Guido Corso – Guerino Fares
Quale spoils system
dopo la sentenza 103 della Corte costituzionale?
(per gentile concessione della
Rivista telematica www.giustamm.it)
Nella sentenza n. 103 del
2007,
La pronuncia, ampiamente articolata e ricca di spunti, si
sforza, fra l’altro, di fornirci delle chiavi interpretative per comprendere
quale possa essere nel nostro ordinamento l’identità e
lo spazio di applicazione effettivo dello spoil
system nazionale.
Dalla lettura risalta la densa ricostruzione del contesto legislativo, come evolutosi attraverso le note
scansioni temporali (datate 1992/93, 1997/98, 2001, 2002) [1]: l’excursus
viene apprezzabilmente condotto secondo il costante criterio orientativo dell’indagine
sulla conformazione, di volta in volta, del piano strutturale e di quello
funzionale, e del conseguente riscontro circa l’incidenza dell’uno sull’altro.
Il versante strutturale attiene alla fonte costitutiva e di
regolazione del rapporto di servizio dei dirigenti, nonché
alle modalità di conferimento e revoca degli incarichi; il versante funzionale
misura, invece, la distinzione di funzioni e competenze fra il livello politico
e quello burocratico.
La copiosa rassegna dà conto, in sostanza, del completamento
graduale di un processo di privatizzazione che ha investito il rapporto di impiego di tutti i dirigenti, attraverso una serie di
previsioni volte, in particolare, a: definire i presupposti per l’accesso alla
qualifica (in esito ad un concorso o, quando previsto, o ad un corso-concorso
selettivo di formazione) e per la costituzione del rapporto di servizio prima
(a seguito della stipula del contratto di lavoro) e del rapporto d’ufficio poi
(per effetto dell’attribuzione dell’incarico a mezzo di provvedimento e di
contratto ad esso accessivo); accentuare il profilo di separazione tra il
vertice politico e gli organi di direzione amministrativa.
Ha preso corpo, in tal modo, un sistema in cui il ministro si
limita a stabilire obiettivi, programmi e priorità di azione,
assegnando le risorse necessarie, ma non potendo in ogni caso riformare,
revocare, riservarsi o avocare i poteri spettanti al dirigente, il quale vanta
a sua volta una marcata autonomia di gestione finanziaria, tecnica e
amministrativa, cui fa da contrappeso un significativo corredo di sanzioni per
i risultati negativi del suo operato.
Nell’assetto definitivo, hanno trovato spazio la suddivisione
in tre tipologie degli incarichi dirigenziali (di base, di direzione di
strutture di livello generale, e apicali) e
l’affermazione del principio di temporaneità degli incarichi stessi (ma in un
quadro di garanzie che assicurino la «tendenziale continuità dell’azione
amministrativa»), in una prospettiva in cui «il rapporto tra politica e amministrazione
non è più ricostruibile pienamente in termini di gerarchia, bensì di
coordinamento funzionale e di collaborazione tra i due livelli».
Le modifiche introdotte dalla l. n. 145 rispondono, d’altra
parte, ad una logica di incremento del grado di fiduciarietà del rapporto fra
organo politico e organo burocratico [2]:
abolizione del ruolo unico (istituito presso
In tutto questo, le forme di spoil system contemplate dalla
novella del 2002 sono tre, di cui due “a regime” (cessazione automatica degli
incarichi apicali decorsi novanta giorni dal voto sulla fiducia al governo;
assoggettamento a conferma, revoca, modifica o rinnovazione, entro sei mesi dal
voto di fiducia, delle nomine di organi di vertice e
consiglieri di amministrazione di società ed enti pubblici, conferite
dall’esecutivo uscente nei sei mesi antecedenti la scadenza della legislatura)
ed una “transitoria” (o una tantum),
a sua volta diversamente modulata in funzione dei destinatari: gli incarichi di
livello non generale possono essere ridistribuiti nel termine di novanta giorni
dall’entrata in vigore della legge, decorso il quale si intendono confermati;
gli incarichi di funzioni dirigenziali di livello generale cessano, invece,
automaticamente allo spirare del sessantesimo giorno dall’entrata in vigore della
stessa l. n. 145.
Su quest’ultima previsione (spoil system transitorio per i soli dirigenti con funzioni di
livello generale) verte il giudizio definito con declaratoria
d’incostituzionalità dalla pronuncia in parola, salutata con particolare
favore, specialmente sul piano mediatico e nei primi
commenti di taglio giornalistico [5],
ove è ricorrente, fra l’altro, l’affermazione secondo cui
Tuttavia, l’enfasi con cui è stata accolta la decisione – ed altra di pari data,
concernente l’applicazione dell’istituto al livello regionale [7]
– rischia di lasciare in ombra i veri profili di interesse
che questo intervento del giudice costituzionale presenta.
Ci si riferisce, esattamente, alla strada indicata dalla
Corte per ricondurre nell’alveo della legalità costituzionale lo spoil system nazionale: far precedere la
cessazione dell’incarico da una previa fase valutativa, ancorata ad un
parametro la cui specificazione costituisce il maggior aspetto di novità, oltre
che l’elemento capace di far salva la stessa ragion d’essere dell’istituto,
altrimenti privo di autonomia concettuale ed
operativa.
Il «momento procedimentale di
confronto dialettico tra le parti» vale, infatti, in un’ottica di salvaguardia delle pretese partecipative del dirigente, ad
esternare le ragioni per cui l’amministrazione ritiene di interrompere il
rapporto anticipatamente alla scadenza prevista dal contratto: ragioni connesse
alle modalità pregresse di espletamento dell’incarico, «anche in relazione agli
obiettivi programmati dalla nuova compagine governativa».
Nel suddetto, fondamentale passaggio sta il quid novi che, a ben vedere, consente di attribuire una sua ratio alla figura dello spoil system che, diversamente, rimarrebbe privo di un benché minimo spazio di sopravvivenza e verrebbe a sovrapporsi totalmente ai meccanismi della responsabilità dirigenziale, identificandosi con essa sic et simpliciter.
Va, pertanto, dato merito alla Corte di aver respinto la prospettiva
di una simile coincidenza, evitando di decretare l’espunzione dell’istituto in
esame dal nostro ordinamento, il che francamente sarebbe significato spostare
gli equilibri in modo eccessivo verso uno dei poli del rapporto intercorrente
fra quelle esigenze costituzionali in perenne conflitto, per le quali è davvero
ardua la quadratura del cerchio.
La ricerca della mediazione non può che essere rimessa alla
discrezionalità del legislatore (cioè alla «massima
sintesi politica espressa dalla legge»: C. cost. n. 309 del
1997) [8],
senza però che ne esca irragionevolmente sacrificato l’uno o l’altro dei valori
in campo: la tutela delle attribuzioni e responsabilità dei dirigenti e della loro
imparzialità e strumentalità agli interessi esclusivi
della Nazione (artt. 97, commi 1 e 2, e 98, comma 1, Cost.); l’attuazione del
principio della responsabilità ministeriale, che – necessario a ricondurre la
burocrazia al circuito democratico e, dunque, al potere di direzione e
controllo delle istituzioni rappresentative espresse dal corpo elettorale –
rende il ministro responsabile individualmente degli atti del suo dicastero
(art. 95, comma 2).
In una tale cornice, in cui occorre neutralizzare il pericolo
tanto di un eccesso di autonomia quanto di un eccesso
di subordinazione politica del dirigente, emerge giocoforza che il rapporto fra
gli organi di governo e l’amministrazione non può che essere «né di totale
immedesimazione né di totale indipendenza» [9],
essendo la seconda separata sì dai primi ma al contempo agli stessi collegata
in quanto tenuta ad attuarne l’indirizzo politico-amministrativo.
Lo stesso principio di imparzialità
conforma, d’altro canto, il rapporto fra politica e amministrazione in termini
di «autonomia strumentale», dal momento che, attesa la sua portata bivalente,
«richiede che l’amministrazione persegua interessi che non siano di parte e, in
egual modo, che l’amministrazione sia strumento fedele
di realizzazione delle direttive politiche indicate dalle maggioranze politiche
di volta in volta al governo» [10].
Dello stato delle cose
Né la “stabilità” dell’incarico
costituisce in linea di principio un vincolo per il legislatore (così si è
espressa C.
cost. n. 11 del 2002) [14],
anche se non può tradursi in “precarietà” del dirigente; come pure, è
innegabile che la scelta discrezionale di investitura del dirigente, in quanto
effettuata dall’organo politico, contenga di per sé una componente variabile di
“fidelizzazione”, ma tuttavia deve essere sorretta da
“criteri oggettivi” nel tentativo di contemperare fiduciarietà ed imparzialità [15]
(v. art. 19, d. lgs. n. 165 del 2001): lo sforzo di
distinguere concetti dai confini estremamente labili, anche attraverso
acrobazie logiche e verbali, rende appieno la difficoltà di comporre antinomie
di palmare evidenza.
La sentenza si muove sapientemente lungo una linea mediana,
anche se non manca di suscitare qualche perplessità.
Chi ne condivide le conclusioni si
sarebbe aspettato che
L’azzeramento degli incarichi di direzione generale (in
massima parte conferiti dal precedente governo), e quindi il trasferimento
generalizzato al nuovo governo del potere di riattribuirli,
sembra ispirato ad una idea tutta politica della
dirigenza generale: l’idea che il destinatario dell’incarico debba essere in
sintonia politico-partitica col ministro. Una scelta fondata su un presupposto
del genere appare in contrasto col principio di imparzialità
che deve ispirare la condotta del dirigente (ma anche quella del ministro che è
pur sempre titolare di uno di quei pubblici uffici di cui parla l’art. 97
Cost.).
Un ragionamento del genere può essere accusato di ingenuità,
ma è comunque coerente. È ingenuo pensare che il ministro effettui
una scelta color blind
(il colore è il colore politico, non quello della pelle) quando conferisce
l’incarico. Il sospetto che egli sia condizionato da ragioni di partito è talmente radicato che, ad es., la nomina dei
componenti delle autorità indipendenti è sottratta al governo e attribuita ad
altri organi.
L’argomento sembra provi troppo. Se
la questione dovesse essere risolta in base al principio di continuità, allora
la stessa temporaneità dell’incarico dirigenziale (che
In realtà, il principio di continuità (invocato a fondamento di istituti come la c.d. prorogatio – v., tuttavia, la sentenza della
Corte n. 208 del 1992 – o come il funzionario di fatto, o per giustificare
la salvezza dei provvedimenti la cui efficacia si estende al di là della carica
del titolare) è stato sempre richiamato a proposito dell’organo, non del suo
titolare, ovverosia «delle funzioni pubbliche proprie dell’organo o
dell’ufficio» (C.
cost. n. 208, cit.). La continuità è assicurata dal fatto che la vita
dell’organo non cessa con il suo titolare e che gli atti adottati da
quest’ultimo continuano a produrre effetti anche quando il titolare è cambiato.
La continuità non è stata mai invocata per sostenere che la persona fisica
debba rimanere a vita nella carica.
Nel nostro caso la continuità dell’ufficio dirigenziale non
verrebbe in alcun modo pregiudicata se il ministro, entro i sessanta giorni,
designasse per l’incarico un nuovo dirigente generale.
Inoltre, non pare esservi congruenza fra il principio del buon andamento (cui,
peraltro, si affianca nel prosieguo un opportuno richiamo all’imparzialità [16])
e l’esigenza (che la legge Frattini colpevolmente ignorerebbe) che «al
dirigente sia assicurata la possibilità di far valere il diritto di difesa» nel
rispetto dei principi del giusto procedimento. Se
questa fosse la ratio
dell’annullamento della disposizione impugnata, sarebbe più appropriato un
richiamo agli artt. 24 e 113 Cost. che non all’art. 97: il buon andamento
esprime un principio valevole per l’apparato; il diritto di difesa e il giusto
procedimento sono garanzie del singolo.
Ma siamo proprio sicuri che l’art. 3,
comma
La linea divisoria tra le due fattispecie è troppo sottile
perché debba essere considerata in ogni caso illegittima
nella seconda (dirigente generale) la soluzione che è considerata plausibile
nella prima (segretario generale o capo dipartimento).
Il prescindere dalla natura, di diritto pubblico o di diritto
privato, dell’atto in questione [18],
se da un lato segna l’adesione della Corte alla tesi per cui
un procedimento amministrativo condotto secondo le regole della l. n. 241/1990
e s.m.i. può sfociare anche in un atto privatistico [19],
dall’altro lascia immaginare che attraverso un tale atteggiamento di neutralità
si siano volute evitare pericolose e dirette ricadute sul piano delicato del
riparto di giurisdizione [20],
considerata anche la contemporanea pendenza di specifico giudizio di
legittimità costituzionale avente ad oggetto la norma (art. 63, comma 1, d.
lgs. n. 165, cit.) attributiva al giudice ordinario
della cognizione sulle controversie in tema di conferimento e revoca degli
incarichi dirigenziali (v. la contestuale C. cost. n. 108 del
2007, ord.).
Il problema attiene ad oggetto e modalità, e dunque
all’ampiezza stessa, del sindacato giudiziale, che investe: una valutazione
esercizio di discrezionalità tecnica, mista a profili di merito insindacabili,
se la nomina si assume effettuata attraverso un provvedimento amministrativo;
una scelta espressione di autonomia privata, giustiziabile alla stregua del
principio di buona fede, se viceversa all’atto di nomina si riconnette natura privatistica.
Riassumendo, dalla risposta della Corte si ricava che al
legislatore non è precluso di prevedere forme di cessazione del rapporto
dirigenziale, legate all’avvicendamento della compagine governativa: solo che
tale cessazione non può essere automatica, bensì preceduta da un momento di
valutazione dell’attività del dirigente, condotta anche alla luce dei nuovi obiettivi politico-amministrativi prefissati dal
governo entrante, e idonea a giustificare l’interruzione dell’incarico non
ancora scaduto.
In ossequio, cioè, alle esigenze
organizzative (flessibilità, efficienza e speditezza dell’azione di governo), la
verifica dell’attitudine del soggetto ad attuare l’indirizzo programmato
incontra opportunamente un duplice punto di emersione: una rilevanza non solo ex post (attraverso una valutazione
della condotta pregressa del dirigente) ma anche ex ante (nelle forme di una
delibazione preliminare di compatibilità, anche concernente i requisiti tecnici
e la personalità del soggetto), al fine di evitare che il nuovo esecutivo resti
sempre ed irrimediabilmente vincolato alle scelte di quello uscente, anche per
gli incarichi aventi natura non prettamente esecutiva [21].
In definitiva, la sentenza n. 103
fornisce un interessante contributo chiarificatore al complesso tema dello spoil system, che richiede delle
puntualizzazioni già sul piano terminologico: la locuzione, associata al
modello originario [22],
descrive infatti un fenomeno di interruzione del
rapporto di impiego sulla base del parallelismo fra la durata dell’incarico
politico e quella dell’incarico burocratico, mentre nel nostro ordinamento
assume la più blanda valenza della messa a disposizione del dirigente.
Si ben comprende, pertanto, quanto
parziale ed incompiuto si sia rivelato il tentativo di trasposizione nel nostro
sistema giuridico di un concetto, affiorato in un humus politico-istituzionale
affatto diverso, e sulla cui definizione si è soffermata incidentalmente anche
la nostra giurisprudenza costituzionale, parlando di «scelta di fondo di
commisurare la durata delle nomine e degli incarichi dirigenziali a quella
degli organi d’indirizzo politico» (sentenza n. 233 del
2006).
Da quest’ultima pronuncia, riguardante lo spoil system regionale, si potevano
trarre indicazioni più generali, valorizzando in particolare l’esplicito
riconoscimento che la coesione – connotato del rapporto, fondato sull’intuitus personae, fra
organo politico e vertici dell’apparato burocratico – realizza il buon
andamento dell’ente.
Taluno ha, invero, ricavato dal predetto passo una possibile
ed indiretta legittimazione anche per il sistema delle spoglie a livello
statale, relativamente al rapporto fra ministro ed
organi burocratici apicali [23]
(in sostanza, tutti quelli cui l’incarico venga conferito dall’autorità
politica, compresi i dirigenti generali) [24].
Altri, invece, suggeriva una lettura opposta, facendo leva
sulla inestensibilità della soluzione fornita ad un
caso specifico, oltre che sulle peculiarità del sistema degli incarichi
regionali (suddividi in due, e non in tre, livelli, e conferiti con delibera di
organo politico collegiale e non monocratico)[25].
Prevalsa la seconda interpretazione, la sentenza 103 stimola
ulteriori riflessioni riguardo alla natura apicale dell’incarico, e più
precisamente a quella stretta contiguità che – ove sussistente fra l’organo
politico e la sfera alta dell’amministrazione (che fa da cerniera fra il
governo e la complessiva macchina burocratica) – legittima l’applicazione dello
spoil system.
Ci si potrebbe interrogare, a tal riguardo, sulle affinità e
sui punti di contatto fra le posizioni di capo dipartimento, segretario
generale et similia da una parte, e
quella di dirigente generale dall’altra, meditando sui casi in cui la
situazione del dirigente generale, per la configurazione strutturale del
ministero, è pienamente assimilabile a quella delle figure apicali quanto a
coesione (stante l’assegnazione di obiettivi e
risorse, con le correlate responsabilità gestorie), e
non invece a quella dei dirigenti di base.
Per concludere,
dopo aver rimarcato la scelta lodevole di preservare, con l’innesto di qualche contrappeso,
un margine di autonomia all’istituto dello spoil system nel nostro sistema,
almeno un cenno va speso per evidenziare il pregio del passaggio argomentativo in cui
[1] Per un’accurata esposizione del
percorso evolutivo cui il regime giuridico del rapporto d’impiego della
dirigenza è andato incontro, snodandosi attraverso la prima e la seconda
privatizzazione, si rinvia a R. Alesse, La dirigenza dello Stato tra politica e
amministrazione, Torino, 2006.
[2] Un’opinione decisamente
critica nei confronti della riforma aveva espresso S. Cassese, Il nuovo regime dei dirigenti pubblici
italiani: una modificazione costituzionale, in Giorn. dir. amm., 2002, 1341 ss.,
lamentando il sopravvento preso dalla politica sulla dirigenza, destinata ad
una condizione precaria e ad abdicare al suo tradizionale ruolo di neutralità.
[3] Sicché il margine di contrattazione
risulta sostanzialmente azzerato e il dirigente soggiace in tutto e per tutto
(se si eccettua la sola pattuizione del trattamento economico) alla decisione
unilaterale dell’organo politico, come fa notare G. Gardini,
Spoils system all’italiana: mito o realtà?, in Lav. nelle p.a., 2002, 958. Invoca,
in merito, una correzione di rotta, mediante l’approdo ad uno schema fondato su
un unico atto dal carattere privatistico-contrattuale,
G. D’Alessio, La disciplina della
dirigenza pubblica: profili critici ed ipotesi di
revisione del quadro normativo, ivi, 2006, 562.
[4] Sulla responsabilità dirigenziale,
che funge evidentemente da anello di congiunzione, v. P. Cerbo,
Responsabilità politica e responsabilità
dirigenziale dopo la legge n. 145 del
[5] Cfr., per un riscontro, M. Clarich, Una rivincita della dirigenza contro lo
strapotere politico, in Il Sole 24
Ore del 24 marzo 2007, 33.
[6] Ad avviso di F. Merloni, Dirigenza pubblica e amministrazione
imparziale, Bologna, 2006, 194, da taluni indici (come la scarsa attenzione
dedicata alla qualità degli atti di indirizzo e alla definizione di un organico
sistema di valutazione) si trarrebbe conferma della scarsa fiducia nutrita
dagli organi politici nella capacità della dirigenza di guidare l’amministrazione
al raggiungimento dei risultati con la sola predefinizione
dell’indirizzo politico.
[7] La sentenza n. 104,
dichiarando costituzionalmente illegittime le disposizioni di talune leggi regionali,
chiarisce, fra l’altro, quanto segue: «La dipendenza funzionale del dirigente
non può diventare dipendenza politica. Il dirigente è
sottoposto alle direttive del vertice politico e al suo giudizio, ed in seguito
a questo può essere allontanato. Ma non può essere messo in condizioni
di precarietà che consentano la decadenza senza la
garanzia del giusto procedimento».
[8] In proposito, rileva B. Cavallo, Teoria e prassi della pubblica
organizzazione, Milano, 2005, 542, che «non esistendo uno statuto costituzionale
della dirigenza, il legislatore ha significativi spazi di libertà per
conformare il rapporto tra organi politici e dirigenti, per cui il sistema
delle spoglie non sembra contrastare con la magna
charta»
[9] R. Bin –
G. Pitruzzella, Diritto
costituzionale, Torino, 2006, 193.
[10] Così A. Patroni Griffi,
Dimensione costituzionale e modelli
legislativi della dirigenza pubblica, Napoli, 2002, 111.
[11] Si tratta di un dato acquisito anche
per quella dottrina che pur deplora i tentativi di adottare forme esplicite o
mascherate di spoil system, come
quello operato dalla l. n. 145: ci si riferisce, in particolare, a G.
D’Alessio, La disciplina della dirigenza
pubblica: profili critici ed ipotesi di revisione del
quadro normativo, cit., 566 ss., il quale auspica la conservazione del
sistema degli incarichi sottoposti a termine finale, «in quanto coerente con
l’obiettivo di realizzare un’amministrazione dinamica e funzionale, che superi
la vecchia logica burocratica anche attraverso un uso flessibile delle risorse
umane più qualificate».
[12] Altrimenti, il dirigente sarebbe
essenzialmente proteso verso la ricerca di consensi presso il ministro,
nell’aspettativa di una sua riconferma; senza dire che la brevità dell’incarico
renderebbe «del tutto teorica la necessità di ricorrere alle complesse
procedure di valutazione e accertamento delle responsabilità» (G. D’Auria, Ancora una riforma della dirigenza pubblica,
in Giorn. dir.
amm., 2002, 1160; rilievi simili in V. Talamo, Lo spoils system all’«italiana» fra legge Bassanini e legge
Frattini, in Lav.
nelle p.a., 2003, 238).
Nel senso, invece, che le modifiche introdotte dalla l. Frattini sulla durata
degli incarichi dirigenziali «rispondono a esigenze di
flessibilità e mobilità e non a logiche di precarizzazione»,
C. D’Orta, Gli
incarichi dirigenziali nello Stato dopo la legge 145/2002, in Lav. nelle p.a., 2002, 936. Per una
posizione intermedia, in quanto dubitativa, si segnala A. Patroni Griffi, Dimensione
costituzionale e modelli legislativi della dirigenza pubblica, cit., 184,
per il quale «non è facile stabilire quanto la nuova disciplina degli incarichi
risponda teleologicamente alle logiche legittime
dell’individuazione, nel rispetto del principio della distinzione, di un
collegamento organico della dirigenza con il vertice politico, al fine di
realizzare a livello di efficienza ottimale, quel circuito
politica-amministrazione in cui consiste la funzione di governo, o sia, al
contrario, finalizzata ad apprestare nelle mani dei politici un nuovo strumento
di riappropriazione della funzione gestionale
mediante un sistema che, pur non rinnegando formalmente il principio di
separazione, ponga la dirigenza in una posizione di sostanziale sudditanza».
[13] Sugli indicatori della fiduciarietà,
v. dettagliatamente G. Endrici, Il potere di scelta, Bologna, 2000, 213 ss.
[14] Sono senza dubbio
significative le affermazioni contenute nell’ordinanza della Corte,
giudicata tuttavia «superficiale» da parte della dottrina (S. Cassese, Il rapporto tra politica e amministrazione e
la disciplina della dirigenza, in Lav. nelle p.a.,
2003, 787), e «ineccepibile» da altri (A. Patroni Griffi, Dimensione
costituzionale e modelli legislativi della dirigenza pubblica, cit., 118 s.),
benché imputando alla Consulta di non aver meglio indicato «i limiti
costituzionali, oltrepassando i quali la discrezionalità legislativa, nella
regolamentazione del conferimento e della revoca degli incarichi dirigenziali,
potrebbe incorrere in una censura di legittimità».
[15] Si tratta di nozioni in aperta
contraddizione, per S. Cassese, Il
rapporto tra politica e amministrazione e la disciplina della dirigenza, cit.,
789.
[16] Nel prescrivere la necessità della
previa fase valutativa
[17] In sostanza, anche la previsione
della verifica in contraddittorio, che
[18] L’orientamento della Corte di
cassazione è nel senso che gli atti di conferimento o revoca di incarichi
dirigenziali abbiano natura privata o, quanto meno, di determinazione assunta
con la capacità e i poteri del privato datore di lavoro, sicché la cognizione
giurisdizionale su di essi compete al giudice ordinario: cfr., ex multis,
Cass. civ., sez. un., 11 gennaio 2007 n. 308; Id., 7
luglio 2005 n. 14252; Id., 9 dicembre 2004 n. 22990; Id., sez, lav., 20 marzo 2004 n.
5659. Di opposto avviso, in dottrina, M. C. Cavallaro, Sulla
natura giuridica dell’atto di conferimento dell’incarico dirigenziale, in Dir. amm., 2006, 707 ss., che espone le
ragioni in favore della natura provvedimentale. Un analogo avviso pare potersi
attribuirsi a S. Cassese, Il rapporto tra
politica e amministrazione e la disciplina della dirigenza, cit., 787, il quale reputa inammissibile che un rapporto di
impiego venga fatto cessare «senza un provvedimento amministrativo».
[19] Contra, peraltro, P. Sordi, Le controversie in tema di incarichi
dirigenziali, in Lav.
nelle p.a., 2005, 770,
per il quale «l’affermata natura privatistica
dell’atto di conferimento dell’incarico impedisce di attribuire rilevanza alle
prescrizioni contenute nella legge 7 agosto 1990, n. 241». Per l’inapplicabilità
propende anche M. C. Cavallaro, Sulla natura giuridica dell’atto di conferimento dell’incarico
dirigenziale, cit., 713, secondo la quale soltanto
la qualificazione in termini pubblicistici consente di assegnare al
destinatario le garanzie previste dalla legge generale sul procedimento
amministrativo.
[20] In proposito, la sentenza della
Corte costituzionale n. 275 del 2001
ha avvertito che la configurazione della disciplina che regola sul versante
sostanziale il rapporto di lavoro dei pubblici dirigenti produce conseguenze
rilevanti anche sul riparto giurisdizionale, «a tutela degli stessi dipendenti,
in base ad una esigenza di unitarietà della materia». E, sebbene nella
successiva ordinanza
n. 525 del 2002 la stessa Consulta avrebbe aggiunto che «qualsiasi problema
sulla natura dell’atto di conferimento o di revoca degli incarichi dirigenziali
non incide sulla attribuzione della giurisdizione
effettuata dal legislatore», allo stato occorre fare i conti con i criteri
fondamentali dettati in materia dalla successiva e fondamentale C. cost. n. 204 del
2004.
[21] Evidentemente, il rilievo accordato
agli obiettivi definiti dalla nuova maggioranza di governo mal si concilia con
il riferimento assorbente al principio di continuità, laddove questa sia
riferita – come parrebbe di capire – non alla struttura ma alla persona fisica
ad essa preposta: il ruolo centrale e decisivo in un primo momento riconosciuto
alla continuità di azione del dirigente viene, pertanto, se non smentito
perlomeno svalutato, dal recupero di un profilo di gradimento nell’investitura
dello stesso organo burocratico di vertice
[22] Sulle origini dell’istituto, C. Di
Andrea, Lo spoils
system: noterelle
sulla disciplina della dirigenza pubblica in Italia e spunti comparatistici, in
Rass. parl., 2003, 583
ss
[23] La peculiarità degli «uffici
destinati in modo diretto alla collaborazione con gli organi politici o al
supporto dei medesimi » è stata evidenziata da C. cost. n. 1 del
1999. A dette strutture sono preposte figure di raccordo, incaricate di
garantire efficienza al circuito indirizzo-gestione: si tratta, in pratica, di
quegli elementi in grado di garantire «quello scambio circolare di informazioni tra politica ed amministrazione, essenziale
per un corretto esercizio della funzione di governo» (A. Patroni Griffi, Dimensione costituzionale e modelli
legislativi della dirigenza pubblica, cit., 192
[24] S. Battini, In morte del principio di distinzione fra politica e amministrazione:
[25] G. Gardini,
Lo spoils system al primo vaglio
di costituzionalità: le nomine fiduciarie delle Regioni sono legittime, ma la querelle resta aperta, in Lav. nelle p.a., 2006, 679 ss.