Guido Corso – Guerino Fares

Quale spoils system dopo la sentenza 103 della Corte costituzionale?

(per gentile concessione della Rivista telematica www.giustamm.it)

 

Nella sentenza n. 103 del 2007, la Corte costituzionale si occupa, per la prima volta, della disciplina che la l. n. 145 del 2002 (c.d. Legge Frattini) detta con riguardo al rapporto fra politica e amministrazione.

La pronuncia, ampiamente articolata e ricca di spunti, si sforza, fra l’altro, di fornirci delle chiavi interpretative per comprendere quale possa essere nel nostro ordinamento l’identità e lo spazio di applicazione effettivo dello spoil system nazionale.

Dalla lettura risalta la densa ricostruzione del contesto legislativo, come evolutosi attraverso le note scansioni temporali (datate 1992/93, 1997/98, 2001, 2002) [1]: l’excursus viene apprezzabilmente condotto secondo il costante criterio orientativo dell’indagine sulla conformazione, di volta in volta, del piano strutturale e di quello funzionale, e del conseguente riscontro circa l’incidenza dell’uno sull’altro.

Il versante strutturale attiene alla fonte costitutiva e di regolazione del rapporto di servizio dei dirigenti, nonché alle modalità di conferimento e revoca degli incarichi; il versante funzionale misura, invece, la distinzione di funzioni e competenze fra il livello politico e quello burocratico.

La copiosa rassegna dà conto, in sostanza, del completamento graduale di un processo di privatizzazione che ha investito il rapporto di impiego di tutti i dirigenti, attraverso una serie di previsioni volte, in particolare, a: definire i presupposti per l’accesso alla qualifica (in esito ad un concorso o, quando previsto, o ad un corso-concorso selettivo di formazione) e per la costituzione del rapporto di servizio prima (a seguito della stipula del contratto di lavoro) e del rapporto d’ufficio poi (per effetto dell’attribuzione dell’incarico a mezzo di provvedimento e di contratto ad esso accessivo); accentuare il profilo di separazione tra il vertice politico e gli organi di direzione amministrativa.

Ha preso corpo, in tal modo, un sistema in cui il ministro si limita a stabilire obiettivi, programmi e priorità di azione, assegnando le risorse necessarie, ma non potendo in ogni caso riformare, revocare, riservarsi o avocare i poteri spettanti al dirigente, il quale vanta a sua volta una marcata autonomia di gestione finanziaria, tecnica e amministrativa, cui fa da contrappeso un significativo corredo di sanzioni per i risultati negativi del suo operato.

Nell’assetto definitivo, hanno trovato spazio la suddivisione in tre tipologie degli incarichi dirigenziali (di base, di direzione di strutture di livello generale, e apicali) e l’affermazione del principio di temporaneità degli incarichi stessi (ma in un quadro di garanzie che assicurino la «tendenziale continuità dell’azione amministrativa»), in una prospettiva in cui «il rapporto tra politica e amministrazione non è più ricostruibile pienamente in termini di gerarchia, bensì di coordinamento funzionale e di collaborazione tra i due livelli».

Le modifiche introdotte dalla l. n. 145 rispondono, d’altra parte, ad una logica di incremento del grado di fiduciarietà del rapporto fra organo politico e organo burocratico [2]: abolizione del ruolo unico (istituito presso la Presidenza del Consiglio e articolato in due fasce), con ripristino del ruolo presso ciascuna amministrazione, ove il dirigente pertanto si iscrive; depotenziamento del criterio di rotazione degli incarichi; riduzione della durata (perfino con soppressione, in un primo tempo, di quella minima); incremento del rilievo del provvedimento (che definisce anche la durata, oltre all’oggetto e agli obiettivi) [3]; inasprimento dei presupposti e delle correlate misure della responsabilità dirigenziale [4].

In tutto questo, le forme di spoil system contemplate dalla novella del 2002 sono tre, di cui due “a regime” (cessazione automatica degli incarichi apicali decorsi novanta giorni dal voto sulla fiducia al governo; assoggettamento a conferma, revoca, modifica o rinnovazione, entro sei mesi dal voto di fiducia, delle nomine di organi di vertice e consiglieri di amministrazione di società ed enti pubblici, conferite dall’esecutivo uscente nei sei mesi antecedenti la scadenza della legislatura) ed una “transitoria” (o una tantum), a sua volta diversamente modulata in funzione dei destinatari: gli incarichi di livello non generale possono essere ridistribuiti nel termine di novanta giorni dall’entrata in vigore della legge, decorso il quale si intendono confermati; gli incarichi di funzioni dirigenziali di livello generale cessano, invece, automaticamente allo spirare del sessantesimo giorno dall’entrata in vigore della stessa l. n. 145.

Su quest’ultima previsione (spoil system transitorio per i soli dirigenti con funzioni di livello generale) verte il giudizio definito con declaratoria d’incostituzionalità dalla pronuncia in parola, salutata con particolare favore, specialmente sul piano mediatico e nei primi commenti di taglio giornalistico [5], ove è ricorrente, fra l’altro, l’affermazione secondo cui la Corte avrebbe inteso affrancare la dirigenza pubblica da un ruolo troppo subalterno rispetto al potere politico [6], riagganciando le valutazioni dei funzionari esclusivamente alle rispettive competenze e ai risultati dell’attività svolta.

Tuttavia, l’enfasi con cui è stata accolta la decisione – ed altra di pari data, concernente l’applicazione dell’istituto al livello regionale [7] – rischia di lasciare in ombra i veri profili di interesse che questo intervento del giudice costituzionale presenta.

Ci si riferisce, esattamente, alla strada indicata dalla Corte per ricondurre nell’alveo della legalità costituzionale lo spoil system nazionale: far precedere la cessazione dell’incarico da una previa fase valutativa, ancorata ad un parametro la cui specificazione costituisce il maggior aspetto di novità, oltre che l’elemento capace di far salva la stessa ragion d’essere dell’istituto, altrimenti privo di autonomia concettuale ed operativa.

Il «momento procedimentale di confronto dialettico tra le parti» vale, infatti, in un’ottica di salvaguardia delle pretese partecipative del dirigente, ad esternare le ragioni per cui l’amministrazione ritiene di interrompere il rapporto anticipatamente alla scadenza prevista dal contratto: ragioni connesse alle modalità pregresse di espletamento dell’incarico, «anche in relazione agli obiettivi programmati dalla nuova compagine governativa».

Nel suddetto, fondamentale passaggio sta il quid novi che, a ben vedere, consente di attribuire una sua ratio alla figura dello spoil system che, diversamente, rimarrebbe privo di un benché minimo spazio di sopravvivenza e verrebbe a sovrapporsi totalmente ai meccanismi della responsabilità dirigenziale, identificandosi con essa sic et simpliciter.

Va, pertanto, dato merito alla Corte di aver respinto la prospettiva di una simile coincidenza, evitando di decretare l’espunzione dell’istituto in esame dal nostro ordinamento, il che francamente sarebbe significato spostare gli equilibri in modo eccessivo verso uno dei poli del rapporto intercorrente fra quelle esigenze costituzionali in perenne conflitto, per le quali è davvero ardua la quadratura del cerchio.

La ricerca della mediazione non può che essere rimessa alla discrezionalità del legislatore (cioè alla «massima sintesi politica espressa dalla legge»: C. cost. n. 309 del 1997) [8], senza però che ne esca irragionevolmente sacrificato l’uno o l’altro dei valori in campo: la tutela delle attribuzioni e responsabilità dei dirigenti e della loro imparzialità e strumentalità agli interessi esclusivi della Nazione (artt. 97, commi 1 e 2, e 98, comma 1, Cost.); l’attuazione del principio della responsabilità ministeriale, che – necessario a ricondurre la burocrazia al circuito democratico e, dunque, al potere di direzione e controllo delle istituzioni rappresentative espresse dal corpo elettorale – rende il ministro responsabile individualmente degli atti del suo dicastero (art. 95, comma 2).

In una tale cornice, in cui occorre neutralizzare il pericolo tanto di un eccesso di autonomia quanto di un eccesso di subordinazione politica del dirigente, emerge giocoforza che il rapporto fra gli organi di governo e l’amministrazione non può che essere «né di totale immedesimazione né di totale indipendenza» [9], essendo la seconda separata sì dai primi ma al contempo agli stessi collegata in quanto tenuta ad attuarne l’indirizzo politico-amministrativo.

Lo stesso principio di imparzialità conforma, d’altro canto, il rapporto fra politica e amministrazione in termini di «autonomia strumentale», dal momento che, attesa la sua portata bivalente, «richiede che l’amministrazione persegua interessi che non siano di parte e, in egual modo, che l’amministrazione sia strumento fedele di realizzazione delle direttive politiche indicate dalle maggioranze politiche di volta in volta al governo» [10].

Dello stato delle cose la Corte si mostra, peraltro, ben conscia, come lasciano intendere diversi passi della decisione: quello in cui si prende atto della nuova configurazione del rapporto, non più «pienamente» ricostruibile in termini di gerarchia; o quello in cui si evidenzia il superamento, in sede legislativa, del modello incentrato «esclusivamente» sulla responsabilità del ministro; o quello in cui la temporaneità degli incarichi viene ormai considerata un elemento del sistema [11], benché con il temperamento della necessaria previsione di un termine minimo di durata [12], volto a rendere non troppo stretto il legame fiduciario [13].

la “stabilità” dell’incarico costituisce in linea di principio un vincolo per il legislatore (così si è espressa C. cost. n. 11 del 2002) [14], anche se non può tradursi in “precarietà” del dirigente; come pure, è innegabile che la scelta discrezionale di investitura del dirigente, in quanto effettuata dall’organo politico, contenga di per sé una componente variabile di “fidelizzazione”, ma tuttavia deve essere sorretta da “criteri oggettivi” nel tentativo di contemperare fiduciarietà ed imparzialità [15] (v. art. 19, d. lgs. n. 165 del 2001): lo sforzo di distinguere concetti dai confini estremamente labili, anche attraverso acrobazie logiche e verbali, rende appieno la difficoltà di comporre antinomie di palmare evidenza.

La sentenza si muove sapientemente lungo una linea mediana, anche se non manca di suscitare qualche perplessità.

Chi ne condivide le conclusioni si sarebbe aspettato che la Corte facesse applicazione prevalente, se non esclusiva, del principio di imparzialità e che lo spoil system una tantum venisse travolto in nome di questa.

L’azzeramento degli incarichi di direzione generale (in massima parte conferiti dal precedente governo), e quindi il trasferimento generalizzato al nuovo governo del potere di riattribuirli, sembra ispirato ad una idea tutta politica della dirigenza generale: l’idea che il destinatario dell’incarico debba essere in sintonia politico-partitica col ministro. Una scelta fondata su un presupposto del genere appare in contrasto col principio di imparzialità che deve ispirare la condotta del dirigente (ma anche quella del ministro che è pur sempre titolare di uno di quei pubblici uffici di cui parla l’art. 97 Cost.).

Un ragionamento del genere può essere accusato di ingenuità, ma è comunque coerente. È ingenuo pensare che il ministro effettui una scelta color blind (il colore è il colore politico, non quello della pelle) quando conferisce l’incarico. Il sospetto che egli sia condizionato da ragioni di partito è talmente radicato che, ad es., la nomina dei componenti delle autorità indipendenti è sottratta al governo e attribuita ad altri organi. La Corte ha preferito, invece, fare appello “in particolare” al buon andamento dell’amministrazione, sfruttando la doppia valenza dell’art. 97, e più precisamente al «principio di continuità dell’azione amministrativa che è strettamente correlato a quello di buon andamento dell’azione stessa» (punto 9.2 del Considerato in diritto).

L’argomento sembra provi troppo. Se la questione dovesse essere risolta in base al principio di continuità, allora la stessa temporaneità dell’incarico dirigenziale (che la Corte invece fa salva) andrebbe messa in discussione: anche dell’incarico che non viene ex lege a cessare ante tempus.

In realtà, il principio di continuità (invocato a fondamento di istituti come la c.d. prorogatio – v., tuttavia, la sentenza della Corte n. 208 del 1992 – o come il funzionario di fatto, o per giustificare la salvezza dei provvedimenti la cui efficacia si estende al di là della carica del titolare) è stato sempre richiamato a proposito dell’organo, non del suo titolare, ovverosia «delle funzioni pubbliche proprie dell’organo o dell’ufficio» (C. cost. n. 208, cit.). La continuità è assicurata dal fatto che la vita dell’organo non cessa con il suo titolare e che gli atti adottati da quest’ultimo continuano a produrre effetti anche quando il titolare è cambiato. La continuità non è stata mai invocata per sostenere che la persona fisica debba rimanere a vita nella carica.

Nel nostro caso la continuità dell’ufficio dirigenziale non verrebbe in alcun modo pregiudicata se il ministro, entro i sessanta giorni, designasse per l’incarico un nuovo dirigente generale. Inoltre, non pare esservi congruenza fra il principio del buon andamento (cui, peraltro, si affianca nel prosieguo un opportuno richiamo all’imparzialità [16]) e l’esigenza (che la legge Frattini colpevolmente ignorerebbe) che «al dirigente sia assicurata la possibilità di far valere il diritto di difesa» nel rispetto dei principi del giusto procedimento. Se questa fosse la ratio dell’annullamento della disposizione impugnata, sarebbe più appropriato un richiamo agli artt. 24 e 113 Cost. che non all’art. 97: il buon andamento esprime un principio valevole per l’apparato; il diritto di difesa e il giusto procedimento sono garanzie del singolo.

Ma siamo proprio sicuri che l’art. 3, comma 7, l. n. 145 contrasti col diritto di difesa e col giusto procedimento? Tali principi sono legittimamente evocati nei confronti di una misura che abbia carattere afflittivo, quale potrebbe essere la revoca anticipata dell’incarico comminata per inosservanza particolarmente grave delle direttive (art. 3, comma 2). Non del pari appropriato si rivela un richiamo a tali principi a fronte di una cessazione automatica e generalizzata degli incarichi – qual è quella disposta con la norma impugnata – come tale priva di ogni carattere individualizzante e di conseguenza afflittivo [17]. Che ne diremmo di una legge che riducesse la durata del mandato consiliare nei comuni e determinasse la cessazione anticipata dei consigli comunali in carica? È illegittima perché a migliaia di consiglieri comunali viene negato il diritto di difesa?

La Corte non sembra avere nulla da obiettare alla norma che fa cessare gli incarichi apicali (segretari generali, capi dipartimento e altri equivalenti) decorsi novanta giorni dal voto di fiducia al governo (art. 3, comma 8): gli incarichi, specifica, «di maggior coesione con gli organi politici». Ma se è legittima questa richiesta di “coesione” per i capi dipartimento perché non dovrebbe esserlo nei confronti dei dirigenti generali?

La linea divisoria tra le due fattispecie è troppo sottile perché debba essere considerata in ogni caso illegittima nella seconda (dirigente generale) la soluzione che è considerata plausibile nella prima (segretario generale o capo dipartimento).

La Corte, infine, omette dichiaratamente di prendere posizione sulla natura giuridica dell’atto motivato di revoca, che consegua eventualmente alla fase di valutazione in contraddittorio la quale, finalizzata al rispetto dei principi del giusto procedimento, vale a consentire comunque un controllo giurisdizionale.

Il prescindere dalla natura, di diritto pubblico o di diritto privato, dell’atto in questione [18], se da un lato segna l’adesione della Corte alla tesi per cui un procedimento amministrativo condotto secondo le regole della l. n. 241/1990 e s.m.i. può sfociare anche in un atto privatistico [19], dall’altro lascia immaginare che attraverso un tale atteggiamento di neutralità si siano volute evitare pericolose e dirette ricadute sul piano delicato del riparto di giurisdizione [20], considerata anche la contemporanea pendenza di specifico giudizio di legittimità costituzionale avente ad oggetto la norma (art. 63, comma 1, d. lgs. n. 165, cit.) attributiva al giudice ordinario della cognizione sulle controversie in tema di conferimento e revoca degli incarichi dirigenziali (v. la contestuale C. cost. n. 108 del 2007, ord.).

Il problema attiene ad oggetto e modalità, e dunque all’ampiezza stessa, del sindacato giudiziale, che investe: una valutazione esercizio di discrezionalità tecnica, mista a profili di merito insindacabili, se la nomina si assume effettuata attraverso un provvedimento amministrativo; una scelta espressione di autonomia privata, giustiziabile alla stregua del principio di buona fede, se viceversa all’atto di nomina si riconnette natura privatistica.

Riassumendo, dalla risposta della Corte si ricava che al legislatore non è precluso di prevedere forme di cessazione del rapporto dirigenziale, legate all’avvicendamento della compagine governativa: solo che tale cessazione non può essere automatica, bensì preceduta da un momento di valutazione dell’attività del dirigente, condotta anche alla luce dei nuovi obiettivi politico-amministrativi prefissati dal governo entrante, e idonea a giustificare l’interruzione dell’incarico non ancora scaduto.

In ossequio, cioè, alle esigenze organizzative (flessibilità, efficienza e speditezza dell’azione di governo), la verifica dell’attitudine del soggetto ad attuare l’indirizzo programmato incontra opportunamente un duplice punto di emersione: una rilevanza non solo ex post (attraverso una valutazione della condotta pregressa del dirigente) ma anche ex ante (nelle forme di una delibazione preliminare di compatibilità, anche concernente i requisiti tecnici e la personalità del soggetto), al fine di evitare che il nuovo esecutivo resti sempre ed irrimediabilmente vincolato alle scelte di quello uscente, anche per gli incarichi aventi natura non prettamente esecutiva [21].

In definitiva, la sentenza n. 103 fornisce un interessante contributo chiarificatore al complesso tema dello spoil system, che richiede delle puntualizzazioni già sul piano terminologico: la locuzione, associata al modello originario [22], descrive infatti un fenomeno di interruzione del rapporto di impiego sulla base del parallelismo fra la durata dell’incarico politico e quella dell’incarico burocratico, mentre nel nostro ordinamento assume la più blanda valenza della messa a disposizione del dirigente.

Si ben comprende, pertanto, quanto parziale ed incompiuto si sia rivelato il tentativo di trasposizione nel nostro sistema giuridico di un concetto, affiorato in un humus politico-istituzionale affatto diverso, e sulla cui definizione si è soffermata incidentalmente anche la nostra giurisprudenza costituzionale, parlando di «scelta di fondo di commisurare la durata delle nomine e degli incarichi dirigenziali a quella degli organi d’indirizzo politico» (sentenza n. 233 del 2006).

Da quest’ultima pronuncia, riguardante lo spoil system regionale, si potevano trarre indicazioni più generali, valorizzando in particolare l’esplicito riconoscimento che la coesione – connotato del rapporto, fondato sull’intuitus personae, fra organo politico e vertici dell’apparato burocratico – realizza il buon andamento dell’ente.

Taluno ha, invero, ricavato dal predetto passo una possibile ed indiretta legittimazione anche per il sistema delle spoglie a livello statale, relativamente al rapporto fra ministro ed organi burocratici apicali [23] (in sostanza, tutti quelli cui l’incarico venga conferito dall’autorità politica, compresi i dirigenti generali) [24].

Altri, invece, suggeriva una lettura opposta, facendo leva sulla inestensibilità della soluzione fornita ad un caso specifico, oltre che sulle peculiarità del sistema degli incarichi regionali (suddividi in due, e non in tre, livelli, e conferiti con delibera di organo politico collegiale e non monocratico)[25].

Prevalsa la seconda interpretazione, la sentenza 103 stimola ulteriori riflessioni riguardo alla natura apicale dell’incarico, e più precisamente a quella stretta contiguità che – ove sussistente fra l’organo politico e la sfera alta dell’amministrazione (che fa da cerniera fra il governo e la complessiva macchina burocratica) – legittima l’applicazione dello spoil system.

Ci si potrebbe interrogare, a tal riguardo, sulle affinità e sui punti di contatto fra le posizioni di capo dipartimento, segretario generale et similia da una parte, e quella di dirigente generale dall’altra, meditando sui casi in cui la situazione del dirigente generale, per la configurazione strutturale del ministero, è pienamente assimilabile a quella delle figure apicali quanto a coesione (stante l’assegnazione di obiettivi e risorse, con le correlate responsabilità gestorie), e non invece a quella dei dirigenti di base.

Per concludere, dopo aver rimarcato la scelta lodevole di preservare, con l’innesto di qualche contrappeso, un margine di autonomia all’istituto dello spoil system nel nostro sistema, almeno un cenno va speso per evidenziare il pregio del passaggio argomentativo in cui la Corte esclude di trovarsi di fronte ad un testo normativo con funzione di disciplina transitoria, che peraltro non supererebbe lo scrutinio stretto cui soggiacciono gli atti qualificabili come leggi-provvedimento, sotto il profilo della non arbitrarietà, della ragionevolezza e, con una particolare accentuazione, della proporzionalità delle misure disposte.

 



[1] Per un’accurata esposizione del percorso evolutivo cui il regime giuridico del rapporto d’impiego della dirigenza è andato incontro, snodandosi attraverso la prima e la seconda privatizzazione, si rinvia a R. Alesse, La dirigenza dello Stato tra politica e amministrazione, Torino, 2006.

[2] Un’opinione decisamente critica nei confronti della riforma aveva espresso S. Cassese, Il nuovo regime dei dirigenti pubblici italiani: una modificazione costituzionale, in Giorn. dir. amm., 2002, 1341 ss., lamentando il sopravvento preso dalla politica sulla dirigenza, destinata ad una condizione precaria e ad abdicare al suo tradizionale ruolo di neutralità.

[3] Sicché il margine di contrattazione risulta sostanzialmente azzerato e il dirigente soggiace in tutto e per tutto (se si eccettua la sola pattuizione del trattamento economico) alla decisione unilaterale dell’organo politico, come fa notare G. Gardini, Spoils system all’italiana: mito o realtà?, in Lav. nelle p.a., 2002, 958. Invoca, in merito, una correzione di rotta, mediante l’approdo ad uno schema fondato su un unico atto dal carattere privatistico-contrattuale, G. D’Alessio, La disciplina della dirigenza pubblica: profili critici ed ipotesi di revisione del quadro normativo, ivi, 2006, 562.

[4] Sulla responsabilità dirigenziale, che funge evidentemente da anello di congiunzione, v. P. Cerbo, Responsabilità politica e responsabilità dirigenziale dopo la legge n. 145 del 2002, in Dir. pubbl., 2002, 639 ss.

[5] Cfr., per un riscontro, M. Clarich, Una rivincita della dirigenza contro lo strapotere politico, in Il Sole 24 Ore del 24 marzo 2007, 33.

[6] Ad avviso di F. Merloni, Dirigenza pubblica e amministrazione imparziale, Bologna, 2006, 194, da taluni indici (come la scarsa attenzione dedicata alla qualità degli atti di indirizzo e alla definizione di un organico sistema di valutazione) si trarrebbe conferma della scarsa fiducia nutrita dagli organi politici nella capacità della dirigenza di guidare l’amministrazione al raggiungimento dei risultati con la sola predefinizione dell’indirizzo politico.

[7] La sentenza n. 104, dichiarando costituzionalmente illegittime le disposizioni di talune leggi regionali, chiarisce, fra l’altro, quanto segue: «La dipendenza funzionale del dirigente non può diventare dipendenza politica. Il dirigente è sottoposto alle direttive del vertice politico e al suo giudizio, ed in seguito a questo può essere allontanato. Ma non può essere messo in condizioni di precarietà che consentano la decadenza senza la garanzia del giusto procedimento».

[8] In proposito, rileva B. Cavallo, Teoria e prassi della pubblica organizzazione, Milano, 2005, 542, che «non esistendo uno statuto costituzionale della dirigenza, il legislatore ha significativi spazi di libertà per conformare il rapporto tra organi politici e dirigenti, per cui il sistema delle spoglie non sembra contrastare con la magna charta»

[9] R. Bin – G. Pitruzzella, Diritto costituzionale, Torino, 2006, 193.

[10] Così A. Patroni Griffi, Dimensione costituzionale e modelli legislativi della dirigenza pubblica, Napoli, 2002, 111.

[11] Si tratta di un dato acquisito anche per quella dottrina che pur deplora i tentativi di adottare forme esplicite o mascherate di spoil system, come quello operato dalla l. n. 145: ci si riferisce, in particolare, a G. D’Alessio, La disciplina della dirigenza pubblica: profili critici ed ipotesi di revisione del quadro normativo, cit., 566 ss., il quale auspica la conservazione del sistema degli incarichi sottoposti a termine finale, «in quanto coerente con l’obiettivo di realizzare un’amministrazione dinamica e funzionale, che superi la vecchia logica burocratica anche attraverso un uso flessibile delle risorse umane più qualificate».

[12] Altrimenti, il dirigente sarebbe essenzialmente proteso verso la ricerca di consensi presso il ministro, nell’aspettativa di una sua riconferma; senza dire che la brevità dell’incarico renderebbe «del tutto teorica la necessità di ricorrere alle complesse procedure di valutazione e accertamento delle responsabilità» (G. D’Auria, Ancora una riforma della dirigenza pubblica, in Giorn. dir. amm., 2002, 1160; rilievi simili in V. Talamo, Lo spoils system all’«italiana» fra legge Bassanini e legge Frattini, in Lav. nelle p.a., 2003, 238). Nel senso, invece, che le modifiche introdotte dalla l. Frattini sulla durata degli incarichi dirigenziali «rispondono a esigenze di flessibilità e mobilità e non a logiche di precarizzazione», C. D’Orta, Gli incarichi dirigenziali nello Stato dopo la legge 145/2002, in Lav. nelle p.a., 2002, 936. Per una posizione intermedia, in quanto dubitativa, si segnala A. Patroni Griffi, Dimensione costituzionale e modelli legislativi della dirigenza pubblica, cit., 184, per il quale «non è facile stabilire quanto la nuova disciplina degli incarichi risponda teleologicamente alle logiche legittime dell’individuazione, nel rispetto del principio della distinzione, di un collegamento organico della dirigenza con il vertice politico, al fine di realizzare a livello di efficienza ottimale, quel circuito politica-amministrazione in cui consiste la funzione di governo, o sia, al contrario, finalizzata ad apprestare nelle mani dei politici un nuovo strumento di riappropriazione della funzione gestionale mediante un sistema che, pur non rinnegando formalmente il principio di separazione, ponga la dirigenza in una posizione di sostanziale sudditanza».

[13] Sugli indicatori della fiduciarietà, v. dettagliatamente G. Endrici, Il potere di scelta, Bologna, 2000, 213 ss.

[14] Sono senza dubbio significative le affermazioni contenute nell’ordinanza della Corte, giudicata tuttavia «superficiale» da parte della dottrina (S. Cassese, Il rapporto tra politica e amministrazione e la disciplina della dirigenza, in Lav. nelle p.a., 2003, 787), e «ineccepibile» da altri (A. Patroni Griffi, Dimensione costituzionale e modelli legislativi della dirigenza pubblica, cit., 118 s.), benché imputando alla Consulta di non aver meglio indicato «i limiti costituzionali, oltrepassando i quali la discrezionalità legislativa, nella regolamentazione del conferimento e della revoca degli incarichi dirigenziali, potrebbe incorrere in una censura di legittimità».

[15] Si tratta di nozioni in aperta contraddizione, per S. Cassese, Il rapporto tra politica e amministrazione e la disciplina della dirigenza, cit., 789.

[16] Nel prescrivere la necessità della previa fase valutativa la Corte aggiunge, infatti, anche un riferimento alla trasparenza delle scelte (contrappunto della flessibilità) e, quindi, al principio di imparzialità dell’azione amministrativa.

[17] In sostanza, anche la previsione della verifica in contraddittorio, che la Corte ricava in via di deduzione dalla sua precedente giurisprudenza (essenzialmente dalle pronunce n. 193 e n. 11 del 2002, n. 313 del 1996, n. 333 del 1993 e n. 453 del 1990), non convince appieno: l’esigenza di procedimentalizzare una fase valutativa dovrebbe imporsi laddove occorra accertare e sanzionare un’incapacità e non compiere una valutazione di opportunità circa l’attitudine del dirigente a contribuire al raggiungimento degli indirizzi tracciati dalla coalizione governativa subentrante.

[18] L’orientamento della Corte di cassazione è nel senso che gli atti di conferimento o revoca di incarichi dirigenziali abbiano natura privata o, quanto meno, di determinazione assunta con la capacità e i poteri del privato datore di lavoro, sicché la cognizione giurisdizionale su di essi compete al giudice ordinario: cfr., ex multis, Cass. civ., sez. un., 11 gennaio 2007 n. 308; Id., 7 luglio 2005 n. 14252; Id., 9 dicembre 2004 n. 22990; Id., sez, lav., 20 marzo 2004 n. 5659. Di opposto avviso, in dottrina, M. C. Cavallaro, Sulla natura giuridica dell’atto di conferimento dell’incarico dirigenziale, in Dir. amm., 2006, 707 ss., che espone le ragioni in favore della natura provvedimentale. Un analogo avviso pare potersi attribuirsi a S. Cassese, Il rapporto tra politica e amministrazione e la disciplina della dirigenza, cit., 787, il quale reputa inammissibile che un rapporto di impiego venga fatto cessare «senza un provvedimento amministrativo».

[19] Contra, peraltro, P. Sordi, Le controversie in tema di incarichi dirigenziali, in Lav. nelle p.a., 2005, 770, per il quale «l’affermata natura privatistica dell’atto di conferimento dell’incarico impedisce di attribuire rilevanza alle prescrizioni contenute nella legge 7 agosto 1990, n. 241». Per l’inapplicabilità propende anche M. C. Cavallaro, Sulla natura giuridica dell’atto di conferimento dell’incarico dirigenziale, cit., 713, secondo la quale soltanto la qualificazione in termini pubblicistici consente di assegnare al destinatario le garanzie previste dalla legge generale sul procedimento amministrativo.

[20] In proposito, la sentenza della Corte costituzionale n. 275 del 2001 ha avvertito che la configurazione della disciplina che regola sul versante sostanziale il rapporto di lavoro dei pubblici dirigenti produce conseguenze rilevanti anche sul riparto giurisdizionale, «a tutela degli stessi dipendenti, in base ad una esigenza di unitarietà della materia». E, sebbene nella successiva ordinanza n. 525 del 2002 la stessa Consulta avrebbe aggiunto che «qualsiasi problema sulla natura dell’atto di conferimento o di revoca degli incarichi dirigenziali non incide sulla attribuzione della giurisdizione effettuata dal legislatore», allo stato occorre fare i conti con i criteri fondamentali dettati in materia dalla successiva e fondamentale C. cost. n. 204 del 2004.

[21] Evidentemente, il rilievo accordato agli obiettivi definiti dalla nuova maggioranza di governo mal si concilia con il riferimento assorbente al principio di continuità, laddove questa sia riferita – come parrebbe di capire – non alla struttura ma alla persona fisica ad essa preposta: il ruolo centrale e decisivo in un primo momento riconosciuto alla continuità di azione del dirigente viene, pertanto, se non smentito perlomeno svalutato, dal recupero di un profilo di gradimento nell’investitura dello stesso organo burocratico di vertice

[22] Sulle origini dell’istituto, C. Di Andrea, Lo spoils system: noterelle sulla disciplina della dirigenza pubblica in Italia e spunti comparatistici, in Rass. parl., 2003, 583 ss

[23] La peculiarità degli «uffici destinati in modo diretto alla collaborazione con gli organi politici o al supporto dei medesimi » è stata evidenziata da C. cost. n. 1 del 1999. A dette strutture sono preposte figure di raccordo, incaricate di garantire efficienza al circuito indirizzo-gestione: si tratta, in pratica, di quegli elementi in grado di garantire «quello scambio circolare di informazioni tra politica ed amministrazione, essenziale per un corretto esercizio della funzione di governo» (A. Patroni Griffi, Dimensione costituzionale e modelli legislativi della dirigenza pubblica, cit., 192

[24] S. Battini, In morte del principio di distinzione fra politica e amministrazione: la Corte preferisce lo spoils system, in Giorn. dir. amm., 2006, 911 ss

[25] G. Gardini, Lo spoils system al primo vaglio di costituzionalità: le nomine fiduciarie delle Regioni sono legittime, ma la querelle resta aperta, in Lav. nelle p.a., 2006, 679 ss.