Guerino Fares
Appalti pubblici e misure
pro-concorrenziali: ancora da decifrare gli spazi per l’intervento normativo
delle regioni
La decisione in commento,
ponendosi dichiaratamente in scia alla più nota sentenza della stessa Corte
costituzionale n.
401/07, che di poco l’ha preceduta, aggiunge nuovi elementi alla
riflessione sul delicato tema delle competenze legislative in materia di
attività contrattuale della pubblica amministrazione.
Il settore interessato è,
precisamente, quello degli appalti pubblici di lavori, servizi e forniture,
disciplinati congiuntamente, per quanto attiene alla normativa nazionale, dal
d. lgs. 12 aprile 2006 n. 163.
Le statuizioni contenute
nelle due pronunce del giudice costituzionale appaiono convergenti ed
inequivoche nel ricondurre a titoli di competenza esclusiva statale entrambe le
fasi di cui notoriamente di compone tale modulo di attività nel suo complesso:
l’affidamento del contratto e la sua esecuzione.
Richiamando ampiamente i
principi affermati dalla sent. n. 401 [1],
Su tali premesse, viene
riconosciuta l’inderogabilità delle disposizioni racchiuse nel citato d. lgs. n.
163 del 2006 che regolano la procedura di evidenza pubblica e, in particolare, le
modalità di svolgimento delle gare, i requisiti di qualificazione e
partecipazione e le cause di esclusione dei concorrenti, i casi di anomalia
delle offerte e le relative forme di accertamento, i criteri di selezione dei
contraenti e di aggiudicazione dell’appalto [2].
Identiche conclusioni sono
raggiunte in ordine alla fase cronologicamente successiva; rifacendosi, anche
qui, al decisum della sent. n. 401,
In definitiva, «l’attività
contrattuale della pubblica amministrazione inerente agli appalti pubblici
consta di due fasi, la prima delle quali, relativa alla scelta del contraente,
si articola nella disciplina delle procedure di gara, riconducibile alla tutela
della concorrenza; la seconda, che ha inizio con la stipulazione del contratto,
corrisponde alla disciplina della esecuzione del contratto e deve essere
ascritta all’ambito materiale dell’ordinamento civile» [4].
Nel passo più importante e
denso di interrogativi viene delineato il ruolo che residua in capo alle
regioni dinanzi a disposizioni espressive del titolo di competenza statale
“tutela della concorrenza”: il carattere trasversale tipico di quest’ultima
esigerebbe che anche le normative con cui le regioni esercitano le proprie
competenze debbano poter produrre effetti proconcorrenziali sebbene a
condizione che siano, oltre che connessi alla specificità dei settori
disciplinati, “indiretti e marginali” e non contrastino con gli obiettivi posti
dalle norme statali che tutelano e promuovono la concorrenza.
Un tale ordine di proposizioni
viene supportato sul piano motivazionale dalla Consulta attraverso un raccordo
con altra sua rilevante decisione, coeva e resa in materia di organizzazione
del servizio farmaceutico (14 dicembre 2007 n.
430), i cui contenuti essenziali vengono pertanto riportati: la disciplina
dettata dal legislatore statale in materia di tutela della concorrenza può ben
essere integrale e dettagliata ed incide legittimamente sulla totalità degli
ambiti materiali in cui trova specifica applicazione senza arrecare alcun
sacrificio irragionevole e sproporzionato alle prerogative regionali; la stessa
disciplina, avendo ad oggetto la disciplina del mercato di riferimento delle
più varie attività economiche, “influisce” anche su materie rimesse alla sfera
delle competenze, concorrenti o residuali, delle regioni.
Si impone, a questo
punto, una doverosa puntualizzazione.
Nella giurisprudenza
costituzionale più risalente, ma pur sempre successiva alla riforma del titolo
V, aveva cominciato a profilarsi un’opinabile interpretazione dei tratti
fisionomici della materia in questione, affermandosi la necessità di sottoporre
ad uno scrutinio di proporzionalità ed adeguatezza la normativa statale onde
evitare che questa, esorbitando dall’obiettivo della tutela della concorrenza,
desse luogo ad una illegittima compressione dell’autonomia regionale (sentt. n. 345 e
n. 272 del 2004)
[5].
Le ultime pronunce
rinnegano opportunamente, e sia pure in modo non dichiarato, una simile opzione
esegetica, ed anzi tengono a precisare che: una volta ricondotta alla tutela
della concorrenza, la normativa nazionale «può avere anche un contenuto
analitico», non commisurandosi la sua proporzionalità ed adeguatezza
necessariamente al livello di dettaglio che essa presenta (sent. n. 401);
restano estranee alla tutela della concorrenza le sole misure statali «che non
intendono incidere sull’assetto concorrenziale dei mercati o che addirittura lo
riducono o lo eliminano» (sent. n. 430).
Non è, in altri termini,
l’area di intervento lasciata ai legislatori regionali ciò che conta, bensì la
effettiva funzionalizzazione allo scopo, si potrebbe dire il rispetto della
missione: accertare se realmente la singola disposizione scrutinata «sia
strumentale ad eliminare limiti e barriere all’accesso al mercato ed alla
libera esplicazione della capacità imprenditoriale».
Oltre a fornire un indispensabile
contributo di chiarezza e coerenza sistematica (come distinguere, altrimenti,
il proprium delle materie concorrenti
da quello delle materie trasversali spettanti allo Stato?), il nuovo indirizzo
inaugurato dal giudice costituzionale introduce un apprezzabile temperamento al
paradosso che è venuto in ogni caso a stabilirsi nel rapporto fra competenze ripartite
ed esclusive statali, quale emerge anche dalla lettura delle più recenti
decisioni.
Scorrendo, infatti, ancora
il testo della sent.
n. 430, che – come detto – fornisce la piattaforma argomentativa alla sent. n. 431
qui in commento, si prende atto del vincolo, posto a carico della regione, al
rispetto delle prescrizioni, anche a contenuto di dettaglio, fissate dal
legislatore statale nella materia concorrente della tutela della salute qualora
le medesime si risultino legate al principio fondamentale, che unicamente lo
Stato è abilitato ad adottare, da un evidente rapporto di coessenzialità e
necessaria integrazione: diviene, in tal modo, mobile ed elastico il confine
tra norme di principio e norme di dettaglio, secondo un’operazione logica
peraltro non inedita (cfr., invero, la sent. n. 336 del
2005 in tema di installazione di impianti di comunicazione elettronica [6]).
Sorprendentemente
generosa, al contrario, risulta la soluzione di legittimare interventi
normativi regionali in contesti di pertinenza esclusiva statale quali la tutela
della concorrenza, in cui la regione finirebbe, in pratica, per poter fare di
più di quanto le sia consentito in ambiti ricompresi nell’elenco di cui al comma
3 dell’art. 117 (per enunciati di analogo tenore, attinenti alla materia della
protezione civile, cfr. sent. n. 284 del
2006).
Anche nel tentativo di
disinnescare, almeno in parte, le singolari ricadute della contraddizione ora
evidenziata, ci si deve chiedere quali chances
di concreto coinvolgimento del legislatore regionale
È decisivo, in tal senso,
il significato da attribuire correttamente alla locuzione “effetti indiretti e
marginali”, che allude alla misura della capacità facoltà legiferante della
regione.
Ebbene, che gli effetti
pro-concorrenziali debbano essere spiegati in via indiretta suona come conferma
del fatto che la regione non ha competenza ad intervenire direttamente in
materia di tutela della concorrenza; la necessità che siano, oltre che mediati,
anche marginali sembra, poi, voler dire che, pur fondata su altri titoli di
propria competenza, la legislazione regionale non può prevedere una
regolamentazione integrale o completa di tutti i profili attinenti alla tutela
della concorrenza, potendo spiegare solo un intervento secondario o accessorio.
Ma quali possono essere, di
fatto, le ipotesi in cui si svolge un simile intervento non a titolo principale
della regione nel settore degli appalti?
Sembrano, decisamente, da
escludersi ingerenze nella regolamentazione delle procedure di gara: esse
rientrano direttamente ed interamente nella sfera di competenza statale (così la sent. n. 401,
evidenziando la forte connessione tra le esigenze di salvaguardia delle libertà
comunitarie e dei principi di non discriminazione e parità di trattamento e la
necessità di una disciplina unitaria).
Sarebbe, d’altro canto,
difficilmente conciliabile sul piano sistematico un intervento della regione
che accresca il diritto di partecipare mitigando la soglia di anomalia delle
offerte o inasprendo i casi di ricorso alla procedura negoziata: qui verrebbero
in gioco, infatti, interessi contrapposti da bilanciare (efficacia e
tempestività dell’azione amministrativa) secondo parametri di uniformità
territoriale anche a voler escludere che quella statale possa fungere da privilegiata
norma interposta rispetto all’art. 97 Cost. (sull’unitarietà procedimentale, v.
sent. n. 336 del
2005, cit.).
Il quadro è assai
complicato:
Le procedure di evidenza
pubblica sono procedimenti amministrativi che, non per l’oggetto ma per gli
aspetti che le caratterizzano e soprattutto le finalità cui tendono, vengono
attratti nella materia-funzione tutela della concorrenza, materia che – come
tutte quelle definite da uno scopo o da un obiettivo (determinazione dei
livelli essenziali delle prestazioni, tutela dell’ambiente, sicurezza dello
Stato, tutela del risparmio, coordinamento informativo, tutela del lavoro,
ecc…) – tende a debordare in ambiti assegnati ad altri livelli di governo: il
fine da promuovere o il valore da tutelare tende, cioè, ad ignorare i confini
delle competenze.
Come ben posto in luce in
dottrina, la concorrenza, al pari della difesa, dell’ordine pubblico, della
sicurezza, è un valore, è il fine pubblico consistente nel promuovere o
consolidare, ove già instaurata, una situazione di fatto, o meglio una
relazione fra una pluralità di soggetti che consenta loro di competere
liberamente e ad armi pari in un determinato settore economico: la tutela della
concorrenza implica, dunque, la tutela del mercato e si risolve in un limite
indirizzato, in primo luogo ma non solo, alla potestà legislativa regionale,
concorrente o esclusiva [9].
Solo muovendo da un tale scenario
di fondo, è possibile astrattamente ritenere anche le regioni legittimate ad
emanare norme tese ad implementare gli spazi di concorrenzialità nel mercato di
volta in volta considerato (qui, degli appalti pubblici), benché compatibili
con le regole essenziali che informano le procedure di gara: non è in base al
carattere trasversale di una competenza pur sempre esclusiva dello Stato che
può invocarsi un coinvolgimento delle autonomie regionali, ma piuttosto facendo
leva sulla natura della concorrenza quale valore protetto sul piano
costituzionale e comunitario.
Non è affatto semplice, tuttavia,
immaginare quali possano essere nel concreto questi spazi di intervento, tanto
più alla luce di quanto statuito dalla sent. n. 401,
secondo cui nel settore degli appalti «deve ritenersi che la interferenza con
competenze regionali si atteggia in modo peculiare, non realizzandosi
normalmente un intreccio in senso stretto con ambiti materiali di pertinenza
regionale, bensì la prevalenza della disciplina statale su ogni altra fonte
normativa».
Si tratta di un inciso
fondamentale e gravido di implicazioni problematiche da sviluppare, dopo aver
tentato di mettere a fuoco i postulati logico-giuridici che gli fanno da
sfondo.
Ora prendiamo atto di un
nuovo dato: la tutela della concorrenza presenta tratti di ulteriore
peculiarità rispetto alle altre materie a vocazione trasversale.
Riflettendo sul modo di
atteggiarsi di queste altre competenze, l’assunto può essere, in effetti,
compreso.
Se si pensa, ad es., alla
determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni, ci si rende conto che
essa presuppone, per l’appunto, l’esistenza di diritti civili o sociali da
garantire in modo uniforme sul territorio.
Analoga constatazione si
raggiunge nel caso del coordinamento informativo statistico e informatico dei
dati dell’amministrazione statale, regionale e locale: anche qui preesiste un quid da coordinare (ossia l’oggetto della
potestà di coordinamento), e può inoltre verificarsi un’interferenza forte (es.
con gli aspetti di rilevanza organizzativa).
Lo stesso è a dirsi per
la tutela dell’ambiente, che postula la preesistenza di beni ambientali o
culturali o dell’ecosistema.
La tutela della
concorrenza, invece, coincide puramente e semplicemente con le condizioni per
la sua realizzazione e, in quanto tale, ha un ontologico ed ineliminabile
carattere di genericità ed astrattezza quanto al substrato materiale da
incidere, che perciò la differenzia anche da altre materie trasversali sempre teleologicamente
caratterizzate ma che assumono ambiti di intervento o di disciplina più o meno
delimitabili (sicurezza dello Stato, tutela del risparmio, tutela del lavoro).
La competenza in materia
di concorrenza nel settore degli appalti pubblici non si intreccia, pertanto, in
senso proprio con le competenze regionali, considerato pure che l’attività
contrattuale della p.a. ha, a sua volta, un oggetto a priori indefinito e che peraltro si concretizza non all’atto
dell’esercizio del titolo di competenza statale ma al momento dell’indizione
della gara da parte dell’amministrazione aggiudicatrice, e che può vertere in
materie sia esclusive (come i servizi pubblici locali o la formazione
professionale) sia concorrenti (es. porti e aeroporti civili, protezione
civile, alimentazione, grandi reti di trasporto, produzione e distribuzione
dell’energia, ecc…): l’oggetto della concorrenza (l’assetto concorrenziale del
mercato) non coincide con l’oggetto dell’appalto (la materia).
Si vuol dire, in altre parole,
che i diritti e i beni dei soggetti, i mercati (es. telecomunicazioni, energia)
e i vari possibili settori (trasporti, ecc…), insomma tutto ciò che può essere
inciso da atti legislativi miranti alla tutela della concorrenza si dispone
sempre in una condizione di alterità rispetto a quest’ultima, che si configura
di conseguenza come un’entità separata e resistente all’amalgama con altri
ambiti materiali, che, a ben vedere, sovrasta o affianca.
Dire che la tutela della
concorrenza non forma intrecci in senso stretto significa, in sostanza, che
essa non interseca, permeandole, altre materie, bensì le sorvola o le lambisce,
in ogni caso imponendosi ad esse in via di principio (“prevale”, nella
terminologia impiegata della sent. n. 401) e
senza quindi richiedere l’utilizzo di strumenti cooperativi [10],
nemmeno in sede di esercizio del potere regolamentare [11].
Possono verificarsi, riepilogando,
due possibili modelli relazionali: una estrinsecità di tipo verticale (sovrapposizione)
ed una estrinsecità in senso orizzontale (lateralità) che vede situarsi le possibili
competenze regionali in una posizione, rispettivamente, sottostante o contigua
a quella occupata dalla tutela della concorrenza.
Nel momento in cui, con
l’indizione della gara, viene ad attualizzarsi l’oggetto dell’appalto (es.
forniture aeroportuali oppure lavori per la realizzazione di una grande rete di
navigazione), l’autorità amministrativa sarà tenuta ad osservare le eventuali
misure proconcorrenziali che, nei ristretti limiti sopra precisati, le regioni
abbiano eventualmente adottato, legiferando in una delle due materie, stando all’esempio
surriportato, di competenza ripartita; e tenendo, comunque, ben presente che la
disciplina della procedura concorsuale sarà pressoché integralmente assorbita
nella potestà legislativa statale di tutela della concorrenza, eccettuati gli
eventuali profili di competenza, rispetto a quest’ultima però eterogenei,
afferenti ad esempio all’organizzazione amministrativa (si pensi alla
composizione del seggio di gara) o al governo del territorio o alla
programmazione dei lavori o agli istituti procedimentali che ricadano in sfere
di competenza residuale o concorrente (come la definizione dei compiti e
requisiti del responsabile del procedimento, ma il punto è controvertibile,
privilegiando lo scrivente la soluzione della sussumibilità nella lett. m dell’art. 117, comma 2).
A parte le menzionate
eccezioni, il prevalere delle disposizioni statali ispirate dal fine di tutela
della concorrenza sulle altre fonti normative risulta, invero, evidente nella
coordinata sequela diacronica di istituti, momenti ed attività in cui si
sostanzia la fase della procedura di evidenza pubblica.
L’attività di
progettazione, ad es., che dovrebbe essere attratta nell’ambito materiale di
appartenenza dell’opera da realizzare, oppure la disciplina dei criteri di
predisposizione dei piani di sicurezza, che dovrebbe rientrare nella materia a
competenza ripartita della tutela e sicurezza del lavoro, vengono assorbite
nella competenza statale, in quanto il fine di tutela della concorrenza prevale
sulla spettanza del titolo competenziale che nella circostanza si
“materializza”.
In conclusione, dalla
sperimentazione di entrambi i piani di indagine (orizzontale e verticale) [12]
scaturisce una medesima certezza: la tutela della concorrenza, materia-funzione
a valenza teleologica ed assiologica e ad oggetto ontologicamente astratto,
prevale sulle altre competenze, sia che le incroci nell’arco della
regolamentazione della procedura di affidamento – esclusi, per la loro
eterogeneità e non assoggettabilità al giudizio di prevalenza, taluni aspetti
di disciplina – sia che vi si sovrapponga nel corso dello svolgimento della
gara d’appalto specificamente bandita, tranne la limitata facoltà di
integrazione normativa proconcorrenziale ad effetti indiretti e marginali.
Una comune ratio autorizza interventi regionali a
carattere integrativo anche al cospetto della funzione espletata dallo Stato
attraverso l’esercizio della potestà legislativa in materia di ordinamento
civile: anche qui, non sarà possibile porre in discussione gli elementi
fondanti della disciplina, ad es. i casi di sospensione dell’esecuzione o il
subentro di altre imprese o le modalità di consegna dei lavori, senza
pregiudicare il buon esito della prestazione.
Analogamente, non è
ammessa l’alterazione delle regole stabilite dal legislatore nazionale nella
ricerca di un equilibrio che non generi ingiusti vantaggi o svantaggi
competitivi, introducendo discriminazioni legate alla territorialità del
mercato: si pensi ad una sanatoria per le imprese che abbiano violato
prescrizioni in tema di sicurezza o regolarità contributiva; o alla previsione
di ulteriori ipotesi di trattativa privata o di procedure di gara maggiormente
semplificate; o al conferimento di un diritto di prelazione che consenta di
essere preferito all’aggiudicatario, ceteris
paribus, al promotore che abbia presentato all’amministrazione proposte
relative alla esecuzione di opere da realizzarsi con l’apporto di capitale
privato; o alla modifica delle modalità di validazione dei progetti o di determinazione
del corrispettivo per l’affidamento dei lavori; o ad una disciplina
differenziata circa il ricorso alle spese in economia.
Non paiono esservi molti
dubbi riguardo al fatto che le norme regionali integrative debbano produrre un
aumento del livello di concorrenzialità. Per il resto, un criterio più puntuale
potrebbe essere desunto in via empirica dalla stessa giurisprudenza
costituzionale, che ha mostrato, in una significativa pronuncia concernente i
servizi pubblici locali (sent. n. 29 del
2006), aperture verso il legislatore regionale nei casi di vuoto di
disciplina statale, mostrandosi viceversa irriducibile nell’arginare tentativi
di deroga a disposizioni aventi carattere anche soltanto transitorio: in
specie, il differimento – con portata di “complessivo riequilibrio” e
“progressivo adeguamento del mercato” – disposto dalla legge nazionale
dell’entrata in vigore di un divieto a valenza pro-concorrenziale la cui
efficacia veniva tuttavia precluso alla regione anticipare [13].
[1] Fra cui,
il passo ove viene rimarcata la finalizzazione della disciplina delle procedure
di gara ad assicurare il rispetto delle regole concorrenziali e dei principi
comunitari di garanzia delle libertà di stabilimento, di circolazione delle
merci e di prestazione dei servizi, nonché dei principi costituzionali di
trasparenza e parità di trattamento. La sentenza ha, in sostanza, convalidato
la scelta del legislatore nazionale di farsi interprete delle predette esigenze
ed unificare all’interno di un unico testo normativo l’intera ed esaustiva
trama di regole concernenti i contratti pubblici di appalto, scelta posta non
troppo velatamente in discussione da parte della dottrina: v., ad es., L.A. Mazzarolli, Il concetto di «materie» nell’art. 117, Titolo V, Cost. Se i «lavori
pubblici» e gli «appalti pubblici» si prestino a esservi riportati e come si
attui, per essi, il riparto di competenze tra enti, in Regioni, 2007, 473 ss.; A. Ambrosi,
L’applicazione del nuovo Codice dei
contratti pubblici tra legge regionale e disposizioni comunitarie, ivi, 515 ss. Preoccupato di contenere,
più in generale, l’erosione degli ambiti di competenza concorrente ad opera
della legislazione statale, D. Messineo,
Competenze finalistiche concorrenti e
giudizio costituzionale: sindacato teleologico vs limite dei principi, ivi, 543 ss.
[2] Nel senso
dell’implicita abrogazione delle normative regionali incompatibili con il d.
lgs. n. 163/06 si è nettamente espresso Tar
Puglia – Lecce, sez. II, 26 gennaio 2007 n. 178 (in Urb. app., 2007, 633 ss., con nota di I. Filippetti, L’abrogazione
delle leggi regionali contrastanti con il nuovo Codice appalti), a
proposito di una disposizione che, introducendo l’onere a pena di esclusione
per i concorrenti di allegare giustificazioni preventive circa gli elementi
costitutivi dell’offerta presentata, incideva sul diritto di partecipazione
delle imprese alla gara. Sui diversi punti di emersione dell’interesse pubblico
primario alla concorrenza nella procedura concorsuale, e relative tecniche
normative di tutela, si rinvia a Fr.
Garri – Fa. Garri, Disciplina del mercato dei lavori pubblici,
in Riv. trim. app., 2006, fasc. 2,
292 ss. Fa notare, del resto, A. Carosi,
La disciplina dell’affidamento di
incarichi di progettazione nelle amministrazioni pubbliche alla luce
dell’influenza del diritto comunitario, in App. urb. ed., 2005, 537, che «i cardini della concorrenza negli
appalti possono essere identificati nella pubblicità, nella qualificazione
professionale, concretamente riferita alla prestazione richiesta, nei criteri
di aggiudicazione di natura quali-quantitativa».
[3] Sul
collaudo la sentenza si sofferma particolarmente, rilevando come esso, da un
lato, conservi una “prevalente natura privatistica” benché caratterizzato anche
da tratti di matrice pubblicistica, e, dall’altro, svolga una parallela
funzione di presidio della concorrenzialità del mercato. All’ambivalenza del
collaudo, si unisce il suo situarsi a cavallo anche fra ordinamento civile e
organizzazione amministrativa, benché con prevalenza della prima materia sulla
seconda, come precisato dalla sent. n. 401.
[4] Il brano
riecheggia chiaramente la sottolineatura della “struttura bifasica” operata
dalla sent. n.
401.
[5] In senso
adesivo, in dottrina, A. Concaro – I.
Pellizzone, Tutela della
concorrenza e definizione delle materie trasversali: alcune note a margine
della sent. n. 345 del 2004 della Corte costituzionale, in Regioni, 2005, 434 ss.
[6] Nel senso
che gli interessi infrazionabili non possono essere lasciati solo agli accordi
interregionali né possono considerarsi sempre soddisfatti dall’esercizio delle
competenze secondo il rigido elenco dell’art. 117 Cost., M. Carli, I limiti alla potestà legislativa regionale, in Regioni, 2002, 1368 ss.
[7] M. Libertini, La tutela della concorrenza nella Costituzione italiana, in Giur. cost., 2005, 1435, il quale si
esprime per la «sottrazione alle regioni e agli enti locali di qualsiasi potere
(normativo od amministrativo) di intervento positivo in materia, ancorché con
finalità integrative o rafforzative degli standard di intervento determinati
dalla normativa statale». Di diverso avviso, R. Caranta,
La tutela della concorrenza, le
competenze legislative e la difficile applicazione del Titolo V della
Costituzione, in Regioni, 2004,
990 ss.
[8]
L’affermazione, peraltro discutibile, relativa ai lavori pubblici è contenuta
nella sent. n.
303 del 2003; la sent. n. 465 del
1991 ha, invece, escluso per prima l’identificazione del procedimento con
una materia; analoga soluzione, riguardo all’attività contrattuale, è stata
maturata dalla sent.
n. 401 del 2007.
[9] G. Corso, La tutela della concorrenza come limite della potestà legislativa
(delle regioni e dello Stato), in Dir.
pubbl., 2002, 981 ss., che pone in luce come tale limite operi anche nei
confronti del legislatore statale, il quale «dovrà trattare la concorrenza non
come un fatto da regolare (magari in modo restrittivo della sua portata), ma
come un valore o un bene o un fine da promuovere» (985). Il concetto di
concorrenza effettiva come bene giuridico costituzionalmente tutelato, rileva
d’altra parte M. Libertini, La tutela della concorrenza nella
Costituzione italiana, cit., 1434, «denota un processo dinamico e non una
certa struttura del mercato», dovendosi procedere alla sua ricostruzione sulla
base di tre elementi, quali: la mancanza di barriere all’ingresso; il riscontro
di una libertà effettiva di scelta dei consumatori; la sussistenza di un reale
processo dinamico, connotato da innovazioni tecniche, commerciali ed
organizzative.
[10] In merito,
si veda, per maggiori approfondimenti, V. Lopilato,
Appalti e servizi pubblici fra Stato e
Regioni, in www.giustamm.it,
2007, n. 12, 15 ss. del dattiloscritto.
[11]
Un’interferenza forte non si determina, dunque, fra la concorrenza ed altre
competenze le quali restano separate o perché contigue ad essa nel dispiegarsi
della gara ma tuttavia eterogenee oppure dalla stessa assorbite, o perché
situate all’esterno della procedura concorsuale. La trasversalità sui generis della tutela della
concorrenza è rivelata, in dottrina, da G. Corso,
Tutela della concorrenza, in G. Corso
– V. Lopilato (a cura di), Il diritto
amministrativo dopo le riforme costituzionali, p. spec., vol. I, Milano,
2006, 27 ss., che ne evidenzia il modus
operandi distinto da quello delle altre competenze trasversali prive di un
oggetto predefinito e che viene individuato all’atto del loro effettivo
esercizio, il quale solo vincola pertanto le interferenti competenze regionali
e statali; la tutela della concorrenza, al contrario, opera «anche quando manca
una legge statale con la quale la legge regionale contrasti, ma ciò nonostante
la legge regionale violi il principio di concorrenza»; specularmente, l’a.
deduce la costituzionalità della norma regionale «sebbene si discosti dalla
legge statale in tema di concorrenza se essa è più “concorrenziale” della
corrispondente norma di legge statale», cioè dagli standards immodificabili in senso peggiorativo da questa definiti
(32).
[12] Per una
pregevole impostazione dell’analisi secondo i due piani, orizzontale e
verticale, cfr. ampiamente V. Lopilato,
Appalti e servizi pubblici fra Stato e
Regioni, cit., 11 ss., il quale perviene a conclusioni in parte simili a
quelle elaborate nel presente scritto.
[13] Le lacune
della legislazione statale, dinanzi a cui si consentiva (per l’appunto “nel
silenzio” o “in mancanza di una qualsiasi previsione” della prima) il
ragionevole esercizio della discrezionalità dei legislatori regionali
riguardavano, rispettivamente: il divieto per le società a capitale interamente
pubblico proprietarie delle reti di partecipare alle gare per la scelta del
gestore del servizio o del socio privato della società mista; la definizione
della quota minima di partecipazione al capitale sociale del socio privato da
scegliere con procedura di evidenza pubblica.