in modo tale da giustificare delle
misure restrittive[44],
che siano, tra l’altro, anche compatibili con i diritti fondamentali della
persona.[45].
Sarà il legislatore in buona sostanza che dovrà scegliere se il divieto avrà
carattere generale, cioè colpire qualsiasi ideologia che affermi la
disuguaglianza tra gli uomini e le donne, o riguardare solo le ideologie
talebane o salafite.
4 Divieti parziali già esistenti: possibili modelli per il divieto di
indossare il burqa? - L’elemento centrale da valutare rimane, quindi,
la fattibilità giuridica di un divieto totale, come sarebbe quello di indossare
il burqa in strada, e alla soluzione
di tale questione può anche contribuire la messa a fuoco delle caratteristiche
giuridiche dei divieti parziali che l’ordinamento francese ha già espresso, per
quanto riguarda l’abbigliamento e i simboli religiosi. Così, ad esempio,
i funzionari e dipendenti pubblici non possono, nell'esercizio delle loro
funzioni, indossare simboli religiosi. Analogamente in base alle decisioni di
diversi tribunali, anche i dipendenti delle aziende private possono essere
soggetti a vincoli molto forti su questo tema, per motivi di igiene e sicurezza
o per la qualità del rapporto con i clienti. Come già ricordato, inoltre, gli
studenti nelle scuole sono già soggetti a un divieto, ai sensi della legge
228/2004, che si rivolge direttamente ai minori, in un contesto in cui lo Stato
svolge un funzione pubblica di primaria importanza, per la formazione dei
futuri cittadini, che devono essere protetti dal rischio di proselitismo[46].
Lo spirito di quest’ultima legge è che lo Stato ha una responsabilità unica nei
loro confronti, e appare quindi ragionevole che non si preveda, invece, alcun
divieto per gli studenti universitari. Tuttavia, una legge anti-burqa non potrebbe essere giustificata
alla luce di tale esigenza, in quanto riguarderebbe anche persone adulte, con
una propria capacità di autodeterminarsi, rispetto alle quali lo Stato non ha
alcun dovere di protezione educativa[47].
4.1. Soggetti qualificati, obblighi specifici e burqa: le risposte dell’ordinamento. - La situazione di soggetti sottoposti
a particolari obblighi che impongono una immediata e compiuta identificazione
non sembra porre particolari problemi; ad esempio, in giurisprudenza, non vi è
dubbio che la realizzazione di documenti di identità, in particolare per quanto
riguarda le fotografie, sia incompatibile con un indumento che, come il burqa, copra il viso, così come nel caso
di un soggetto che indossi un turbante sikh, non vi è dubbio che abbia l'obbligo di farsi fotografare a capo
scoperto. Tutti gli obblighi attuali posti a carico dei consociati di rendersi
identificabili si fondano però su circostanze di luogo e di tempo qualificate e
specifiche[48].
Da questo punto di vista quindi nella normativa vigente, vi è la gestione
privata della identificazione delle persone nei posti sotto sorveglianza video.
Del resto l’ordinamento francese ha già preso in considerazione, seppure non in
termini generali, il fenomeno del burqa,
manifestando però sempre una certa difficoltà
riguardo la possibilità di inquadrare giuridicamente tale pratica. Comunque,
stante la complessità e l’eterogeneità delle normative e della giurisprudenza
sul tema dei simboli religiosi, si possono individuare tre differenti
qualificazioni ordinamentali con riferimento alla
pratica del burqa[49].
In primo luogo, vi è la sentenza già menzionata, che ha negato il
riconoscimento della cittadinanza francese ad una marocchina che indossava il
velo integrale, anche se non è tanto il velo integrale in sé che ha determinato
la decisione, quanto lo stile di vita adottato dall’interessata. Ancora nel
settembre 2008, l’Alta autorità di lotta contro le discriminazioni e per
l’uguaglianza (HALDE) ha espresso un chiaro giudizio di valore sul velo
integrale, affermando come l’uso del burqa
porti un significato di sottomissione della donna che supera la sua portata
religiosa, integrando potenzialmente un attentato ai valori repubblicani[50].
Una tale formulazione ricorda quella adottata
dalla Corte europea dei diritti dell'uomo, in una sentenza del 2001. Con
riguardo ad un'insegnante che portava il foulard,
la Corte aveva infatti giudicato che il porto del foulard fosse un “segno esterno forte”, “ imposto alle donne per un
precetto religioso e difficilmente conciliabile col principio di uguaglianza
dei sessi.” In questo senso, si possono rievocare anche talune risposte
ministeriali espresse in Parlamento: il Ministro della giustizia, M. Dominique Perben, aveva chiarito nel 2003 che, affinché sia certo il
consenso degli sposi durante il matrimonio, il viso deve essere scoperto
imperativamente. Al di là di questi casi, si può ritenere, per allargare
eventualmente il campo delle soluzioni giuridiche pertinenti, che il velo
integrale si inquadri nei “segni o nelle tenute che manifestano un'appartenenza
religiosa", come recita il testo della legge del 2004, o in un atto
motivato o ispirato da una religione o da una convinzione religiosa. Se si
considera integrato il disposto delle legge 228/2004, le conseguenze sono
chiare: si pensi in primo luogo, alla sfera specifica dei servizi pubblici, o
alla giurisprudenza relative agli ospedali pubblici, così come all'interdizione
generale fatta ai funzionari ed agenti pubblici di manifestare le loro
convinzioni religiose nell'esercizio delle loro funzioni[51].
4.2. Libertà di vestire: gli obblighi imposti
tra settore pubblico e settore privato.
Di particolare rilievo appaiono pure tutte quelle situazioni soggettive in cui le donne affermano il loro diritto a non indossare il velo integrale, esprimendo a livello soggettivo la speculare libertà negativa[52].
La
dichiarazione del 1789 fornisce una protezione molto forte al diritto di
vestirsi liberamente in Francia. Ne è conferma la recente cancellazione, da
parte del giudice amministrativo francese, di un’ordinanza comunale che vietava
alle persone di circolare in costume, per le vie di una cittadina, in quanto
tale condotta era da considerarsi contraria al buon costume. Il tribunale amministrativo
ha invece stabilito che non v’era un motivo sufficiente, per imporre tale
divieto.
È vero
anche, però, che la legge francese ha subito un processo di
internazionalizzazione, con la conseguenza che oramai l’ordinamento giuridico
interno è sottoposto alla supervisione della legislazione sovranazionale
europea, dovendosi confrontare in particolare con la Convenzione per la
salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali e con la Carta
dei diritti fondamentali dell'Unione europea, che forniscono ulteriori elementi
in materia di diritti fondamentali della persona ed eventuali restrizioni[53].
In tal senso, la libertà di vestire può riferirsi a due diritti garantiti dagli
strumenti internazionali: il diritto al rispetto della vita privata - non
menzionato nella Dichiarazione interna - e la libertà di espressione religiosa,
definita molto accuratamente in sede internazionale come la libertà di
manifestare la propria religione, individualmente o collettivamente, in
pubblico o in privato, mediante il culto, le pratiche e l'osservanza dei riti[54]..
Tale forma di libertà è quindi molto forte e non
sembra poter essere derogata da norme eccessivamente restrittive. Le persone
che indossano indumenti, possono trovarsi in due diversi ambiti, afferenti
rispettivamente la sfera della vita privata o la dimensione pubblica. La privacy è proprio lo spazio in cui il
soggetto non entra in rapporti giuridici con terzi, e in ragione dell’assenza di
collegamento con gli altri, eventuali restrizioni imposte alla libertà di
vestire non possono rispondere ad uno degli obiettivi di interesse generale
sollevato dalle convenzioni.
L’area
degli imperativi di sicurezza pubblica si realizza, dunque, quando una persona lascia la sua vita privata ed
instaura dei rapporti giuridici con terzi o con l'autorità pubblica o con
soggetti privati, in particolare, nei rapporti contrattuali.
Esempi di restrizioni giustificate da esigenze di
abbigliamento del genere non mancano. Si consideri, in primo
luogo, il caso di un contratto il cui scopo impone delle limitazioni
nell’abbigliamento, tese a tutelare i diritti di terzi. Ad esempio, il diritto del lavoro
contiene una disposizione che è direttamente ispirata alle norme di necessità e
proporzionalità del diritto comunitario: l'articolo L 1121-1 del Codice del
lavoro stabilisce che "nessuno può fare restrizioni che non siano
giustificate dalla natura del compito, né proporzionata all'obiettivo
perseguito”[55]. Sulla base di questo testo, la Camera sociale della
Corte di Cassazione, controlla le restrizioni alla libertà di vestiario che un
datore di lavoro può imporre ai suoi dipendenti così che la restrizione deve
essere giustificata dalla natura dei compiti e proporzionata al raggiungimento
dell'obiettivo, in particolare in termini di sicurezza.
Inoltre, la limitazione nel vestire nel rapporto
di lavoro deve essere connessa all'esecuzione del compito, escludendosi quindi
qualsiasi considerazione in merito alla natura simbolica dell’ abbigliamento.
In una decisione del 28 maggio 2003, la Cassazione ha sottolineato che la
libertà di vestirsi come si vuole, non rientra nella categoria delle libertà
fondamentali[56]. La sicurezza pubblica è un'altra ipotesi di deroga alla libertà di
vestirsi[57], sicché, essenzialmente a causa di vincoli collegati alla
sicurezza o all'igiene, le imprese private possono imporre ai loro impiegati
delle regole nella scelta del vestiario da indossare durante l’attività
lavorativa[58].
Tuttavia, la Suprema Corte francese non è mai
stata, fino ad oggi, chiamata a decidere sulla questione di indossare un velo
religioso nell'esecuzione di prestazioni di lavoro, e questo dimostra
l'esiguità del contenzioso su questo punto.
5 .Burqa e corti: la giurisprudenza tra Francia ed Europa. - Le soluzioni apprestate sono state, peraltro,
solo eccezionalmente legislative e invece in larga misura giurisprudenziali,
talvolta con il ricorso anche a strumenti di natura molto varia e
giuridicamente non costrittivi, come raccomandazioni, codici di buona condotta
o carte. Il fatto che si tratti principalmente di un diritto giurisprudenziale
non è sorprendente, ma ha la sua importanza perché il giudice, fatta eccezione
per quello costituzionale, statuisce prendendo in considerazione la situazione
specifica che gli viene sottoposta, ed è questo il motivo per cui certe
giurisprudenze possono sembrare contraddittorie. Del resto il fatto che il
diritto sia concretamente parcellare e formalmente eterogeneo non ne impedisce
la sua sostanziale coerenza.
5.1. Le risposte dei giudici francesi alle problematiche poste dal burqa. - Tentando una breve rassegna, non di poco momento appare anzi tutto la sentenza del Consiglio di Stato, Morsang-sur-Orge, il famoso caso noto come "nano-lancio"[59]. In questa sentenza la Corte ha delineato una concezione della dignità della comunità umana, secondo cui è lo Stato a dire come la gente dovrebbe comportarsi con il proprio corpo. Se si sviluppa tale concezione, non sarebbe assolutamente inconcepibile affermare che una donna nascosta in un burqa degradi la propria dignità, autodeterminandosi in modo del tutto contrario al patrimonio di diritti e libertà che l’ordinamento le mette a disposizione. Tuttavia questa impostazione "paternalistica" , in cui lo Stato si riconosce il diritto di sostituirsi ai consociati, al fine di declinare per loro la dignità, indicando ciò che è bene e ciò che è male, non appare né desiderabile né coerente con i principi dell’ordinamento francese, ma anzi riecheggia quasi una visione di quello Stato etico, propria delle esperienze totalitarie del Novecento. Conferma di tali perplessità è anche il fatto che solo il Consiglio di Stato francese ha realmente sostenuto questo orientamento[60]. La Corte europea dei diritti dell'uomo ha, infatti, assunto una nuova posizione, dopo una sentenza nella quale si era mossa nella stessa direzione. Nel caso Laskey, Jaggard e Brown c. Regno Unito[61], la Corte aveva avvallato la legittimità del riconoscimento della penale responsabilità degli imputati , dal momento che gli stessi avevano posto in essere un attacco alla loro dignità. Tuttavia, dopo questa pronuncia, l’orientamento è radicalmente mutato, come dimostra la sentenza KA e AD c. Belgio[62]. Il ragionamento fatto in questo caso è l'opposto del precedente. Infatti ciò che rileva e merita la protezione della legge, nello spirito attuale della Corte, è l'autonomia della donna, la sua volontà e, quindi, anche, ad esempio, la sua libertà di accettare percosse. In questa prospettiva ricostruttiva, la dignità non è messa in campo, quello che conta è il libero arbitrio. Ne consegue, che alla luce di tale interpretazione, non abbiamo più gli stessi strumenti legali per impedire a una donna di indossare il burqa se vuole. Anzi è piuttosto il contrario: se è la volontà della persona che conta, e in quanto tale la dimensione dell’autodeterminazione merita tutela, diventa molto difficile impedire la scelta di determinati abbigliamenti, se tale è la volontà del soggetto. Pertanto sembrerebbe azzardato, o per lo meno imprudente concludere che il principio della dignità della persona umana possa fondare unilateralmente un divieto di indossare il burqa[63].
Se mai, la costrizione di indossare un
abito potrebbe integrare di per sè una violenza psichica
punita dalla legge in modo del tutto autonomo da eventuali violenze fisiche o
minacce. Tra l’altro, la legge penale francese prevede anche una specifica
aggravante, se tali condotte sono poste in essere dal marito. Un esame della
giurisprudenza mostra che i giudici sono molto sensibili a questo tipo di
azione penale[64]: analogamente,
sul versante civile, l'esame della giurisprudenza francese permette di
individuare molte pronunce nelle quali i giudici hanno dovuto affrontare
difficili situazioni familiari, in cui si contrapponevano mariti o padri, che
volevano imporre il velo alle proprie mogli e figlie. Questo, tra l’altro,
integra un motivo di divorzio o il divieto di affidamento o di visita.
Ad esempio, la Prima sezione civile della
Suprema Corte ha affermato, in una sentenza del 24 ottobre 2000, che non viola
la libertà di religione, sancita dall'articolo 9 della Convenzione europea dei
diritti dell'uomo, la sentenza della Corte
d'Appello che, in nome dell’interesse del minore, aveva sospeso il diritto di
visita e di coabitazione di un padre verso le sue figlie, basandosi sulle
pressioni morali e psicologiche che il padre esercitava sulle giovani figlie,
tra cui l’obbligo di indossare il velo islamico ed il divieto di nuoto nelle
piscine pubbliche[65]. Vi è un'altra decisione, che non afferisce
all'uso del velo integrale, ma è indicativa della difficoltà di valutazione in
materia penale, dei simboli religiosi: una
rivista aveva pubblicato un articolo che riportava l'intervista fatta ad un imam, in cui si affermava che il Corano
permette all’ uomo di colpire la moglie adultera. Ebbene, con ordinanza del 6
febbraio 2007, la Sezione penale della Corte di cassazione ha ritenuto che essa
aveva provocato intenzionalmente i reati di violenza su base volontaria.[66]
5.2. Simboli religiosi e Corti europee. - Un altro orizzonte che deve essere assolutamente esplorato
riguarda i rapporti tra una eventuale legge di divieto di indossare il burqa, e le già ricordate Carte dei
diritti europee: pensiamo specialmente all’art. 9 della Convenzione
europea dei diritti dell’uomo. Da questo punto di vista, anche la
giurisprudenza europea può fornire, ancora qualche indicazione su potenziali
scenari giurisdizionali futuri.
In un caso molto eloquente, Cons Kokkinakis Grecia,
25 Maggio 1993, la Corte di
Strasburgo ha statuito che la dimensione religiosa della libertà, garantita
dall'articolo 9 CEDU, è tra gli elementi essenziali dell’identità dei credenti
e della loro concezione della vita, ma è anche un bene prezioso, risorsa per
atei, agnostici e scettici[67].
Vi è quindi l’affermazione di un pluralismo ottenuto con fatica nel corso dei
secoli. La libertà religiosa è quindi estremamente forte. Ma a tale libertà si
contrappone il principio della laicità, non sancito formalmente dalla
Convenzione, ma ricavabile da una serie di sentenze.[68]
In Francia, in Svizzera ed in
Turchia, la laicità è un principio costituzionale, fondativo
dei rispettivi ordinamenti: pratiche religiose, che si dovessero porre in
contrasto con questo principio non sarebbero necessariamente considerate parte
della manifestazione della libertà di coscienza e potrebbero non beneficiare
della protezione del predetto art. 9. Inoltre, quando vi sono questioni che
riguardano il rapporto tra Stato e religione, particolare importanza assumono
le soluzioni apprestate a livello nazionale, capaci di registrare le
peculiarità dei diversi sistemi sociali, e questo soprattutto quando si tratta
di regolamentare l'uso di simboli religiosi nelle scuole.
Anche se non vi è giurisprudenza
copiosa sulle istituzioni educative, vi sono state alcune importanti decisioni,
in particolare la già citata decisione Leyla
Şahin, che ha enunciato i principi
fondamentali, poi ripresi in diverse sentenze o decisioni che riguardano la
Francia[69].
Di grande interesse appare anche la
decisione Phull[70].
In essa, la Corte europea dei diritti dell'uomo ha dichiarato che, anche se la
religione Sikh costringe i suoi seguaci a portare tutto il tempo il turbante,
essi potrebbero essere costretti a rimuoverlo ai fini di un controllo
d'identità. Questo viene riaffermato anche nella decisione El
Morsli, per controllare l'ingresso in un
consolato[71].
Così si può, senza violare il diritto alla libertà di religione, costringere un
credente per identificarlo a togliersi il velo o il turbante temporaneamente .
E ancora nella decisione Cons c. Regno
Unito 12 luglio 1978, la Corte ha stimato che in nome della sicurezza, si
potrebbe benissimo chiedere ad un seguace della religione Sikh di togliere il
turbante per indossare un casco da motociclista.
Inoltre, nel caso Dogru
c. Francia, è stato stabilito che
il divieto posto a carico di una studentessa del collegio di Flers, di indossare il velo durante le ore di
educazione fisica, non integrava una violazione dell’art. 9 della Convenzione,
in quanto la studentessa, rifiutando di indossare tenute idonee, era venuta
meno ai suoi doveri scolastici, primo fra tutti quello di frequentare i corsi[72].
La Corte ha motivato tale decisione nel merito senza rinvio alcuno alla legge
n. 228/2004, ma richiamando quella del 9 dicembre 1905 sulla separazione tra lo
Stato e la Chiesa, il preambolo della costituzione del 1946, l’articolo 10
della legge n. 89-486 del 1989, di orientamento sull’educazione, nonché il
parere del Consiglio di Stato n. 346.893 del 1989, sulla compatibilità tra
spazio scolastico e simboli religiosi.
La valutazione giuridica riguardante
il velo, inoltre, si può basare anche su un pericolo di discriminazione tra
uomini e donne, con conseguente passaggio dalla dimensione della laicità a
quella della dignità.
Sebbene la Convenzione europea dei
diritti dell'uomo non utilizzi la parola “dignità”, è stata la giurisprudenza
della Corte a sviluppare tale categoria a livello interpretativo giurisprudenziale.
Così, per affermare e rafforzare i diritti delle donne, nelle sentenze C.R. e S.
W. c. Regno Unito,22 novembre 1995, ha ammesso che l'art. 7
CEDU non impedisce l'accusa di violenza sessuale tra coniugi, evidenziando il
carattere essenzialmente degradante dello stupro, e, nella medesima occasione,
ha affermato che la libertà e la dignità sono i fondamenti della Convenzione[73].
Nella causa Sig. C. contro Bulgaria, sostenendo che ci può essere violenza sessuale, anche in
assenza di resistenza fisica, la Corte ha auspicato una nuova definizione del
delitto di stupro[74].
Ancora la sentenza Cons Opuz
Turchia impone agli Stati di criminalizzare e punire la violenza domestica
sulle donne. La tutela delle donne è, dunque, al centro della giurisprudenza
della Corte, in particolare il concetto di dignità[75].
Un importante collegamento viene
posto in essere dalla Corte tra secolarismo e tutela delle donne, nel famoso
caso Refah Partisi
contro Turchia, che ha riguardato
la messa al bando di un partito[76].
La Corte ha ritenuto che lo scioglimento sia conforme alla Convenzione, essendo
quest’ultima assolutamente incompatibile con la Sharia, la quale riserva
una posizione inferiore alle donne.
Non può, però, infine, nemmeno
trascurarsi la circostanza che molte donne, che indossano il velo integrale,
dicono di farlo volontariamente. Nella causa Leyla
Şahin/Türken la ricorrente aveva
spiegato piuttosto chiaramente come il divieto di indossare il velo
all’università integrasse una lesione della propria autonomia personale.
6. Il rapporto conclusivo della missione:
la proposta di una risoluzione parlamentare. - Il 26 gennaio 2010, la Missione parlamentare
d’informazione, nella persona del suo Presidente M. Andre
Gerin, ha rassegnato le proprie conclusioni alla
Conferenza dei presidenti dell’Assemblea nazionale, evidenziando la procedura
seguita dalla Missione nelle audizioni, al fine di valorizzare l’impostazione
di partecipazione diretta dei diversi rappresentanti dello Stato comunità ai
lavori. La commissione ha condotto un dibattito pubblico, al cui termine è
stato licenziato un esteso rapporto[77], in cui si conclude affermandosi la
contrarietà del burqa ai valori della
Repubblica francese, in quanto forma di riduzione in schiavitù per le donne[78]. Questa conclusione è però accompagnata anche
dalla consapevolezza della scarsa efficacia e della dubbia legittimità
costituzionale di un divieto generale, corazzato dallo strumento penale e
immesso nell’ordinamento attraverso una legge, apparendo sia giuridicamente sia
politicamente più opportuna una risoluzione che, promanando solo dall’organo
parlamentare, darà ragione di quel complesso lavoro di partecipazione popolare
che ha caratterizzato i lavori della missione, rinunciando peraltro ad
un’ipotesi di divieto nell’ambizioso terreno del luogo pubblico, e questo per
rientrare nel più rassicurante paradigma del servizio pubblico[79].
È per tale ragione che, nel rapporto conclusivo, si propone come strumento capace
di dare una risposta tempestiva, l’adozione di una risoluzione, ex art. 34-1 Cost., così come riformato
dalla legge organica n. 2009/403 del 15 aprile 2009[80]. La
materia sembra, poi, prestarsi particolarmente ad essere fatta oggetto di una
risoluzione: ed “il fatto che la prima risoluzione del Parlamento affronti tale
questione appare simbolico”, come ha affermato Bertrand Mathieu
durante la sua audizione[81]. Sarebbe
infatti l'occasione per riaffermare l'impegno del Parlamento in difesa dei
principi repubblicani di libertà, uguaglianza e fraternità. Inoltre,
una risoluzione che condanni la pratica di indossare il velo integrale e
riaffermi i principi fondanti della Repubblica potrebbe probabilmente essere
approvata all'unanimità dai membri dell'Assemblea, e di conseguenza avrebbe una
certa risonanza[82].
Occorre, tuttavia, dare conto del fatto che forti
pressioni si stanno esercitando sul Parlamento francese, perché, ad imitazione
del caso belga[83], provveda a dar vita ad una vera e propria legge per
arginare il fenomeno del burqa.
L’elemento, quindi, che lascia disorientato l’osservatore esterno è che per il
raggiungimento di tale obiettivo, si sia disposti a rinunciare al patrimonio
cromosomico di diritti e garanzie fondamentali dell’ordinamento, emendandolo
alla luce di una non meglio definita paura per la donna velata. Insomma, vero è
che il multiculturalismo reca con sè una innata
problematicità, e questo è particolarmente evidente sul piano giuridico, ma
sembra abbastanza singolare che in un paese come la Francia, ormai ampiamente
secolarizzato, si torni a parlare di laicità, scoprendo un’improvvisa emergenza
nella garanzia dei diritti e delle libertà dei consociati, che sarebbero
minacciati da pratiche potenzialmente eversive dei valori fondamentali
dell’ordinamento.
Paradossale sarebbe infatti negare i principi
fondamentali al fine di garantirli, dal momento che in tal modo il legislatore
negherebbe sè stesso, abbandonando la pregevole
abitudine a bilanciamenti specifici, in nome di una limitazione tanto generica
quanto lesiva dei diritti e delle libertà delle donne. Da qui la perplessità
sull’opportunità di legiferare su una pratica come il porto del velo integrale,
anche alla luce dei numerosi dubbi, che si è cercato in precedenza di
evidenziare, sulla possibilità di inquadrare giuridicamente tale pratica.
Questo rilievo, mi pare, imponga ai membri della Missione di porsi tre domande concernenti rispettivamente la nozione di spazio pubblico, la pratica oggetto di normazione ed i principi in causa. Innanzitutto bisognerà individuare la nozione di spazio pubblico, a partire da una ricognizione delle indicazioni normative presenti nell’ordinamento. Da un punto di vista giuridico si distingue lo spazio pubblico, individuandolo a contraris rispetto a quello privato. La vita privata si riferisce al domicilio, allo spazio chiuso, è distinta, separata, dalla vita pubblica, qualunque sia il suo contesto. Si può immaginare di opporre lo spazio pubblico allo spazio privato, come un orizzonte che, non appartiene in particolare a nessuno[84]. In base a tale paradigma ricostruttivo lo spazio pubblico non sfugge al diritto, ma il diritto ha per oggetto di permettere a ciascuno di godere anche delle stesse libertà, tra cui anche quella di indossare il burqa[85]. Il secondo elemento da valutare è la pratica di portare il velo. Qui ci si trova in una situazione più delicata, dal momento che una pratica siffatta non ha alcuna vocazione ad avere una definizione giuridica, anche se costituita da elementi obiettivi. Comunque il ruolo del diritto, anche in un’ottica definitoria, non è di valutare, in termini positivi o negativi, una religione od un uso religioso, né interpretare le ragioni per cui una religione impone certi obblighi, o certi vestiti. Tutt’al più, essendo il porto del velo integrale, o di altri segni o tenute, un modo di esercitare la libertà di religione, il diritto potrà determinare le condizioni di esercizio di questa libertà[86]. L’auspicio è che il Parlamento riesca a liberare sé stesso dalle pressioni esterne che lo stanno attualmente compulsando, e, riuscendo ad operare un bilanciamento ragionevole e non gerarchico dei principi in gioco, cerchi di dimostrarsi poco emotivo e più etico[87]. Una legge recante un divieto generale infatti, oltre a violare in modo irragionevole il patrimonio cromosomico di diritti e libertà dell’ordinamento francese, non riconoscerebbe alcun ruolo alle donne velate, costrette a spogliarsi del velo integrale, senza poter scegliere. In questo senso si pone la risoluzione dell’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa: approvata quasi all’unanimità, il 23 giugno 2010, il cui testo chiarisce come negare il velo, più che favorire il processo di parificazione tra uomo e donna nella cultura islamica, rischierebbe di favorire derive islamofobe e incontrollate[88].
[1] Sul tema, cfr. CAVANA, Interpretazione della laicità, Roma, 1998, 82 ss.
[2] A tal proposito, cfr. S. CECCANTI, Una libertà comparata. Libertà religiosa, fondamentalismi e società
multietniche, Bologna, 2001, 85 ss.
[3] Su tale
questione, cfr. F. MEJAN, La laicité de l’Etat en droit positif et en
fait, Paris, 1960, 201 ss.
[4] In proposito, cfr. specialmente O. RAY, Global muslim. Le radici occidentali del
nuovo islam, Milano, 2003.
[5] Com’è noto, il “fenomeno” musulmano reca con sé un
messaggio totalizzante, che non scinde la sfera privata da quella pubblica, ma,
anzi, coglie l’individuo in un’unica cornice confessionale e antropologica,
dalla quale tutto, anche lo Stato, quindi, promana. Per dirla in altri termini,
la categoria della laicità appare ontologicamente incompatibile con il
messaggio di Maometto, in quanto tutto ciò che è nel mondo è voluto da Allah
(in merito, cfr. A. PREDIERI, Sharì’a e
Costituzione, Bari, 2006, 100.
[6] Tutte queste potenziali problematiche sono rimaste
sullo sfondo fino a quando le comunità islamiche non hanno iniziato ad assumere
una consistenza numerica importante. In particolare, fra i giovani musulmani
nati in Francia, si è venuta a determinare una netta separazione fra coloro che
abbracciano il pensiero occidentale, ritenendosi individui liberi e negando il
ruolo della religione come momento unificante di tutte le dimensioni
dell’esistenza, ed altri che invece si sono attaccati con forza al loro
paradigma identitario. Questa difficile transizione
da un’identità tradizionale e confessionale ad una democratica e libera, o
comunque diversa, genera numerose disfunzioni e pone l’Islam davanti alle
religioni europee, le quali hanno trovato un posto significativo nelle pieghe
dello Stato, diventando religioni civili, cioè portatrici di valori e contenuti,
che hanno peso e rilevanza anche nella vita pubblica.
[7] Al proposito, cfr. L. PARISOLI, L’affaire del velo islamico.
Il cittadino e i limiti della libertà, in Materiali per una storia della cultura giuridica, I, 1996, 189 s.
[8] Cfr. S. BELOUCIF, L’islam entre l’individu et le citoyen, in Th. FERENCZI, Religion et politique. Une
liaison dangereuse?, Bruxelles, 2003, 151.
[9] Sul rapporto tra Islam e occidente,
nonché sui mutamenti che tale rapporto ha determinato in senso alle comunità
islamiche, si rinvia a B. KHADER, Islam, freno o motore della modernità?, in
Pol. Intern., vol.
2, 1994, n.22, 119 ss.
[10] In particolare I. BERLIN, Due concetti di libertà, Feltrinelli, Milano, 2000, 26 ss.,
descrive la possibile deriva della libertà positiva.
[11] Con la già citata legge Ferry del 1882,
all’insegnamento religioso nella scuola primaria, venne sostituito
l’insegnamento di istruzione morale e civile. La stessa legge, comunque,
introdusse la possibilità di fruire di un’astensione facoltativa per un giorno
di lezione alla settimana, al fine di consentire ai genitori di far impartire
l’istruzione religiosa ai propri figli al di fuori degli edifici scolastici. Si
è dovuto, però, aspettare un’ordinanza del ministro dell’Educazione nazionale
del 12 maggio 1972 per individuare la fissazione del giorno nel quale tale
astensione è permessa. Tale ordinanza che, fissava il mercoledì, come giorno
per poter seguire gli insegnamenti di carattere confessionale è stata, poi,
modificata da un decreto del 1985, che, nell’ambito dell’organizzazione delle
attività educative delle scuole materne ed elementari, ha previsto la
possibilità, su domanda della maggioranza dei membri del consiglio della
scuola, di modificare la ripartizione abituale degli orari, spostando eventualmente
l’istruzione religiosa dal mercoledì al sabato. Tale modifica non deve essere
ritenuta di scarso rilievo: anzi, per buona parte della dottrina e della
società francese, essa esprime una conferma dell’orientamento che il
legislatore assume per quanto riguarda gli ambiti pubblici di carattere
educativo e formativo, i quali, come detto nel testo, devono essere all’insegna
della neutralità.
[12] Per quanto riguarda la convivenza
tra spazio pubblico e simboli religiosi, cfr. CAVANA,
Interpretazione della laicità, cit.,
117 ss.
[13] Sul tema della laicità in Francia e
sulla legge n. 228/2004, cfr., tra gli altri, E . POULAT, Libertè et Laicitè. La
guerre des deux France et le principe de la modernitè,
Parigi 1987; J.M. COLOMBANI, Francia, i rischi della legge sulla laicità, in Le Monde, 13
dicembre 2003; D. TEGA, Il parlamento
francese approva la legge anti-velo, in Quad.
Cost., 2,
2004, 389 s.; S. FERRARI, Francia-laicità.
Le ragioni del velo, in Il Regno att., 4, 2004, 89; J.
HINKE- R. MINERATH- R. SCHMALE- W.ZARYN, L'emergence des
Droits de l'Homme en Europe- Anthologie de textes, Conseil de l'Europe,
2000 ( https://www.aede-france.org/Dossier-Documentaire-Europe.html).
[14] Di grande
rilievo sul punto R. DEBRAY,
L’enseignement du fait religieux dans
l’École laïque, Rapport au ministère de l’Education nationale, 2002,(https://media.education.gouv.fr/file/91/4/5914.pdf).
[15] Assemblea nazionale, XIII legislatura, doc.
n.1121, Proposition de loi visant à lutter contre les
atteintes à la dignité de la femme résultant de certaines pratiques religieuses
(https://www.assemblee-nationale.fr/13/propositions/pion1121.asp).
[16] Con riferimento a tale pratica, si esprimono gravi
preoccupazioni, identificandola come una negazione della personalità della
donna, ridotta ad un oggetto davanti a sé e agli occhi degli altri consociati.
In tal modo le viene impedito qualsiasi rapporto umano, al di fuori del
contesto familiare, disumanizzandola, e integrando in tal modo una grave
violazione della dignità umana e dei principi essenziali, su cui si fonda
l’ordinamento francese, primo fra tutti la parità tra i sessi. L’articolato
disciplina in termini di divieto tutte quelle pratiche religiose e culturali,
che prevedono la copertura del viso o del corpo. In particolare l’art. 1 recita
testualmente: “Nessuna prescrizione culturale o religiosa può imporre a
qualcuno di velarsi il viso sulla pubblica via; tutte le persone che vanno e
vengono sul territorio nazionale devono avere il viso scoperto, per permetterne
facilmente il riconoscimento o l’identificazione. Il principio menzionato al
comma precedente non si applica né ai servizi pubblici in missioni speciali, né
a certe attività culturali come il carnevale o le riprese cinematografiche”.
[17] Il fatto che sia stato scelto lo strumento penale
trova conferma nel regime sanzionatorio, definito all’art. 2. della L. 228/2004
in riferimento alla punizione di tutte quella condotte che violano il dettato
dell’art.1, ed in particolare viene previsto l’arresto fino a due mesi e
l’ammenda fino a 15,000 euro, con un aggravamento in caso di recidiva, ad un
anno di detenzione e 30,000 euro di ammenda. Tale cornice edittale è ampliata
dall’articolo 3, che, individuando una condotta di incitamento alla violazione
del divieto di cui all’art. 1, prevede la sanzione amministrativa dell’allontanamento
dal territorio nazionale, su decisione del Ministro dell’interno o del
Prefetto, competente a livello territoriale.
[18] Di interesse
sul punto, R. HANICOTTE, La dissimulation du visage au regard de l'ordre public,in AJDA, 2010, 417 ss; V. AVENA ROBARDET,
Polygamie et allocations familiales,
in AJ Famille 2010, 247.
[19] Assemblea nazionale, XIII Legislatura, doc.
n. 1942, registrato il 29 settembre
2009, Proposition de loi à interdire
l’ensemble des vêtements ou accessoires permettant de masquer l’identité d’une personne. (https://www.assemblee-nationale.fr/13/propositions/pion1942.asp).
[20] In linea con tale previsione, continua il proponente, la giurisprudenza amministrativa francese, in molti casi, ha vietato l’esibizione dei simboli religiosi, là dove questi integravano una violazione dei beni giuridici sopra menzionati (ad esempio, un motociclista sikh si era visto vietare la possibilità di indossare il turbante mentre guidava la moto, oppure alcune studentesse erano state espulse dagli istituti scolastici, perché si erano rifiutate di togliersi il velo, durante le lezioni di ginnastica). Quindi la stessa valutazione in termini di divieto potrebbe essere formulata in modo generale da una legge che, contemperando le esigenze di ordine pubblico con il diritto alla sicurezza di tutti i cittadini, vada ad espungere dall’orizzonte sociale tutti quegli abbigliamenti che, di fatto impediscono l’identificazione delle persone. Nell’articolato, inoltre, sono individuate le medesime condotte delittuose e sanzioni di cui alla proposta n. 1121. A tal proposito si segnala anche: Assemblea nazionale, XIII legislatura, doc. n.2272, registrato il 28 gennaio 2010 Proposta di risoluzione Gerin-Raoult: nei suoi profili introduttivi la proposta in oggetto richiama quelle sopranominate, (https://www.assemblee-nationale.fr/13/propositions/pion2272.asp).
[21] Per hijab si intende il foulard che
le donne musulmane appoggiano sul capo e sulle spalle, ma che non copre il
resto del corpo e comunque non il volto, come accade invece nel caso del burqa.
[22] Assemblea nazionale, XIII Legislatura, doc. n. 1725, registrato
il 9 giugno 2009, Proposition
de résolution, tendant à la création d’une commission d’enquête sur la pratique du port de la
burqa ou du niqab sur la
territoire National.
[23] Operativamente i lavori della missione si sono tradotti in un
articolato ciclo di audizioni, nelle quali sono stati sentiti operatori del
diritto, sociologi, esponenti del governo, magistrati e rappresentanti del
mondo islamico, al fine di indagare profondamente la pratica in oggetto, e
capire la possibilità o meno di vietarla attraverso una legge. In
riferimento a tale profilo W. TAMZALI e C. BER, Burqa?, Montpellier, 2010,13 e ss.
[24] Audition de M. Rémi Schwartz, Conseiller d’État, rapporteur (https://www.assemblee-nationale.fr/13/cr-miburqa/09-10/c0910007.asp).
[25] Peraltro tale controllo, che non può prescindere dai presupposti indicati dalla Costituzione, ovvero la presenza di un atto internazionale idoneo, ratificato o approvato, e la relativa pubblicazione, ha avuto un’elaborazione giurisprudenziale piuttosto allargata, tanto che nella categoria di atto, vengono fatti rientrare non solo i trattati classici, ma anche le carte dei diritti, e in generale tutto quello che deriva da accordi di natura internazionale (Consiglio Costituzionale, dec. n.77-90 DC).
[26] La l. organica n. 2009/403 del
15 aprile 2009, che ha introdotto tale controllo incidentale da parte del
Consiglio, enfatizza in modo particolare la garanzia dei diritti, prevedendo
che l’eccezione di illegittimità costituzionale possa essere sollevata solo ad
istanza di parte, e confermando anche una espansione del sindacato di
costituzionalità, in linea con il modello kelseniano.
a tal proposito si rinvia a: B. FRANÇOIS, La
Constitution Sarkoz, Paris, 2009; O. DUTHEILLET DE LAMOTHE, Contrôle de conventionnalité et
contrôle de constitutionnalité
en France, rapport presentè
à Madrid, 2-4 avril 2009, (https://www.conseil-constitutionnel.fr/conseil-constitutionnel/root/bank_mm/pdf/Conseil/madrid_odutheillet_avril_2009.pdfhttps://www.conseil-constitutionnel.fr/conseil-constitutionnel/root/bank_mm/pdf/Conseil/madrid_odutheillet_avril_2009.pdf). Sull’avvio
della nuova procedura di controllo incidentale, cfr. P. COSTANZO; Decolla in Francia la questione prioritaria
di costituzionalità: la Cassazione tenta di sparigliare le carte, ma il
Consiglio costituzionale tiene la partita in mano (una cronaca) in Consulta OnLine
(https://www.giurcost.org/studi/CostanzoConseil.htm)
[27] Decisione del 29 giugno 2004, n. 4774/98, Leyla Sahin c.Turchia.
[28] Decisione del 30 giugno 2009 , n. 43563/08, Aktas c. Francia.
[29] Sul punto di interesse, D. BOUZAR- L. BOUZAR, La Rèpublique ou la burqa, Paris, 2010, 25
ss.
[30] In merito al rapporto tra ordine
pubblico e eterogeneità del sistema sociale francese, v. W. TAMZALI e C. BER, Burqa?, cit., 69 e ss.
[31] Anche se invocare il rischio terroristico in Francia
non convince tanto, così che un divieto imposto a tal fine verrebbe valutato
con ogni probabilità sproporzionato e discriminatorio. Del resto, se si volesse
evitare qualunque rischio di nascondere armi o esplosivi, dovrebbero essere
sottoposti al divieto zaini e valigie e tutto ciò che in generale è idoneo a
occultare. Su tale aspetto si rinvia a J.
M. PASTOR, Voile intégral : le refus de la République , in Ajda, 2010,
p.124.
[32] Decisione del 19 gennaio 2006, n.
2005-532 DC; https://www.conseil-constitutionnel.fr/decision/2006/2005-532-dc/decision-n-2005-532-dc-du-19-janvier-2006.979.html?version=dossier_complet.
[33] Anche il Consiglio di Stato, nell’Étude relative aux possibilités juridiques d’interdiction du port du
voile intégral,
presentato al Primo ministro il 30 marzo 2010, ricostruisce in termini di
estrema problematicità la possibilità giuridica di fondare un divieto generale
di indossare il burqa, il cui porto
può essere limitato solo in situazioni qualificate da una particolare esigenza
di sicurezza e garanzia dell’ordine pubblico; per il testo integrale del rapporto
https://www.conseil-etat.fr/cde/node.php?articleid=2001.
[34] Significativa in questo senso
l’alinea 3 del Preambolo del 1946, che ha riaffermato il principio di
uguaglianza nella sua proiezione relazionale tra uomini e donne, chiarendo come
l’eguaglianza porti con sé una necessaria uguaglianza nei diritti da parte di
entrambi i sessi.
[35] Sulle sofferenze di legittimità che un interdizione
generale di indossare il velo integrale incontrerebbe nell’ordinamento
francese, di interesse risultano le osservazioni di R. HANICOTTE, Belphégor ou le fantôme du
Palais-Royal .L'avis du Conseil d'État
sur le voile integra, in La Semaine Juridique Administrations et Collectivités territoriales n° 16, 19 Avril
2010, 2142 ss.
[36] Assemblea nazionale, XIII Legislatura, audition PierreDubois, presidente della Ligue des
droits de l’Homme, Mme Françoise Dumont vice-presidente
e M. Alain Bondeelle (https://www.assemblee-nationale.fr/13/cr-miburqa/09-10/c0910007.asp).
[37] Chiaramente tale ricostruzione
ha fondamento, nella misura in cui qualifichiamo in termini religiosi, o
comunque culturali, tutti quegli abbigliamenti che, oscurando il viso,
sarebbero colpiti dal divieto di un’eventuale legge. In quest’ottica sarebbe
forse più costruttivo dar corpo ad una laicità positiva, non antireligiosa,
capace di favorire il pluralismo, senza la pressione delle religioni.
[38] Quindi i contenuti e gli
obiettivi di un eventuale disegno di legge dovrebbero riguardare più che il
divieto di indossare il burqa in
pubblico, un tessuto normativo teso a combattere la violenza sulle donne,
sanzionando in tal modo, non le donne come avverrebbe nel primo caso, ma gli
autori delle violenze. Tuttavia il Presidente della Lega francese ha espresso
la propria perplessità sulla possibilità di favorire un processo di
emancipazione delle donne musulmane, attraverso un sistema di divieti imposti autoritativamente dallo Stato. A tal proposito decisivo,
non sarebbe l’indossare un abbigliamento determinato o comunque diverso dal burqa, ma l’uguaglianza assoluta di
uomini e donne, in quanto il velo integrale cadrà non il giorno che verrà
strappato, ma quando tutti i consociati avranno fatto propri quei valori di
uguaglianza e tolleranza, tanto cari all’ordinamento francese.
[39] Assemblea
nazionale, XIII Legislatura, audition de M. Rémi Schwartz, Conseiller
d’État, rapporteur (https://www.assemblee-nationale.fr/13/cr-miburqa/09-10/c0910007.asp ).
[40] Che recita testualmente “dopo la
vittoria riportata da popoli liberi sui regimi che hanno tentato di ridurre in
schiavitù e degradare la persona umana”. La filosofia umanista, che si pone
alla base di tale dichiarazione è inequivocabile, nell’affermare la dignità di
tutti gli uomini di essere liberi, e di non essere dominati e resi schiavi da
parte di chiunque, rifiutando qualsiasi provvedimento coercitivo da parte di un
altro uomo, in uno scenario di libertà e parità delle volontà e dei consensi.
[41] Preambolo, Costituzione, del 4
ottobre 1958, con particolare riferimento al richiamo al preambolo della
Costituzione del 1946, come fonte di rango parametrico.
[42] Cfr. W. TAMZALI e C. BER, Burqa?, cit., 85 e ss.
[43] Da questo punto di vista allo stato attuale del
diritto positivo, il divieto generale di indossare il burqa sarebbe
estremamente fragile e potrebbe causare più problemi di quanti ne risolva. Tale
divieto affermerebbe un preoccupante paternalismo, profondamente
contraddittorio, perché sarebbe incapace, sia di difendere la libertà delle
donne che desiderano indossare il burqa privandole della libertà di
farlo, sia priverebbe gli altri consociati della libertà di scegliere se
aderire o meno all’eventuale proselitismo espresso da questi soggetti. Su tali
problematiche e sul probabile intervento per la via incidentale del Conseil constitutionell, qualora
la legge venisse approvata, di rilievo R.
NOGUELLOU, L'interdiction du port du voile integra, in Droit Administratif , 2010, 35 ss.
[44] In particolare anche il Consiglio di stato, con la sentenza 286-798/08,
negando il riconoscimento della cittadinanza francese
ad una donna marocchina, per difetto di assimilazione, ha affermato il
principio della parità tra uomini e donne, in termini precettivi.
[45] Con riferimento ad esse,
bisognerebbe anche stabilire se il fatto di non potere scorgere il viso di una
donna, rappresenti una lesione della dignità della persona umana in termini
generali, o se specificamente leda la dignità delle donne. Se il bene giuridico
da tutelare con una legge fosse la dignità della donna, sarebbe poi opportuno
comprendere se in alcuni casi sarà più lesivo per la donna stessa imporle o non
imporle di circolare a viso scoperto. Si rinvia a A. LEVADE, Le refus de la République »,
prologue d'un débat national ? . À propos du rapport de la mission
d'information sur la pratique du port du voile intégral sur le territoire
National, in La Semaine Juridique Edition Générale n° 6, 8
Février 2010, 142 ss.
[46] Legge n.228/2004, del 15 marzo 2004,
art.1”E’ inserito nel Codice
dell’educazione, dopo l’articolo L. 141-5, un articolo L. 141-5-1, così
formulato: Art. L. 141-5-1- E’ vietato, nelle scuole, nei collegi e licei
pubblici portare segni o abiti mediante i quali gli allievi manifestino in modo
ostensibile un’appartenenza religiosa. Il regolamento interno ricorda che
l’attuazione di una procedura disciplinare è preceduta da un dialogo con
l’allievo”.
[47] Assemblea nazionale, XIII Legislatura, séance du 14 octobre
2009, audition de Mr. Denys de Bèchillon,
(https://www.assemblee-nationale.fr/13/cr-miburqa/09-10/c0910008.asp).
[48] Ad esempio l’accedere ad una banca o ad una stazione di servizio,
o ancora la partecipazione ad una manifestazione di piazza, che imponga ai
soggetti di non essere travisati.
[49] Assemblea nazionale, XIII
Legislatura, séance du 18 novembre 2009, audition de
Anne Levade (https://www.assemblee-nationale.fr/13/rap-info/i1262.asp).
[50] Di interesse sul punto J. Bougrab, Discrimination, in La Semaine Juridique Edition Générale n° 17, 26
Avril 2010, 462 ss.
[51] Precipitato evidente di questa impostazione è la Carta
della laicità nei servizi pubblici del 13 aprile 2007. Pur non
avendo alcun valore giuridico tale carta, fortemente voluta dal primo ministro
Dominique de Villepin, rappresenta una piccola guida
per far convivere pacificamente chi crede in religioni diverse. Essa viene
affissa negli ospedali, nelle prigioni, nelle caserme, ma anche in altri luoghi
pubblici.
[52] La libertà di vestire è un elemento della libertà stessa,
che consiste, secondo quanto enunciato dalla Dichiarazione dei Diritti dell'Uomo
e del Cittadino del 1789, nel “fare tutto ciò che non nuoce ad altri”. La
dichiarazione afferma inoltre che “ciò che non è vietato dalla legge non può
essere vietato”. Ne consegue, come i consociati si possano vestire come vogliono,
secondo i loro gusti ed in base alle loro convinzioni religiose. La questione del velo
integrale che riguarda da tempo lo stato francese, già da quando questo era un
impero coloniale, è sempre stata non solo tollerata, in virtù della Dichiarazione,
ma addirittura protetta. Sui rapporti tra libertà di indossare il velo
integrale e limiti dettati dall’ordine pubblico si guardi A. ROBERT, Décret n° 2009-724 du 19 juin 2009 relatif à l'incrimination de dissimulation illicite du visage
à l'occasion de manifestations
sur la voie publique, in Revue de science criminelle, 2009, 882.
[53]
La Convenzione europea
per la salvaguardia, come la Carta dei diritti fondamentali, prevedono restrizioni
per rispettare la privacy e la libertà religiosa, le quali possono essere
compresse per raggiungere gli obiettivi di interesse generale, quali la
sicurezza pubblica, l’ordine pubblico, la prevenzione della criminalità, la
protezione della salute o per rispondere alla tutela dei diritti e delle
libertà altrui. Peraltro tali restrizioni devono essere rigorosamente
proporzionate all’obiettivo che si intende attuare.
[54] Assemblea nazionale, XIII Legislatura, séance du 9 dicembre 2009, audition de Betrand
Louvel, (https://www.assemblee-nationale.fr/13/cr-miburqa/09-10/c0910017.asp).
[55] Code du
travail, L. n.2008/67, 21/01/2008, Art.1121: "Nul
ne peut apporter aux droits des personnes et aux libertés individuelles et
collectives de restrictions qui ne seraient pas justifiées par la nature de la
tâche à accomplir ni proportionnées au but recherché”.
[56] Cour de cassation, Chambre sociale, arrêt n° 1507, du 28
mai 2003.
[57] In particolare dal giugno scorso, è fatto divieto di indossare cappucci in
prossimità di eventi. Negli aeroporti, una persona deve sottoporsi ai controlli
di sicurezza necessari, pertanto, deve consentire il controllo della sua
identità. Ancora, le persone che appaiono davanti ad un'autorità pubblica per
eseguire un atto che coinvolge la verifica della loro identità, devono essere a
capo scoperto: ad esempio, cerimonie nuziali, operazioni elettorali o
giuramenti. La Corte d'appello di Nancy si è rifiutata di far prestare
il giuramento da avvocato ad una donna, che era comparsa davanti ad essa
velata. Restrizioni inoltre possono essere previste in funzione della verifica
di identità da parte della polizia in una indagine o di prevenzione della
criminalità. Limitazioni alla libertà di vestire sono previste pure per chi si
mette alla guida di un veicolo, sul punto cfr. F.
GAUVIN, Un an de droit pénal de la circulation routière, in Droit pénal n° 7, Juillet
2010, 6 ss.
[58] Di rilievo
sul punto, J.B. BOUET, La « Charte de la laïcité dans les services publics » et les
établissements publics de santé : une occasion manquée, in Revue de droit sanitaire et social,
2007, 1023 ss.
[59] Conseil
d’Etat, décision n° 94-343 e 94-344 DC. In particolare, in nome della protezione della dignità della
persona umana, il Consiglio di Stato ha convalidato il divieto, posto dal
sindaco di Morsang-sur-Orge, con riguardo ad uno
spettacolo , che consisteva appunto nel lancio di un soggetto affetto da
nanismo.
[60] Bisogna domandarsi inoltre, in un orizzonte di tutela della
donna e delle sue libertà, se l’ordinamento francese ha gli strumenti giuridici
per proteggere tutte quelle donne che intendono sottrarsi alla pratica
culturale di indossare il burqa.
[61] Decisione, 19.2.1997, Laskey, Jaggard e Brown c. Regno Unito. In particolare, un gruppo di
sadomasochisti era stato scoperto dalla polizia scozzese, e i promotori degli
incontri erano stati incarcerati e condannati, con altri partecipanti dai
giudici britannici, a cinque anni di carcere.
[62] Decisione, Ka/ad c. Belgio, del 17 febbraio 2005, riguardante un secondo caso di sadomasochismo, aventi ad oggetto alcune scene videoregistrate, nelle quali un medico e un magistrato torturano la moglie di uno di questi. La donna aveva dichiarato di essere stata consensuale alle sevizie, alle quali si era sottoposta spontaneamente. Tuttavia proprio le scene videoregistrate avevano consentito alla Corte di valutare la realtà e la continuità di questo consenso. Ed è questo l’argomento che la Corte ha utilizzato questa volta. La ragione per cui la corte di strasburgo ha emesso una sentenza di condanna è solo il fatto che il consenso di quest'ultima non era certo, proprio perché la capacità volitiva della stessa si era interrotta a più riprese, dal momento che in più intervalli aveva perso conoscenza. La Corte ha concluso quindi che non vi era alcuna certezza obiettiva che il consenso della donna fosse stato continuativo. Di conseguenza, la Corte ha ritenuto che non vi erano elementi sufficienti, per parlare ragionevolmente di libertà sessuale. In qualche modo l'accordo demarca la linea di separazione tra libertà sessuale e tortura.
[63] La stessa giurisprudenza
costituzionale (dec. 19 novembre 2009, 593 DC), ha tematizzato la dimensione della dignità come un valore
costituzionale fondamentale, in un'ottica di protezione dell’integrità del
corpo umano.
[64] A Lione, un giovane francese di venti anni, che aveva
percosso la sorella di quattordici anni perché si rifiutava di indossare il
velo islamico, è stato condannato a quattro mesi di carcere. La Corte d'appello ha
riformato la sentenza di primo grado, portando la condanna ad una pena
detentiva pari a nove mesi.
[65] Dec, 24 ottobre 2000, n.
98-14386, Président
M. Lemontey, Rapporteur M. Ancel.
[66] Ord, 6
febbraio 2007, n. 05-86495, Président M. Cotte.
[67] Decisione,
19 aprile 1993 , n.260/A,. Kokkinakis c. Grecia.
[68] Con riferimento a tali profili si
guardi anche: S. FERRARI, Integrazione
europea e prospettive di evoluzione della disciplina giuridica del fenomeno religioso,
pubblicato nel volume a cura di V.TOZZI, Integrazione europea e società
multiculturale,Torino, 2000, 132 ss.; F. MARGIOTTA BROGLIO (cur.),
Il fenomeno religioso nel sistema giuridico dell’Unione europea, in F.
MARGIOTTABROGLIO - C. MIRABELLI – F. ONIDA,
Religioni e sistemi giuridici. Introduzione al diritto ecclesiastico comparato,
Bologna, 2000, 87 ss.
[69] Decisione, del 10 novembre 2005,
n..4774/98, Leyla Sahin c. Turchia.
[70] Decisione, del 11 gennaio 2005, n. 35753/03, Phull v. France.
[71] Decisione, del 4 marzo 2008, n.15585/06, El Morsli c. France.
[72] Decisione del 4 dicembre 2008, n.27058/05,Dogru c. France.
[73] Decisione del 22 novembre 1995, C.R. e S.W. c. Regno
Unito,.
[74] Decisione del 4 dicembre 2003 M.C. c. Bulgaria.
[75] Decisione del 9 giugno 2009,
n.33401/02, Opuz
c. Turchia.
[76] Decisione del 12 maggio 2007 Refah Partisi c.
Turchia, che ha riguardato
la messa al bando di un partito, i cui membri avevano dichiarato che, una volta
al potere, avrebbero costituito la Sharia[76].
Il partito è stato sciolto e taluni suoi membri si sono rivolti alla Corte,
lamentando la violazione dell’articolo 11 della Convenzione.
[77] Assemblea nazionale, XIII
Legislatura, Rapport d’information, documento n.2262, del 26 gennaio 2010. (https://www.assemblee-nationale.fr/13/rap-info/i2262.asp).
[78] Tuttavia, a fronte di un giudizio così netto, si chiarisce
anche l’esigenza di una sfumatura di pedagogia della comprensione, di tolleranza e di
sensibilità, al fine di evitare la trappola dello stigma, cercando di
comprendere il percorso di queste donne.
[79] A tal proposito si segnala quanto detto dal
Presidente della Repubblica francese il 22 giugno 2009, sostenendo come il burqa non fosse il benvenuto sul
territorio francese, in quanto rinchiude le donne in una sorta di recinto che
non le fa dialogare con il mondo esterno. Tali valutazioni, unitamente a
profili emersi durante i lavori della commissione parlamentare di studio sulla
pratica di indossare il burqa,
vengono rafforzate da richiami espressi all’art. 34, 1c. Cost., alla
Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino (art IV e X), al preambolo
della costituzione francese del 1946, all’art.1 della Cost., alla Dichiarazione
universale dei diritti dell’uomo, alla Convenzione europea sui diritti
dell’uomo, al Patto internazionale sui diritti civili e politici, fino ad
arrivare alla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. Innegabile è
l’emergere da queste carte di un urlo di libertà, di uguaglianza e di tutela
dei diritti fondamentali degli individui anche se a parere dei proponenti il burqa in sé nega questa comunità di
diritti, facendo calare il sipario sul volto delle donne, che non hanno più
neppure la possibilità di manifestare il proprio viso. Per questo l’assemblea
nazionale dovrebbe in linea con le novità apprestate dall’ultima riforma
costituzionale, approvare una risoluzione forte, capace di riaffermare i valori
posti a fondamento dello stato-comunità francese, attraverso la tutela delle
donne vittime di violenza e la promozione di una libertà di coscienza calibrata
sulla laicità. Invero quanto appena descritto appare un poco contraddittorio, a
partire dall’ossimoro contenuto al punto 7 della proposta di risoluzione “Ritiene che la
libertà di coscienza può essere esercitato solo in conformità con il principio
di laicità”. Infatti dal testo emerge una
percezione della laicità piuttosto militante, basata sulla distinzione tra
religioni buone e compatibili con la repubblica, e religioni cattive ed in sé
pericolose per i valori della convivenza sociale. Sul punto c’è chi ravvisa
nell’uso del burqà l’espressione di un’identità
culturale incompatibile con l’ordinamento francese e quindi anche con il
principio di laicità, in particolare PH. CHRESTIA, La burqua est incompatible avec la nationalité française, in AJDA, 2008, 2013.
Insomma non si vuole
esprimere apertamente un divieto, ma il senso che se ne può trarre va in questa
direzione. Inoltre lo strumento della risoluzione, così come modificato dalla
riforma costituzionale, perde l’occasione per essere un momento di affermazione
della centralità e dell’indipendenza del parlamento, subendo una sorta di presidentalizzazione, riportando in sostanza sulla scena
politica ed istituzionale il pensiero del presidente della Repubblica, circa la
pratica del burqa. Conferma questa
che la nuova riforma costituzionale, nelle parti già attuative, più che
rimodulare la forma di governo, ridimensionando il ruolo del presidente, in
realtà forse ne ha solo delimitato meglio i poteri e le modalità di esercizio,
lasciandolo per altro, aldilà dell’investitura popolare, assolutamente
irresponsabile, anche per gli atti che indirettamente, e questo grazie al
rapporto diretto che ora può avere con il parlamento, riesce a sollecitare.
[80] La recente disposizione
costituzionale afferma che “le assemblee possono votare risoluzioni alle
condizioni stabilite dalla legge organica”, aggiungendo che “sono irricevibili
e non possono essere iscritte all'ordine del giorno le proposte di risoluzione,
di cui il Governo ritenga che la loro adozione o rigetto possa essere di natura
tale da mettere in causa la sua responsabilità o che esse contengano
ingiunzioni nei suoi confronti.” La scelta della risoluzione si dimostra, del
resto, particolarmente agile, dal momento che le proposte non sono sottoposte
alla commissione di cui al paragrafo 3 dell'articolo 136 del regolamento
dell'Assemblea Nazionale ed il tempo minimo tra la presentazione di una
proposta di risoluzione e la sua iscrizione all'ordine del giorno
dell'Assemblea Nazionale è di soli sei giorni, ai sensi dell'articolo 5 della
legge organica n. 2009 -403, 15 aprile 2009, e comma 5 dell'articolo 136
del regolamento dell'Assemblea (sul punto e più in generale sulla portata della
revisione costituzionale del 2008, cfr. P. COSTANZO, La “nuova” Costituzione
della Francia, Torino, 2009, 249).
[81] Assemblea nazionale, XIII Legislatura, séance du 25 novembre 2009, (https://www.assemblee-nationale.fr/13/cr miburqa/09-10/c0910014.asp).
[82] Avrebbe inoltre un ruolo di supporto per i funzionari pubblici davanti al fenomeno del velo integrale, che potrebbero “far riferimento a questa risoluzione per giustificare le decisioni quotidiane, che possono essere oggi fonti di contenziosi, in quanto talvolta vengono interpretate come segregazioniste”, come ha sottolineato Jean-Yves Le Bouillonnec, vicesindaco di Cachan. A tal fine, la risoluzione potrebbe essere diffusa nell’ambito dei servizi pubblici attraverso una circolare, dal momento che sarebbe utile al fine di farne valere i contenuti, porla all’attenzione di prefetti, sindaci, direttori e di tutti i soggetti potenzialmente interessati. Il testo della risoluzione potrebbe quindi essere diffuso formalmente nei servizi pubblici, fornendo così una maggiore legittimità alle decisioni dei funzionari pubblici.
[83] Il 29
aprile la Camera belga ha approvato un disegno di legge che prevede un'ammenda
che va dai 15 ai 25 euro fino ad una settimana di reclusione per chi, in luoghi
pubblici, indosserà abiti o copri capi che ne impediranno l'identificazione.
L'unica eccezione prevista è per le feste di carnevale ed in generale per gli
appuntamenti in maschera. E’ prevedibile che il senato la approverà entro
l’estate.
[84] Così
individuato, sarebbe per sua stessa natura un spazio condiviso, aperto a tutti
i consociati, e quindi sarebbe, per vocazione, un orizzonte di libertà,
sottoposto all'articolo 4 della Dichiarazione del 1789, secondo la quale questa
libertà consiste nel “poter fare tutto ciò che non nuoce ad altri”. Non ci
sarebbero limiti in questo spazio, se non “l’assicurare agli altri membri della
società il godimento degli stessi diritti”, e questi limiti potrebbero essere
determinati solamente dalla legge, secondo i termini della Dichiarazione o più
genericamente dell’ordinamento.
[85] Questo ragionamento
peraltro permette di giustificare la distinzione fatta, nel diritto pubblico francese,
tra spazio pubblico dedicato alla libertà di circolare, il cui inquadramento
giuridico si limita alle esigenze di sicurezza, e lo spazio pubblico dedicato
ad una servizio pubblico, che permette evidentemente l'esistenza di regole
specifiche e ulteriori, finalizzate a garantire lo svolgimento del servizio
stesso. Sul punto
cfr. J.TRAVARD,
Jean Rivero
et les lois du service public, AJDA 2010, 987.
[86] Ancora
si dovrà valutare se apprezzare il porto del velo in modo obiettivo, e quindi
come condotta isolata e autonoma, o qualificarla come una forma di
manifestazione di un'appartenenza religiosa. La domanda è di non poca
importanza, perché un testo di legge che andasse a colpire solo la condotta di
coprirsi il volto con determinati abbigliamenti e non con altri, creerebbe a
livello applicativo una serie di problemi di carattere discriminatorio, dal
momento che si assisterebbe ad una regola giuridica che verrebbe applicata al
solo velo integrale.
[87] È tuttavia noto come sia nel frattempo decollato nel Parlamento francese il procedimento legislativo tendente all’Interdiction de la dissimulation du visage dans l'espace public
(Assemblée nationale - PJ n° 2520 - 19 mai)