LE ZONE D’OMBRA NEL GIUDIZIO DI LEGITTIMITÀ COSTITUZIONALE IN VIA PRINCIPALE

(Versione provvisoria)*

di

Marilisa D’Amico

(Ordinario di Diritto costituzionale nella Facoltà di Giurisprudenza dell’Università degli studi di Milano)

1. Considerazioni introduttive: la riforma costituzionale del 2001 fra interpretazione sostanziale e scelte processuali. 2. I vizi delle leggi: la Corte conferma il vecchio squilibrio fra Stato e Regioni sul parametro utilizzabile. 2.1 La controversa utilizzazione dell’interesse a ricorrere. 2.2 L’inammissibilità di questioni aventi a parametro gli artt. 76 e 77 Cost. fra regola ed eccezioni. 2.3 Ricorso statale e regime di “autonomia costituzionale” cui fare riferimento. 3. Il sindacato costituzionale sugli elementi dei ricorso. La Corte oscilla fra rigore e lassismo: corrispondenza fra delibera del Consiglio dei Ministri e ricorso. 3.1 Segue: corrispondenza fra delibera della Giunta e ricorso. 3.2 I requisiti “minimi” del ricorso. 4. Problematiche attinenti ai poteri della Corte sul thema decidendum: stralcio, riunione dei ricorsi e principio della corrispondenza fra chiesto e pronunciato. 4.1 La scomposizione delle questioni: la Corte opera selezioni in modo discrezionale. 4.2 Impugnazione di intera legge: la Corte ne afferma l’impossibilità in linea teorica, ma molte e discutibili sono le eccezioni. 4.3 Trasferimento dell’oggetto della questione. 5. La formale chiusura del contraddittorio agli interventi di soggetti diversi dalle parti necessarie del giudizio. 6. Il (discutibile) rigore in ordine alla perentorietà dei termini processuali. 7. Novità nello strumentario processuale: la Corte torna ad occuparsi degli effetti delle proprie decisioni in nome del principio di “continuità”. 8. Aspetti processuali del giudizio sugli statuti regionali. 9. Gli interrogativi del “processualista”.

 

 

1. Considerazioni introduttive: la riforma costituzionale del 2001 fra interpretazione sostanziale e scelte processuali

 

Affrontare a tutto campo una riflessione sugli elementi controversi del giudizio “in via principale” consente di ragionare a fondo sul ruolo del Giudice costituzionale nell’inveramento della riforma “federalista”; del resto, a quasi cinque anni dall’entrata in vigore della riforma costituzionale del Titolo V, è possibile tracciare alcuni punti fermi della giurisprudenza costituzionale.

C’è un filo rosso che unisce la giurisprudenza costituzionale sul nuovo Titolo V - la quale ha interpretato il dettato costituzionale in modo molto diverso, a mio avviso, rispetto al quadro costituzionale emergente dal solo “testo” della Costituzione, alla luce anche delle letture date dai primi commentatori - e le scelte processuali della Corte[1].

In modo più o meno consapevole, nell’affrontare la sostanza e il processo, la Corte, come rilevato da unanime dottrina[2], ha scelto la linea della “continuità”.

Sulla Carta, il legislatore costituzionale introduceva, infatti, una vera e propria inversione di ruoli fra Stato e Regioni in relazione alle competenze legislative, nel senso che le competenze statali divenivano tassative e numerate, mentre la legge regionale assurgeva a fonte “a competenza generale”, dal momento che tutte le materie non espressamente previste nei commi 2 e 3 del nuovo art. 117 Cost. divenivano, ai sensi del comma 4 dell’art. 117 Cost., di “competenza regionale”.

Parimenti, il controllo di costituzionalità sulle leggi regionali mutava profondamente, dal momento che diveniva successivo rispetto all’entrata in vigore della legge, ed identico, quanto ai termini di impugnazione, a quello spettante alle Regioni nei confronti delle leggi statali.

Il legislatore costituzionale intendeva dunque creare una forma di Stato nella quale Stato e Regioni fossero su un piano di sostanziale parità e nel quale le competenze legislative fossero ripartite fra di essi secondo uno schema tipico degli Stati a tradizione federale; il processo costituzionale, di conseguenza, avrebbe dovuto riflettere questa scelta ordinamentale.

La giurisprudenza costituzionale, nell’interpretazione della riforma e delle stesse materie[3], pur non svalutandola completamente, ne ha però eroso, poco a poco, il suo significato “rivoluzionario”[4].

Così, in particolare, quella che avrebbe dovuto essere un contenitore aperto, che avrebbe potuto accrescere a dismisura le materie di competenza della Regioni, in quanto potenzialmente in grado di accogliere tutte le materie “nuove”, e cioè la competenza esclusiva regionale ex art. 117, comma 4, Cost., è stata dalla Corte interpretata in modo molto riduttivo[5]; ancora più evidente è stato il tentativo ”in alcuni casi notevolmente creativo, diretto a trovare un fondamento costituzionale a interventi legislativi statali che, a prima vista, potrebbero apparire estranei all’elenco “tassativo” delle competenze centrali enunciate nel secondo e terzo comma dell’art. 117 Cost.”[6].

Infatti, nell’interpretare il significato complessivo dei rapporti fra Stato e Regioni, la Corte sceglie la strada di un regionalismo che non traccia una linea di separazione fra materie, ma che prevede, invece, una cooperazione e collaborazione fra Stato e Regioni, anche in materie di competenza esclusiva regionale: avallando il principio dell’ “attrazione in sussidiarietà”, nella nota sent. n. 303 del 2003[7], confermato in numerose pronunce degli anni successivi[8], la Corte giustifica non soltanto l’esercizio di funzioni amministrative da parte dello Stato in materie di competenza regionale, ma, altresì, che lo stesso Stato possa intervenire nelle stesse materie con una legislazione statale di dettaglio; leggendo in modo ampio le competenze statali “trasversali”, consente che, ad esempio, lo Stato intervenga a tutela della concorrenza direttamente per “promuovere l’economia nazionale” (sent. n. 14 del 2004, il cui principio si ritrova in numerose successive decisioni)[9]; affermando, di recente, che “sussiste una ineludibile responsabilità degli organi statali in tema di scelte di politica economica di sicura rilevanza nazionale, anche al di là della specifica utilizzabilità dei singoli strumenti elencati nel secondo comma dell’art. 117 Cost.”[10], la Corte crea uno strumentario teorico che permette di ridefinire di volta in volta i confini delle materie e, dunque, gli spazi di autonomia.

Questo orientamento giurisprudenziale espansivo della potestà legislativa statale ha trovato un’ulteriore espressione nella disciplina di quelle materie che, per effetto della riforma, hanno mutato titolarità tra Stato e Regioni. Pur affermandosi il principio della “reciproca cedevolezza” - espressiva, come detto, dell’esigenza di continuità dell'ordinamento giuridico e codificata dalla Legge “La Loggia” - la Corte ha talvolta forzato questo principio, legittimando non solo leggi preesistenti alla riforma e divenute incompetenti per effetto della stessa, ma, anche - e proprio qui, a mio modo di vedere, sta la “forzatura” - leggi successive alla riforma che intervengono in materie ormai completamente regionalizzate (si consideri, ad esempio, quanto accaduto con la sent. n. 255 del 2004 in tema di contributi alle attività dello spettacolo)[11].

Ma si pensi, ancora, alla controversa questione sul “condono edilizio” decisa con la sent. n. 196 del 2004, ove l’applicazione del principio di continuità finisce con l’incidere sugli effetti nel tempo della decisione della Corte (decisione sulla quale v. anche par. n. 7).

Pertanto, per chi ragiona nell’ottica di spazi di maggiore competenza delle Regioni, l’analisi complessiva della giurisprudenza costituzionale dà l’impressione di un ridimensionamento del significato originario della riforma[12].

Secondo Valerio Onida[13](…) le norme costituzionali sul riparto di competenze fra centro e periferie sono, si direbbe per loro natura, fra le più “elastiche”. Le esigenze “di ragione” e di opportunità istituzionale prevalgono su una lettura letterale o anche solo restrittiva degli elenchi di materie. Il che comporta che la “rivoluzione” del 2001, con il rovesciamento dei rapporti fra legislazione statale (ormai circoscritta alle materie elencate) e legislazione regionale “residuale”, produce effetti meno drastici di quelli che si sarebbero potuti pensare”.

Al tempo stesso, l’analisi di questa giurisprudenza ci rende consapevoli che qualsiasi riforma costituzionale deve fare i conti con il contesto socio-giuridico in cui viene calata, che è determinante per l’inveramento della riforma stessa e di cui si dovrebbe tenere conto prima di elaborare i meccanismi tecnici, i quali non dovrebbero mai essere fatti in modo astratto e a tavolino[14].

Molti commentatori hanno parlato, e parlano ancora oggi, di una notevole “ambiguità” della riforma costituzionale, che é la vera causa del ruolo assunto dalla Corte nella sua interpretazione e, oserei dire, correzione. Vero è che rispetto ad altri modelli federali il legislatore del 2001 era stato cauto e aveva, ad esempio, assegnato allo Stato molte materie, in grado effettivamente di incidere sulle materie di competenza regionale, anche esclusiva. Tuttavia, a mio avviso, l’intento del legislatore di ribaltare il rapporto fra legge regionale e legge statale era chiarissimo, come pure era chiara la volontà di operare una parificazione fra gli enti in ordine al controllo di costituzionalità: l’ambiguità, se mi si passa questa affermazione, è creata invece dallo Stato, il quale continua ad interpretare il suo ruolo come se nulla fosse cambiato, e dunque legifera pienamente anche in materie di competenza regionale; dalle Regioni, le quali appaiono del tutto inconsapevoli del mutato ruolo sul piano legislativo, e non esercitano affatto, in molti casi, le competenze nelle materie di loro spettanza; dalla stessa Corte costituzionale, la quale legge le norme costituzionali alla luce delle leggi esistenti e non viceversa, erodendo i nuovi spazi assegnati sulla carta alle Regioni.

Le scelte processuali della Corte costituzionale confermano pienamente l’atteggiamento tenuto sul piano sostanziale.

La Corte rimane all’interno della tradizione: anzi, continuando ad applicare alcuni istituti come se nulla fosse cambiato, esalta tutte le sue scelte di merito nell’ottica della continuità e della necessità di rimanere, attraverso l’utilizzazione e la creazione di strumenti processuali “morbidi”, arbitro indiscusso dei rapporti fra Stato e Regioni[15].

Il filo rosso, dunque, che unisce la giurisprudenza sostanziale e il processo è quello di una lettura della riforma alla luce della realtà esistente, riforma incapace, almeno leggendo le decisioni costituzionali, di operare quella rivoluzione “copernicana” che il legislatore costituzionale auspicava, forse con una certa dose di ingenuità, ma che i primi commentatori, fra cui la sottoscritta, forse ancor più ingenuamente, esaltavano[16].

Un’analisi a tutto campo delle scelte processuali smentisce le profonde considerazioni di Roberto Bin[17], il quale riteneva, giustamente, che, sulla carta, l’unica vera novità della riforma costituzionale fosse il nuovo art. 127 Cost.: la parità processuale avrebbe trasformato, secondo l’autore, a fondo i rapporti fra lo Stato e le Regioni, più dell’apparente trasformazione dell’ampiezza delle competenze legislative sancita dall’art. 117 Cost. Con la propria giurisprudenza, come vedremo, la Corte rende impraticabile questo suggestivo scenario, adattando il processo all’assetto sostanziale, interpretato in senso riduttivo.

Si conferma così quella inestricabile relazione fra sostanza e processo[18]: anzi, una particolare dipendenza delle scelte istituzionali della Corte e l’utilizzazione degli strumenti processuali, come acutamente rileva Giorgio Berti: “Può essere che, adottata l’idea guida per la quale le peculiarità del giudizio di costituzionalità reagiscono sulla disciplina del processo, anche taluni principi generali del diritto processuale si flettano e subiscano quindi una perdita di tensione. Non si può tuttavia sbarazzarsi facilmente dell’impressione che il Giudice costituzionale preferisca riversare nella conduzione del processo il peso della sua posizione istituzionale, anziché accettare in primo luogo quella comunanza di regole processuali, nella quale si fa consistere in fin dei conti il compendio di garanzie che danno ragion d’essere al processo[19].

 

2. I vizi delle leggi: la Corte conferma il vecchio squilibrio fra Stato e Regioni sul parametro utilizzabile

 

Nel precedente assetto costituzionale, come noto, fin dalla sent. n. 30 del 1959, la Corte costituzionale aveva ammesso che lo Stato potesse censurare una legge regionale per qualsiasi vizio di legittimità costituzionale, mentre la Regione era legittimata a dedurre solamente la violazione di parametri costituzionali incidenti sull’autonomia regionale[20].

Questa disparità di trattamento, criticata da parte della dottrina, veniva giustificata dal Giudice costituzionale non solo alla luce di argomenti testuali (la diversa formulazione contenuta nell’art. 127 Cost. relativa all’interesse a ricorrere di Stato e Regioni: queste ultime legittimate ad impugnare la legge statale che “invada la propria sfera di competenza”; il primo, invece, legittimato a ricorrere contro la legge regionale che “ecceda la competenza” della Regione), ma anche per motivi di ordine sistematico, basati sulla natura “preventiva” del controllo statale: allo Stato era riconosciuta, come volevano gli stessi Costituenti, una funzione di tutela generale dell’ordinamento e di garanzia dell’unità e indivisibilità della Repubblica - la c.d. funzione di “polizia costituzionale”, secondo l’efficace espressione di Gustavo Zagrebelsky -[21], che giustificava un suo intervento a difesa di qualunque parametro costituzionale, tale da impedire l’entrata in vigore di una legge regionale con esso contrastante.

All’indomani della riforma costituzionale alcuni autori avevano osservato che la nuova impostazione dell’art. 127 Cost., in base alla quale Stato e Regioni avrebbero dovuto essere sottoposti ad un identico controllo successivo, avrebbe dovuto comportare una equiparazione sul piano processuale, sotto il profilo dell’interesse a ricorrere e, dunque, dei vizi denunciabili[22]; in tal senso era stato interpretato un obiter dictum della sentenza n. 282 del 2002[23].

In ogni caso, l’esame dei lavori preparatori della legge costituzionale n. 3 del 2001, che pure trascura, anche terminologicamente, il piano dell’interesse a ricorrere[24], mostra la chiarissima volontà del legislatore di operare, sul piano processuale, la completa equiparazione del giudizio in via principale fra lo Stato e le Regioni[25]: nella relazione di maggioranza gli onorevoli Soda e Cerulli Irelli[26] esprimono la volontà di realizzare una parità tra Stato e Regioni di fronte alla Corte, parità che dovrà compiersi “prevedendo che anche il Governo possa promuovere (in via successiva) dinanzi alla Corte costituzionale questione di legittimità costituzionale su una legge regionale soltanto qualora ritenga che essa ecceda la competenza della Regione medesima, e non anche per qualunque vizio di incostituzionalità”.

Tuttavia il nuovo testo dell’art. 127 Cost., pur ponendo Stato e Regioni sullo stesso piano in ordine alle modalità e ai tempi dell’iniziativa, mantiene invariata la precedente diversità di formulazione riguardo ai parametri rispettivamente deducibili: per il ricorso governativo si parla di “legge regionale che ecceda la competenza della Regione”, mentre per il corrispondente ricorso regionale si fa riferimento ad atto legislativo dello Stato o di altra Regione che “leda la sua sfera di competenza”.

In una prima pronuncia, la sent. n. 94 del 2003, la Corte sembra incline a conservare allo Stato la sua posizione di privilegio[27]: si tratta, anche in questo caso, di un obiter dictum, non particolarmente chiaro[28], ma significativo proprio perché la questione non era affatto oggetto del giudizio, né necessaria al ragionamento della Corte. Di fronte, infatti, all’eccezione di inammissibilità della Regione riguardo ai vizi denunciati dallo Stato, la Corte, pur concludendo nel senso che, nel caso di specie, tutti i vizi fossero da ricondurre all’art. 117 Cost., afferma che si debba comunque “prescindere dal fatto che il primo comma del nuovo art. 127 Cost. ammette il ricorso del Governo in termini identici a quelli utilizzati nel previgente art. 127 Cost.”.

Tale pronuncia, come è noto, precede la decisione nella quale la Corte si esprime definitivamente  nel senso del mantenimento della disparità processuale fra Stato e Regioni in ordine ai vizi denunciabili: si tratta della decisione n. 274 del 2003, nella quale, in modo molto significativo, la Corte non si basa affatto sulla più semplice, ma più discutibile, via dell’argomento letterale[29]. Il dato testuale, infatti, non viene considerato decisivo, poiché, secondo la Corte, una norma può “conservare nel tempo la sua formulazione originaria e tuttavia consentire una diversa interpretazione in ragione del successivo mutamento del contesto nel quale essa sia inserita”.

La Corte si fonda, invece, su un argomento sistematico[30] che però costituisce la chiave di lettura della riforma del Titolo V Cost. nell’ottica di una forte continuità, a dispetto della volontà storica del legislatore costituzionale, ritenendo che nel nuovo assetto costituzionale è pur sempre riservata allo Stato una posizione peculiare, desumibile, oltre che dalla proclamazione di principio di cui all’art. 5 Cost., dai ripetuti richiami ad un’istanza unitaria contenuti negli artt. 117, comma 1, e 120, comma 2, istanza che “postula necessariamente che nel sistema esista un soggetto - lo Stato, appunto - avente il compito di assicurarne il pieno soddisfacimento”.

La Corte ammette quindi uno squilibrio processuale fra Stato e Regioni in ordine ai vizi desumibili[31], che si riflette ovviamente anche sulla interpretazione delle materie e dei confini delle stesse: lo Stato potrà difenderli a tutto campo, rispetto a qualunque vizio di incostituzionalità (v. le sentt. nn. 274 del 2003, 162 del 2004, 159 e 456 del 2005, e le sentt. nn. 159, 277, 407, 465 del 2005 - tutte decisioni, queste ultime, in cui la Corte ha deciso in riferimento all’art. 97 Cost. -), la Regione potrà presidiarne i confini soltanto riguardo a violazioni della sfera di competenza (v. le sentt. nn. 274 e 303 del 2003, 4, 6, 196, 286, 287 e 345 del 2004, 36, 37, 50, 270, 272, 383 del 2005; sembrerebbe costituire eccezione la dec. n. 196 del 2004, nella quale la Corte entra nel merito di una questione avente a parametro l’art. 77 Cost.: sul punto, v. oltre, par. n. 2.2).

Il permanente riconoscimento di un ruolo “peculiare” dello Stato risponde all’esigenza di mantenere una effettiva e completa possibilità di controllo statale sulle leggi regionali, esigenza tanto più avvertita oggi in conseguenza del superamento della fondamentale fase di dialogo tra Stato e Regione - efficacemente definita “contrattazione” - che, vigente il vecchio art. 127 Cost., aveva luogo preventivamente rispetto al perfezionamento dell’iter legis[32], attraverso, eventualmente, la prassi dei c.d. rinvii plurimi[33]. L’esistenza di tale sistema di controllo - pure assai farraginoso e, certamente, poco conforme ad un modello federale dei rapporti tra Stato e Regioni - permetteva infatti di raggiungere soluzioni negoziali preclusive rispetto alla fase contenziosa davanti alla Corte, che, anche per questo, aveva dimensioni ben più contenute di quella attuale[34]. Oggi, al contrario, la ricerca di una definizione politica della controversia si sposta in un momento successivo, non mancando casi in cui il giudizio si definisce, appunto, sul piano politico, mediante un intervento legislativo regionale nel senso “desiderato” dal Governo.

Tralasciando questa interessante prospettiva d’indagine - che si riconnette, più in generale, all’esigenza di individuare efficaci strumenti di raccordo compensativi dei vuoti lasciati dalla riforma del 2001 - per soffermarci ancora un attimo sul problema dei parametri evocabili dai ricorrenti, ci si può chiedere se il rigore con cui la Corte dichiara inammissibili le censure da parte delle Regioni nei confronti di vizi di legittimità costituzionale diversi da quelli di competenza non determini una eventuale lacuna nel giudizio sulle leggi: vero è che esiste la “via incidentale”, ma, come è ampiamente noto, sono numerose le strettoie derivanti dalla natura incidentale del giudizio[35], che non consentono a tutti i vizi di legittimità costituzionale di essere denunciati, e che, comunque, non impediscono a una legge incostituzionale di essere applicata, potendo i suoi vizi essere rimossi anche molto tempo dopo la sua entrata in vigore e magari anche dopo che essa sia uscita indenne da un giudizio di legittimità costituzionale fondato solo su vizi di competenza[36].

Mi chiedo dunque se non ci sia spazio, di fronte ai numerosi casi concreti nei quali tale lacuna appaia evidente, di riproporre alla Corte il problema: tollerare che un ordinamento non ponga rimedio alle incostituzionalità delle leggi, affidandosi alla sola via incidentale, le cui strettoie potrebbero rendere difficile o ritardare il sindacato, è contrario senz’altro al principio che impone un controllo di costituzionalità sulle leggi di Stato e Regioni, al fine di espellere dall’ordinamento le norme incostituzionali.

Potrebbe poi sussistere un’esigenza di economicità che verrebbe sacrificata precludendo in termini assoluti alle Regioni la possibilità di denunciare in via diretta - se non qualsiasi vizio - la lesione di parametri ulteriori rispetto a quelli attributivi delle competenze, pur potendolo fare in via incidentale (magari promuovendo appositamente la questione di costituzionalità).

Si potrebbe pensare, allora, ad un’apertura condizionata dall’esigenza di non tollerare “zone franche” dal controllo di costituzionalità, parallelamente a quanto avvenuto quando la Corte ha utilizzato i propri strumenti processuali in modo più morbido, ad esempio ampliando la nozione di legittimazione del giudice a quo (si vedano in particolare le chiare motivazioni in relazione all’apertura del giudizio costituzionale al magistrato di sorveglianza[37] e agli arbitri[38], motivazioni incentrate sulla necessità di evitare lacune nel controllo di costituzionalità delle leggi).

Indubbiamente, l’ampliamento del parametro evocabile da parte della Regione non credo possa essere spinto fino ad una totale assimilazione dei due ricorrenti[39]. Pur nell’ambito di un disegno organizzativo ispirato al policentrismo - principio questo, che, in ogni caso, esclude l’omologazione dei soggetti territoriali di cui all’art. 114 Cost.-[40], infatti, Stato e Regioni occupano posizioni ben differenti, essendo queste ultime entità derivate, espressione di un ordinamento parziale che opera nell’ambito dell’ordinamento generale dello Stato[41].

Del resto, l’eventuale adeguamento “verso l’alto” - suscettibile di essere operato con forme e modalità assai diverse, tenuto anche conto delle imprevedibili ricadute di ordine processuale - deve confrontarsi con il pericolo della crescita esponenziale del contenzioso, già sotto gli occhi di tutti[42], e ciò, di tutta evidenza, potrebbe costituire un ostacolo rilevante alla percorribilità di questa opzione.

Ritengo, tuttavia, proprio per le ragioni che precedono, che problemi di funzionalità dello scrutinio non possano costituire di per se stessi argomenti preclusivi all’individuazione di soluzioni efficaci per la tutela della Costituzione. La Corte dispone di strumenti decisori - alcuni dei quali, come si vedrà, già utilizzati negli ultimi anni (quali la riunione e la “frammentazione” dei giudizi o, ancora, l’attenta selezione dei ricorsi ammissibili)[43] - che sicuramente potrebbero scongiurare i paventati rischi di paralisi.

 

2.1 La controversa utilizzazione dell’interesse a ricorrere

 

Una zona d’ombra nel giudizio sulle leggi in via principale, confermata nettamente dalla giurisprudenza successiva alla riforma costituzionale, è costituita dall’utilizzazione da parte della Corte della nozione di “interesse a ricorrere”[44].

Come è noto, nella maggior parte delle decisioni, l’applicazione dell’interesse a ricorrere è confusa con quella dei parametri utilizzabili, rispettivamente, dallo Stato e dalle Regioni nel sollevare le questioni dinanzi alla Corte[45]. Così, coerentemente con lo squilibrio processuale in ordine ai parametri, che consente allo Stato di far valere vizi diversi da quelli della lesione di competenza, che, viceversa, limitano le impugnative regionali nei confronti delle leggi statali, osserviamo che la Corte fa ricorso al difetto di interesse quasi esclusivamente per sanzionare ricorsi regionali che eccedono i parametri attinenti alla sola sfera di competenza.

In dottrina[46], seguendo questa impostazione, sono ascritte a sentenze dove difetta l’interesse a ricorrere decisioni nelle quali la Corte nega, appunto, che le Regioni possano impugnare leggi statali per vizi diversi dalla lesione del 117 Cost.

Nella giurisprudenza della Corte, in ogni caso, l’utilizzazione specifica del termine processuale di “interesse a ricorrere” si riscontra soprattutto in decisioni nelle quali la norma viene meno successivamente all’instaurazione del giudizio, oppure vengono meno o mutano elementi di riferimento che farebbero cadere la stessa questione[47]. Non sempre però la Corte utilizza questa formula e sanziona questi mutamenti normativi con l’inammissibilità[48].

L’analisi di questo tema rinvia a una problematica molto più ampia che tocca, in generale, l’utilizzazione nel processo costituzionale di termini e nozioni processuali “presi a prestito” da altri processi: come abbiamo in altra sede messo in luce, tale utilizzazione, dovuta senz’altro a ragioni storiche (e cioè al particolare modo in cui nasce il processo costituzionale), è causa di applicazioni ambigue e della stessa ambiguità del processo costituzionale[49].

In parole più semplici, mi sembra che l’interesse a ricorrere nel giudizio in via principale non possa affatto coincidere, e di fatto non coincide, né con la nozione civilistica, né con quella amministrativistica; di fatto, nella giurisprudenza costituzionale, l’utilizzazione di questo istituto, per il modo ambiguo in cui si viene a concretizzare, non appare d’aiuto nel risolvere specifici problemi: al contrario, essa è d’impaccio in molti casi, trasformandosi in una valutazione successiva all’esame del merito della questione da parte della Corte. L’ambiguità della nozione e la sua conseguente ambigua utilizzazione sembrerebbe richiamare per analogia l’utilizzazione del termine “pregiudizialità” nel giudizio in via incidentale, che non è mai stata definitivamente chiarita ed anzi ha costretto la Corte a difficili ricostruzioni concettuali.

In ogni caso, la riforma del 2001 avrebbe dovuto parificare il ricorso all’interesse a ricorrere per lo Stato e per le Regioni, ma così non è avvenuto: rimane lo squilibrio sui motivi deducibili; rimane la valutazione a senso unico dell’interesse a ricorrere; rimangono, inoltre (pur mancando talvolta una giurisprudenza sufficiente per giungere a considerazioni definitive), alcuni dubbi sull’utilizzo che la Corte potrà fare dei propri strumenti processuali - quale, ad esempio, la sospensione della legge in pendenza dello scrutinio -[50], anche se permane il sospetto che tali applicazioni saranno tarate a svantaggio delle Regioni.

Qualche esempio di questa perdurante ambiguità. Nelle decisioni in cui la Corte adotta interpretative di rigetto, nelle quali afferma in astratto che la competenza spetterebbe alle Regioni, ma salva la legislazione statale, in attesa del concreto intervento delle Regioni stesse, possiamo notare che, pur non dicendolo, la Corte sposa una visione totalmente astratta dell’interesse a ricorrere. Se si trattasse di un giudizio di parti, legato alla (affermata) titolarità di interessi concreti, in casi come questi il Giudice costituzionale non dovrebbe affatto entrare nel merito, ma, al contrario, dichiarare l’inammissibilità perché la questione è stata posta in modo astratto. Non si potrebbe infatti affermare alcuna lesione, finché le Regioni non esercitino in concreto la propria competenza. Invece, la Corte in questi casi fa valere una valutazione opposta, proprio per decidere nel merito le questioni. Nelle decisioni, invece, in cui la Corte dichiara inammissibili censure su leggi-delega, ritenendo che si debba attendere il decreto delegato, affinché la lesione denunciata sia concreta ed attuale, la Corte adotta una visione concreta dell’interesse a ricorrere.

Cosa potremmo chiedere al Giudice costituzionale? Di non far ricorso alla nozione in modo tralatizio; di chiarire definitivamente il rapporto fra motivi deducibili, interesse e norme impugnabili e impugnate; in parole più semplici, di superare quella profonda ambiguità nella considerazione del processo in via principale come processo “di parti” dal punto di vista soggettivo, ma come processo avente ad oggetto un interesse pubblico e generale che trascende l’interesse di parte. Entrando nel merito di questioni poste senza che le Regioni abbiano in concreto subito alcuna lesione, la Corte risolve questioni a cui le parti non hanno interesse, definendo il conflitto in via astratta e, dunque, perseguendo un fine di ordine generale.

Questo risultato, tuttavia, da un punto di vista teorico, è causa di molte difficoltà esegetiche. E se si considera che le ambiguità del giudizio in via d’azione esulano dal solo tema dell’interesse a ricorre per involgere anche altri aspetti processuali - quali il ricorso alla declaratoria di illegittimità costituzionale consequenziale (es. sentt. nn. 338 del 2003, 166 e 272 del 2004)[51], o la titolarità di un potere d’ufficio della Corte rispetto alla sospensione della legge in pendenza del giudizio[52], o, come si vedrà tra breve, la strutturazione del contraddittorio - ben si comprendono le difficoltà dogmatiche connesse all’esatta sussunzione del giudizio de quo in un modello di Verfassungsgerichtsbarkeit o Staatsgerichtbarkeit[53].

 

2.2 L’inammissibilità di questioni aventi a parametro gli artt. 76 e 77 Cost. fra regola ed eccezioni

 

Fra i vizi denunciati dalle Regioni che più frequentemente non trovano ingresso nel giudizio in via principale, almeno stando all’indirizzo consolidato appena esposto, alcuni mi paiono particolarmente gravi: l’impossibilità di denunciare illegittimità costituzionali in ordine alla (presunta incostituzionale) utilizzazione da parte dello Stato di leggi-delega, nonché alla possibilità di sindacare il rapporto fra decreti legislativi delegati e leggi-delega.[54]

Sono numerosissime infatti, a partire dall’entrata in vigore della riforma costituzionale, le pronunce di inammissibilità di questioni sollevate in riferimento agli art. 76 Cost.: nella quasi totalità dei casi la Corte conclude per l’inammissibilità, facendo riferimento alla necessità per le Regioni di denunciare vizi delle leggi statali che si concretino in una lesione della propria sfera di competenza.

Esaminerei distintamente le varie ipotesi, dal momento che ognuna di esse presenta profili altamente problematici (e criticabili).

In un primo gruppo di casi le Regioni avevano impugnato leggi-delega, contestando che lo Stato potesse utilizzare tale strumento al fine di determinare i principi fondamentali nelle materie di competenza legislativa concorrente.

La Corte afferma innanzitutto che “con il ricorso proposto ai sensi dell’art. 127, secondo comma, Cost., le Regioni possono addurre soltanto la lesione delle loro attribuzioni legislative da parte dello Stato e non anche la violazione di qualsiasi precetto costituzionale”. Pur riconoscendo che, in concreto, i parametri possano essere diversi rispetto a quelli degli artt. 117, 118, 119 Cost., la Corte ribadisce che “la legittimità costituzionale delle norme denunciate va accertata, senza che possano avere rilievo denunce di illogicità o di violazione di principi costituzionali che non ridondino in lesioni delle sfere di competenza regionale” (testualmente, nella sent. n. 50 del 2005; v. già le sentt. nn. 303 del 2003 e 288 del 2004).

Tuttavia, proprio per la serietà della censura regionale, la Corte affronta il problema, ritenendo che “il rapporto tra la nozione di principi e criteri direttivi, che concerne il procedimento legislativo di delega, e quella di principi fondamentali della materia, che costituisce il limite oggettivo della potestà statuale nelle materie di competenza concorrente, non può essere stabilito una volta per tutte” (significativo il richiamo alla sent. n. 359 del 1993, nella quale la Corte aveva ritenuto che con decreto legislativo potessero essere stabiliti i principi fondamentali di una materia, “stante la diversa natura e il diverso grado di generalità che detti principi possono assumere rispetto ai principi e criteri direttivi previsti dall’art. 76 Cost.”).

La Corte conclude nel senso che le Regioni sarebbero legittimate a far valere dinanzi al collegio vizi della legge delega che formulasse principi e criteri direttivi “che tali non sono, per concretizzarsi invece in norme di dettaglio” o vizi del decreto delegato che esorbitasse “dall’oggetto della delega, non limitandosi a determinare i principi fondamentali”: in parole più semplici, le Regioni sarebbero legittimate ad invocare il parametro dell’art. 76 Cost., solo se lo strumento della delegazione fosse utilizzato impropriamente, per imporre norme di dettaglio in materie di legislazione concorrente.

Successivamente, nella sent. n. 205 del 2005, la Corte torna ad occuparsi del problema, ribadendo che rimane preclusa alle Regioni la possibilità di censurare l’utilizzazione dello strumento della delega come lesivo di per sé delle competenze regionali, in quanto non idoneo a delegare al Governo la determinazione dei principi fondamentali nelle materie di competenza regionale.

Secondo la Corte, la legge di delega potrebbe essere sindacata solo se gli stessi principi e criteri direttivi fossero, di per sé, invasivi della sfera di competenza regionale (v. in questo senso anche sentt. nn. 280 del 2004; 125 del 2003). Si tenga presente, del resto, che con la sent. n. 280 del 2004, la Corte è giunta a dichiarare l’illegittimità costituzionale di norme contenute in una legge di delega perché lesive delle competenze regionali. Va detto, peraltro, che tale decisione costituisce un caso a sé: oggetto del ricorso, infatti, erano alcune disposizioni contenute nella legge La Loggia, in cui si delegava il Governo alla ricognizione dei principi fondamentali delle materie di competenza concorrente. Tanto che la Corte ha precisato, nella motivazione, che proprio perché la delega sottoposta allo scrutinio di costituzionalità presentava “contenuti, finalità e profili del tutto peculiari”, si è reso necessario “un processo interpretativo relativo all’oggetto, ai principi ed ai criteri direttivi della delega, tenendo conto del complessivo contesto di norme in cui si collocano e delle ragioni e finalità poste a fondamento della legge di delegazione”.

In un caso successivo (sent. n. 270 del 2005), però, ritenuto inammissibile in quanto avente formalmente a parametro l’art. 3 Cost., senza che fosse dimostrata la lesione della sfera di competenza costituzionale delle Regioni, la Corte, nella motivazione, trova necessario ribadire la legittimità dello strumento della delega per la determinazione di principi fondamentali: nel caso concreto, però, delegando “il Governo ad adottare disposizioni con forza di legge per disciplinare la trasformazione degli istituti di ricovero e cura a carattere scientifico in fondazioni”, imponeva allo stesso di porre in essere normative di dettaglio. Richiamandosi al principio, la Corte non si occupa del problema e rinvia ad un momento successivo, e cioè all’impugnazione dei decreti legislativi o all’ipotetica sollevazione di questione di legittimità costituzionale (di dubbia rilevanza), la possibilità di far valere un vizio contenuto nella struttura stessa della legge di delega (in tal modo, come si è detto nel paragrafo precedente, la Corte sposa una visione molto concreta dell’interesse a ricorrere).

Nella sent. n. 383 del 2005, dunque, in applicazione di questo orientamento, la Corte giunge a dichiarare inammissibile una questione sollevata su una legge delega in riferimento all’art. 76 Cost.: secondo la Corte, infatti, la Regione ricorrente, essendosi limitata a denunciare una violazione dell’art. 76 Cost. per la genericità dei principi e criteri direttivi della delega, “non argomenta in alcun modo circa la connessione tra tali vizi e la asserita compressione dei propri poteri” (sembrerebbe quindi che, in questo caso, la Corte punti l’accento su carenze nella motivazione dell’atto difensivo).

Così, nella sent. n. 384 del 2005, la Corte, ribadendo “l’infondatezza della censura riguardante l’illegittimità dello strumento della delega per la determinazione di principi fondamentali”, afferma che “non è pertanto lo strumento della delegazione legislativa ad essere illegittimo, ma possono esserlo in concreto i modi in cui essa viene disposta e attuata”: viene da chiedersi, però, se tale ragionamento sia vero in astratto o se, in concreto, non richieda di volta in volta un esame della questione da parte della Corte, come dimostra l’analisi delle decisioni appena esaminate.

Il secondo gruppo di casi, invece, riguarda sempre l’utilizzo da parte delle Regioni del parametro dell’art. 76 Cost., ma per il profilo del rapporto tra legge di delega e decreto-delegato. Per queste ipotesi, come si diceva, la Corte afferma di poter entrare nel merito e dichiarare l’illegittimità dei decreti legislativi, facendo riferimento proprio all’art. 76 Cost.; la Corte ammette infatti che le Regioni possano denunciare vizi di decreti legislativi che non rispettano i principi e criteri direttivi della legge di delega, ove ciò si ripercuota sulle loro competenze.

Pare significativo sottolineare che, in due casi (sentt. nn. 303 del 2003 e n. 384 del 2005), la Corte è arrivata a ravvisare l’eccesso di delega e a dichiarare l’illegittimità di un decreto legislativo, poiché erano state lese le competenze regionali. Ciò facendo riferimento, nel motivare la pronuncia di incostituzionalità, oltre che all’art. 117 Cost., anche all’art. 76 Cost., e precisando che le norme del decreto delegato dichiarate incostituzionali disciplinavano una materia estranea alla delega.

Anche in ordine alla possibilità per le Regioni di impugnare decreti-legge, per violazione dell’art. 77 Cost., la Corte afferma, in linea generale, in analogia a quanto stabilito a proposito del parametro dell’art. 76 Cost., che “le Regioni possono impugnare un decreto-legge per motivi attinenti alla pretesa violazione dell’art. 77 Cost., ove adducano che da tale violazione derivi una compressione delle loro competenze costituzionali” (sentt. nn. 6 del 2004; 196 del 2004).

Ancor più che per le censure in ordine all’art. 76 Cost., la Corte, però, riesce ad entrare nel merito di ricorsi nei quali le Regioni avevano sindacato il difetto da parte dei decreti - legge dei limiti costituzionali di cui all’art. 77 Cost. (mancanza dei requisiti della necessità e dell’urgenza, mancanza di omogeneità dell’oggetto del decreto, impossibilità di determinare con decreto-legge i principi fondamentali delle materie di competenza concorrente): si vedano, in particolare, le decc. nn. 196 del 2004; 272 del 2005, ove la Corte entra nel merito dei ricorsi, ma conclude nel senso della mancata violazione dell’art. 77 Cost.; 62 del 2005, nella quale la Corte esamina nel merito la censura, concludendo per l’infondatezza, trattandola però come un’eccezione (“pur a volerla considerare ammissibile in quanto intesa a far valere in via indiretta una lesione delle competenze della Regione derivante dal contenuto delle norme del decreto-legge”).

 

2.3 Ricorso statale e regime di “autonomia costituzionale” cui fare riferimento

 

In un gruppo di casi, aventi ad oggetto norme di Regioni a Statuto speciale, impugnate per violazione di parametri costituzionali, senza che vi fossero riferimenti specifici agli statuti speciali, la Corte, senza impegnarsi minimamente a valutare le questioni sollevate, le ritiene inammissibili, per la mancanza formale del riferimento allo Statuto speciale quale parametro.

La Corte ritiene “consolidato” l’indirizzo in base al quale “la mancanza di un riferimento alle norme degli Statuti speciali” comporti l’inammissibilità della questione, dal momento che “il ricorrente avrebbe dovuto quantomeno spiegare in quale rapporto si trovano, ai fini dello scrutinio di legittimità costituzionale delle disposizioni impugnate, le invocate norme della Costituzione e quelle, anch’esse di rango costituzionale, contenute nello Statuto speciale” (così, testualmente, sent. n. 203 del 2005; in senso conforme sentt. nn. 213 del 2003, 8 del 2004, 65 e 202 del 2005 e 20 del 2006).

In una decisione successiva, la Corte, pur affermando di non voler dare rilievo alla circostanza che “le diverse censure prospettate nel ricorso sono costruite, in termini complessi, sia su parametri statutari, che su disposizioni del Titolo V Cost., senza che venga prescelto in termini chiari il regime di autonomia costituzionale cui fare riferimento”, conclude però nel senso dell’inammissibilità della questione, in quanto  il ricorrente non avrebbe chiarito, nella sola censura adeguatamente motivata, ad avviso del Giudice costituzionale, perché il parametro fosse esclusivamente l’art. 117 Cost., e non invece lo Statuto speciale della Regione (sent. n. 304 del 2005). In altra decisione, la Corte riduce le questioni prospettate, occupandosi soltanto di quelle aventi come riferimento i parametri statutari (sent. n. 321 del 2005).

Dinanzi a tanto rigore, colpisce invece una pronuncia nella quale la Corte, dinanzi ad una eccezione di inammissibilità nei confronti del ricorso statale, per il motivo che esso, trattandosi di questione di costituzionalità su norme legislative della Provincia autonoma di Bolzano “avrebbe dovuto denunciare la pretesa violazione di quelle norme dello statuto speciale altoatesino che, disciplinando la potestà legislativa provinciale, ne definiscono i limiti nei confronti della potestà legislativa statale, e non già denunciare unicamente la violazione delle norme della Costituzione che disciplinano la ripartizione di competenze tra Stato e Regioni ordinarie, ignorando lo statuto speciale”, la respinge[55]. La Corte, pur richiamando il proprio indirizzo consolidato, appena citato, ritiene che, nella specie, il generico riferimento, non sorretto da alcuna autonoma motivazione, alle norme dello Statuto speciale che precisano l’ambito di competenza legislativa delle Province autonome, sia sufficiente “a ritenere ammissibili, sotto il profilo dell’individuazione del parametro, le questioni sollevate con ricorso (si veda anche sent. n. 185 del 2004)”.

 

3. Il sindacato costituzionale sugli elementi del ricorso: la Corte oscilla fra rigore e lassismo: corrispondenza fra delibera del Consiglio dei Ministri e ricorso

 

Una zona altamente problematica concerne il modo in cui la Corte interpreta il ricorso e valuta gli eventuali profili di inammissibilità: in questo ambito la discrezionalità è molto alta, sia nel valutare la necessaria corrispondenza fra i profili del ricorso e la deliberazione, rispettivamente, del Consiglio dei Ministri e della Giunta; sia nel sindacare il rapporto fra i parametri sollevati e la motivazione del ricorso medesimo; sia nel valutare eventuali carenze formali del ricorso.

Come è noto, in generale, la Corte costituzionale richiede che vi sia corrispondenza tra la delibera del Consiglio dei Ministri con la quale viene deciso il ricorso nei confronti della legge regionale e il successivo ricorso del Presidente del Consiglio.

Nella decisione n. 533 del 2002 la Corte sottolinea in modo significativo il rapporto che si instaura fra la riforma del 127 Cost. e questa particolare fase del processo costituzionale[56]: si afferma infatti che “la soppressione della fase di rinvio ha fatto venire meno la finalità alla quale era preordinata la previa esternazione, in sede politica, dei motivi della impugnazione” e chiarisce come nel sistema posteriore alla riforma “il carattere politico della scelta di impugnare resta, ma nei confronti delle Regioni e delle Province autonome si esaurisce nell’onere di indicare le specifiche disposizioni che si ritiene ne eccedano la competenza, potendo essere rimesse all’autonomia tecnica della Avvocatura generale dello Stato anche l’individuazione dei motivi di censura”. La Corte, in quest’occasione, facendo intendere che la delibera governativa possa soltanto limitarsi ad indicare le disposizioni oggetto e parametro, chiarisce in modo significativo che ciò non compromette affatto il diritto di difesa della Regione dal momento che “il thema decidendum è fissato dal ricorso e dai motivi in esso contenuti ed è solo su questi che può svolgersi il contraddittorio”.

Tale impostazione sembrerebbe ricalcare il rigoroso orientamento che la Corte osserva nel giudizio incidentale, per il quale i termini della questione oggetto del proprio giudizio sono rigorosamente fissati dall’ordinanza di rimessione, non potendo essere modificati neanche dalla istanza della parte del giudizio a quo, nemmeno se il giudice abbia omesso qualche elemento o addirittura sbagliato nell’impostare la questione (sent. n. 122 del 1976).

Un’analisi della giurisprudenza, però, fa emergere come la Corte nel giudizio in via principale non si attiene affatto a questo criterio formale, dando rilievo non soltanto alla delibera del Consiglio dei Ministri, ma anche, e in modo non sempre univoco, alla relazione del Ministro per gli affari regionali, che viene normalmente allegata alla delibera del Consiglio dei Ministri.

In alcuni casi nei quali la Regione aveva eccepito l’inammissibilità del ricorso in quanto non coerente con la delibera del Consiglio dei Ministri, la Corte ha individuato le norme oggetto del ricorso basandosi, oltre che sulla delibera, anche sulla proposta del Ministro degli affari regionali, tra loro coincidenti (v. sent. n. 315 del 2003); coerentemente, in casi invece nei quali oggetto del ricorso era costituito da un’intera legge, la Corte lo limita alle norme che compaiono sia nella delibera che nella relazione del Ministro (v. sent. n. 338 del 2003); in altro caso, più recente, la Corte limita il proprio esame alle sole disposizioni indicate nella deliberazione assunta dal Consiglio dei ministri, sottolineando che “l’oggetto dell’impugnazione è definito dal ricorso in conformità della decisione assunta dal Governo” (sent. n. 106 del 2005; in senso conforme, sentt. nn. 43 e 229 del 2004); in altro caso entra nel merito, superando eccezioni di ammissibilità sulla non conformità della censura del ricorso alla delibera di impugnazione del Consiglio dei Ministri (sent. n. 120 del 2005).

La relazione ministeriale serve alla Corte in numerose recenti occasioni per superare dubbi di ammissibilità nei confronti di ricorsi proposti contro un’intera legge, e dunque a rigore inammissibili: così la Corte, nella decisione n. 134 del 2004, dichiara inammissibile la questione proposta contro l’intera legge, limitando l’oggetto a quanto contenuto nella relazione del Ministro per gli Affari regionali che era stata acquisita agli atti con ordinanza istruttoria e alla quale la delibera del Consiglio dei Ministri rinviava espressamente (accogliendo, alla fine, la questione).

Come è già stato acutamente osservato[57], sembra corretto ritenere inammissibile il ricorso, quando sia impugnata un’intera legge e nemmeno la relazione del Ministro contenga una specificazione dei motivi. Tuttavia risulta criticabile che la Corte individui l’oggetto dell’impugnazione in base alla sola relazione, che diventerebbe così il solo documento necessario e vincolante per la determinazione del thema decidendum.

La giurisprudenza più recente, però, sembrerebbe seguire questa impostazione: nella sent. n. 95 del 2005, la Corte supera una censura di inammissibilità nei confronti di un ricorso avente ad oggetto una intera legge, interpretando il ricorso (“dalla motivazione e dalla conclusione del ricorso emerge chiaramente che la questione di legittimità costituzionale è limitata al solo art. 1”), alla luce della relazione del Ministro per gli affari regionali, che è determinante nell’interpretazione; in altre occasioni la Corte, di fronte ad una delibera avente ad oggetto un’intera legge, ha ritenuto di circoscrivere l’oggetto del ricorso alle sole disposizioni indicate nella relazione (sentt. n. 43 e 229 del 2004); similmente, nella sent. n. 360 del 2005, la Corte, con precisione, circoscrive l’oggetto del giudizio ad alcune disposizioni espressamente contenute nel ricorso e nella relazione del Dipartimento affari regionali, escludendo una specifica disposizione, dal momento che nella relazione veniva richiamata solo in modo generico (interessante notare che anche in questo caso la delibera del Consiglio dei Ministri non è di alcun aiuto, limitandosi ad impugnare genericamente l’intera legge). Analogamente, nella decisione n. 393 del 2005, l’oggetto è circoscritto ad una disposizione, con espresso richiamo alla relazione ministeriale allegata al verbale della riunione del Consiglio dei ministri; in altra decisione la stessa relazione ministeriale è invocata per superare il difetto di genericità dei motivi del ricorso nei confronti di specifica disposizione: la Corte rinvia alla relazione nella quale è indicato “con maggior precisione” l’esatto oggetto della questione di legittimità sollevata (v. sent. n. 391 del 2005). Con la sent. n. 150 del 2005 la Corte supera le generali eccezioni di inammissibilità del ricorso, proposto nei confronti dell’intera legge, alla luce dell’allegata relazione ministeriale, in riferimento alla quale limita l’oggetto del giudizio. Da ultimo, con la sent. n. 49 del 2006, la Corte, a fronte della genericità tanto della delibera che della relazione, dichiara inammissibile alcuni dei ricorsi oggetto della decisione: da ciò pare potersi desumere che la Corte sia giunta ad una definitiva equiparazione, ai fini della determinazione delle norme oggetto del ricorso, tra delibera del Consiglio dei Ministri e relazione del Ministro degli Affari regionali.

 

3.1 Segue: corrispondenza fra delibera della Giunta e ricorso

 

Nonostante alcuni dubbi prospettati in dottrina, il principio della corrispondenza fra la delibera dell’organo politico competente a deliberare il ricorso e il contenuto del ricorso stesso[58] è stato applicato dalla Corte anche con riferimento all’ipotesi speculare, e cioè quella del ricorso regionale nei confronti di leggi statali.

Non essendo però previsto all’interno della Regione un meccanismo analogo a quello statale, relativo alla previa relazione ministeriale, che supporta la delibera consiliare e l’esame stesso del ricorso da parte della Corte, va notato che il sindacato della Corte sugli eventuali vizi di genericità del ricorso regionale appare senz’altro più severo.

Consolidato, infatti, è l’indirizzo in base al quale la Corte dichiara inammissibili questioni non specificate nella delibera della Giunta, o contenute nel ricorso indipendentemente dalla delibera stessa (v. sentt. nn. 238, 286 e 424 del 2004: queste ultime, in particolare, perché la delibera aveva ad oggetto l’intera legge, senza alcuna specificazione dei motivi di impugnazione, individuati, inutilmente, nel ricorso).

Due casi recenti confermano il severo atteggiamento del Giudice costituzionale nei confronti dei ricorsi regionali: nella sent. n. 50 del 2005 la Corte dichiara inammissibile il ricorso, dal momento che la delibera della Giunta regionale “omette di indicare specificamente le disposizioni da impugnare e le ragioni della impugnativa e si limita ad affermare che la legge stessa appare in più parti invasiva delle competenze attribuite alla Regione dagli artt. 117 e 118 Cost.”, ribadendo che “è principio più volte affermato da questa Corte che la delibera di autorizzazione al ricorso di cui all’art. 127 Cost. può concernere l’intera legge soltanto qualora quest’ultima abbia un contenuto omogeneo e le censure siano formulate in modo tale da non ingenerare dubbi sull’oggetto e le ragioni dell’impugnativa” e che dunque, nel caso di specie “la delibera della Giunta della Regione Toscana, in quanto formulata nei termini generici di cui si è detto, non è idonea a sorreggere il ricorso da essa proposto”; nella sent. n. 384 del 2005, allo stesso modo, e con specifico richiamo alla sent. n. 50 appena citata, il ricorso è dichiarato inammissibile a causa della “genericità della deliberazione della Giunta regionale di autorizzazione alla proposizione del ricorso” (in questo caso, la Corte preferisce dichiarare l’inammissibilità, anziché rilevare un’intervenuta cessazione della materia del contendere asserita dalla Regione, rilevando che “il rilievo della inammissibilità risulterebbe logicamente prioritario”).

 

3.2 I requisiti “minimi” del ricorso

 

In generale, la Corte ribadisce il proprio orientamento in base al quale la questione di legittimità costituzionale deve essere identificata esattamente nel ricorso quale atto introduttivo del giudizio in via principale, il quale deve contenere indicazione della norma oggetto, della o delle norme parametro e dei termini e profili della questione (cd. thema decidendum)[59].

Nella sentenza n. 213 del 2003, la Corte in modo didascalico ribadisce, alla stregua della sent. n. 384 del 1999, che “il ricorso deve identificare esattamente la questione nei suoi termini normativi”, deve “indicare dove siano poste o da dove si possano o si debbano ricavare le norme costituzionali e ordinarie, la definizione del cui rapporto di compatibilità o incompatibilità costituisce l’oggetto della questione di costituzionalità”, dovendo altresì “contenere una seppur sintetica argomentazione di merito a sostegno della richiesta declaratoria di incostituzionalità della legge”. Particolare attenzione nella descrizione del contenuto essenziale del ricorso si può rinvenire anche nella più recente sent. n. 360 del 2005.

La Corte aveva evidenziato, già nel 1999, come l’esigenza di una precisa identificazione del thema decidendum nel ricorso fosse addirittura più importante nei giudizi in via di azione rispetto a quelli incidentali “nei quali il giudice rimettente non assume propriamente il ruolo di un ricorrente e al quale si richiede, quanto al merito della questione di costituzionalità che esso solleva, una valutazione limitata alla ‘non manifesta infondatezza’. In quella decisione si poneva giustamente in rilievo che le carenze strutturali del ricorso incidessero non soltanto sul ruolo svolto dalla Corte, impedendole di delimitare con precisione l’ambito oggettivo della questione oggetto del giudizio, ma soprattutto costituissero una lesione del diritto di difesa della “parte resistente”, la quale “non essendo stata condotta da quella ricorrente in un ambito di controversia preciso deve essa stessa formulare congetture circa le ragioni delle censure”.

In passato, però, la Corte costituzionale aveva in molti casi disatteso i propri criteri rigorosi, soprattutto nei confronti dei ricorsi statali[60], mentre la giurisprudenza successiva al 2001 sembra mostrare un maggior rigore della Corte, che tuttavia è stemperato, sia dall’applicazione contraddittoria dei criteri di ammissibilità, come vedremo, sia dagli ulteriori criteri che abbiamo visto, come soprattutto il ricorso alla relazione ministeriale, riferiti soltanto allo Stato, che valgono a salvare solamente i ricorsi statali.

Sono numerose, dunque, le pronunce di inammissibilità per genericità (o insufficienza) del ricorso (sentt. nn. 73 e 75 del 2004; sentt. nn. 37, 272, 336, 360, 384, 417, 462 del 2005), per mancanza di requisiti minimi (sent. n. 176 del 2004), e, più in generale, per totale mancanza o insufficienza della motivazione, soprattutto con riferimento al vulnus costituzionale nei confronti del parametro sollevato (così, sentt. nn. 242 e 222 del 2003; 198 e 354 del 2004;).

Nella decisione n. 303 del 2003, la Corte si sofferma anche, come è stato notato[61], sul rapporto fra la complessità della situazione normativa portata all’esame della Corte e la motivazione addotta nel ricorso, che deve essere adeguata a tale complessità: la Corte introduce dunque un elemento relazionale rispetto anche all’approfondimento del proprio giudizio sul contenuto minimo del ricorso, che si fonda su evidenti ragioni oggettive, ma che, tuttavia, rischia di introdurre un ulteriore aspetto di discrezionalità nell’applicazione dei criteri formali con cui valutare l’atto introduttivo del giudizio. In parole più semplici, è comunque il Giudice costituzionale ad etichettare come “complessa” una questione rispetto ad un’altra e a pretendere solo per la prima un maggiore approfondimento della motivazione contenuta nel ricorso: vero è che, leggendo molti ricorsi, balza all’occhio, nella maggior parte dei casi, una frettolosità e trascuratezza argomentativa, ma è chiaro che il rigore formale nella valutazione da parte del Giudice costituzionale diventa discrezionale, se condizionato a una previa valutazione, non sindacabile, sulla complessità della questione (un’applicazione, discutibile del criterio in questione si rinviene ad esempio nella sent. n. 37 del 2005, che richiama la 303 del 2003), nella quale, tuttavia, la Corte rileva anche il difetto di motivazione sulle specifiche norme della disposizione impugnata.

Vi sono infatti alcuni casi nei quali la Corte, pur etichettando come succinta l’argomentazione, preferisce entrare nel merito, ritenendo che il ricorso non lasci dubbi sull’oggetto in contestazione (v. sent. 34 del 2004, n. 159 del 2005): in alcuni di questi casi, però, i dubbi esistono, soprattutto rispetto a casi analoghi in cui la Corte decide per l’inammissibilità.

Così nella sent. n. 533 del 2002, la Corte modifica il parametro sollevato dallo Stato in una questione avente ad oggetto una Regione a Statuto speciale, ritenendo evidente (!) l’errore materiale e ritenendo di poter ricavare il parametro corretto dal contesto del ricorso: in questo caso, il Giudice costituzionale si preoccupa delle esigenze di difesa della Provincia resistente, ma risolve il problema con un’illazione, e cioè che “tale erronea indicazione non può aver impedito alla difesa della Provincia di rendersi conto della consistenza della questione di legittimità costituzionale”.

In altro caso, la Corte assolve un ricorso statale interpretando il ricorso nel senso di rendere chiare le censure sollevate invece del tutto confusamente (sent. n. 274 del 2003); in caso analogo, però, la Corte dichiara d’ufficio l’inammissibilità (sent. n. 65 del 2005); in altro caso, di fronte ad un ricorso generico, la Corte rinviene i motivi di impugnazione, seppure succinti, entrando nel merito (sent. n. 108 del 2005 e la già citata sent. n. 159 del 2005); in altro caso, invece, ritiene che il ricorso sia argomentato soprattutto su una disposizione, trascurando di motivare in ordine alle altre impugnate, le cui censure sono dichiarate inammissibili (sent. n. 151 del 2005).

Evidente dunque l’oscillazione nell’esame compiuto dalla Corte: si osservino, ad esempio le sentt. n. 205 e 335 del 2005: nel primo caso la Corte ritiene inammissibile un ricorso motivato, richiedendo ragioni ancora più puntuali di quelle in esso contenute a sostegno dell’inammissibilità (così anche sent. n. 417 del 2005, dove il ricorso conteneva comunque una motivazione essenziale e non lacunosa, al contrario di quello che afferma la Corte ritenendolo inammissibile); nel secondo, al contrario, esclude l’eccezione di genericità nei confronti del ricorso statale, pur ammettendo che fosse succinto.

Più convincente, invece, la giurisprudenza in cui manchino del tutto gli argomenti minimi, dove addirittura non si specifica neanche “le parti dell’articolo impugnato che eccederebbero dalla formulazione di un principio fondamentale (sent. 336 del 2005).

Affermando il principio in base al quale il thema decidendum deve essere individuato dal ricorso, potendo solo sul contenuto dello stesso svolgersi il contraddittorio, la  Corte ha escluso che la genericità o insufficienza del ricorso possa essere sanata con una memoria successiva, e che lo stesso ricorrente possa ampliare o modificare i termini del giudizio successivamente al deposito del ricorso (v. sent. 423 e 229 del 2004). Un caso recente, però, sembra configurare un’eccezione a tale orientamento: si tratta della sent. n. 406 del 2005, nella quale la Corte respinge un’eccezione di inammissibilità per genericità del ricorso statale, nel quale, ad avviso della Regione resistente, era stata indicata solo genericamente la normativa comunitaria assunta a parametro, senza una indicazione precisa delle norme presunte violate. La Corte ammette che le specifiche disposizioni oggetto di violazione siano state indicate soltanto nella memoria presentata dall’Avvocatura dello Stato in vista dell’udienza e che tale specificazione non potrebbe “sanare l’eventuale vizio originario circa la corretta prospettazione della questione di legittimità costituzionale”, richiamando il proprio precedente. Tuttavia la Corte afferma che, nel caso di specie, i requisiti argomentativi minimi potessero essere ricavati dal ricorso, che lo stesso Giudice costituzionale è costretto ad interpretare per poter entrare nel merito.

 

4. Problematiche attinenti ai poteri della Corte sul thema decidendum: stralcio, riunione dei ricorsi e principio della corrispondenza fra chiesto e pronunciato

 

Una delle novità della giurisprudenza costituzionale successive alla riforma del 2001 è costituita dal potere che la Corte si assume di “svincolarsi” dal principio della corrispondenza fra chiesto e pronunciato, ritenendo che sia ammissibile, di fronte a ricorsi aventi oggetti differenti, separare le differenti questioni e risolverle con separate decisioni[62].

Si tratta di una vera novità, perché nella sua giurisprudenza la Corte si era trovata in moltissime occasioni a decidere questioni complesse, su argomenti anche diversi: in quei casi, però, quando non aveva ritenuto inammissibile il ricorso, per inidoneità e genericità del thema decidendum, la Corte aveva deciso le differenti questioni nella stessa pronunzia, evidenziandone i diversi profili e i diversi oggetti, esattamente come fa il giudice amministrativo, il quale risponde in un’unica pronuncia, ma consente alle parti l’impugnazione anche solo di alcuni aspetti della decisione, trattandoli autonomamente dal solo punto di vista del gravame.

Come la dottrina più attenta ha rilevato, in passato la Corte aveva stralciato alcune questioni sollevate dal medesimo ricorso soltanto per motivi istruttori (v. sent. n. 111 del 1999) e, in occasione di pronunce aventi ad oggetto numerosi articoli di leggi finanziarie, la stessa si era pronunciata con un’unica decisione, evidenziando piuttosto i profili di connessione fra le diverse questioni (v. sent. n. 507 del 2000).[63] Pare opportuno segnalare che questa soluzione è stata ripresa di recente dalla Corte (sent. n. 49 del 2006), che ha riunito i diversi ricorsi dello Stato su varie leggi regionali in tema di condono edilizio, per raggruppare poi in gruppi omogenei le questioni di costituzionalità.

Piuttosto, la dottrina non aveva mancato di rilevare che, in occasione dell’impugnazione di intere leggi, e quindi di norme diverse, concernenti profili differenti, le scelte processuali della Corte, necessariamente discrezionali, anche solo nella decisione dell’ordine di esame delle questioni, comportavano riflessi sul merito e sul tipo di risposta del Giudice costituzionale.[64] In parole più semplici, se anche scegliendo la priorità di alcune questioni sulle altre, facenti parte dello stesso ricorso, il Giudice costituzionale utilizza poteri che gli consentono di “governare” il merito della decisione, decidendo di spezzare la corrispondenza fra il contenuto di un ricorso e l’oggetto della propria pronuncia, lo stesso giudice diviene sovrano del proprio giudizio.

Tale giurisprudenza, naturalmente, si fonda sulla giurisprudenza speculare in ordine alla riunione dei ricorsi, nella quale pure si è assistito spesso a decisioni discrezionali, funzionali alla risposta nel merito, come la dottrina ha notato[65].

Tuttavia, la decisione di spezzare il ricorso in pronunce diverse presenta problemi diversi e ulteriori: intanto si assiste ad una “violazione” del principio di corrispondenza fra chiesto e pronunciato[66]; inoltre si incide sulla formazione del contraddittorio, dal momento che in alcuni casi le questioni separate vengono riunite ad altre sollevate da soggetti diversi; si indebolisce anche il valore della pubblicità degli atti introduttivi del processo costituzionale, con un meccanismo nel quale, a fronte di una sola impugnazione, i soggetti estranei al processo dovranno fare riferimento a decisioni separate e diverse; infine si consente ad un “giudice” sia pure sui generis, come la Corte è stata definita, di esercitare poteri assoluti sull’oggetto del proprio giudizio.

La Corte è stringatissima nell’offrire una giustificazione all’utilizzazione di tale tecnica[67]: nella dec. n. 201 del 2003, con la quale si inaugura la nuova tecnica, essa, affermando di decidere una sola questione, rinviando l’esame delle altre a successive decisioni (nella motivazione si precisa che la Corte si pronuncia “riservata ogni decisione” rispetto alle altre questioni), si limita ad affermare che “il ricorso, uno nella forma, è plurimo nel contenuto” e che “esigenze di omogeneità e univocità della decisione inducono a distinguere le materie e a procedere alla decisione separata di ciascuna questione o gruppo di questioni”.

Nella sua giurisprudenza, la Corte in alcuni casi ha separato le questioni a suo avviso non omogenee e le ha accorpate ad altre, oggetto di altri ricorsi (sentt. nn. 300, 313, 362, 363, 370 del 2003; 1,4, 12, 14, 15, 17, 26, 36, 37, 236, 308, 320, 345, 353, del 2004; 95, 150, 431, 456 e 469 del 2005, queste ultime concernenti due distinti ricorsi statali; 30, 31, 35, 36, 234, 279, 285, 336 del 2005, relative, invece, a due ricorsi regionali); in altri casi, invece, ha semplicemente scisso l’oggetto di un unico ricorso in tante diverse pronunce (sentt. nn. 361, 377, 378 del 2003; sentt. nn. 3, 13, 16, 18, 49, 260, 261, 287, 307, 354, 380, 412, 414, 427 del 2004; 51, 64, 71, 77, 107, 134, 160, 175, 219, 222, 242, 270, 304, 323, 449 del 2005).

I casi più rilevanti, anche per l’entità dello “spezzettamento” riguardano l’impugnazione delle leggi finanziarie del 2002, 2003, 2004 e la cd. “legge La Loggia” (n. 131 del 2003).

Come è noto, la l. n. 448 del 2001 (l. finanziaria del 2002), impugnata sotto moltissimi profili da ben sei Regioni, è stata esaminata attraverso la separazione delle questioni contenute nei diversi ricorsi e la riunione delle questioni omogenee: alla fine, rispetto agli originari 6 ricorsi, che in passato sarebbero semmai stati uniti e decisi con una sola pronuncia, sia pure attinente ad oggetti diversi, la Corte emette ben 23 decisioni, rese nell’arco di tempo di ben due anni (si tratta delle sentt. nn. 18, 300, 361, 362, 363, 370, 376, 377, 378 del 2003; 1, 3, 4, 12, 13, 14, 15, 16, 17, 26, 36, 37, 49 del 2004); la l. n. 289 del 2002 (l. finanziaria 2003), impugnata da tre Regioni e una Provincia autonoma, è stata definita da ben dodici decisioni, nelle quali i ricorsi sono stati prima spezzati e poi riuniti per materie omogenee (v. sentt. nn. 260, 261, 307, 320, 345, 353, 354, 380, 412, 414, 423, 427 del 2004;); la legge n. 350 del 2003 (l. finanziaria 2004), impugnata da due Regioni, è stata esaminata in molte decisioni, rese per tutto il 2004 e il 2005 (sentt. nn. 350 del 2003; 308, 425 del 2004; 71, 77, 107, 134, 151, 160, 162, 175, 222, 231, 242, 270, 449 del 2005); infine la legge “La Loggia”, impugnata da tre Regioni e due Province autonome, è stata esaminata in sentenze diverse (ben quattro: v. sentt. nn. 236, 238, 239, 280 del 2004). Da notare che in quest’ultimo caso la diversità dei problemi da esaminare non poteva essere tale da giustificare una scomposizione di fronte ad un oggetto assolutamente omogeneo, come è la legge di attuazione del Titolo V Cost. Ed anzi, la separazione delle questioni ha consentito sul piano processuale di scindere gli argomenti e di indebolire eventuali interpretazioni generali della legge, in grado di influire sull’analisi delle questioni attinenti ad oggetti diversi.

In dottrina, da un lato si è, giustamente, duramente criticata la “tecnica” utilizzata dalla Corte, ritenuta esorbitante dai propri poteri e lesiva dei principi basilari del processo costituzionale[68]; dall’altro, si è cercato di giustificare  l’utilizzazione di tale tecnica come tentativo “di introdurre un deterrente contro il proliferare di ricorsi contenenti una molteplicità di questioni tra loro disomogenee (…) e indirettamente di una sorta di operazione di drafting anche normativo, nella misura in cui l’impiego di tale tecnica può indurre il legislatore, statale e regionale, a ritenere più conveniente l’approvazione di leggi a contenuto omogeneo (…)”[69].

Se davvero fosse questa la speranza, anche remota, della Corte, devo confessare che il rimedio mi pare peggiore del male: rinunciare ai principi del processo costituzionale, funzionali ad esigenze di chiarezza e di coerenza del giudizio, in nome del tentativo di costringere il legislatore a razionalizzare i propri provvedimenti, è davvero un costo troppo alto. Senza contare la (troppo) scontata obiezione che oppone a tale tentativo un linguaggio e un contenuto dell’attività legislativa che avrebbero bisogno di ben altro per essere modificati.

Piuttosto la Corte avrebbe potuto operare diversamente per ottenere un risultato analogo: innanzitutto, in occasione della revisione delle Norme Integrative[70], avrebbe potuto introdurre come requisito di ammissibilità dell’atto introduttivo, la coerenza, l’omogeneità, e, addirittura, l’univocità, della questione; inoltre avrebbe potuto e potrebbe, come del resto ha fatto in passato, sanzionare con l’inammissibilità ricorsi dal contenuto plurimo e disomogeneo.

Un’ ultima osservazione: se il tempo, come è noto, costituisce un fattore rilevante per valutare l’adeguatezza e la razionalità della giustizia, non può essere senza significato la circostanza che, spezzettando i ricorsi, la Corte risponde ad una domanda unica in momenti diversi, che, in alcuni casi, occupano lo spazio non di uno, ma addirittura di due anni. Nello spazio fra una decisione e quelle successive potrebbero anche inserirsi fattori ulteriori, come lo jus superveniens, tali da rendere inutile la prima decisione. Non vi è chi non veda come la scelta del momento in cui rendere risposta potrebbe influire pesantemente sul contenuto e sullo stesso significato della risposta medesima: insomma, la (vantata) “razionalizzazione” del processo rischia di trasformarsi nella sua totale vanificazione[71].

 

4.1 La scomposizione delle questioni: la Corte opera selezioni in modo discrezionale

 

In contraddizione con la giurisprudenza che, a fronte di contenuti disomogenei di un ricorso, ritiene di poter scomporre i diversi oggetti in distinti giudizi, rispondendo così ad un’unica domanda con decisioni separate, come abbiamo appena visto, la Corte ritiene in generale inammissibili questioni sollevate su una disposizione a contenuto complesso, che non siano sorrette da una chiara argomentazione in ordine ai distinti profili della disposizione medesima.

Nella decisione n. 313 del 2004, il Giudice costituzionale, ritenendo inammissibile una questione sollevata su un testo normativo complesso, senza che fossero dettagliatamente individuate le prescrizioni “asseritamente contrastanti con i parametri invocati, implicitamente invitando questa Corte a adoperare questa individuazione, passando al vaglio l’intero testo normativo per enucleare essa stessa le previsioni potenzialmente in contrasto con i parametri medesimi, per poi sottoporle al proprio giudizio”, si impegna in una affermazione in totale contrasto con la giurisprudenza esaminata nel paragrafo precedente: in questo caso, si afferma infatti che il ricorrente avrebbe, erroneamente, voluto “coinvolgere questa Corte in un compito diverso da quello che, unico, le spetta: il compito di giudicare sulle questioni così come sono sollevate, un compito che non comprende quello di determinarne oggetto e limiti”.

La Corte, però, non si mantiene fedelissima a questa impostazione: in molti casi, infatti, il ricorso è dichiarato inammissibile, non avendo specificato i diversi profili della questione sollevata, cosicché le specifiche censure dovrebbero considerarsi “inammissibili, in quanto non sorrette da alcuna specifica argomentazione” (v. sent. 213 del 2003; sentt. nn. 313 e 320 del 2004; sentt. nn. 37, 272, 336, 360, 417 del 2005); in altri, però, la Corte utilizza i propri poteri interpretativi del ricorso per selezionare, discrezionalmente, soltanto le questioni sorrette da specifica argomentazione (sentt. nn. 70, 196 del 2004; 95 del 2005).

In alcuni casi, come è stato notato[72], la Corte, in apertura, seleziona eventuali profili di inammissibilità, ma poi se ne dimentica, decidendo il merito, cosicché la risposta della Corte oscilla, appunto, fra profili di inammissibilità e profili di infondatezza (v. 198, 320, 376 del 2004).

Occorre allora soffermarsi sui principi che stanno alla base di queste scelte giurisprudenziali e sui problemi suscitati dalla scarsa coerenza nelle decisioni processuali della Corte: la scomposizione delle questioni e la relativa inammissibilità degli aspetti non o scarsamente motivati sono giustificati dalla necessità di tutelare la posizione del resistente, il suo diritto di difesa e, dunque, la corretta instaurazione del contraddittorio. Non vi è chi non veda, però, che la selezione (discrezionale) di questioni all’interno dello stesso ricorso ingenera confusione maggiore e viola maggiormente il rispetto del contraddittorio di quanto non si avrebbe se la Corte rispondesse a tutte le questioni, naturalmente dopo che queste avessero passato il vaglio dell’idoneità processuale del ricorso rispetto a suoi requisiti minimi.

 

4.2 Impugnazione di intera legge: la Corte ne afferma l’impossibilità in linea teorica, ma molte e discutibili sono le eccezioni

 

In generale, la Corte non ammette questioni aventi ad oggetto un’intera legge soltanto quando dal ricorso l’impugnazione non sia adeguatamente motivata, o rispetto al provvedimento nel suo complesso, oppure rispetto a specifiche norme oggetto del provvedimento generale (in questo caso, la Corte restringe l’oggetto del proprio giudizio alle disposizioni sulle quali vi sia una effettiva motivazione nel ricorso).

Nella sent. n. 359 del 2003, il Giudice delle leggi supera le censure di inammissibilità per avere il ricorso ad oggetto l’intera legge, ritenendo che la motivazione in esso contenuta fosse sufficientemente chiara a spiegare gli specifici motivi, consentendo di individuare correttamente la questione di costituzionalità (nello stesso senso, v. la recente sent. n. 22 del 2006).

In ogni caso, la Corte chiarisce come l’inammissibilità garantisca l’esigenza di una corretta instaurazione del contraddittorio, cioè colpisca tutti quei casi nei quali sia incomprensibile ricavare dal ricorso i profili di impugnazione, non potendo quindi il resistente essere messo in condizione di difendersi (v. decc. nn. 94 e 438 del 2003).

In un caso, però, la Corte ammette l’impugnazione di un intero testo di legge, dal momento che l’incostituzionalità riguarderebbe soltanto alcune disposizioni, ma le altre sarebbero “strettamente connesse con quelle, tanto da determinare come conseguenza l’incostituzionalità dell’intero testo di legge” (dec. n. 282 del 2002); in altri casi, la Corte, di fronte all’impugnazione di un intero atto legislativo, ritiene “il contenuto omogeneo e assai specifico”, superando le censure di inammissibilità (dec. n. 62 del 2005, in cui oggetto del ricorso era un intero decreto-legge, e 59 del 2006, in cui la Corte ammette il ricorso su un’intera legge); in altri casi ancora la Corte supera la eccezione relativa all’impugnazione di un intero testo, riducendo l’oggetto, attraverso il ricorso alla delibera del Consiglio dei Ministri (sent. n. 300 del 2005 e, similmente, sent. n. 95 del 2005) o, addirittura, alla legge di conversione del decreto originariamente impugnato, e cioè in un momento successivo alla instaurazione del contraddittorio, nel momento in cui cioè la Corte opera il trasferimento dell’oggetto (sent. n. 417 del 2005).

 

 

4.3 Trasferimento dell’oggetto della questione

 

Sulla scia della giurisprudenza inaugurata con la dec. n. 84 del 1996, la Corte applica, anche nel giudizio principale, la nozione di oggetto, inteso come norma e non come disposizione, che le consente di “trasferire” la questione di costituzionalità nel caso in cui la singola disposizione sia venuta meno nell’ordinamento, ma la norma sopravviva.

Il caso più noto attiene al rapporto fra decreto-legge e legge di conversione, dove la Corte trasferisce a quest’ultima le censure poste correttamente nei confronti del primo (v. sentt. nn. 272 e 286 del 2004; 417 del 2005), osservando che la stessa Regione, di fronte ad un provvedimento “intrinsecamente precario, come il decreto-legge, può sollevare la relativa questione di legittimità costituzionale avverso il decreto stesso, con effetto estensivo delle censure in caso di conversione della legge, oppure riservare la propria impugnazione a dopo l’entrata in vigore di questa”. Vero è che in ogni caso l’impugnazione dinanzi alla Corte, specie se plausibile, potrebbe orientare il legislatore in sede di conversione del decreto a correggere i vizi denunciati dinanzi al Giudice costituzionale.

Importante è la dec. n. 533 del 2003, nella quale la Corte utilizza il “trasferimento della questione” come sanzione nei confronti di una delle parti del giudizio: si tratta infatti di un giudizio nel quale la Provincia autonoma di Bolzano aveva abrogato una disposizione impugnata dinanzi al Giudice costituzionale, riproducendola, però, in un nuovo testo legislativo, al fine di superare il giudizio con una pronuncia di cessazione della materia del contendere. La Corte giudica sulla nuova disposizione, alla luce dell’identità della norma, precisando giustamente che “il principio di effettività della tutela costituzionale delle parti nei giudizi in via di azione non tollera che, attraverso l’uso distorto della potestà legislativa, uno dei contendenti possa introdurre una proposizione normativa di contenuto identico a quella impugnata e nel contempo sottrarla al già instaurato giudizio di legittimità costituzionale”, dovendo quindi in questi casi la questione essere trasferita “alla norma che, sebbene portata da un atto legislativo diverso da quello oggetto di impugnazione, sopravvive nel suo immutato contenuto precettivo” (così anche sent. n. 286 del 2004, mentre il trasferimento non viene operato nella sent. n. 137 del 2004).

 

5. La formale chiusura del contraddittorio agli interventi di soggetti diversi dalle parti necessarie del giudizio

 

Un tema non nuovo che, tuttavia, risulta ancora suscettibile di futuri sviluppi per effetto della riforma del Titolo V riguarda l’apertura del contraddittorio.

Sul punto, come noto, la giurisprudenza costituzionale ha finora mantenuto una posizione assai rigida, escludendo tassativamente qualunque possibilità di partecipazione alla dialettica processuale di soggetti estranei all’asse Stato - Regione, in forza, sostanzialmente, della già richiamata qualificazione del giudizio in via d’azione come giudizio “di parti” - titolari in via esclusiva della disponibilità del giudizio - e dell’inevitabile assenza di controinteressati[73].

Questa posizione di chiusura, col tempo, è stata tuttavia oggetto di riserve da parte della dottrina, in ragione tanto dell’impossibile preclusione per ragioni soltanto teoriche di ogni revirement, quanto di contingenti valutazioni di ordine processuale, tenuto altresì conto della parallela apertura del contraddittorio nel giudizio in via incidentale e, più di recente, seppure entro limiti stringenti, nei giudizi sui conflitti (sent. n. 76 del 2001) e, addirittura, nello stesso giudizio di ammissibilità del referendum abrogativo (sent. n. 31 del 2000)[74].

Pur non essendo in questa sede possibile ricostruire i molteplici profili problematici può rilevarsi come, già anteriormente alla riforma del Titolo V, il problema del contraddittorio coinvolgesse tre distinte categorie di potenziali intervenienti, ciascuna delle quali caratterizzata da problematiche specifiche.

a)                 In primo luogo, le Regioni terze.

Per questa categoria di intervenienti, prescindendo dal rilievo di ordine dogmatico sopra richiamato, l’ostacolo principale è stato costantemente individuato nell’esistenza di un puntuale regime dei termini, suscettibile di essere agevolmente aggirato consentendo alle Regione terze di intervenire in giudizio decorso il termine per agire direttamente[75]. In dottrina, del resto, con riferimento all’impugnativa di delibere legislative regionali, si sottolineava come la circostanza che l’atto impugnato non fosse ancora entrato in vigore, e fosse, pertanto, sprovvisto di efficacia, rendesse “problematica la configurabilità di un interesse attuale all’intervento in capo ad altri soggetti”[76].

A seguito della riforma del Titolo V, il fondamento di questi rilievi sembra almeno in parte suscettibile di ripensamento[77], tenuto conto tanto della radicale trasformazione della legge regionale, quanto, soprattutto, della evoluzione dello scrutinio da preventivo a successivo, tale da rendere possibile, almeno nel caso di impugnazione statale, il concorso di un interesse delle Regioni terze all’esito del giudizio su una legge di contenuto analogo (se non identico) a quella in corso di approvazione da parte dell’interveniente. Oggi addirittura più che in passato, infatti, incidendo l’eventuale declaratoria d’incostituzionalità su un “prodotto” normativo già perfezionato, gli altri enti derivati potrebbero ritenere opportuno sostenere - mediante un intervento ad adiuvandum - una scelta normativa (magari relativa ad una materia ritenuta particolarmente “pregnante” dal punto di vista territoriale) già sperimentata altrove, ed oggetto di ricorso governativo, contro il rischio che l’accoglimento della questione possa costituire un precedente “scomodo”[78].

Problemi in parte diversi sembra porre l’allargamento del contraddittorio alle Regioni terze nel caso di impugnazione regionale di una legge statale asseritamente lesiva di competenze territoriali. A sostegno di un’apertura in questa seconda ipotesi è stato sostenuto che la difesa delle competenze regionali non costituirebbe un compito esclusivo di una Regione soltanto, ma un’attribuzione spettante al sistema regionale nel suo complesso[79]. Se, infatti, in caso di accoglimento della questione, gli effetti si producono su tutto il territorio nazionale e non soltanto su quello della ricorrente, allora dovrebbe ammettersi una breccia nelle maglie del giudizio a tutti gli enti derivati in quanto titolari di un interesse concreto ed attuale rispetto all’esito dello scrutinio[80]. Rispetto a questa evenienza, tuttavia, mi pare di assai problematica incidenza il già ricordato regime dei termini che, di fatto, verrebbero agevolmente aggirati mediante un intervento dopo lo scadere dei termini per il ricorso. A tale proposito, gli stessi tentativi dottrinali, pure autorevolmente argomentati, volti ad ovviare a questo ostacolo - mediante il divieto di avanzare in sede di intervento ulteriori censure e la “cristallizzazione” del thema decidendum entro i limiti del ricorso introduttivo - non paiono, alla prova dei fatti, del tutto esenti da critiche[81].

b)                In secondo luogo, gli enti locali.

Ben maggiore rilievo pratico assume il problema dell’intervento degli enti locali, per i quali l’omesso riconoscimento di qualsiasi strumento di garanzia è stato giustamente considerato una incoerenza del sistema ed una grave lacuna, finanche lesiva del diritto di difesa sancito dall’art. 24 Cost.[82] (e ciò a prescindere dalla residua possibilità per le autonomie territoriali di adire i giudici e in quelle sedi chiedere di sollevare la questione di costituzionalità), tenuto altresì conto della logica del “policentrismo istituzionale” sottesa alla riforma del Titolo V[83]. In quanto titolari di competenze fondate e definite in Costituzione[84], la legittimazione delle autonomie locali ad un intervento di tipo adesivo dipendente - come è stato efficacemente sostenuto - “non sembra infrangere il dogma del giudizio in via d’azione come processo a parti necessarie”[85], onde non dovrebbero porsi neppure in linea teorica i problemi di ordine sistematico cui si è fatto cenno con riferimento all’intervento delle Regioni terze.

La consapevolezza del problema ora in esame è testimoniata dal tentativo di “dar voce” agli enti locali mediante un canale di accesso diretto alla Corte oppure con la previsione di meccanismi tali da assicurarne l’effettivo coinvolgimento in sede di impugnazione delle leggi - sia statali che regionali - in via d’azione.

In questa opzione “minimale”, come noto, si inserisce il meccanismo previsto dall’art. 9 della Legge La Loggia, ai sensi del quale gli enti locali possono proporre al Governo o alla Giunta l’impugnazione della legge, rispettivamente, regionale e statale mediante un atto di impulso della Conferenza Stato - Città e autonomie locali o del Consiglio delle autonomie locali. Tale soluzione, per quanto oggetto di riserve da parte di alcuni interpreti[86], è stata comunque valutata in termini complessivamente positivi[87]. Essa, in particolare, evita i rischi derivanti, da un lato, dalla legittimazione ad agire direttamente in capo agli stessi enti locali - soluzione quest’ultima già prevista dal progetto della Commissione bicamerale e ripresa dal testo di riforma costituzionale per il quale è attualmente pendente il referendum (art. 127 bis) - e, dall’altro, evita il fondato pericolo di una indiscriminata apertura del contraddittorio. Non può infatti trascurarsi l’evenienza - che già in passato ho avuto modo di rilevare [88]- che, legittimando per via giurisprudenziale l’apertura del giudizio agli enti locali (possibilità questa, peraltro, finora costantemente esclusa)[89], possa generarsi un contraddittorio ingestibile, nell’ambito del quale la posizione delle parti necessarie - ovvero il ricorrente ed il resistente - verrebbe ad essere indebolita in termini eccessivi, perdendosi di vista il vero obiettivo del giudizio in via principale.

La soluzione a mio avviso preferibile, ed alla quale già in altra sede ho fatto cenno[90], sarebbe quella di legittimare, attraverso un apposito intervento sulle Norme Integrative, la partecipazione della Conferenza Stato - Città e autonomie locali al giudizio in via d’azione[91], conciliandosi in questo modo l’efficienza dello scrutinio con un contributo diretto alla dialettica processuale di un soggetto istituzionalmente rappresentativo delle autonomie.

c)                 In terzo luogo, i terzi privati ed i soggetti portatori di interessi qualificati.

Immediatamente dopo la riforma del Titolo V in dottrina si è sottolineato come gli effetti delle decisioni di merito della Corte incidano sull’ordinamento in termini analoghi a quanto accade nei giudizi promossi in via incidentale[92], producendo da questa prospettiva gli stessi effetti “concreti”, agendo i singoli intervenienti, a differenza dello Stato, animati dal timore di ricadute concrete della norma oggetto all’interno della società[93]. Da questa prospettiva, inoltre, non può essere trascurata la circostanza per cui l’inversione del criterio di riparto delle competenze è tale da coinvolgere nei giudizi che contrappongono Stato e Regioni, con maggiore frequenza rispetto al passato, questioni attinenti alla garanzia dei diritti fondamentali facenti capo ai cittadini[94], i quali, sempre più spesso, almeno in linea di principio, potrebbero essere interessati al deposito dei propri atti di intervento.

Dal mio punto di vista, peraltro, l’apertura del contraddittorio a soggetti diversi da quelli indicati nei punti a) e b) si rivelerebbe realmente congrua con riferimento ai soli portatori di interessi qualificati, soprattutto ove espressivi di interessi superindividuali. Tale esigenza, del resto, mi sembra inequivocabilmente trasparire dall’atteggiamento seguito dalla Corte nelle decisioni più recenti.

Già prima ho fatto riferimento all’oscillante visione del giudizio in via diretta - a volte considerato astrattamente, altre dando rilevanza agli elementi di concretezza - che emerge dalla giurisprudenza costituzionale. In sostanza, in tale giudizio la connotazione contenziosa dal punto di vista soggettivo si intreccia spesso con il fine della tutela dell’interesse pubblico e generale, che trascende da quello delle parti.

Proprio il tema del contraddittorio esemplifica questa tensione, laddove la Corte, come detto, esclude qualsiasi breccia nella dialettica, ma al tempo stesso, è ormai solita “sentire” gli intervenienti non solo relativamente alla loro partecipazione al giudizio, ma, anche, sul piano del merito (proprio per questo, come specificato nella intitolazione di questo paragrafo, potrebbe forse parlarsi di “solo formale”, e quindi più apparente che reale, chiusura del contraddittorio).

In occasione della sent. n. 150 del 2005, ad esempio, la Corte ha dato atto delle argomentazioni avanzate dagli intervenienti (nel caso di specie, varie associazioni interessate ad esprimere la propria posizione rispetto all’oggetto della questione, ovvero due leggi regionali in tema di organismi geneticamente modificati). Analoghe considerazioni valgono per gli atti di intervento depositati da Vodafone Omnitel, Wind Telecomunicazioni, RAI e Telecom Italia nel giudizio poi definito con l’ord. n. 20 del 2005, o per quello dell’ENEL nel giudizio definito con la sent. n. 383 del 2005, o, ancora, per quello del WWF, del FAI e di Italia Nostra in quello deciso con la recente sent. n. 51 del 2006, ma gli esempi potrebbero moltiplicarsi. Il dato che accomuna queste decisioni, il cui numero è in crescita, può a mio avviso essere individuato nella necessità, che la Corte avverte sempre più frequentemente, di disporre di strumenti conoscitivi ampi, soprattutto, come nei casi richiamati, qualora le questioni abbiano per oggetto materie particolarmente complesse dal punto di vista scientifico o tecnologico e sia imprescindibile una approfondita conoscenza di quelli che, efficacemente, sono stati definiti “legislative facts[95].

Se questa esigenza pare evidente - soprattutto nel giudizio in via diretta, ove mancano del tutto elementi di “concretezza” analoghi a quelli che caratterizzano la questione sollevata in via incidentale - il dato che mi pare importante sottolineare riguarda la mancata formalizzazione di questo ruolo dei terzi che, invece, sarebbe opportuna, mediante la codificazione di precise regole in sede di Norme Integrative. Se, infatti, l’intervento di questi soggetti - che, per quanto forse impropriamente, potremmo definire amici curiae - potrebbe rivelarsi estremamente utile sul piano decisorio, occorre a mio avviso disciplinarne adeguatamente le modalità. Tale esigenza, del resto, potrebbe rivelarsi utile anche con riguardo all’eventuale riconoscimento in capo agli intervenienti della facoltà di richiedere la sospensione della legge in presenza dei (pur ambigui) presupposti individuati dalla legge “La Loggia”, soprattutto ove il terzo fosse proprio il soggetto direttamente colpito dalla disposizione oggetto di sindacato[96].

La recente modifica operata nel giugno del 2004[97] sarebbe potuta essere un’occasione utile per intervenire sul punto, legittimando con un’apposita norma, ad esempio, analogamente a quanto avviene in altre esperienze straniere, il deposito di memorie illustrative da parte di soggetti particolarmente qualificati.

Una possibilità residua per un intervento in chiave conoscitiva - che, peraltro, la Corte non sembra finora avere indagato - potrebbe forse individuarsi nella novella dell’art. 4, laddove si è previsto, al comma 3, che “eventuali interventi altri soggetti, ferma la competenza della Corte a decidere sulla loro ammissibilità, devono avere luogo con le modalità di cui al comma precedente[98].

Un ripensamento sul tema del contraddittorio, alla luce della radicale trasformazione del sistema delle fonti e del giudizio in via diretta di cui si è dato finora conto, potrebbe per questa via avere oggi un fondamento normativo che, peraltro, non può prescindere da una chiara presa di posizione della Corte, essendo appunto ferma la competenza di quest’ultima ad esprimersi in via definitiva sull’ammissibilità dei terzi.

 

6. Il (discutibile) rigore in ordine alla perentorietà dei termini processuali

 

Monolitica sembrerebbe la giurisprudenza che sancisce, a pena di inammissibilità, la perentorietà di tutti i termini processuali[99].

In tal caso la Corte, a differenza di quello che avviene in ordine alla valutazione dell’atto introduttivo del giudizio, adotta un’ottica solamente formale, ritenendo un valore in sé una regola processuale che, peraltro, non è così rigida neanche nei giudizi comuni.

La Corte si rifiuta, anche di fronte a serie eccezioni da parte dei soggetti del processo costituzionale, di valutare distintamente le ipotesi di perentorietà dei termini processuali; non intende ragionare e introdurre nel processo costituzionale un bilanciamento fra esigenze di certezza processuale e rispetto, in particolare, del diritto di difesa.

Nella giurisprudenza della Corte sembra dunque prevalente l’interesse a che, nei rapporti fra Stato e Regione, vengano sollecitamente rimosse le eventuali situazioni di illegittimità costituzionale, perseguendosi dunque, in primo luogo, un interesse di diritto obiettivo (v. sent. n. 15 del 1967).

Così, il Giudice delle leggi ribadisce l’inammissibilità per tardività del deposito del ricorso, sia nei confronti dell’impugnativa statale (di recente v. le sentt. nn. 20 e 391 del 2005)[100], che di quella regionale (v. da ultimo le decc. nn. 344, 393 e 397 del 2005)[101] e non prende in considerazione la richiesta, in un giudizio, di fare applicazione della disciplina dell’errore scusabile (richiesta sottolineata anche dalla proposizione di una questione di legittimità costituzionale sugli artt. 31 e 32 della l. n. 87 del 1953 “nella parte in cui tali disposizioni precludono l’applicazione di questo istituto” (v. sent. n. 303 del 2003)[102]. Né, per lo stesso motivo, la Corte ammette l’applicazione, in analogia con il processo penale e civile, dell’istituto della sospensione feriale dei termini (sent. n. 42 del 2004)[103].

Una piccola modifica di questo rigido orientamento avviene con le decc. nn. 477 del 2002, 28 e 97 del 2004 e, da ultimo, 383 del 2005, nelle quali la Corte, ribadendo il principio dell’irrilevanza dell’errore scusabile, sancisce però la rilevanza della “scissione fra il momento in cui la notificazione deve intendersi perfezionata nei confronti del notificante, e che coincide con il momento della consegna dell’atto all’ufficiale giudiziario, rispetto al momento in cui essa si perfeziona per il destinatario dell’atto”, ritenendo ammissibile il ricorso in un caso nel quale esso era stato notificato al Presidente del Consiglio dei Ministri oltre il termine perentorio di sessanta giorni “a motivo della documentata impossibilità del destinatario a ricevere l’atto nei termini (24 dicembre 2003) per la chiusura dell’Ufficio protocollo della Presidenza del Consiglio, mentre risulta notificato nei termini presso l’Avvocatura dello Stato” (testualmente, dec. n. 383 del 2005).

La Corte non prende in alcuna considerazione neanche il tentativo di una Regione teso a superare la rigida applicazione del regime dei termini per la costituzione del convenuto, alla luce di considerazioni di ordine formale e sostanziale e, in analogia con quanto avviene nel processo amministrativo, rispondendo di non ritenere “di discostarsi dalla propria giurisprudenza consolidata (sentt. nn. 303 del 2003, 99 del 2000, 72 del 1981 e 191 del 1980; ordd. nn. 126 del 1997, 528 e 643 del 1988) che considera perentori i termini previsti per la costituzione delle parti nei giudizi in via principale” (dec. n. 307 del 2003; così l’inammissibilità della costituzione del convenuto per tardività viene affermata anche nelle decc. nn. 313 del 2003; 391, 393, 397 del 2005).

Nell’ambito di questa giurisprudenza di chiusura, occorre da ultimo segnalare come la Corte faccia spesso ricorso all’argomento della tardività per escludere l’intervento di soggetti diversi dalle parti necessarie, potenzialmente interessati all’esito dello scrutinio. Le riserve alla posizione finora ribadita e prima richiamate in termini generali sembrano valere anche rispetto a queste ipotesi, tenuto altresì conto dell’uso giudicato strumentale di questo argomento per escludere sempre e comunque l’intervento di terzi, anche nelle ipotesi in cui, forse, ragioni costituzionalmente rilevanti - quali il rispetto dell’art. 24 - potrebbero suggerire un atteggiamento di maggiore apertura[104].

 

7. Novità nello strumentario processuale: la Corte torna ad occuparsi degli effetti delle proprie decisioni in nome del principio di “continuità”

 

Una novità significativa della giurisprudenza costituzionale successiva al 2001 è costituita dal tentativo del Giudice costituzionale di inventare strumenti che gli consentano di modulare gli effetti delle proprie decisioni, rispettando il principio di “continuità”[105].

Tale esigenza conduce a due tipi di decisioni, apparentemente molto diverse fra loro, ma aventi lo stesso scopo: quello di riconoscere l’illegittimità costituzionale di una situazione, senza creare però un vuoto normativo, in un contesto in cui, in assenza di un intervento legislativo da parte dei soggetti competenti, la soppressione dell’istituto determinerebbe la lesione di diritti fondamentali dei cittadini.

In alcuni casi, la Corte ricorre a decisioni di rigetto interpretative, nelle quali riconosce l’incostituzionalità, ma consente la sopravvivenza della norma fino all’intervento (eventuale) da parte delle Regioni. Nella sent. n. 50 del 2005, la Corte, pur ammettendo che “l’allocazione delle funzioni amministrative nelle materie di competenza concorrente, non spetta, in linea di principio, allo Stato”, sottolinea come “vi sono funzioni e servizi pubblici che non possono subire interruzioni, se non a costo di incidere su diritti che non possono essere sacrificati”, concludendo per l’infondatezza “nei sensi di cui in motivazione”: “tali rilievi comportano che le funzioni delle Province continueranno a svolgersi secondo le disposizioni vigenti fin quando le Regioni non le avranno sostituite con una propria disciplina. La norma va intesa, quindi, nel senso che le funzioni amministrative sono mantenute in capo alle Province senza precludere la possibilità di diverse discipline da parte delle Regioni”.

L’applicazione del principio di continuità e dell’impossibilità di creare un vuoto nella disciplina comporta anche che la restaurazione esatta delle competenze possa avvenire gradualmente, e cioè con tempi diversi da Regione a Regione: ciò risulta chiaramente in una successiva decisione, avente ad oggetto la normativa decisa con la sent. n. 50, promossa dalla provincia di Trento, la quale lamentava la lesione delle proprie competenze per la persistenza nell’ordinamento della disciplina generale, essendo per la stessa Provincia avvenuto l’adeguamento al dettato costituzionale. La Corte, anche in questo caso, conclude per l’infondatezza “nei sensi di cui in motivazione”, affermando la possibile coesistenza della disciplina statale generale, legittima solo fino all’intervento di tutte le Regioni, e discipline regionali “nuove”, nei confronti delle quali la disciplina statale anteriore costituirebbe “titolo di legittimazione ad intervenire”: “la disposizione censurata deve essere interpretata nel senso che le funzioni dello Stato continueranno a svolgersi secondo le disposizioni vigenti fin quando le Regioni non le avranno sostituite con una propria disciplina, mentre nelle Regioni e Province autonome in cui ciò è già avvenuto, anche se per effetto di deleghe statali – come nel caso della Provincia di Trento – la disposizione ha la valenza di indicare il nuovo titolo di legittimazione spettante alle Regioni e alle Province autonome loro attribuito con le modifiche costituzionali (…)” (così, sent. n. 384 del 2005).

In altri casi, più numerosi, la Corte costituzionale cerca di ottenere lo stesso risultato, attraverso decisioni di illegittimità costituzionale di tipo manipolativo.

In alcune di esse, la Corte dichiara l’incostituzionalità limitando al futuro o rinviando nel futuro gli effetti dell’incostituzionalità stessa: nella dec. n. 370 del 2003, la Corte, recuperando la formula dell’interpretativa di accoglimento, dichiara l’illegittimità costituzionale “nei limiti di cui in motivazione”. Nella motivazione della decisione, relativamente alla norma oggetto del giudizio, che riguardava un fondo speciale per gli asili nido, la Corte fa esplicitamente salvi gli effetti della disciplina rispetto “agli eventuali procedimenti di spesa in corso, anche se non esauriti”: in tal caso, la Corte sancisce un’efficacia solo futura della decisione. Ci si può chiedere, rispolverando il dibattito che si creò in ordine all’utilizzazione alla fine degli anni Ottanta di decisioni nelle quali la Corte si occupava degli effetti temporali delle stesse, se in tal caso l’effetto futuro della pronuncia si sarebbe potuto raggiungere attraverso l’applicazione di principi comuni dell’ordinamento, come quello della salvezza dei “diritti quesiti”[106].

Nella sent. n. 13 del 2004[107], la Corte adotta un dispositivo “di principio”, avente ad oggetto il tempo dell’intervento. L’incostituzionalità è dichiarata, nella parte in cui la norma non prevede che “la competenza del dirigente preposto all’Ufficio scolastico regionale venga meno quando le Regioni, nel proprio ambito territoriale e nel rispetto della continuità del servizio di istruzione, con legge, attribuiscano a propri organi la definizione delle dotazioni organiche del personale docente delle istituzioni scolastiche”[108]. Nonostante l’affermata incostituzionalità dell’intervento statale, la Corte ritiene che la caducazione immediata della disciplina censurata “provocherebbe tuttavia effetti ancor più incompatibili con la Costituzione”, dato il coinvolgimento di diritti fondamentali della persona nell’erogazione del servizio scolastico. Per questa ragione il Giudice costituzionale arriva ad ampliare il principio di continuità[109], che esso afferma quale esigenza “non più normativa ma istituzionale, giacché soprattutto nello Stato costituzionale l’ordinamento vive non solo di norme, ma anche di apparati finalizzati alla garanzia dei diritti fondamentali”.

Questa notazione permette alla Corte di far sopravvivere una norma che già al momento della sua adozione era incostituzionale (in quanto intervenuta successivamente alla riforma costituzionale del Titolo V)[110]. Dunque, l’illegittimità costituzionale è dichiarata, ma i suoi effetti sono rinviati al momento in cui le Regioni decidano di intervenire, termine, però, che secondo la Corte è incerto e senz’altro può avere una decorrenza diversa da Regione a Regione[111].

Occorre sottolineare dunque che, come nel caso delle decisioni di rigetto interpretative, la Corte dà il massimo risalto al principio di continuità dell’ordinamento, al punto da consentire che gli effetti dell’incostituzionalità della norma sottoposta a suo giudizio possano perfezionarsi in momenti diversi e possano comunque essere subordinati al discrezionale intervento delle Regioni. Occorre sottolineare anche il contenuto specifico dell’additiva, nella quale è dettagliatamente circoscritta la portata dell’intervento della legge regionale; occorre sottolineare infine, come è stato già efficacemente sostenuto, che, così operando, la Corte trasforma una decisione di accoglimento in una di rigetto[112].

Tale giurisprudenza si presta alle obiezioni già svolte in occasione delle sentenze “datate” di fine anni Ottanta[113], incentrate soprattutto sui (discutibili) poteri per il Giudice costituzionale di occuparsi anche del “tempo”: con una precisazione, però, e cioè che, utilizzati nel giudizio in via principale, questi strumenti non si prestano all’obiezione più seria, quella legata all’incompatibilità fra efficacia futura della decisione di incostituzionalità e natura incidentale del giudizio; rimane aperto il problema, sottolineato ampiamente dalla dottrina, e riproposto dalla giurisprudenza che stiamo esaminando, se la Corte costituzionale possa disciplinare una vacatio sententiae senza una formale modifica dell’art. 136 Cost.[114].

In dottrina si è enfatizzata, come già si era fatto in occasione delle decisioni di incostituzionalità “datate” o di quelle “di principio”, l’analogia con gli strumenti che altri Tribunali costituzionali utilizzano, in particolare quello tedesco: riservandomi di approfondire tale osservazione, a me pare che questa analogia non vada valorizzata in modo eccessivo. Si tratta, in effetti, di strumenti tecnici con i quali i giudici costituzionali incidono sugli effetti delle proprie pronunce: tuttavia nelle decisioni della Corte che stiamo commentando l’aspetto più significativo (e più problematico) è proprio la circostanza che non si cerca un interlocutore unico, il Parlamento nazionale, che sia in grado di sostituire la disciplina incostituzionale con una disciplina nuova (e che quindi sia in grado di rispondere entro un termine certo che lo stesso Tribunale costituzionale, in genere, assegna), ma si salva la disciplina per evitare pericolosi vuoti normativi, in attesa dell’intervento di tutte le Regioni. Si tratta, in parole più semplici, come abbiamo rilevato sopra, di uno strumento tecnico con il quale si vuole garantire il principio di “continuità”, all’interno di un’interpretazione da parte del Giudice costituzionale che garantisce le competenze regionali solo se le stesse Regioni le sappiano adeguatamente esercitare.

Un’ulteriore “tecnica”, dovuta alla preoccupazione di evitare vuoti di discipline importanti dell’ordinamento, si verifica in relazione ad una norma “abrogatrice”, la quale viene dichiarata incostituzionale “nella parte in cui non prevede che l’abrogazione delle norme ivi indicate decorra dalla data di entrata in vigore della disciplina” (sent. n. 308 del 2004). La Corte, con la propria pronuncia, intende realizzare una “reviviscenza temporanea” della norma, la quale torna in vigore fino all’intervento regionale, resosi necessario dal momento che le Regioni sono divenute competenti nella materia: la Corte dunque, con gli strumenti processuali di cui dispone, riesce a governare anche i tempi di realizzazione della riforma costituzionale.

Questi strumenti, uniti ai principi sviluppati dal Giudice costituzionale in relazione all’interpretazione delle materie, ci consentono di comprendere fino in fondo il ruolo centrale svolto dal Giudice delle leggi per realizzare il nuovo assetto di competenze e il nuovo equilibrio costituzionale fra Stato e Regioni dopo la riforma “federalista”.

L’impianto costituzionale riformato esige, secondo la Corte, che i soggetti coinvolti, e in particolare le Regioni, assumano i poteri riconosciuti dalla Costituzione solo se riescano in concreto ad esercitarli: quello che il Giudice delle leggi non tralascia è il pericolo che una cattiva gestione delle proprie competenze da parte regionale possa riflettersi sulla violazione o limitazione di diritti fondamentali dei cittadini.

Nella creazione dei nuovi strumenti processuali di controllo del “tempo” delle decisioni la Corte svolge un ruolo di arbitro imparziale fra Stato e Regioni[115], partendo dall’ottica generale della tutela dei diritti dei cittadini. Tale ruolo emerge a contrario anche dalle decc. nn. 16 e 49 del 2004, in cui la Corte afferma inequivocabilmente l’incostituzionalità delle norme, riconoscendo che “la caducazione di tali norme non comporta diretto ed immediato pregiudizio per i diritti delle persone”. Occorre notare, però, che la Corte si permette di inserire nel proprio bilanciamento un “canone processuale” che non è, per sua natura, suscettibile di essere bilanciato.

Va segnalata, sempre in riferimento alla questione degli effetti nel tempo delle decisioni della Corte costituzionale, la già ricordata sent. n. 196 del 2004, relativa alla legge statale sul condono edilizio. La Corte ne dichiara l’incostituzionalità in quanto contenente norme di dettaglio in una materia oggetto di competenza concorrente: viene precisato però che il legislatore statale, intervenendo in materia di condono, deve lasciare un congruo termine ai legislatori regionali per l’approvazione della relativa normativa di dettaglio, decorso inutilmente il quale, devono tornare ad essere applicate le norme statali dichiarate incostituzionali. Questa decisione ha destato perplessità in dottrina, la quale ha criticamente osservato come norme dichiarate incostituzionali “miracolosamente rivivono in caso di inadempienza regionale[116].

 

8. Aspetti processuali del giudizio sugli statuti regionali

 

Un ultimo profilo che, in questa sede, potrà solo marginalmente essere affrontato riguarda uno speciale tipo di giudizio in via principale, ovvero il giudizio di costituzionalità degli statuti disciplinato dall’art. 123 Cost.

La Corte costituzionale, come noto, e come di recente è stato puntualmente ricostruito da Paolo Passaglia nell’ultima edizione degli Aggiornamenti sul processo costituzionale curata da Roberto Romboli[117], ha avuto un ruolo fondamentale nella “decodificazione” del procedimento genetico di questa fonte regionale che, nella lettera della legge costituzionale n. 1 del 1999, lasciava ampie zone d’ombra[118].

Il (relativamente) limitato numero di decisioni ed il carattere inedito di questo sindacato - come tale insuscettibile di ogni raffronto - non rendono possibile scindere la trattazione degli aspetti processuali da quelli sostanziali relativi all’iter genetico degli statuti ed ai rispettivi contenuti[119] e ciò, inevitabilmente, ostacola la selezione dei profili che in questa sede rilevano. Inoltre, come è stato recentemente evidenziato, la ricerca di un filo conduttore che leghi tutte le decisioni è resa complessa dal concorso di talune discordanze ed oscillazioni tali dal far dubitare l’esistenza di un unico, chiaro e coerente indirizzo giurisprudenziale[120].

Può comunque essere opportuno sottolineare come il giudizio disciplinato dall’art. 123 Cost. ricalchi nei tratti essenziali il giudizio in via principale, del quale, spesso, ripropone le difficoltà interpretative ed applicative (si pensi, ad esempio, al problema dell’intervento di soggetti terzi, che la Corte, nei due casi in cui si è posto, ha tralatiziamente risolto richiamando il proprio consolidato orientamento in tema di intervento nei giudizi in via diretta) e, quindi, si contraddistingua in gran parte per le medesime “luci” ed “ombre” che si è poc’anzi tentato di mettere in evidenza.

Oggetto di approfonditi e, talvolta, animati dibattiti scientifici, il contributo della giurisprudenza costituzionale nella esegesi di quei profili rimasti oscuri nella formulazione del legislatore si è dimostrata determinante[121].

Muovendo, in primo luogo, dalla dimensione procedimentale (dell’iter statutario) e da quella processuale costituzionale (che, sul punto, sono inestricabili) dell’art. 123 Cost., determinanti, per quanto problematici, si sono rivelati l’accertamento del carattere preventivo del ricorso del Governo (v. sent. n. 304 del 2002)[122], l’esclusione di ogni possibilità di impugnazione successiva (dunque ex art. 127 Cost.) delle norme statutarie (v. sent. n. 469 del 2005)[123] e, ancora, l’esclusione della possibilità di impugnazione degli statuti da parte di soggetti diversi dall’Esecutivo[124] (sent. n. 378 del 2004)[125].

Ciò che, in linea generale, accomuna tutte queste decisioni si sostanzia nella tendenziale omogeneità con cui la Corte ha applicato il dato costituzionale, evitando letture “creative”, limitandosi ad esplicitare ciò che era già implicito nel testo e, dunque, mostrando di “prendere sul serio”, dalla particolare prospettiva del procedimento di formazione degli statuti, il testo del nuovo art. 123 Cost.

Questo generalissimo rilievo - e su ciò mi sento di insistere per non essere fraintesa - non vuole risolversi in una acritica accettazione della giurisprudenza statutaria, che, anzi, soprattutto con riguardo al “merito”, presta il fianco a molte riserve, come, del resto, è emerso dall’intenso dibattito scientifico degli ultimi anni.

Indubbiamente, la Corte, evitando soluzioni forse più “coraggiose”, è incorsa in decisioni talvolta riduttive dell’autonomia regionale, tanto da legittimare autorevole dottrina a rilevare che “il peso ed i condizionamenti in genere gravanti sugli statuti appaiono crescere ogni giorno che passa sempre di più, fino a superare, per taluni aspetti, quelli che si hanno sulle stesse leggi ‘comuni’”[126]. Ciò è accaduto, ad esempio, con la stessa affermazione del carattere preventivo del ricorso del Governo[127], o, ancora, con il riconoscimento della soggezione dello statuto, oltre che alle singole disposizioni costituzionali, anche al vincolo dell’armonia con la Costituzione[128]- implicante non solo “il puntuale rispetto di ogni disposizione”, ma, anche, dello “spirito” della Carta fondamentale -[129], criticamente considerato quale “grimaldello” di origine giurisprudenziale utilizzabile dalla Corte per effettuare scelte politiche ad essa interdette[130]; per non parlare della impostazione riduttiva sulla natura dei principi nei nuovi statuti regionali (v. sentt. nn. 372, 378 e 379 del 2004).

Analoghe considerazioni, peraltro, possono estendersi alla stessa reiterabilità del controllo recentemente riconosciuta dalla Corte[131]: se quanto enunciato nella sent. n. 469 del 2005 costituisce infatti uno sviluppo coerente di quel “diritto vivente” originato dalla più volte citata sent. n. 304, tale opzione pare suscettibile di riproporre quanto, vigente il vecchio art. 127 Cost., accadeva alle delibere legislative rinviate dal Governo: infatti, come efficacemente rilevato, tra i “vecchi” rinvii plurimi ed i “nuovi” ricorsi plurimi “la differenza attiene al momento ed alle forme del controllo, non già alla sostanza o agli effetti”[132], donde il rischio della sospensione sine die dell’entrata in vigore degli statuti, evenienza difficilmente conciliabile con lo spirito autonomistico sotteso alle riforme costituzionali del 1999 e 2001.

Tuttavia, come in un continuo alternarsi di luci ed ombre, la giurisprudenza costituzionale - pur senza contraddire le conseguenze “riduttive” che, rispetto ai profili poc’anzi affrontati, dalla stessa derivano - sembra al tempo stesso avere riservato ai legislatori statutari alcuni significativi margini di autonomia.

A questo proposito, degne di nota mi sembrano alcune decisioni, sia “della prima ora” che più recenti.

Tra le prime, può ricordarsi, ancora, la sent. n. 304, con cui la Corte ha riconosciuto la possibilità delle c.d. “delibere stralcio” statutarie[133]. Ritenuta inopportuna in dottrina - in quanto foriera di sovrapposizioni procedimentali e disorientamento degli interpreti e dei cittadini -[134], la legittimazione di tale opzione sembra comunque orientarsi a favore di quella tesi esegetica che pone lo statuto quale momento fondante delle realtà regionali, per lo meno con riferimento ai c.d. “contenuti necessari”. Da questa prospettiva, infatti, discende la possibilità per le Regioni di predisporre il proprio statuto nei tempi e nei modi ritenuti migliori, anche, se del caso, con interventi “per tappe”.

La stessa sent. n. 469 del 2005, pur suscettibile delle incongruenze sopra descritte può, da una diversa prospettiva, essere letta in termini non negativi rispetto all’autonomia regionale, nella parte in cui, ribadito il carattere preventivo dello scrutinio di costituzionalità, specifica come la reiterabilità del controllo, pur lecita, non possa sostanziarsi in una duplicazione del giudizio da effettuare, dapprima preventivamente e poi, in base ad una lettura strumentale del carattere “legislativo” dello statuto, secondo le modalità disciplinate dall’art. 127 Cost. La Corte, infatti, nell’escludere questa opzione, afferma che “l’esplicita previsione di uno speciale e meno favorevole (perché preventivo) sistema di controllo sulla legge statutaria comporta che a questa legge, una volta promulgata e pubblicata nel Bollettino Ufficiale, non possa applicarsi anche il controllo successivo previsto per le altre leggi regionali dall’art. 127, primo comma, Cost.”

Maggiori riserve, invece, mi sembra contraddistinguano la giurisprudenza relativa al “merito” degli statuti, che, per la sua complessità, non mi è possibile, neanche sommariamente, approfondire in questa sede. Se, tuttavia, con riferimento al procedimento di formazione traspare una (tendenzialmente) coerente applicazione del dato costituzionale, l’indeterminatezza delle materie oggetto del “contenuto” degli statuti si è inevitabilmente riflessa nella posizione assunta dalla Corte.

Ponendosi dalla prospettiva della ratio sottesa alla riforma - ovvero il rafforzamento dell’autonomia territoriale - credo infatti che dalla giurisprudenza più recente traspaiano alcune zone d’ombra, soprattutto per ciò che riguarda la forma di governo. Si pensi, ad esempio - e nonostante la sent. n. 196 del 2003 abbia riconosciuto rientrare nell’ambito dell’autonomia statutaria la possibilità di disciplinare la prorogatio - alle decisioni che tentano di dipanare l’inestricabile rapporto tra le fonti nella disciplina della materia elettorale regionale[135] (si valuti, innanzi tutto, la sent. n. 2 del 2004)[136], o si pronunciano sul divieto di terza rielezione del Presidente della Giunta (v., ancora, la sent. n. 2)[137], o sull’incompatibilità tra la carica di assessore e quella di consigliere regionale (v. sentt. nn. 378 e 379 del 2004)[138], o, ancora, sul divieto di approvazione consiliare di una mozione di sfiducia individuale diretta al singolo assessore (v. sent. n. 12 del 2006).

Indubbiamente, maggiori margini di autonomia sembrano emergere con riferimento ad altri profili, quali, ad esempio, la disciplina delle fonti[139]: nel caso emblematico della sent. n. 313 del 2003[140], ad esempio, la Corte, pronunciandosi sull’allocazione della potestà regolamentare tra Consiglio e Giunta, ha affermato che “l’autonomia è la regola e i limiti sono l’eccezione”[141].

La reale portata di questo inciso, tuttavia, dagli effetti potenzialmente dirompenti, non mi sembra abbia finora avuto riscontri del tutto coerenti, né nella giurisprudenza precedente (relativa, cioè al periodo 2001 - 2003) né, tanto meno, in quella successiva.

 

9. Gli interrogativi del “processualista”

 

Continuità e ambiguità: è questo il filo rosso che percorre l’analisi del giudizio in via principale e delle sue applicazioni giurisprudenziali, successivamente alla riforma costituzionale del Titolo V.

Giudizio nel quale la Corte si muove nel solco della tradizione, confermando in particolare il vecchio squilibrio processuale fra lo Stato e le Regioni, che la riforma costituzionale voleva senz’altro modificare, almeno in parte; giudizio nel quale la Corte ricade in modo totale in tante ambiguità quanto all’utilizzazione di strumenti processuali, ambiguità che vengono addirittura accresciute nella più recente giurisprudenza.

Come possiamo interpretare la struttura di un processo definito “processo di parti”, nel quale non è applicato coerentemente l’interesse a ricorrere, nel quale la Corte è padrona dell’oggetto del proprio giudizio non soltanto interpretando discrezionalmente forma e contenuto dei ricorsi, ma, addirittura, scindendo e separando l’oggetto di un ricorso, arrivando, sia pure in casi estremi, a modificare totalmente il thema decidendum, e vanificando così il principio cardine di qualunque processo “di parti”, quello della corrispondenza fra chiesto e pronunciato; ed ancora, un giudizio nel quale la Corte nega processualmente la parità fra impugnazione statale e regionale; nega formalmente l’intervento di soggetti diversi dallo Stato e dalle Regioni promotori e resistenti al ricorso, ma in alcuni casi, a propria discrezionalità, ascolta gli interventi di soggetti terzi, anche privati, e ne fa proprie le argomentazioni nelle decisioni, consentendo un contraddittorio sostanziale che contraddice così quello formale?

Infine, come possiamo interpretare un giudizio nel quale la Corte torna a disciplinare gli effetti delle proprie decisioni, creando strumenti che consentono di salvare discipline “incostituzionali” in attesa degli interventi regionali, ammettendo che, in nome del principio di “continuità”, sopravvivano nell’ordinamento norme statali incostituzionali, che perderebbero il proprio valore in momenti diversi temporalmente e territorialmente, e cioè fino a quando non siano sostituite dalle “legittime” discipline regionali?

In conclusione: se è vero che il diritto processuale tende comunque a farsi specchio del diritto sostanziale, le scelte processuali successive alla riforma del Titolo V confermano pienamente il ruolo assunto dalla Corte nell’interpretazione della riforma stessa. Ruolo di certo “non richiesto e non voluto”, ma poi assunto fino in fondo dal Giudice costituzionale, nell’ottica della continuità e della tradizione del regionalismo italiano e del suo processo.

 

 



* La presente relazione è ampiamente provvisoria e destinata come base per la discussione nella giornata di studi “Le zone d’ombra della giustizia costituzionale. I giudizi sulle leggi”: desidero fin d’ora ringraziare Antonio Ruggeri per l’approfondita lettura della relazione e per i preziosi consigli che mi hanno permesso di arricchirla, rimanendo, ovviamente, la sottoscritta totalmente responsabile dell’impostazione, nonché del contenuto.

[1]  In questa relazione ho scelto di concentrami sui profili problematici del processo costituzionale successivi alla riforma costituzionale del Titolo V: la profonda modificazione della forma di controllo; il numero elevatissimo di ricorsi statali e regionali; il ruolo assunto dal Giudice costituzionale nell’inveramento della riforma mi hanno indotto ad un “appiattimento” sulla giurisprudenza costituzionale successiva al 2001. Vero è che molti profili problematici del giudizio in via principale si comprendono meglio a partire dalle radici del giudizio: ho cercato di dare conto nella relazione di alcuni di questi profili, ma mi rendo conto che in qualche caso ciò rimane in ombra: si tratta di profili che conto di approfondire anche alla luce della discussione che si svilupperà sulla relazione.

Un altro aspetto della relazione che potrebbe ingenerare perplessità, anche questo dovuto ad una scelta metodologica preventiva, attiene all’esclusione di un’analisi sui profili sostanziali del giudizio, pur consapevole della strettissima dipendenza e delle notevoli ricadute sul processo delle scelte sostanziali del Giudice costituzionale. Vi sono tuttavia alcuni aspetti che, se fossero trattati, aprirebbero nuove ed interessanti prospettive (forse meritevoli dello spazio di un’altra relazione!): ad esempio, si potrebbero meglio analizzare le ricadute in termini processuali della scelta della Corte di non rimanere fedele alla logica della separazione delle competenze fra Stato e Regioni. Come accennato nel testo, tale impostazione, che induce alla ricerca di alcuni strumenti processuali, potrebbe essere causa di un aumento del contenzioso fra Stato e Regioni, rendendo incerti i rispettivi confini di intervento; ma si potrebbe, al contrario, obiettare che un rigido riparto delle competenze – che però la Corte non ha adottato - avrebbe reso ancora più frequente e inevitabile l’appello all’arbitraggio del giudice costituzionale.

[2] Così, tra gli autorevoli interventi sul punto, P. Cavaleri, I limiti generali alla potestà legislativa statale e regionale e i rapporti con l’ordinamento internazionale e con l’ordinamento comunitario, in AA. VV., Le modifiche al titolo V della parte seconda della Costituzione. Tra anni dopo, in Foro. it., V, 2004, 58 ss., P. Caretti, La Corte e la tutela delle esigenze unitarie: dall’interesse nazionale al principio di sussidiarietà, in Le Regioni, nn. 2 - 3 del 2004, 381 ss., M. Luciani, L’autonomia legislativa, in Le Regioni, nn. 2 - 3 del 2004, 355 ss., A. Roccella, Rapporti tra fonti normative statali e regionali dopo la revisione del 2001, in Amministrare, n. 1 del 2005, 25 ss., spec. 46 ss., e R. Romboli, Il sistema dei controlli sullo statuto e sulle leggi regionali, in AA. VV., La revisione costituzionale del Titolo V tra nuovo regionalismo e federalismo. Problemi applicativi e linee evolutive (a cura di G. F. Ferrari - G. Parodi), Padova, 2003, 227 ss., 252 - 253.

[3] Rispetto a questa funzione, la Corte dispone di uno spazio interpretativo più ampio di quello che contraddistingue altre materie oggetto di disciplina costituzionale. Da questo punto di vista, mi pare estremamente indicativa la riflessione espressa da Valerio Onida in un suo recente saggio (Do constitutional judges make federalism (in Italy)?, in federalismi.it, n. 19 del 2005), nel quale ritiene che “si possa affermare, in maniera molto generale, che lo spazio per interpretare e applicare la Costituzione, in un modo o nell’altro, è più ampio quando si tratta di norme che riguardano l’allocazione delle competenze tra diverse autorità, piuttosto che norme concernenti i diritti dell’individuo”, giungendo ad affermare che “quando è chiamata a risolvere una controversia in tema di competenze, la Corte è spesso influenzata dal merito della questione”. In generale, sulle tecniche utilizzate dalla Corte in ordine alla ripartizione e alla definizione delle materie, R. Bin, (I criteri di individuazione delle materie, in Le prospettive della legislazione regionale, Milano 26 - 27 gennaio 2006, in Forum di Quad. cost., 1.

[4] Sottolinea l’evoluzione verso “un quadro complessivamente assai deludente” U. De Siervo, Il sistema delle fonti: il riparto della potestà normativa tra Stato e Regioni, in Le Regioni, n. 6 del 2004, 1245 ss.

[5] Cfr. M. D’Amico, Audizione presso la Commissione Affari costituzionali, 18 maggio 2004.

[6] Le parole sono di V. Onida, Presentazione, in AA. VV., Viva vox constitutionis (a cura di V. Onida -B. Randazzo), Milano, 2005, XII.

[7] Sulla decisione si veda, tra gli altri, A. Concaro, Rapporti tra Stato, Regioni ed Enti locali, in AA. VV., Viva vox constitutionis, cit., 541 ss.

[8] Molto significative sono, in tal senso, le sentt. nn. 6 del 2004, 242, 285, 383 del 2005.

[9] V. decc. nn. 272 del 2004, 320 e 345 del 2004. Tra i numerosi contributi in tema di materie trasversali cfr. G. Arconzo, Le materie trasversali nella giurisprudenza della Corte costituzionale dopo la riforma del Titolo V, in AA. VV., L’Incerto federalismo (a cura di N. Zanon e A. Concaro), Milano, 2005, 181 ss, e G. Scaccia, Le competenze legislative sussidiarie e trasversali, in Dir. pubbl., n. 2 del 2004, 461 ss.

[10] V. sent. n. 242 del 2005.

[11] Della questione, in termini critici, si occupa N. Zanon, L’assetto delle competenze legislative, in AA. VV., L’incerto federalismo, cit., 100 - 101.

[12] V. però R. BIN, I criteri di individuazione delle materie, cit., il quale sottolinea che l’interpretazione storica delle materie può essere anche favorevole alle Regioni, come, ad esempio, in materia di ambiente.

[13] V. Onida, Presentazione, cit., XIII.

[14] Osserva R. Bin (I criteri di individuazione delle materie, cit.) che: “Purtroppo le riforme costituzionali si sono fatte - e si continuano pervicacemente a fare - senza preoccuparsi di capire prima quali siano i veri problemi di funzionalità delle istituzioni, e queste ne sono le conseguenze”.

[15]  V. R. Bin, I criteri di individuazione delle materie, cit., 1 e 7.

[16] Si veda M. D’Amico, Il regionalismo italiano alla luce della riforma del titolo V della Costituzione, in AA. VV., L’Europa tra federalismo e regionalismo (a cura di M. P. Viviani Schlein, E. Bulzi e L. Panzeri), Milano, 2003, 169 ss.

[17] R. Bin, Le potestà legislative regionali, dalla Bassanini ad oggi, in Le Regioni, 2001, 627 ss.

[18] M. D’Amico, Giustizia e processo costituzionale, in Jus, I, 1994.

[19] G. Berti, Struttura del processo costituzionale e regime dei termini, in Le Regioni, 1981, 1052.

[20] Come ebbe chiaramente modo di affermare la Corte, le Regioni “possono validamente prospettare la violazione di qualsiasi norma costituzionale avente il diretto effetto di comportare un’effettiva e attuale lesione della propria autonomia costituzionalmente garantita” (sent. n. 272/1988). In dottrina, sui fondamenti teorici di tale asimmetria, cfr., per tutti, G. Zagrebelsky, La giustizia costituzionale, Bologna, 1988, 248. Sul punto cfr. altresì V. Onida, I giudizi sulle leggi nei rapporti fra Stato e Regione. Profili processuali, in AA. VV., Strumenti e tecniche di giudizio della Corte costituzionale, Milano, 1988, 181 ss., e, tra gli studi successivi alla riforma, A. Cerri, Corso di giustizia costituzionale, Milano, 2004, 274 ss., ed E. Malfatti, S. Panizza, R. Romboli, Giustizia costituzionale, Torino, 2003, 175 - 179. Da ultimo, sottolinea che la disparità nel controllo fra Stato e Regione traesse origine non soltanto dalla diversa natura del controllo, ma anche dal modo in cui tale controllo veniva esercitato, C. Padula, L’asimmetria nel giudizio in via principale, Padova, 2005, 120-121.

[21] G. Zagrebelsky, La giustizia costituzionale, cit., 248.

[22] Sul punto, tra gli altri, A. Saccomanno, Controllo di costituzionalità in via principale e riforma del Titolo V della Costituzione, in AA. VV., Il ‘nuovo’ ordinamento regionale. Competenze e diritti (a cura di S. Gambino), Milano, 2003, 431 ss., 432 - 433. Contra, ovvero in termini favorevoli ad una posizione di continuità rispetto alla giurisprudenza anteriore alla riforma del Titolo V, cfr. G. Gemma, Impugnativa di leggi regionali e nuovo art. 127 della Costituzione, in AA. VV., La riforma del Titolo V della Costituzione e la giurisprudenza costituzionale (a cura di E. Bettinelli - F. Rigano), Torino 2004, 39.

[23] In particolare, la Corte costituzionale, chiamata a pronunciarsi su un ricorso regionale che poneva a parametro norme diverse da quelle del Titolo V, ha affermato che: “Restano assorbiti gli altri profili di incostituzionalità denunciati, senza che questa Corte debba proporsi il problema della loro ammissibilità in base al nuovo articolo 127, comma primo, Cost.”. A commento della sentenza A. D’Atena, La Consulta parla... e la riforma del titolo V entra in vigore, in Giur. Cost., 2002, 2027 ss., e R. Romboli, Aspetti processuali del giudizio sulle leggi e del conflitto tra enti, in Foro it., V, 2004, 88 ss.

[24] D. Bessi, L’interesse a ricorrere nel giudizio in via principale nel titolo V novellato, in Le Regioni, 2004, 223.

[25] Sul punto, anche per ulteriori riferimenti bibliografici, R. Romboli, Il sistema dei controlli sullo statuto e sulle leggi regionali, cit., 257 - 258.

[26] Su questo argomento interpretativo cfr., tra i primi commentatori, M. Cavino, Eccesso e invasione - lesione di competenza dopo la riforma del Titolo V della II parte della Costituzione, in Giur. it., n. 7 del 2002, 1341 ss.

[27] Si vedano, a commento della decisione, A. Ruggeri, Riforma del Titolo V e vizi delle leggi regionali: verso la conferma della vecchia giurisprudenza?, in www.forumcostituzionale.it., e P. Caretti, Il contenzioso costituzionale. Commento all’art. 9, AA. VV., Stato, Regioni ed enti locali nella legge 5 giugno 2003, n. 131 (a cura di G. Falcon), Bologna 2003, 183 ss., 188 - 191.

[28] Da questo punto di vista, opportunamente, in dottrina si è criticato l’atteggiamento frettoloso con cui la Corte, astenendosi da un approccio sistematico, ha definito il profilo: in questi termini A. Anzon, Il difficile avvio della giurisprudenza costituzionale sul nuovo Titolo V della Costituzione, in Giur. cost., 2003, 1159.

[29] Su questa decisione, tra gli altri, cfr. A. Anzon, I limiti attuali della potestà esclusiva delle Regioni (e Province) ad autonomia speciale e i vizi denunziabili dallo Stato ex art. 127 Cost: due importanti punti fermi nella giurisprudenza della Corte, in Giur. cost., 2003, 2256 ss., G. Gemma, Vizi di leggi regionali ed impugnativa statale: la Corte ha sentenziato, e correttamente, in Giur. cost., 2003, 2260, e R. Dickmann, Gli organi dello Stato sono chiamati a garantire le istanze unitarie della Repubblica, in Giur. cost., 2003, 2269 ss. per ulteriori riferimenti bibliografici sulle varie letture della decisione cfr. altresì L. Panzeri, Il giudizio in via principale alla luce della legge cost. n. 3/2001: qualche considerazione su alcuni nodi problematici della riforma, in AA. VV., L’Incerto federalismo, cit., 17 ss., 19 - 30.

[30] L’applicazione di tale approccio sistematico, tuttavia, non viene portata fino in fondo, considerandosi, in particolare, la complessiva ridefinizione dell’assetto delle competenze normative e, soprattutto, la sopraggiunta attitudine delle leggi regionali di incidere su situazioni giuridiche dei privati: questo profilo, infatti, pare destinato a minare la tesi, ampiamente sostenuta prima della riforma, secondo la quale la legittimazione statale all’impugnazione delle leggi regionali per qualunque vizio fosse ragionevole, in quanto “compensativa” delle difficoltà connesse alla possibilità per la questione di pervenire a scrutinio in via incidentale. Su questo profilo cfr. A. Ruggeri, La questione dei vizi delle leggi regionali e l’oscillante soluzione ad essa data da una sentenza che dice e… non dice (nota a Corte cost. n. 274 del 2003), in www.forumcostituzionale.it.

[31] T. Groppi, Giustizia costituzionale e stati decentrati: la Corte italiana dopo la revisione del 2001, in Amministrare, n. 1 del 2005, 5 ss.

[32] Su tale modello G. Falcon, Contestazione e contrattazione di legittimità: aspetti di prassi e spunti ricostruttivi per l’applicazione dell’art. 127 della Costituzione, in Giur. cost., 1980, I, 531 ss., V. Onida, Sindacato di legittimità costituzionale e Regioni, in Le Regioni, 1990, 679 ss., 683, e C. Salazar, L’accesso al giudizio in via principale e la «parità delle armi» tra Stato e Regioni: qualche considerazione sul presente e uno sguardo sul possibile futuro, in AA. VV., Prospettive di accesso alla giustizia costituzionale (a cura di A. Anzon, P. Caretti, S. Grassi), Torino, 2000, 227 ss., 233 - 234. Tra i contributi successivi alla riforma, E. Gianfrancesco, Il controllo sulle leggi regionali nel nuovo art. 127, in AA.VV., La Repubblica delle autonomie. Regioni ed enti locali nel nuovo Titolo V (a cura di T. Groppi - M. Olivetti), Torino, 2001, 127 ss., G. Di Cosimo, Nuova disciplina del controllo sulle leggi regionali. Il caso delle Regioni a statuto speciale, in Le istituzioni del federalismo, n. 2 del 2002, 355 ss., 356, e L. Panzeri, Considerazioni introduttive sul potere di rinvio presidenziale delle leggi regionali e sugli altri possibili istituti «compensativi», in Le Regioni, nn. 1 - 2 del 2005, 103 ss., 103 - 110.

[33] Sulla quale, oggi, cfr. A. Ruggeri, A. Spadaro, Lineamenti di giustizia costituzionale, Torino, 2005, 215 - 216. Sull’“elogio funebre del controllo mediante richiesta di riesame” cfr. altresì E. Gianfrancesco, L’incidenza della riforma del titolo V sul giudizio costituzionale, in AA.VV., La riforma del Titolo V della Costituzione e la giurisprudenza costituzionale, cit., 39 ss., 45.

[34] Sul tema cfr. diffusamente V. Onida, Sindacato di legittimità costituzionale e Regioni, in AA. VV., Giustizia e Regioni, Padova, 1990, 25 ss., S. Bartole, Considerazioni sulla funzionalità della Corte costituzionale, e F. Dimora, I problemi processuali nella giurisprudenza della Corte costituzionale, entrambi in AA. VV., Regioni e Corte costituzionale (a cura di S. Bartole, M. Scudiero, A. Loiodice), Milano, 1988, rispettivamente 13 ss. (spec. 69 ss.) e 83 ss.

[35] Come già rilevato nell’imminenza della legge cost. n. 3 del 2001, tra gli altri, da A. Celotto, Le funzioni amministrative regionali, in AA. VV., La Repubblica delle autonomie, cit., 1° ed., 2001, 141 ss., 148.

[36] Già in passato, nell’esprimere il mio favore per un’opzione giurisprudenziale volta ad un maggiore adeguamento “verso l’alto” dei vizi censurabili, avevo cercato di mettere in luce queste difficoltà: sul punto, ancora, mi sia consentito un rinvio a M. D’Amico, Il regionalismo italiano, cit., 191. Sul punto, in termini egualmente problematici, cfr. R. Romboli, Il sistema dei controlli sullo statuto e sulle leggi regionali, cit., 256 - 257. Sulle difficoltà connesse alla “giustiziabilità” delle leggi regionali in via d’eccezione cfr. altresì A. Ruggeri, Riforma del titolo V ed esperienze di normazione, attraverso il prisma della giurisprudenza costituzionale: profili processuali e sostanziali, tra continuo e discontinuo, in federalismi.it, n. 18 del 2005, 4.

[37] V. sent. n. 212 del 1997.

[38] V. sent. n. 736 del 2001.

[39] …opzione che, tra l’altro, pensata per compensare le eventuali disfunzioni connesse alle strettoie del giudizio in via incidentale, finirebbe con il sollevare ulteriori problemi di conformità alla lettera della Costituzione.

[40] Sul punto cfr. già A. Anzon, Un passo indietro verso il regionalismo “duale”, in AA. VV., Il nuovo Titolo V della parte II della Costituzione. Primi problemi della sua attuazione, Milano, 2002, 230.

[41] Sul punto, tra gli altri, A. Saccomanno, Controllo di costituzionalità in via principale e riforma del Titolo V della Costituzione, cit., 438 - 439.

[42] Sulle cui cause cfr. S. Bartole, R. Bin, G. Falcon, R. Tosi, Diritto regionale, Bologna, 2003, 227 - 230.

[43] Tali profili verranno più ampiamente trattati nei paragrafi conclusivi di questa relazione.

[44] Sul tema cfr. S. Bartole, Nuove riflessioni sull’interesse a ricorrere nei giudizi in via principale sulla legittimità delle leggi, in Giur. cost., 1974, 1664 ss.; A. Mangia, Interesse ad agire e sindacato di ammissibilità nel giudizio in via principale, in Dir. Regione, n. 6 del 1990, 923; diffusamente il recente lavoro di C. Padula, L’asimmetria nel giudizio in via principale, Padova, 2005 (in particolare 161 ss.).

[45] Questa sovrapposizione risulta in maniera implicita nelle decisioni in cui la Corte affronta il problema dei parametri utilizzabili da Stato e Regioni; vi sono poi delle pronunce in cui la Corte fa riferimento all’assenza di uno specifico interesse a ricorrere delle Regioni per escludere l’ammissibilità di ricorsi aventi a parametro norme diverse da quelle sul riparto di competenze: si vedano sul punto le sentt. nn. 4, 33, 287 del 2004; 36, 37 del 2005.

[46] F. Dal Canto - E.Rossi, Il giudizio di costituzionalità delle leggi in via principale, in AA. VV., Aggiornamenti in tema di processo costituzionale (2002-2004) (a cura di R. Romboli), Torino, 2005, 159 ss., 214 - 220.

[47] Tra le più recenti v. sentt. nn. 407, ord. n. 103, 169, 293, 403 e 477 del 2005, 3 e 5 del 2006.

[48] V. sent. n. 203 del 2005.

[49] Cfr. M. D’Amico, Parti e processo nella giustizia costituzionale, Torino, 1991, 11 ss.

[50] Già da tempo, come noto, la dottrina ha messo in luce come le ipotesi in presenza delle quali la Corte può adottare un provvedimento cautelare nei confronti della legge impugnata (art. 9 Legge “La Loggia”) paiano destinate a trovare applicazione soprattutto nei confronti delle leggi regionali: in tal senso, tra gli altri, F. Drago, I ricorsi in via principale nel quadro del novellato Titolo V, in federalismi.it dell’11 aprile 2003, 24 – 25. Si esprime in termini parzialmente diversi R. Romboli, Il sistema dei controlli, cit., 260.

[51] …difficilmente comprensibile nell’ambito di un giudizio “di parti”: sul tema G. Brunelli, L’illegittimità costituzionale consequenziale come deroga al principio del contraddittorio, in AA. VV., Il contraddittorio nel giudizio sulle leggi, cit., 368 ss., 372. Sul tema cfr. altresì C. Salazar, L’accesso al giudizio in via principale e la «parità delle armi» tra Stato e Regioni, cit., 227 ss.

[52] Previsione questa che, oltre di dubbia compatibilità con il carattere contenzioso del giudizio in via diretta, è stata criticata da autorevole dottrina, la quale l’ha definita “una sorta di mostruosità giuridica” (così G. Falcon, Introduzione. Nuove questioni sul percorso istituzionale italiano, in AA. VV., Stato, Regioni ed enti locali nella legge 5 giugno 2003, n. 131, cit., 17). Sulle ambiguità connesse a tale istituto con riferimento alla ricostruzione teorica del giudizio in via d’azione cfr. altresì E. Gianfrancesco, L’incidenza della riforma del titolo V sul giudizio costituzionale, in AA. VV., La riforma del Titolo V della Costituzione e la giurisprudenza costituzionale, cit., 60, e M. D’Amico, Le modifiche al processo costituzionale nell’art. 9 della legge 5 giugno 2003, n. 131, in AA. VV., I processi di attuazione del federalismo in Italia (a cura di B. Caravita), Milano, 2004, 387 ss., 403.

[53] Sullo specifico profilo cfr. E. Gianfrancesco, L’incidenza della riforma del titolo V sul giudizio costituzionale, cit., 39 ss., 46 - 47, ed E. D’Orlando, La funzione arbitrale della Corte costituzionale tra Stato e Regioni: verso una convergenza tra Verfassungsgerischtsbarkeit e Staatsgerichtsbarckeit?, in AA.VV., La riforma del Titolo V, cit., 374 ss.

[54] Con riferimento alla giurisprudenza più risalente, cfr. F. Dimora, I problemi processuali nella giurisprudenza della Corte costituzionale, cit., 96 - 98 e 109- 111.

[55] Sent. n. 431 del 2005.

[56] Su questa decisione cfr. E. Gianfrancesco, L’incidenza della riforma del titolo V sul giudizio costituzionale, cit., 48, S. Illari, La Corte in equilibrio tra continuità e discontinuità nell’opera di adeguamento dell’ordinamento alla riforma del Titolo V, in Giur. cost., 2002, 4399 ss., e C. Padula, La problematica legittimazione delle Regioni ad agire a tutela della propria posizione di enti «esponenziali», in Le Regioni, 2002, 676 ss.

[57] F. Dal Canto - E.Rossi, Il giudizio di costituzionalità delle leggi in via principale, cit., 210-211.

[58] Sul tema V. Cocozza, I profili processuali, in Le Regioni, nn. 2 - 3 del 2004, 479 ss., 486 - 487.

[59] Sul contenuto dell’atto introduttivo, in generale, cfr. E. Malfatti, S. Panizza, R. Romboli, Giustizia costituzionale, cit., 175 - 179.

[60] E. Rossi, Il giudizio di costituzionalità delle leggi in via principale, in AA. VV., Aggiornamenti in tema di processo costituzionale (1999-2001) (a cura di R. Romboli), Torino, 2002, 123.

[61] F. Dal Canto - E.Rossi, Il giudizio di costituzionalità delle leggi in via principale, cit., 190-191.

[62]  Si potrebbe obiettare che non è violato il principio della corrispondenza fra chiesto e pronunciato se la Corte, di fronte ad una domanda plurima, risponda con pronunce diverse, che, insieme, tocchino tutti i diversi profili della domanda. Ed è anche vero che anche i giudizi comuni (in particolare quello civile ed amministrativo) prevedono la possibilità di sentenze “parziali”, nelle quali al giudice è consentito pronunziarsi scindendo alcuni profili della domanda: tale possibilità, però, proprio perché permette di scindere anche temporalmente l’oggetto del giudizio, è sottoposta a rigorosi requisiti di legge (cosa che nel giudizio costituzionale non succede); inoltre, la possibilità di scissione dell’oggetto del giudizio è rigorosamente recuperato, almeno nel giudizio amministrativo, in sede di appello della decisione, dove la giurisprudenza esprime una chiara tendenza alla riunione dei procedimenti originati da un unico ricorso e separati attraverso la decisione parziale: v. G. Santaniello, Trattato di Diritto amministrativo, vol. XX, Padova, 1997, 328 ss. Mi riservo comunque di approfondire questo aspetto, importante per la tenuta e la collocazione dell’istituto “inventato” dalla Corte.

[63] F. Dal Canto - E. Rossi, Il giudizio di costituzionalità delle leggi in via principale, cit., 206, note nn. 81 e 83.

[64] M. D’Amico, Una novità nei giudizi per conflitto di attribuzione: compare il controinteressato, in Dir. Regione, 1989, 345 ss.; Id., Diritto processuale costituzionale e giudizio in via principale, in Giur. Cost. 1999, 2969 e ss.

[65] E. Bindi, La riunione delle cause nel giudizio di legittimità costituzionale, Padova 2003, 5 ss.

[66] In chiave ricostruttiva delle luci ed ombre del giudizio in via principale, questo elemento mi pare degno di rilievo nonostante la Corte, con pronunce “a rate” - attraverso, cioè, una serie concatenata di decisioni - finisca comunque con il chiudere il proprio “ciclo decisionale”, come si è rilevato anche sopra, nt. 62.

[67] Tecnica giustamente ritenuta “neutra” quanto agli effetti derivanti per Stato e Regioni: sul punto A. Ruggeri, Riforma del titolo V ed esperienze di normazione, cit., 18.

[68] A. Ruggeri, La Corte e il drafting processuale (nota a sent. n. 201/2003), in Id., “Itinerari” di una ricerca sul sistema delle fonti, VII, 2, Studi dell’anno 2003, Torino, 2004, 1 ss.

[69] Così, testualmente, F. Dal Canto - E. Rossi, Il giudizio di costituzionalità delle leggi in via principale, cit., 207; valuta positivamente questa giurisprudenza della Corte, ritenendola funzionale alle esigenze di razionalizzazione del processo, P. Passaglia, Il funzionamento (e la funzionalità) del giudizio in via principale dopo la riforma del titolo V: osservazioni a margine della prima sentenza parziale “con riserva”, in Foro it., 2003, I, 2227.

[70] …sulla cui modifica, in termini molto approfonditi, cfr. diffusamente gli atti del Seminario tenutosi a Pisa il 26 ottobre 2001 raccolti nel volume A. Pizzorusso, R. Romboli, Le norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale dopo quasi mezzo secolo di applicazione (a cura di G. Famiglietti, E. Malfatti, P.P. Sabatelli), Torino, 2002.

[71] Senza voler forzare questo profilo, vi sarebbe però da domandarsi come possa conciliarsi tale giurisprudenza con i principi europei in materia di giustizia, contenuti anche esplicitamente nella Carta dei diritti fondamentali, ma risultato di applicazioni indiscusse della giurisprudenza delle Corti europee, soprattutto con riguardo al “tempo” entro il quale rendere le decisioni: v. M. D’Amico, Art. 47, in AA. VV., L’Europa dei diritti (a cura di R. Bifulco, M. Cartabia, A. Celotto), Bologna, 2001, 319 ss.

[72] F. Dal Canto - E.Rossi, Il giudizio di costituzionalità delle leggi in via principale, cit., 207.

[73] Questo orientamento, tra l’altro, è stato ribadito in occasione delle sentt. nn. 378 del 2004 e 469 del 2005 nei giudizi legittimità costituzionale sullo statuto dell’Umbria.

[74] …nel quale è stata ammessa la partecipazione di soggetti terzi nella veste di amici curiae. La Corte, a fronte del parallelismo sostenuto da un istante, ha giustamente evidenziato la profonda diversità di tale giudizio rispetto a quello in via d’azione (v. sent. n. 355 del 2005).

[75] Sul punto, tra gli altri, cfr. A. Ruggeri, A. Spadaro, Lineamenti di giustizia costituzionale, Torino, 2001, 322, e A. Cerri, Corso di giustizia costituzionale, Milano, 2001, 290 - 291.

[76] Così C. Mezzanotte, Appunti sul contraddittorio nei giudizi dinanzi alla Corte costituzionale, in Giur. cost., 1972, 963 ss., 969, nota n. 36.

[77] Con riferimento alla particolare ipotesi dell’intervento dei Consigli regionali, che in questa sede non è possibile approfondire, sia consentito un rinvio al mio Consiglio regionale e processo costituzionale. Problemi e prospettive alla luce della riforma costituzionale del Titolo V, in AA. VV., Scritti in memoria di Livio Paladin, I, Napoli, 2004, 697 ss.

[78] Sul valore del precedente E. Gianfrancesco, L’intervento delle Regioni terze e dei terzi interessati nel giudizio in via d’azione, in AA. VV., Il contraddittorio nel giudizio sulle leggi (a cura di V. Angiolini), Torino, 1998, 225 ss., 236, C. Salazar, L’accesso al giudizio in via principale e la «parità delle armi» tra Stato e Regioni: qualche considerazione sul presente ed uno sguardo sul possibile futuro, cit., 230, e, tra i contributi successivi alla riforma del Titolo V, E. Malfatti, S. Panizza, R. Romboli, Giustizia costituzionale, cit., 180, e A. Saccomanno, Controllo di costituzionalità in via principale e riforma del Titolo V della Costituzione, cit., 456.

[79] Cfr., in tal senso, A. Ruggeri, A. Spadaro, Lineamenti, cit., ed. 2001, 2001, 322.

[80] Sul punto, tra gli altri, cfr. E. Gianfrancesco, L’intervento delle Regioni terze, cit., 232, G. Guzzetta, Variazioni in tema di intervento delle Regioni terze nel processo costituzionale in via d’azione, in AA. VV., Il contraddittorio nel giudizio sulle leggi, cit., 458 ss.

[81] Sul punto A. Cerri, Corso di giustizia costituzionale, cit., 291, ed E. Malfatti, S. Panizza, R. Romboli, Giustizia costituzionale, cit., 180.

[82] In questi termini si esprimono E. Malfatti, S. Panizza, R. Romboli, Giustizia costituzionale, Milano, 2003, 180. In termini critici sul punto cfr. altresì P. Costanzo, La tutela delle autonomie locali davanti alle corti costituzionali, in AA. VV., La difesa delle autonomie locali (a cura di G. Rolla), Milano, 2005, 147 ss., e F. Drago, I ricorsi in via d’azione tra attuazione del Titolo V e giurisprudenza costituzionale, in Giur. cost., 2004, 4787 ss.

[83] Sul punto, per tutti, cfr. G. Rolla, L’autonomia dei comuni e delle province, in AA.VV., La Repubblica delle autonomie, 1° ed., 2001, cit., 157 ss., 159.

[84] In tal senso cfr., tra gli altri, T. Groppi, Autonomia costituzionale e potestà regolamentare degli enti locali, Milano, 1994.

[85] Così G. Guzzetta, L’accesso di Province e Comuni, cit., 284.

[86] In senso contrario alla soluzione legislativa, tra gli altri, S. Mangiameli, La riforma del regionalismo italiano, Torino, 2002, 274.

[87] In dottrina questa scelta è stata valutata quale “palliativo” del ricorso diretto (così S. Bartole, R. Bin, G. Falcon, R. Tosi, Diritto regionale, cit., 2003, 231).

[88] M. D’Amico, Parti del processo a quo costituite e non costituite, in AA. VV., Il contraddittorio nel giudizio sulle leggi, cit., 27 ss., 49 - 52.

[89] Sul punto, ex plurimis, cfr. decc. nn. 533/2002, 303/2003, 307/2003, 196/2004.

[90] M. D’Amico, Le modifiche al processo costituzionale nell’art. 9 della legge 5 giugno 2003, n. 131, cit., 395.

[91] Sul punto cfr. A. Ruggeri, La riforma costituzionale del Titolo V e i problemi della sua attuazione, con specifico riguardo alle dinamiche della normazione ed al piano dei controlli, in AA. VV., Il nuovo Titolo V della parte II della Costituzione, cit., 11 ss., 83.

[92] Sulla similarità delle posizioni dei terzi nei giudizi in via diretta ed in via d’eccezione, tra gli altri, A. Cerri, Corso di giustizia costituzionale, Milano, 2001, 297.

[93] A. Saccomanno, Controllo di costituzionalità in via principale e riforma del Titolo V della Costituzione, cit., 455.

[94] Sul sempre più frequente coinvolgimento dei diritti fondamentali nella definizione delle materie di competenza legislativa di Stato e Regione G. Zagrebelsky, Conferenza stampa del Presidente della Corte (2003), in www.giurcost.org.

[95] Su questa nozione T. Groppi, I poteri istruttori della Corte costituzionale nel giudizio sulle leggi, Milano, 1997, 24.

[96] Su questo profilo A. Ruggeri, Le Costituzioni passano, ma la giurisprudenza….resta. Editoriale 1/2004, in federalismi.it dell’8 gennaio 2004, 5.

[97] …sulla quale R. Romboli, Il giudizio di costituzionalità delle leggi in via incidentale, AA. VV., Aggiornamenti in tema di processo costituzionale, ed. 2005, cit., 37 ss., 38 - 40.

[98] Su questo profilo S. Calzolaio, La Corte dice “no” all’allargamento del giudizio in via principale, in www.forumcostituzionale.it.

[99] Sul punto, in dottrina, cfr. V. Cocozza, I profili processuali, in Le Regioni, nn. 2 - 3 del 2004, 479 ss., 483 - 484. Tra i contributi anteriori alla riforma del Titolo V, cfr., in particolare, F. Dimora, I problemi processuali nella giurisprudenza della Corte costituzionale, cit., 92 - 96.

[100] Cfr., tra le tante, le decc. nn. 71 del 1986, 139 del 1987 e 126 del 1997

[101] V. inoltre le sentt. nn. 303 del 2003, n. 99 del 2000, n. 72 del 1981 e n. 191 del 1980; ordd. nn. 126 del 1997, n. 528 e n. 643 del 1988.

[102] Vi sono poi numerose pronunce di inammissibilità, perché la costituzione è avvenuta in termini ma presso l’Avvocatura generale dello Stato, anziché presso il Consiglio dei Ministri. Cfr., tra le tante, le decc. nn. 344 del 2005, 42 del 2004 e 333 del 2000.

[103] V. in senso conforme le decc. nn. 127 del 1997, 233 del 1993, 215 del 1986, 239 del 1982, 174 del 1974 e 30 del 1973, e, in dottrina, G. Coinu, A. Deffenu, Altri aspetti procedurali, in A. Pizzorusso, R. Romboli, Le norme integrative, cit., 223 ss., 244 - 247.

[104] Sul punto v. diffusamente il par. n. 5.

[105] In argomento, T. Groppi, Giustizia costituzionale e Stati decentrati, cit., 18-19.

[106] In generale, su questa tesi, mi sia concesso di rinviare a M. D’Amico, Giudizio sulle leggi ed efficacia temporale delle decisioni di incostituzionalità, Milano, 1993, 35 ss.; imposta il lavoro sul ricorso ai principi comuni, più di recente, F. Politi, Gli effetti nel tempo delle sentenze di accoglimento della Corte costituzionale, Padova, 1997.

[107] Su questa decisione, tra gli altri, R. Dickmann, La Corte amplia la portata del principio di continuità (osservazioni a Corte cost. 13 gennaio 2004, n. 13), in federalismi.it n. 2 del 2004, A. Poggi, Un altro pezzo del “mosaico”: una sentenza importante per la definizione del contenuto della competenza legislativa concorrente delle Regioni in materia di istruzione, in federalismi.it n. 3 del 2004, e P. Caretti, La Corte e la tutela delle esigenze unitarie, cit., 385, ove si inquadra questo nuovo tipo di pronuncia nello spirito del principio di continuità, “riletto però alla luce del nuovo dettato costituzionale”.

[108] Nella sent. n. 13 del 2004, la Corte era stata chiamata a giudicare della legittimità costituzionale di una norma statale intervenuta successivamente alla riforma del 2001 che attribuiva ad un organo statale il compito di distribuire, nell’ambito della Regione, il personale docente fra le varie istituzioni scolastiche. La norma in questione, intervenendo a dettare tutt’altro che aspetti generali, risultava, a detta della Corte, lesiva delle attribuzioni legislative regionali in materia di istruzione, oggetto di potestà concorrente ai sensi dell’art. 117, terzo comma, Cost.

[109] Sull’esigenza di evitare il pericolo della discontinuità derivante da una eventuale pronuncia di accoglimento puro e semplice A. Celotto, G. D’Alessandro, Sentenze additive ad efficacia transitoria e nuove esigenze del giudizio in via principale, in Giur. cost., 2004, 228 ss., 229.

[110] Sul punto, a commento di questa sentenza, cfr. P. Milazzo, La Corte costituzionale interviene sul riparto di competenze legislative in materia di istruzione e raffina il principio di continuità, in Le Regioni, 2004, 963 e ss. L’A. sottolinea come con questa pronuncia la Corte abbia mostrato “una significativa tendenza a ponderare le decisioni di incostituzionalità per lesione dell’ordine delle competenze con la valutazione preventiva degli effetti rispetto alla tutela dei diritti costituzionali, a sottoporre la dichiarazione di incostituzionalità ad una sorta di “prova di resistenza” consistente nella proiezione della caducazione della norma stessa sulle attuali modalità di esercizio dei diritti costituzionali, al fine di verificarne il grado di pregiudizio”.

[111] Come efficacemente affermato, la Corte “introduce una sorta di test da compiere prima di dichiarare l’incostituzionalità di una legge statale nel giudizio principale: occorre verificare che l’annullamento di tale norma non comporti un ‘diretto ed immediato pregiudizio ai diritti delle persone’” (così T. Groppi, Giustizia costituzionale e stati decentrati, cit., 18).

[112]  A. RUGGERI, Riforma del titolo V ed esperienze di normazione, cit., 5.

[113] La prima pronuncia in cui la Corte limita nel tempo gli effetti della dichiarazione di incostituzionalità è la n. 266 del 1988; a questa seguono le sentt. nn. 501 del 1988, 50 del 1989, 124 del 1991 e 416 del 1992. Per la dottrina si segnala: F. Modugno, Considerazioni sul tema, in AA. VV., Effetti temporali delle sentenze della Corte costituzionale anche con riferimento alle esperienze straniere (Atti del seminario di studi tenuto al Palazzo della Consulta il 23 e 24 novembre 1988), Milano, 1989, 15. Tale Autore rinveniva la necessità di questo tipo di pronunce nel compito istituzionale della Corte costituzionale di “eliminare bensì le leggi incostituzionali dall’ordinamento, ma senza produrre situazioni di maggiore incostituzionalità, senza che gli esiti del suo giudizio siano ancora più pregiudizievoli per l’ordinamento”. Sul problema v. anche G. Zagrebelsky, Il controllo da parte della Corte costituzionale degli effetti temporali delle pronunce di incostituzionalità: possibilità e limiti, in AA. VV., Effetti temporali delle sentenze della Corte costituzionale anche con riferimento alle esperienze straniere (Atti del seminario di studi tenuto al Palazzo della Consulta il 23 e 24 novembre 1988), Milano, 1989, 198; M. D’Amico, Riflessioni sulla nozione di tempo nel diritto costituzionale, in Jus, 1992, I, 47 ss.

[114] Sul problema, mi sia consentito di rinviare a M. D’Amico, Giudizio sulle leggi, cit., 25 ss.; sulla tesi che nega la possibilità che la Corte moduli nel tempo gli effetti delle proprie decisioni, senza una modifica dell’art. 136 Cost., v. A. Ruggeri, Vacatio sententiae, retroattività parziale e nuovi tipi di pronunzie della Corte costituzionale, in Effetti temporali delle decisioni di incostituzionalità (con particolare riferimento alle esperienze straniere), Milano, 1989, 65 ss.

[115] Su questo ruolo arbitrale assunto dalla Corte, che, tra l’altro, come è stato efficacemente ricordato, accentua la componente “politica” dell’attività della Corte rispetto a quella giurisdizionale cfr. A. Ruggeri, Riforma del titolo V ed esperienze di normazione, cit., 4.

[116] Su questa decisione, ancora, N. Zanon, L’assetto delle competenze legislative, cit., 104 - 105.

[117] P. Passaglia, Il controllo di legittimità costituzionale degli Statuti ordinari, in AA. VV., Aggiornamenti in tema di processo costituzionale, ed. 2005, cit., 135 ss.

[118] Sull’“intrinseca oscurità” del testo del nuovo art. 123 Cost. cfr. G. D’Amico, Il giudizio in via principale: con riferimento all’impugnazione degli Statuti regionali, in A. Pizzorusso - R. Romboli, Le norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale dopo quasi mezzo secolo di applicazione, cit., 39 ss.

[119] Sull’incidenza degli aspetti processuali quali spunti per la ricostruzione sistematica del controllo di costituzionalità degli statuti cfr. il recente contributo di A. Cardone, La rilevanza delle questioni processuali nelle sentenze della corte sugli statuti regionali, in Le Regioni, n. 4 del 2005, 619 ss.

[120] In tal senso A. Ruggeri, Il cappio alla gola degli statuti regionali (a margine di Corte cost. n. 12 del 2006 e di altre pronunzia recenti in tema di autonomia statutaria), in www.forumcostituzionale.it.

[121] Sul tema, da ultimo, E. D’Orlando, La funzione arbitrale della Corte costituzionale tra Stato e Regioni, cit., 378.

[122] Sul tema, a sostegno delle possibili ricostruzioni, cfr. R. Tosi, I nuovi statuti delle regioni ordinarie: procedimento e limiti, in Le Regioni 2000, p. 531; U. De Siervo, I nuovi statuti regionali nel sistema delle fonti, in Verso una fase costituente delle Regioni?, Milano, 2001, 101, A. Ruggeri, Nota minima in tema di statuti regionali (con particolare riguardo al piano dei controlli governativi), alla luce della riforma costituzionale del ’99, in Verso una fase costituente delle Regioni?, Milano, 2001, 172, e S. Catalano, Forma di governo regionale, in AA. VV., L’incerto federalismo, cit., 359 ss. Per una lettura complessiva del problema, tra gli altri, cfr. C. Calvieri, Il controllo degli statuti regionali e delle leggi statutarie, in AA. VV., La riforma del Titolo V della Costituzione e la giurisprudenza costituzionale, cit., 3 ss., M. C. Grisolia, Il procedimento di formazione degli statuti regionali alla luce della sent. n. 304/2002 della Corte costituzionale, in AA. VV., Osservatorio sulle fonti 2002 (a cura di P. Caretti), Torino, 2003, 47 ss.

[123] …in quanto l’unico strumento utilizzabile risulta essere quello specificamente indicato dalla Costituzione per la fonte di vertice dell’ordinamento regionale.

[124] …quali i consiglieri regionali di minoranza, essendo gli unici soggetti legittimati al ricorso quelli indicati in Costituzione.

[125] Sulla quale A. Cardone, Brevi considerazioni su alcuni profili processuali della recente giurisprudenza ‘statutaria’ della Corte costituzionale, in Le istituzioni del federalismo, 2, 2005, 270.

[126] Così A. Ruggeri, Il cappio alla gola degli statuti regionali, cit..

[127] …opzione che, per quanto, come detto, sia stata ritenuta da ampia dottrina coerente, risulta comunque meno “federalista” del modello tracciato dal nuovo art. 127 Cost.

[128] …efficacemente definito “rompicapo ermeneutico” (così A. Ruggeri, Gli statuti delle Regioni di diritto comune e le loro possibili revisioni tra Costituzione vigente e prospettive di una nuova (o rinnovata) Costituzione, in Riv. dir. cost., 1998, 235 ss.

[129] Per una prima lettura della disposizione a seguito della riforma A. Spadaro, Il limite costituzionale dell’“armonia” con la Costituzione e i rapporti fra lo statuto e le altre fonti del diritto, in AA. VV., La potestà statutaria regionale nella riforma della Costituzione, Milano, 2001, 85 ss. Per un richiamo delle varie “letture” di questa controversa nozione individuate dalla dottrina cfr. S. Catalano, Forma di governo regionale, cit., 369 - 375.

[130] In tal senso M. Olivetti, Requiem per l’autonomia statutaria delle Regioni ordinarie, in www.forumcostituzionale.it.

[131] …ma, sul punto, v. anche infra.

[132] Così A. Ruggeri, Il cappio alla gola degli statuti regionali, cit.. Sul medesimo problema cfr. altresì D. Baldazzi, La seconda impugnazione dello statuto dell’Emilia Romagna: spunti per una riflessione sul concetto di “novità normativa”, in www.forumcostituzionale.

[133] Sul tema, A. M. Poggi, L’autonomia statutaria delle Regioni, in AA. VV., La Repubblica delle autonomie. Regioni ed enti locali nel nuovo Titolo V (a cura di T. Groppi - M. Olivetti), Torino, 2° ed., 2004, 63 ss., 69.

[134] In termini critici, in particolare, si è espresso B. Caravita Di Toritto, L’autonomia statutaria, in Le Regioni, nn. 2 - 3 del 2004, 309 ss., 311 - 313, secondo il quale “interventi statutari singolari, sincopati e a singhiozzo politicamente non sarebbero belli da vedere perché darebbero il senso della pochezza delle istituzioni regionali e della sconfitta della scommessa federalista (…); d’altra parte, numerosi sarebbero i rischi di referendum e di impugnativa governativa connessi a una pluralità di procedimenti”.

[135] Sul tema, B. Caravita Di Toritto, L’autonomia statutaria, cit., 334 - 336, e A. Morelli, Il problematico“bilanciamento” tra stabilità di governo e rappresentanza delle minoranze nella legislazione regionale sui sistemi elettorale, in Le istituzioni del federalismo, n. 2 del 2005, 201 ss.

[136]Con questa decisione, come noto, la Corte dichiara illegittime alcune previsioni statutarie che dettavano regole nei settori contemplati dall’art. 122 Cost., posto che “la fonte statutaria è chiamata a svolgere un ruolo ridotto, seppur significativo”.

[137] …con cui la Corte, tra gli altri profili risolti, dichiara l’incostituzionalità dell’art. 33, comma 7, dello statuto della Calabria laddove prevedeva l’impossibilità di un terzo mandato per il Presidente della Regione (sul punto, peraltro, è come noto intervenuta la legge n. 165 del 2004).

[138] La Corte ritiene infatti che le disposizioni censurate - che espressamente prevedevano la regola della incompatibilità fra le due cariche - rientrino negli ambiti riservati dall’art. 122 alle leggi regionali nell’ambito dei principi dettati dalla legge statale.

[139] Cfr. G. Tarli Barbieri, Le fonti del diritto regionale nella giurisprudenza costituzionale sugli statuti regionali, in Le Regioni, n. 4 del 2005, 581 ss.

[140] Su questa decisione, tra gli altri, M. Luciani, I regolamenti regionali restano (per ora) ai Consigli, in Giur. cost., 2003, 2984 ss., e M. Tarli Barbieri, La Corte costituzionale «riconsegna» il potere regolamentare ai Consigli regionali, nella «transizione infinita» verso i nuovi statuti, in Giur. cost., 2003, 2990 ss., e, più in generale, E. De Marco, I regolamenti tra Giunta e Consiglio: considerazioni su una controversa allocazione di competenza, in AA.VV., I processi di attuazione del federalismo in Italia, cit., 115 ss.

[141] Sul tema E. Balboni, Il ruolo degli Statuti: «l’autonomia è la regola; i limiti sono l’eccezione», in www.forumcostituzionale.it e, ancora, B. Caravita Di Toritto, L’autonomia statutaria, cit., 325 - 331.