Pasquale Costanzo
Sommario: 1. Premessa. – 2. Attivismo
comunitario e attendismo nazionale nella prima fase del processo costituente
europeo. – 3. Mons murem peperit: il referendum costituzionale d’indirizzo e gli anni ’90.
– 4. Il semplice maquillage europeista
della riforma del Titolo V. – 5.
La ratifica del Trattato costituzionale e
l’aggravarsi del “deficit europeo” nella Costituzione nazionale – 6. Osservazioni
conclusive.
1. Premessa. – Nel cercare di svolgere il
tema assegnatomi, che presenta connessioni molto strette con quelli delle altre
relazioni, mi sono attenuto rigorosamente all’indicazione del titolo,
intendendo cioè l’espressione “Costituzione italiana” nel significato letterale
di documento normativo fondamentale del nostro ordinamento e non quindi come
una sineddoche allusiva alla complessiva esperienza costituzionale italiana di
fronte al processo costituzionale europeo.
Mi occuperò pertanto, sia pure con la
necessaria sintesi, solo degli influssi (uso volutamente per il momento questo
termine generico) prodottisi su tale documento per effetto di un simile
processo.
Per altro verso, lo stesso zelo
letterale mi ha persuaso a circoscrivere, per quanto possibile – ma, come si
vedrà, non è poi così agevole – le mie osservazioni unicamente al “processo
costituzionale”, dando così per scontato, non so quanto arbitrariamente, non
solo che un “processo costituzionale europeo” sia in atto, ma che esso, da un
lato, non coincida affatto con l’intera vicenda della partecipazione
dell’Italia alla costruzione dell’ordinamento comunitario, e, dall’altro, non
possa tuttavia essere nemmeno identificato nella sola genesi e sviluppo del
Trattato costituzionale (anche se probabilmente più producente è ancora il
diverso atteggiamento di chi preferisce ragionare sull’esistenza di un “assetto
costituzionale comune” sulla base della concrete ed attuale interazione tra
sistema comunitario e sistema nazionale [1].
Di qui, a rendere più complesse le
cose, anche l’interrogativo circa il momento esatto a partire dal quale un tale
processo si è reso percepibile e perché.
La difficoltà maggiore consiste
evidentemente nello stipulare quali siano le condizioni essenziali perché un
tale processo sia dato, ostandovi, credo, soprattutto fattori di carattere
storico-culturale, dato che, nell’esperienza dello Stato moderno, molto spesso,
più che a un processo, inteso come una successione abbastanza distesa nel tempo
di avvenimenti, si è assistito invece ad eventi abbastanza puntuali o comunque
ravvicinati, ossia a fatti rivoluzionari, mentre è per solito a posteriori, in base cioè all’effettiva
affermazione di valori e schemi di gestione del potere oppositivi a quelli del
regime precedente, che riusciamo ad attribuire la qualifica di costituente ad
una certa serie di accadimenti.
Si tratta all’evidenza di una
questione teorica impossibile da affrontare qui. Ai nostri fini tuttavia può
soccorrere una prospettiva, per così dire, di tipo negativo, ossia tentare di
individuare gli snodi della vicenda comunitaria in cui percettibilmente taluni
fatti od atti non appaiono più finalizzati semplicemente al potenziamento
dell’edificio progettato dagli accordi di carattere economico, ma piuttosto
alla costruzione di qualcosa di diverso in cui le strutture portanti non
coincidono più puntualmente con quelle dei trattati istitutivi, ma ne
costituiscono piuttosto, per conservare la metafora, un’innovazione.
2. Attivismo comunitario e attendismo nazionale
nella prima fase del processo costituente europeo. – In questo quadro, non
è allora senza rilievo constatare come i primigeni segni di tale pressione
diversiva provengano dall’organo dotato di maggiore indipendenza nella
Comunità, ossia
Se si concorda su questa linea
complessiva, è possibile probabilmente osservare come almeno fino alla tappa
del Mercato Agricolo Comune, cioè al 1964, le linee di sviluppo tendano ancora
tutte in qualche modo alla realizzazione di scopi predefiniti. È solo dunque a
partire da questo torno di tempo, a cui risalgono, com’è noto, sia la decisione
Van Gend & Loos (1963), in tema di effetto diretto del diritto comunitario
di fronte alle giurisdizioni degli Stati membri, sia soprattutto la decisione
Costa/Enel (1964), che si sviluppa la tesi giurisprudenziale dell’esistenza di
un ordinamento sovrastante quelli degli Stati membri, qualitativamente diverso dalle classiche organizzazioni
del diritto internazionale, ossia un ordinamento giuridico autonomo e
prevalente rispetto alle norme giuridiche a livello nazionale.
Da questo momento, pur continuando a
prevalere la tensione verso la concretizzazione dei fini di carattere
economici, in primo luogo la realizzazione del MEC, che concluderà, com’è noto,
il primo periodo transitorio alla data del 31 dicembre 1969, sembrano convivere
nella medesima organizzazione due anime, quella, che, mutuando, un linguaggio
tipico della nostra disciplina, guarda nella direzione degli obiettivi
“costituiti” (non senza peraltro incontrare anche qui fasi di difficoltà e di
stagnazione), e quella che invece rivela intendimenti “costituenti”.
Questa seconda anima, che è quella
che a noi maggiormente interessa, non si annida più, ad un certo momento, nella
sola Corte di Giustizia, ma finisce per dare ispirazione anche all’azione di
altre Istituzioni, a partire dal Parlamento europeo che, nel 1979, con
l’elezione diretta, sembra acquisire un vantaggio di posizione rispetto alle
altre Istituzioni di cui comincia a risultare preoccupante il cd. deficit
democratico. Un vantaggio peraltro, che, non potendosi spendere più di tanto
sul piano costituito, atteso il ruolo abbastanza marginale, almeno all’inizio,
attribuito all’organo rappresentativo, viene investito appunto sul piano
costituente.
In questo senso può leggersi
l’adozione da parte del Parlamento europeo il 14 febbraio 1984 della
Risoluzione relativa al progetto di Trattato che istituisce l'Unione europea [2],
da considerarsi senz’altro uno degli atti prodromici più importanti rispetto
all’attuale Trattato costituzionale.
Ma anche qui si comprende come possa
ritenersi semplicistico fissare date in modo tranchant quando invece eventi che risultano più appariscenti
costituiscono l’esito di processi profondi e dilatati nel tempo: si pensi, nel
nostro caso, al vertice europeo di Copenaghen del 1973 sugli elementi
fondamentali dell’identità europea o alle due risoluzioni dello stesso
Parlamento europeo del 1975 sulla necessità di una Carta dei diritti dei
cittadini della comunità europea e del 1977 sui diritti fondamentali.
Ma, per tornare al titolo della
relazione, come ebbe a porsi la nostra Costituzione rispetto a questi
avvenimenti che caratterizzano i primi vent’anni di vita della Comunità, nel cui
arco temporale andarono a collocarsi, tra l’altro, anche la creazione del
Sistema Monetario Europeo nel 1979 (pur se l’Italia vi aderì non senza
esitazioni ed una grave crisi interna), gli accordi di Schengen del 1985 sulla
libera circolazione interna (che diventeranno però operativi per il nostro
Paese solo nel 1997, dopo essere stati riassorbiti nella normativa nel c.d.
terzo pilastro ad Amsterdam nello stesso anno), l’Atto Unico Europeo del 1986,
destinato a rilanciare l’integrazione
europea e portare a termine la realizzazione del mercato interno, e
prima ancora la vicenda legata alla decisione Simmenthal del 1978, secondo cui
incombe al giudice nazionale l’applicazione immediata delle norme comunitarie,
senza attendere la rimozione delle norme interne contrastanti da parte del
legislatore o della Corte costituzionale?
Può rispondersi che è proprio in
questa serie di contingenze che, soprattutto tramite le sentenze n. 183 del 1973
sul primato del diritto comunitario, pur con la riserva dei c.d. controlimiti,
e n. 170 del
1984, sulla sua diretta ed ininterrotta efficacia, che
Certo: si potrebbe, per altro verso,
osservare come debba ancora intervenire l’epoca di quelle grandi modifiche dei
trattati originari, che motiveranno in altri ordinamenti rivisitazioni anche
profonde dei testi costituzionali, tutto essendo ancora giocato sul versante
giurisprudenziale e circoscritto ad un dialogo di sapore piuttosto
specialistico tra Corte di Giustizia e Corti costituzionali nazionali. In altri
termini, può probabilmente ritenersi ancora adeguata la risposta offerta dalla
sola Corte e che nella nostra Carta fondamentale non si sia ancora verificato
quel deficit europeo [4],
che sarà maggiormente avvertibile in tempi successivi.
A ciò può aggiungersi che, almeno a
livello dei rapporti con la normativa di non diretta applicazione, l’intervento
operato nel 1989 con la cd. legge
3. Mons murem peperit: il referendum costituzionale d’indirizzo e gli anni ’90.
– La fase successiva sembra dunque esordire con una rinnovata attenzione
del legislatore nazionale nei confronti del fenomeno comunitario, sia sul piano
“costituito” (è appunto il caso della legge n. 86 del 1989), sia dal punto di
vista “costituente”: risale infatti a questo stesso 1989 l’indizione con legge
costituzionale (n. 2 del 1989) di un referendum
di indirizzo sul conferimento di un mandato costituente al Parlamento europeo
eletto in contemporanea con la celebrazione del referendum stesso.
Su tale vicenda occorrerà tra poco
ritornare, non tanto perché abbia prodotto risultati di qualche rilievo, ma
soprattutto perché offre importanti spunti di riflessione per il tema che
stiamo trattando. Per il momento, è opportuno però procedere sulla linea del
discorso già intrapresa, sottolineando come la forma della legge costituzionale
sia stata adottata nel 1989, vuoi per autorizzare l’effettuazione di una consultazione
popolare diversa da quelle già disciplinate dal dettato costituzionale,
presupponendosi evidentemente che i referendum
ivi previsti, indipendentemente dalla loro natura e dalla loro fisionomia,
fossero sottomessi alla regola del “numero chiuso”, vuoi perché in realtà non
di un semplice referendum si sarebbe
trattato, ma piuttosto dell’avvio di un processo di revisione dell’ordinamento
che avrebbe anche potuto condurre ad esiti in vista dei quali solo una volontà
provvista della “maggiore efficacia formale” si rivelava indispensabile [5].
Al di là, dunque, del fatto, che non di rivedere
Un analogo, sia pure indefinito e
fors’anche un po’ nebuloso, afflato costituente non sarà tuttavia percepibile
nel periodo successivo e, precisamente, nel poco più di un decennio che, dagli
eventi appena indicati, condurrà al Trattato di Nizza e alla Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea del
2000, passando attraverso le decisive tappe di Maastricht nel 1992 e di
Amsterdam nel 1997, senza assolutamente potersi trascurare le vicende legate
all’Unione economica e monetaria, al Patto di stabilità e all’introduzione
dell’euro. Lo stesso decennio vede, com’è noto, lo stabilizzarsi della
giurisprudenza comunitaria in materia di direttive autoapplicative e
responsabilità dello Stato per la loro mancata attuazione (Fratelli
Costanzo - 103/88 -: sentenza del 22 giugno 1989; Francovich
- C-6 e C-9/90 - sentenza del 19 novembre 1991; e Faccini
Dori - C-91/92- sentenza del 14 luglio 1994).
Si tratta questa svolta – è superfluo
ricordarlo – di svolgimenti istituzionali a livello comunitario ormai
sicuramente slegati dal quadro dei trattati originari, attraverso i quali si
legge nitidamente la tendenza sia alla progressiva pervasività del diritto
comunitario in ogni settore della vita sociale ed economica, sia alla sempre
più incalzante strumentalizzazione degli apparati statali al perseguimento dei
fini dell’Unione. Ciò che provoca non a caso in determinati ordinamenti una
reazione, sia pure interlocutoria, delle Corti costituzionali, e
conseguentemente un aggiustamento di una certa consistenza nelle regole
costituzionali.
E qui la comparazione sembra preziosa
per comprendere l’anomalia del caso italiano. Limitandoci a pochi esempi più
vicini a noi, vediamo come nell’ordinamento francese, quella che potremmo
chiamare “europeizzazione” della Costituzione nazionale abbia dato luogo, ad un
certo momento, nonostante la presenza di una clausola simile a quella nel
nostro art. 11 Cost. [6],
ad una poderosa revisione costituzionale. Con la riforma del 1992, si è infatti
provveduto all’inserimento nella Costituzione della V Repubblica di un nuovo
Titolo XV concernente appunto l’Unione Europea, con puntuale indicazione dei
trasferimenti consentiti, talché successivamente non è rimasta esclusa la
necessità di ulteriori revisioni costituzionali (è accaduto con il Trattato di
Amsterdam e con il Trattato costituzionale, per cui addirittura è stata messa
in cantiere una riedizione globale del predetto Titolo XV per l’eventualità
dell’entrata in vigore del Trattato stesso). Nella Germania federale, è
intervenuta sempre nel 1992 una revisione costituzionale tesa, da un lato, a
fornire uno specifico fondamento alla partecipazione all’Unione Europea,
allestendo forme speciali di adesione e indicando espliciti controlimiti (artt.
23 e 79) per modifiche dei trattati che possano comportare modifiche od
integrazioni della Costituzione, e, dall’altro, addirittura a precisare
unilateralmente quale sia la fisionomia dell’Unione cui s’intende aderire: come
quella cioè che “è impegnata al rispetto dei principi democratici, dello stato
di diritto, sociali e federativi e del principio di sussidiarietà e garantisce
una tutela dei diritti fondamentali sostanzialmente equiparabile a quella
contemplata” nella Costituzione tedesca. In Portogallo, si apprezza un analogo trend, tanto più significativo in quanto
nella Costituzione del 1976, la prima dopo l’esperienza della dittatura, nulla
si prevedeva in ordine alla materia che ci occupa: ma, successivamente, in un
crescendo di assestamenti costituzionali, anche il Portogallo ha aderito “al
rafforzamento dell’identità europea”, statuendo sul trasferimento di poteri
dallo Stato nazionale all’Unione europea, fino a pervenire nel 2004 ad una
revisione costituzionale che apre esplicitamente le porte al diritto
comunitario purché ciò avvenga “nel rispetto dei principi fondamentali dello
Stato democratico di diritto”. Non meno interessante è infine l’esperienza
spagnola, nella quale è solo la legge organica che, su espressa previsione
costituzionale (art. 93), è in grado di “spostare” competenze dallo Stato ad
organizzazioni costituzionali, laddove più di recente, sulla base della legge
organica n. 3 del 2004, è stato affidato al Consiglio di Stato uno studio delle
modifiche necessarie per adeguare
4. Il semplice maquillage europeista della riforma del Titolo V.
– Ad
un simile ordine di idee solo parzialmente si potrebbero invece ascrivere le
modifiche “europeiste” introdotte nella Costituzione italiana nel 2001, quindi
a ridosso della fase appena accennata, in occasione della riforma del suo
Titolo V, trattandosi a ben vedere di un semplice maquillage, considerato, ad esempio, che, per quasi unanime
consenso, la citazione nell’art. 117, 1° comma, Cost., del limite degli
obblighi comunitari per la legislazione statale e regionale, in nulla avrebbe
innovato al sistema delle fonti rispetto a quanto già prodottosi in precedenza
in virtù delle potenzialità riconosciute all’art. 11 Cost. [8].
Ma, anche le restanti previsioni paiono più destinate a ratificare (e a
rassicurare circa) il pregresso, vale a dire più ad “europeizzare”
Del tutto silente sul punto si
sarebbe poi manifestata anche la revisione costituzionale collegata alla c.d. devolution, ma bocciata nel referendum confermativo del 25/26 giugno
2006. Da questo punto di vista, anzi, molto più avanzato era apparso il testo approvato dalla c.d. bicamerale D’Alema nel novembre 1997 [9], che, oltre a recare uno specifico Titolo VI della
Parte II, dedicato alla “Partecipazione dell’Italia all’Unione europea”,
conteneva un articolo 114, che non sembra inutile ricordare: “L'Italia
partecipa, in condizioni di parità con gli altri Stati e nel rispetto dei
principi supremi dell'ordinamento e dei diritti inviolabili della persona
umana, al processo di unificazione europea; promuove e favorisce un ordinamento
fondato sui principi di democrazia e di sussidiarietà. Si può consentire a
limitazioni di sovranità con legge approvata a maggioranza assoluta dei
componenti di ciascuna Camera. La legge è sottoposta a referendum popolare
quando, entro tre mesi dalla sua pubblicazione, ne facciano domanda un terzo
dei componenti di una Camera o ottocentomila elettori o cinque Assemblee
regionali. La legge sottoposta a referendum non è promulgata se non è
approvata dalla maggioranza dei voti validi” [10].
5. La ratifica del
Trattato costituzionale e l’aggravarsi del “deficit europeo” nella Costituzione
nazionale – Anche in occasione
della ratifica del Trattato costituzionale (e veniamo finalmente alle fasi più recenti
e salienti del processo costituente europeo), altri ordinamenti hanno percorso
strade più impegnative e più adeguate se non alla natura, certamente ai
contenuti del Trattato [11],
la cui ratifica invece si è consumata in Italia con un mero passaggio parlamentare
(l. 7 aprile 2005, n. 57); laddove, se, da un punto di vista formale, è
indubbio che ci si trovi ancora dinnanzi ad un trattato internazionale in senso
proprio [12]
(anche se il suo iter formativo ha visto,
nella sua fase istruttoria, ancor più potenziato il sistema della Convenzione
già sperimentato con la c.d. Carta di Nizza), appare legittimo il dubbio, da
qualche parte avanzato, circa l’idoneità di una semplice legge di
autorizzazione ad immettere nell’ordinamento contenuti precettivi di
straordinaria portata come quelli rinvenibili nel Trattato costituzionale.
Ed infatti, se è vero che
E’ vero che, in altre parti del
Trattato, le Costituzioni nazionali (penso alla materia della tutela dei
diritti) ricevono una considerazione tesa a mantenerne fermo un certo ruolo
conformativo, ma anche a questo proposito, non ci si può non chiedere se si sia
in presenza di un’operazione normativa che nasconde (o rivela) la fondazione di
un assetto gradualistico tra Costituzione europea e Costituzioni nazionali, o
che comunque intende porre unilateralmente le regole di rinvio alla fonte
ritenuta preferibile ed applicabile.
Pare, conclusivamente, eccessivo
ritenere che l’art. 11 Cost., oltre a consentire che per il raggiungimento di
determinate finalità e a certe condizioni, l’ordinamento statale si autolimiti [15],
possa dare copertura anche ad operazioni di avvio di una pratica estinzione
dello Stato stesso. Persino il riconoscimento delle identità nazionali come
riferito alle strutture costituzionali e quindi – si sostiene – al limite anche
dell’eventualità di applicazioni differenziate del diritto comunitario nei vari
ex ordinamenti nazionali (pur con
tutte le connesse problematicità teoriche e pratiche [16])
finisce in fondo per trovare copertura nella stessa Costituzione europea e non
più in rivendicazioni unilaterali degli Stati membri (con la possibile
conseguenza di una prevalenza interpretativa sul punto da parte delle
giurisdizioni comunitarie [17]).
Né varrebbe, mi pare, allegare il fatto che, come già considerato, in passato
determinati snodi nell’evoluzione comunitaria ben avrebbero potuto esigere
l’intervento del legislatore di revisione, che però rimase inerte, in quanto
non è da una somma di inerzie costituzionali che sembra possibile desumere una
regola di inerzia generalizzata.
6. Osservazioni
conclusive. – D’altro canto, che la
natura straordinaria di un’operazione come quella sottesa al Trattato
costituzionale fosse già stata avvertita, è provato dalla summenzionata vicenda
legata alla l. cost. n. 2 del 1989, che ebbe a sottoporre a referendum popolare la proposta della
trasformazione delle Comunità europee in un’effettiva Unione, dotata di un
governo parlamentare, e l’attribuzione al Parlamento europeo del mandato di
redigere un progetto di costituzione europea da portare alla ratifica degli
Stati membri, così che in quel caso l’eventuale successivo passaggio
parlamentare di ratifica si sarebbe compiuto con la copertura della previa
legge costituzionale. Sulla correttezza e sull’opportunità di un simile
meccanismo – un unicum nella storia
repubblicana – sembra, del resto, impossibile non consentire, dato che, con
esso, si poneva il duplice principio del consenso popolare e del consenso
parlamentare, che mi paiono invece essere stati emarginati in occasione del
Trattato costituzionale (il primo completamente, il secondo nella sostanza) da
una mera legge di autorizzazione alla ratifica.
Per concludere, comunque, sul punto,
si può essere dell’avviso che la frenata impressa al processo costituzionale
europeo dai dinieghi francese ed olandese alla ratifica del Trattato
costituzionale e la conseguente fase di ripensamento da cui solo di recente,
almeno a stare alle dichiarazioni ufficiali di Berlino, parrebbe avviata la
conclusione, possano costituire l’occasione anche per il nostro ordinamento per
effettuare indispensabili puntualizzazioni di principio e di merito, quali, tra
le prime, il fatto che, tra le cessioni di sovranità consentite, non debba
essere ricompreso, contrariamente a quanto implicato dalla ben nota
giurisprudenza costituzionale sull’art. 11 Cost., praticamente l’intero potere
di revisione costituzionale così come potrebbe conseguire da un’accettazione
indiscriminata ed acritica di qualsiasi trattato che ambisse a porsi come
fondamento o premessa di un ordinamento chiaramente predestinato ad assorbire
le precedenti sovranità statali [18].
Tra le seconde, l’armonizzazione
consapevole e non di risulta dei meccanismi di funzionamento dell’apparato
statale, dei livelli di competenza tra le componenti repubblicane indicate
nell’art. 114, 1° comma, nonché la fissazione, sia pure facendo tesoro degli
esiti della giurisprudenza costituzionale, dei principi che si ritiene che
debbano imprescindibilmente connotare la nostra tavola costituzionale dei
valori, non tanto e non solo perché facciano argine al processo costituzionale
europeo, ma soprattutto perché sia a partire da questi che tale processo vada
svolgendosi e, se del caso, compiersi per intero.
Non si tratta, dunque, soltanto di
mettere in linea il testo costituzionale con le modificazioni tacite nel frattempo
intervenute per effetto del processo costituente europeo, ma soprattutto di
prendervi parte attiva, fissandone con chiarezza tempi, limiti e persino la sua
stessa possibilità di successo.
Certo, non ci nascondiamo a questo
punto i rischi di carattere istituzionale che una siffatta proposta può
implicare, che sono poi, a ben vedere, quelli a cui – ma forse il punto
meriterebbe ben altro approfondimento – si è cercato di sfuggire in tutta la
storia dell’appartenenza dell’Italia alla Comunità, valorizzando oltre il
lecito e oltre il logico la clausola dell’art. 11 Cost, ossia il fatto che ogni
revisione costituzionale rende maggioranze anche ampie ostaggio di gruppi
oppositivi esigui ma numericamente decisivi, con l’aggravante, nel nostro caso,
che, per un tempo non breve, l’ostilità avverso la costruzione comunitaria è
venuta da grandi formazioni partitiche, così che, attraverso la mediazione più
o meno consapevole dell’art. 11 e della Corte costituzionale, è stata avallata
la posizione filocomunitaria, occidentalista e, almeno a parole, improntata al
liberalismo di praticamente tutti i governi della Repubblica. E’ toccato
pertanto alla Corte, ma sulla frontiera estrema dei diritti inviolabili e di
non meglio definiti principi supremi, surrogarsi in quella funzione di garanzia
che meglio e più attivamente sarebbe spettata al legislatore di revisione.
Non solo, ma il passaggio
parlamentare della legge di autorizzazione alla ratifica, sembra ora mettere al
riparo dai nuovi pericoli che potrebbero provenire da un eventuale referendum
confermativo, dove, a parte il rischio d’imitazione, non è che non veda come la
costruzione comunitaria “spinta” fino alla soglia della Costituzione europea,
nobile negli obiettivi del lungo periodo e delle generazioni future, sembra
alla gente qui ed ora richiedere sacrifici e generare sgomenti non del tutto
irrazionali, se è vero che anche il neoeletto presidente francese, orientato
verso un trattato più leggero, ritiene prudente che per la sua ratifica non si
vada ad un nuovo referendum.
Mi pare però che lo scenario
nazionale attuale (chi infatti in sede parlamentare si è dichiarato contro più
o meno visceralmente all’Europa sono stati i soli gruppi della lega Nord e di
Rifondazione Comunista [19])
sia assai più propizio (anche per le interconnessioni ormai abbastanza strette
tra formazioni politiche nazionali e quelle che riuniscono i partiti consimili
del resto dell’Unione nell’ambito dei gruppi del Parlamento europeo) per
operare comunque una seria ed organica costituzionalizzazione dell’Unione
Europea nella Carta fondamentale repubblicana.
* Relazione tenuta al convegno su “L’attuazione della Costituzione”, Roma 19 maggio 2007, destinata
alla pubblicazione negli Atti relativi curati da Franco Modugno.
[1] Così F.
Sorrentino, La nascita della costituzione
europea: un’istantanea, in https://www.associazionedeicostituzionalisti.it/materiali/costituzione_ue/interventi/sorrentino_nascita.html.
[2] In G.U. C 77 del 19.3.1984, pag. 53,
relatore: Altiero Spinelli, 1-1200/1983.
[3] Diversa è
nella sostanza la ricostruzione di F. Sorrentino, ancora richiamata da ultimo, La nascita della costituzione europea, cit.,
per cui tali conseguenze non discenderebbero propriamente dall’art. 11 Cost.,
ma dall’attuale art. 249 del Trattato CE, come quello cioè che, statuendo in
definitiva sul regime interno delle fonti primarie, rivelerebbe il definito
tramonto della prospettiva dualista.
[4]
Sull’espressione, cfr. M. Claes, Le
“clausole europee” nelle costituzioni nazionali, cit., 319.
[5] Per una
puntuale ricostruzione dei lavori e in genere del dibattito preparatorio della
l. cost. n. 2 del 1989, cfr. P. Lotito, in G. Branca e A. Pizzoruzzo (curr.), Commentario della Costituzione (Disp.
tr. fin. I-XVII, Leggi cost. e l. rev. cost., 1948-1993), Bologna-Roma, 1995,
575.
[6] Nell’alinea 15 del Preambolo della Costituzione della IV
Repubblica (Sous réserve de réciprocité,
[7] Sulle c.d.
clausole europee, cfr. M. Claes, Le
“clausole europee” nelle costituzioni nazionali, in Quad. cost., 2005, 283.
[8] Cfr. C.
Pinelli, I limiti generali alla potestà
legislativa statale e regionale e i rapporti con l’ordinamento internazionale e
con l’ordinamento conuitario, in Foro
it., 2001, V, 194.
[9] Da questo
punto di vista, forse eccessiva la per altro verso condivisibile critica
formulata da A. Quadrio Curzio e A. Santini, Revisioni costituzionali italiane e trattati europei: profili giuridici
ed economici, in Iustitia, 2005,
435.
[10] Sul punto,
cfr. P. Costanzo, G.F. Ferrari, G.G. Floridia, R. Romboli e S. Sicardi (curr.),
[11] Cfr. M.
Cartabia, La ratifica del trattato costituzionale europeo e la
volontà costituente degli Stati membri, in www.forumcostituzionale.it/site/index3.php?option=content&task=view&id=130.
[12] Di una
mancanza di un ruolo europeo forte del Parlamento italiano e sul supposto
ancoramento di questi al modello “internazionale” piuttosto che alla realtà
“costituzionale” europea, discorre S. Mancini, L’Unione europea nellal revisione costituzionale, in Quad Cost., 2006, 332 e ss.
[13] Sul punto
molto efficacemente, cfr. M. Cartabia, “Unita
nella diversità”: il rapporto tra
[14] Sulla
decisività del tema delle competenze per dirimere la questione della prevalenza
assoluta o meno dell’ordinamento comunitario richiama l’attenzione ancora M.
Cartabia, “Unita nella diversità, cit., 589.
[15] Peraltro,
com’è noto, ad un simile indiscriminato esito non tutti gli ordinamenti degli
Stati membri sono pacificamente pervenuti, con il rischio, anche qui, della
creazione di un ordinamento europeo, sotto il profilo dell’efficacia delle
norme comunitarie, a geometria variabile, che sarebbe proprio l’esatto opposto
delle finalità della costruzione europea: ragiona in proposito di “basi
scivolose e disparate” A. Ruggeri, Revisioni
formali, modifiche tacite della costituzione e garanzie dei valori fondamentali
dell’ordinamento, in Dir. Soc., 2005,
500, nota 99.
[16] Cfr. A.
Ruggeri, Presentazione, in S.
Staiano, Giurisprudenza costituzionale e
principi fondamentali: alla ricerca del nucleo duro delle Costituzioni,
Torino, 2006, 15.
[17] Come
paventato da M. Cartabia, “Unita nella
diversità, cit., 594.
[18] In senso
analogo, cfr. A. Ruggeri, Revisioni
formali, cit., 504, sulla base di una “logica” assiologica nei rapporti tra
ordinamenti.
[19] Sul punto,
cfr. L. Gianniti, La ratifica italiana
del Trattato costituzionale europeo, in
Quad. cost., 2005, 664 e ss.