STEFANO MARIA CICCONETTI
L’EQUIVOCO DELL’ART. 138 COME PARAMETRO DI LEGITTIMITÀ COSTITUZIONALE*
1. La
recentissima sentenza
della Corte costituzionale n. 23 del 2011 ha dichiarato la parziale
illegittimità costituzionale di alcune disposizioni della L. 7 aprile 2010, n.
51, comunemente nota come legge sul legittimo impedimento, per violazione degli
artt. 3 e 138 della Costituzione[1].
Il
riferimento all’art. 138, come parametro aggiuntivo alla stregua del quale è
stata dichiarata l’illegittimità costituzionale delle suddette disposizioni
legislative, si riallaccia ad un uguale riferimento compiuto dalla stessa
Corte, nonché ancor prima dai corrispondenti giudici rimettenti, nella
precedente sentenza
n. 262/2009 che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 1
della cosiddetta legge Alfano, analoga, per quanto attiene alle sue finalità,
alla legge all’inizio citata.
Diversamente,
la più lontana sentenza
n. 24/2004, pur giungendo alla dichiarazione d’illegittimità della ancora
una volta analoga legge Schifani – la capostipite delle altre due – giustifica
tale dichiarazione sulla base della violazione degli artt. 3 e 24, senza
richiamare l’art. 138. Richiamo che, del resto, non era stato compiuto neanche
dal giudice rimettente, ad eccezione di qualche accenno contenuto nella
motivazione dell’ordinanza.
Inoltre,
da un’accurata ricerca diligentemente compiuta a partire
dall’entrata in funzione della Corte, l’art. 138 come parametro di
legittimità costituzionale non risulta essere mai stato evocato in alcuna
sentenza di accoglimento[2].
A
fronte di un dato assolutamente imponente in termini quantitativi, qual è
quest’ultimo, lo scopo di queste brevi riflessioni non è quello di esaminare
nel dettaglio le due sentenze del 2009 e del 2011 – sul cui dispositivo,
peraltro, si concorda pienamente – ma piuttosto di cercare di capire se questa
improvvisa discesa in campo dell’art. 138 sia giustificata e, soprattutto, sia
utile. E’ pertanto necessario partire dalle prime citazioni dell’art. 138,
contenute nelle ordinanze di rimessione che hanno dato luogo alla sentenza n.
262/2009, nonché in quest’ultima, per confrontarle con la stessa citazione,
per la verità più sfumata come si vedrà più avanti, contenuta nella sentenza n. 23/2011.
2.
L’ordinanza del Tribunale di Milano n. 397/2008 afferma che i commi 1 e 7 dell’art. 1 della L. n. 124/2008 violano l’art. 138
perché intervengono in una “materia riservata ex art. 138 Cost. al legislatore costituente[3],
così come dimostrato dalla circostanza che tutti i rapporti tra gli organi con
rilevanza costituzionale ed il processo penale sono definiti con norma
costituzionale”.
La
successiva ordinanza dello stesso Tribunale di Milano n. 398/2008 afferma che
“la normativa sullo status dei titolari
delle più alte istituzioni della Repubblica è in sé materia tipicamente
costituzionale, e la ragione è evidente: tutte le disposizioni che limitano o differiscono nel tempo la loro
responsabilità si pongono quali eccezioni rispetto al principio generale
dell’uguaglianza di tutti i cittadini davanti alla legge previsto dall’art. 3
della Costituzione, principio fondante di uno Stato di diritto”.
L’ordinanza
del Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Roma n. 9/2009
afferma che la violazione dell’art. 138 dipende dal fatto che “ la deroga al
principio di uguaglianza dinanzi alla giurisdizione ed
alla legge è stata introdotta con lo strumento della legge ordinaria, che nella
gerarchia delle fonti si colloca evidentemente ad un livello inferiore rispetto
alla legge costituzionale”.
3. La sentenza n.
262/2009 precisa innanzitutto che le ordinanze di rimessione “non si
limitano a denunciare la violazione dell’art. 138 Cost. quale mera conseguenza
della violazione di una qualsiasi norma della Costituzione. Esse, infatti, non
si basano sulla considerazione – di carattere generico e formale – che, in tal
caso, solo una fonte di rango costituzionale sarebbe idonea (ove non violasse a
sua volta principi supremi, insuscettibili di revisione
costituzionale) ad escludere il contrasto con la Costituzione. Al contrario, il
Tribunale rimettente prospetta una questione specifica e di carattere
sostanziale, in quanto denuncia – con adeguata
indicazione dei parametri – la violazione del principio di uguaglianza facendo
espresso riferimento alle prerogative degli organi costituzionali”.
La
lunga citazione di questo passo iniziale della sentenza fa capire come la Corte
- oltre a
confutare nello specifico l’eccezione, avanzata da una delle parti, secondo cui
le ordinanze si limiterebbero a denunciare la violazione del solo art. 138
senza indicazione di altre norme parametro – ponga le fondamenta della
motivazione di fondo della propria decisione, imperniata, nella sostanza, su
disposizioni costituzionali logicamente anteriori e prevalenti rispetto
all’art. 138, quali da un lato le disposizioni che prevedono prerogative per
gli organi costituzionali (artt. 68, 90 e 96) e dall’altro l’art. 3.
Infatti
– molto sinteticamente dati i numerosi commenti alla sentenza n. 262
che in questo senso si sono già succeduti[4]
- la Corte, dopo aver accertato che la norma censurata prevede una vera e
propria prerogativa, afferma che il sistema delle prerogative
previsto da norme costituzionali non può essere alterato dal legislatore
ordinario né in peius
né in melius.
“Tale conclusione – prosegue la Corte – non deriva dal riconoscimento di un’espressa riserva di legge costituzionale
in materia,[5]
ma dal fatto che le suddette prerogative sono sistematicamente regolate da
norme di rango costituzionale”. E poiché caratteristica di tali prerogative è quella di derogare al principio di uguaglianza di fronte
alla legge, la norma in questione, in quanto contenuta in una legge ordinaria,
non è in grado di determinare legittimamente tale deroga ma, al contrario,
costituisce una violazione dell’art. 3. In conclusione, la Corte dichiara
l’illegittimità costituzionale dell’art. 1 della L. n.
124 del 2008 “per violazione del combinato disposto degli artt. 3 e 138 Cost.,
in relazione alla disciplina delle prerogative di cui agli artt. 68, 90 e 96 Cost.”.
4. Le
ordinanze di rimessione che hanno condotto alla sentenza n. 23/2011
si rifanno alla motivazione, da ultimo indicata, della sentenza n.
262/2009, ritenendo conseguentemente l’illegittimità costituzionale di
alcuni commi dell’art. 1 della L. 7 aprile 2010, n. 51, in quanto essi,
“introducendo una presunzione iuris et de jure di impedimento
continuativo per un lungo periodo di tempo connessa alle funzioni di governo si
sostanziano in una norma di status
derogatoria dell’ordinaria giurisdizione e dunque in una prerogativa che
richiede una copertura costituzionale”[6].
Due di tali ordinanze invocano come parametro violato il solo art. 138, mentre
la terza si richiama agli artt. 3 e 138 congiuntamente nonché
all’art. 3, considerato autonomamente sotto il profilo della ragionevolezza.
Nessuna delle tre ordinanze cita gli artt. 68, 90 e 96
Cost..
5. La sentenza n. 23/2011
preliminarmente richiama le motivazioni e le conclusioni della sentenza n.
262/2009 in ordine alla violazione degli artt. 3 e 138.
Alla
luce di tali principi, la Corte ritiene di dover verificare se “la disciplina censurata…, a prescindere dal suo carattere temporaneo,
rappresenti una deroga al regime processuale comune, che è in particolare
quello previsto dall’art. 420-ter c.p.c.” in quanto “esso
rappresenta il termine di riferimento per valutare se la normativa censurata,
derogando alle ordinarie norme processuali, introduca, con legge ordinaria, una
prerogativa la cui disciplina è riservata
alla Costituzione,[7]
violando il principio della eguale sottoposizione dei cittadini alla giurisdizione
e ponendosi, quindi, in contrasto con gli artt. 3 e 138 Cost.”[8].
I
risultati di tale verifica – nella quale si sostanzia pressoché totalmente la
parte del considerato in diritto della sentenza – sono, per quanto qui interessa,
i seguenti: a) la Corte dichiara che non sono fondate le questioni di
legittimità costituzionale sollevate, per la parte in cui si riferiscono
all’art. 1, comma 1, in quanto tale disposizione venga
interpretata in conformità con l’art. 420-ter,
comma 1, c.p.c.; b) la Corte dichiara l’illegittimità
costituzionale dei commi 3 e 4 dell’art. 1 per contrasto con gli artt. 3 e 138
perché tali disposizioni non integrano bensì sostituiscono la disciplina del
regime processuale comune contenuta nell’art. 420-ter. In particolare, l’illegittimità del comma 3
deriva dal fatto che esso non consente al giudice l’esercizio del “potere di
apprezzamento in concreto dell’impedimento, che è elemento essenziale della
disciplina comune del legittimo impedimento”[9].
L’illegittimità del comma 4 deriva dal fatto che esso
“introduce nell’ordinamento una peculiare figura di legittimo impedimento
consistente nell’esercizio di funzioni di governo, connotata dalla continuatività dell’impedimento stesso e dall’attestazione
di esso da parte della Presidenza del Consiglio dei ministri”[10].
Le
norme parametro espressamente citate sono, come si è visto, soltanto gli artt.
3 e 138; non lo sono, invece, gli artt. che disciplinano le prerogative degli
organi costituzionali (artt. 68, 90 e 96[11]),
anche se il riferimento ad essi è implicito poiché deriva dall’adesione della
sentenza n. 23 alle premesse poste dalla sentenza n. 262.
6. La
dichiarata identità di premesse tra la sentenza n. 23/2011
e la sentenza n.
262/2009 ripropone in buona parte alcune questioni, relative alla citazione
dell’art. 138, che erano già state individuate dalla dottrina nei commenti alla
sentenza n. 262.
La prima di esse riguarda l’esigenza di capire perché per la
prima volta nel 2009, ed oggi nel 2011, la Corte invoca come norma parametro
l’art. 138, che disciplina il procedimento di formazione delle leggi
costituzionali[12],
accanto a disposizioni della Costituzione cosiddette sostanziali (artt. 3, 68,
90 e 96 Cost.), vale a dire disposizioni che stabiliscono vincoli al contenuto
delle leggi e degli atti aventi forza di legge.
Una
ragione potrebbe essere quella, di kelseniana
memoria, per cui in regime di Costituzione rigida ogni vizio di
costituzionalità dovrebbe sempre qualificarsi come vizio formale poiché il
contrasto con una disposizione costituzionale non sussisterebbe se si fosse
proceduto con lo strumento della legge costituzionale, invece che con legge ordinaria[13].
Tuttavia, se così fosse, non si spiegherebbe, come mostrato all’inizio, perché
dal 1956 al 2009 l’art. 138 non sia mai stato evocato accanto alle varie norme
parametro che di volta in volta sono state alla base
di sentenze di accoglimento. Com’è stato efficacemente detto, infatti, “è
possibile … ritenere che il richiamo all’art. 138 non ci sia mai ma potrebbe
esserci sempre o, meglio, che non ci sia mai perché potrebbe esserci sempre”[14].
Inoltre, certamente la Corte non ignorava le critiche mosse alla tesi di cui
sopra, che, in positivo, portavano a ricondurre i vizi formali ai soli vizi del
procedimento e non anche a quelli relativi alla scelta
del procedimento stesso[15].
Una
diversa ragione potrebbe essere quella, forse ricavabile dai passi della sentenza n. 262
in precedenza citati, secondo cui la violazione dell’art. 138 discenderebbe
“dal fatto che le suddette prerogative sono sistematicamente regolate da norme
di rango costituzionale” e quindi, pur non essendo prevista al riguardo dalla
Costituzione “una espressa riserva di legge costituzionale”, la legge ordinaria
non potrebbe legittimamente introdurre una nuova prerogativa, pena la sua
incostituzionalità nei riguardi degli artt. 3 e 138 in relazione alla
disciplina delle prerogative di cui agli artt. 68, 90 e 96 Cost..
La
valutazione di questa seconda eventuale ragione richiede preliminarmente
l’esame della seguente questione: gli artt. 68, 90 e
96 Cost. prevedono una riserva di legge costituzionale?
La sentenza n. 262,
come si è appena visto, contiene un’affermazione al riguardo abbastanza ambigua
poiché nel momento in cui essa nega chiaramente la presenza in Costituzione di
una riserva espressa di legge
costituzionale non è detto che con ciò essa escluda con altrettanta certezza la
possibilità di una riserva implicita.
La sentenza n.
23, dal canto suo, è altrettanto ambigua (forse volutamente?) quando si
chiede se la normativa censurata, derogando alle ordinarie norme processuali,
introduca, con legge ordinaria, una prerogativa “la cui disciplina è riservata alla Costituzione”. Quest’ultima
espressione si riferisce, sia pure con un termine improprio, all’esistenza di
un’implicita riserva di legge costituzionale, oppure l’uso della parola
“Costituzione” invece delle parole “legge costituzionale” è
voluto e dunque starebbe a significare che la disciplina delle prerogative costituzionali è tassativamente
stabilita dalla sola Costituzione e non consente integrazioni neppure da parte
delle leggi costituzionali?
Ora, a
prescindere dalla tesi secondo la quale le riserve di legge, siano esse di legge
ordinaria o di legge costituzionale, devono necessariamente essere espresse[16],
non si può escludere che disposizioni contenute in Costituzione impongano
implicitamente il ricorso a leggi costituzionali per determinati interventi
normativi. In questi termini ed ai fini che qui
interessano, la questione se gli artt. 68, 90 e 96 Cost. prevedano o meno
un’implicita riserva di legge costituzionale diventa una questione
nominalistica poiché quello che conta è capire se, alla luce dei principi che
regolano i rapporti tra le fonti, da quelle disposizioni scaturisca comunque un
vincolo in ordine al ricorso alla legge costituzionale per la loro
integrazione, vale a dire per la creazione di una prerogativa nuova per il suo
contenuto e/o per i suoi destinatari[17].
La
premessa per rispondere al quesito appena posto è la distinzione tra disposizioni
costituzionali “aperte” o “chiuse”, vale a dire tra disposizioni che consentono
interventi integrativi della disciplina da esse posta da parte di leggi
ordinarie ovvero che li escludono in virtù del carattere tassativo della citata
disciplina. Un esempio del primo tipo è rappresentato dall’art. 76 Cost. poiché
i limiti ivi previsti e che le singole leggi di delegazione devono indicare nei
confronti dei decreti legislativi del Governo sono stati considerati dalla
Corte costituzionale come un minimo ma non anche come un massimo, tali,
pertanto, da essere legittimamente integrati da limiti
ulteriori posti dalle leggi di delegazione[18].
Un esempio del secondo tipo è rappresentato dall’art. 16 Cost., nella parte in cui
vincola tassativamente la possibilità per la legge d’introdurre limitazioni
alla libertà di circolazione e soggiorno soltanto per “motivi di sanità o di
sicurezza”. Alla luce della suddetta distinzione, le disposizioni di cui agli
artt. 68, 90 e 96 Cost., che disciplinano le
prerogative di taluni organi costituzionali, sono qualificabili come
disposizioni aperte o chiuse? Non c’è dubbio che la risposta corretta sia la
seconda, come anche si desume dalla sentenza n. 262,
puntualmente confermata dalla sent. n. 23,
laddove si afferma che “il sistema delle prerogative previsto da norme
costituzionali non può essere alterato dal legislatore ordinario né in peius né in melius” e che
tale conclusione deriva “dal fatto che le suddette prerogative sono
sistematicamente regolate da norme di rango costituzionale”. Sembrerebbe
pertanto – ma si mostrerà tra poche righe che non è necessariamente così – che
le citate disposizioni costituzionali, escludendo l’intervento della legge
ordinaria, vincolino il ricorso alla legge costituzionale sia che le si interpreti come prescriventi un’implicita riserva
di legge costituzionale, sia che le si interpreti come disposizioni “chiuse”
nel senso che si è cercato di chiarire.
Si
prenda per buona, per il momento, tale conclusione e si cerchi di capire se,
alla luce di essa, sia coerente la citazione dell’art.
138 come norma parametro violata. La risposta sembra dover essere negativa
poiché le norme parametro violate sono soltanto gli artt. 68,
90 e 96 Cost., in quanto sono esse – e soltanto esse – le disposizioni che
escludono l’intervento delle leggi ordinarie e sembrano vincolare il ricorso alla legge costituzionale. Nulla
stabilisce al riguardo l’art. 138, come invece
erroneamente affermato in due ordinanze di rimessione[19].
Del resto, a proposito delle riserve di legge ordinaria previste dalla
Costituzione, quando mai si è sostenuto, in giurisprudenza o in dottrina, che
la loro violazione da parte di un regolamento amministrativo costituisca anche
violazione delle disposizioni della Costituzione (artt. 70
e seguenti) che disciplinano il procedimento di formazione delle leggi
ordinarie? Quando mai si è sostenuto che in tal caso la violazione degli artt. 70 e ss. deriverebbe da una scelta sbagliata relativa
all’atto normativo necessario per disciplinare quella specifica materia coperta
da una riserva di legge? E quali ragioni logiche consentirebbero, invece, di
affermare il contrario nel caso di riserve di legge costituzionale? Io credo
nessuna.
Tuttavia,
come si è cercato di avvertire in precedenza, il discorso non può ritenersi concluso, perché se è incontrovertibile che gli artt. 68, 90
e 96 Cost. escludono interventi della legge ordinaria per introdurre nuove
prerogative, non è affatto detto con altrettanta certezza che essi consentano
tali interventi qualora siano adottati con il diverso strumento della legge
costituzionale.
In
questo senso, diventa fondamentale stabilire quale sia il rapporto intercorrente
tra gli artt. 68, 90 e 96 e l’art. 3 Cost. – disposizione, quest’ultima, richiamata come
norma parametro da tutte e tre le sentenze all’inizio citate - poiché tale rapporto può in astratto ricostruirsi
in due modi diversi.
Secondo
una prima interpretazione, il sistema delle prerogative degli organi
costituzionali, come disegnato dai Costituenti negli artt. 68,
90 e 96, è coerente con l’art. 3 poiché prevede un bilanciamento dei valori in
gioco, tale da giustificare deroghe al
regime processuale stabilito dalla Costituzione per tutti i cittadini con
l’esigenza di tutelare il libero svolgimento di determinate e specifiche
funzioni attribuite dalla stessa Costituzione ad alcuni organi costituzionali.
Ed è notorio che proprio il principio di un corretto
bilanciamento dei valori è stato il criterio in base al quale la Corte
costituzionale ha spesso adottato sentenze di rigetto nei confronti di
questioni aventi ad oggetto leggi che i giudici rimettenti ritenevano
contrastanti con l’art. 3. La suddetta interpretazione condurrebbe ad ammettere
la possibilità che siano introdotte nuove prerogative, in aggiunta a quelle già
previste dalla Costituzione, alla duplice condizione che lo siano con legge
costituzionale e che tale legge contenga una disciplina della nuova prerogativa
rispettosa di un corretto bilanciamento dei valori in gioco, in modo da
rispettare il principio supremo di eguaglianza stabilito dall’art. 3.
Secondo
una diversa interpretazione - che mi appare preferibile - il sistema delle
prerogative degli organi costituzionali, come disegnato dai Costituenti negli
artt. 68, 90 e 96, costituisce in partenza una
consapevole deroga al principio di eguaglianza stabilito dall’art. 3. Si
tratterebbe, in altre parole, di eccezioni secche al suddetto principio al di
fuori di qualsivoglia meccanismo di bilanciamento.
Inoltre, poiché il principio di eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge
è stato qualificato dalla Corte costituzionale come uno di quei principi
supremi che costituiscono limiti assoluti alla revisione
costituzionale[20],
oltre che “controlimiti” all’ingresso del diritto
comunitario nel nostro ordinamento[21],
esso non consente neanche alle leggi costituzionali d’introdurre nuove
eccezioni oltre a quelle già previste, espressamente o implicitamente, dalla
Costituzione. L’ambito d’intervento delle leggi costituzionali nei confronti
degli artt. 68, 90 e 96 deve pertanto intendersi
limitato soltanto ad eventuali interventi riduttivi, vale a dire tendenti ad
eliminare o a disciplinare in modo meno favorevole talune delle prerogative
previste dalle citate disposizioni. Come in effetti è
stato finora confermato dalla prassi, poiché i due unici interventi in tema di
prerogative degli organi costituzionali, non
ricollegabili a norme già ricavabili dal testo della Costituzione, sono
stati quello compiuto dalla legge costituzionale 29 ottobre 1993, n. 3, che ha
modificato l’art. 68, eliminando l’istituto dell’autorizzazione a procedere nei
confronti dei parlamentari, e quello compiuto dalla legge costituzionale 16
gennaio 1989, n. 1, che ha introdotto
per i reati ministeriali una disciplina processuale (competenza della
giurisdizione ordinaria) meno favorevole della precedente (competenza della
Corte costituzionale a composizione integrata). Le due leggi costituzionali[22]
che hanno esteso alcune prerogative ai giudici costituzionali non costituiscono
eccezioni a quanto qui sostenuto poiché esse si ricollegano alla
espressa previsione dell’art. 137, comma 1, nella parte in cui dispone
che “una legge costituzionale stabilisce … le garanzie d’indipendenza dei
giudici della Corte”[23].
7.
Come si vede, a seconda dell’interpretazione che si
ritenga di accettare in ordine al rapporto – di conformità o di deroga –
intercorrente tra gli artt. 68, 90 e 96 e l’art. 3, le conclusioni che ne
scaturiscono sono tra loro diametralmente opposte. Si tratta, quindi, di vedere
quale delle due interpretazioni sia stata implicitamente accolta dalla Corte
costituzionale nelle sentenze nn. 262 e 23. Operazione
non facile, già tentata da quasi tutti i commentatori della sentenza n. 262
con risultati contrastanti[24],
e nella quale vorrei evitare di addentrarmi, tenuto conto del fatto che le
presenti note riguardano principalmente il riferimento compiuto dalla Corte
all’art. 138. Perciò, soltanto qualche breve spunto al riguardo.
Va
preliminarmente osservato che la Corte non afferma mai espressamente
l’inidoneità della legge costituzionale, oltre che della legge ordinaria, ad introdurre nel nostro ordinamento una nuova prerogativa.
Tuttavia, tale rilievo non è decisivo perché la Corte, in ambedue le occasioni
qui considerate, era tenuta a pronunziarsi soltanto su disposizioni contenute
in leggi ordinarie e non era invece tenuta ad anticipare il proprio giudizio su
un’eventuale futura legge costituzionale che riproponesse
domani una disciplina analoga a quella bocciata oggi. Eventualità,
quest’ultima, abbastanza difficile da realizzarsi – al di là
del fatto che un disegno di legge costituzionale in tal senso è già
stato presentato al Senato dal Governo - data la mancanza in Parlamento dei
voti necessari a raggiungere le maggioranze qualificate previste dall’art. 138
e l’esito estremamente incerto dell’eventuale referendum confermativo.
Diversamente, qualche accenno alla necessità
di ricorrere allo strumento della legge costituzionale per introdurre una nuova
prerogativa è presente nella sentenza n. 262,
laddove si giudica corretto l’assunto relativo alla necessità che le
prerogative abbiano “copertura costituzionale “ e, poco più avanti, si
ribadisce che “le prerogative dei componenti e dei titolari degli organi
costituzionali devono essere previste da norme di rango costituzionale“[25].
Accenni che, invece, mancano nella sentenza n. 23, fatta salva l’affermazione, già
ricordata in precedenza e non facile da interpretare, secondo cui la disciplina
delle prerogative “è riservata alla Costituzione”[26].
L’unica
affermazione chiara è, invece, quella relativa al carattere
derogatorio delle prerogative rispetto al principio di eguaglianza. La sentenza n. 262
lo afferma esplicitamente ai punti 7.3.1 e 7.3.2.2. Tuttavia, come si è cercato
di dimostrare in precedenza, la chiarezza di tale affermazione non comporta
altrettanta chiarezza in ordine alle conseguenze che
ne possono derivare: qualsiasi legge costituzionale può introdurre una nuova
prerogativa? oppure è necessaria una legge
costituzionale il cui contenuto risponda ad un equo bilanciamento dei valori in
gioco? oppure neanche una legge costituzionale potrebbe introdurre deroghe, come quelle
insite nel concetto di prerogativa, al principio supremo di cui all’art. 3?
8. Per
concludere. Il richiamo dell’art. 138 come norma
parametro di legittimità costituzionale è inutile se viene
compiuto accanto al richiamo di altre disposizioni costituzionali che si
assumono violate, come nella fattispecie l’art. 3 e gli artt. 68, 90 e 96.
Diventa erroneo qualora – come si è cercato di dimostrare - si ritenga che
l’art. 3, in quanto prescrivente un principio supremo,
non tolleri alcuna deroga neppure da parte di leggi costituzionali. In questo
secondo caso, inoltre, può essere fuorviante sul piano politico e dei media –
come puntualmente è avvenuto a seguito della sentenza n. 262
– in quanto suscettibile di essere interpretato nel senso di una sorta di via
libera senza condizioni da parte della Corte costituzionale all’introduzione di
nuove prerogative con lo strumento della legge costituzionale.
L’auspicio
è che si ritorni all’antico: poiché l’art. 138
disciplina il procedimento di formazione delle leggi costituzionali, il suo
richiamo come norma parametro di legittimità costituzionale andrà compiuto soltanto
in caso di vizio formale di una legge costituzionale, vale dire quando le
Camere, nel corso del procedimento di formazione di quest’ultima, abbiano
violato alcuna delle norme che disciplinano il suddetto procedimento.
* per gentile concessione della Rivista
“Giurisprudenza Italiana”
[1] I giudizi
di legittimità costituzionale degli artt. 1 e 2 della
L. 7 aprile 2010, n. 51 (Disposizioni in materia di impedimento a comparire in
udienza) sono stati promossi dal Tribunale di Milano, sezione I penale e sezione
X penale, con ordinanze del 19 e del 16 aprile 2010 e dal Giudice per le
indagini preliminari presso il Tribunale di Milano con ordinanza del 24 giugno
2010, rispettivamente iscritte ai nn. 173, 180 e 304
del registro ordinanze 2010 e pubblicate nella Gazz. Uff. nn. 24 e 41, I Serie speciale,
dell’anno 2010. Sulla sentenza in epigrafe v. Girelli, in Recentissime dalla Corte costituzionale a cura di Ruotolo, in Giur. It., 2011, 247-248.
[2] Cfr. Ferraiuolo,
Osservazioni, a prima lettura, sull’art.
138 Cost. come parametro di legittimità nella sentenza n. 262 del 2009, in www.federalismi.it, n. 20, 2009, 1.
[3]
L’aggettivo “costituente” invece di “costituzionale” è evidentemente frutto di
una mera svista materiale.
[4] Tra i
molti, cfr. quelli riportati in Consulta OnLine a commento della sentenza n.
262/2009, quelli contenuti nel volumetto Il Lodo Alfano (a cura di Celotto), Roma
2009, e quelli contenuti in La legge
Alfano sotto la lente del costituzionalista, estratto da Giur. it., 2009,
767-792.
[5] Il corsivo
è mio e vuole indicare un punto importante della sentenza che verrà ripreso più
avanti nel testo unitamente a quanto evidenziato, sempre in corsivo, nella sentenza n.
23/2011.
[6] Così, testualmente, l’ordinanza n. 173/2010 del Tribunale di
Milano, sez. I penale. Nello
stesso senso le ordinanze n. 180/2010 del Tribunale di Milano, sez. X penale, e
n. 304/2010 del GIP presso il Tribunale di Milano.
[7] Il corsivo
è mio e vuole indicare un punto importante della sentenza che verrà ripreso più avanti nel testo.
[8] Cfr. punto
4.2 cons. dir.
[9] Cfr. punto
5.2 cons. dir.
[10] Cfr. punto
5.3 cons. dir.
[11] Ai quali vanno aggiunti l’art. 3 della L. costituzionale 9 febbraio
1948, n. 1, che estende ai giudici costituzionali le prerogative previste
dall’art. 68, comma 2, Cost., e l’art. 5 della L. costituzionale n. 1 del 1953,
secondo il quale i giudici della Corte costituzionale non sono sindacabili, né
possono essere perseguiti per le opinioni espresse e per i voti dati
nell’esercizio delle loro funzioni.
[12] Non entro
qui nel merito della distinzione, di cui all’art. 138, tra leggi di revisione della Costituzione e altre leggi costituzionali,
da alcuni sostenuta e da altri (me compreso) negata, poiché il discorso
sviluppato nel testo ne può prescindere.
[13] Cfr. Kelsen,
La garantie jurisdictionnelle de la
Constitution, in Rev. dr. publ. sc.
pol., 1928, 198 ss., 204 ss.
[14] Cfr. Ferraiuolo, Osservazioni, cit., 2.
[15] Per le
critiche mosse alla tesi di Kelsen e per il concetto
di vizio formale di cui al testo, cfr. Esposito,
La validità delle leggi, Padova 1934,
(ristampa del 1964), 162; Crisafulli,
Lezioni di diritto costituzionale,
II, Padova 1984, 363 ss.; Modugno, Legge (Vizi
della) in Enc. Dir., XXIII, Milano 1978, 1002.
[16] Come
afferma Pugiotto,
La seconda volta, in Cass. penale, 2010, n. 1, 57.
[17] Per la
tesi secondo cui alcune disposizioni della Costituzione, pur non prevedendo
riserve di legge costituzionale in modo espresso, renderebbero comunque
necessario il ricorso a leggi costituzionali cfr. Cicconetti, Legge
costituzionale, in Enc. Dir., XXIII, Milano 1973, 935, che cita al riguardo alcuni esempi,
molti dei quali, peraltro, oggi non più attuali alla luce d’indirizzi
giurisprudenziali della Corte costituzionale (come il caso del diritto
comunitario direttamente applicabile) all’epoca imprevedibili. Tuttavia, al di
là della questione se l’art. 7 Cost. possa o meno ricostruirsi come una
disposizione che prevede espressamente
una riserva di legge costituzionale, l’art. 10, comma 1, Cost. implica
tacitamente il ricorso a leggi costituzionali per modificare le norme interne
da esso create in modo automatico, qualora a tali norme non si attribuisca un
grado supercostituzionale ma, come la stessa Corte costituzionale ha affermato,
un grado costituzionale (cfr. sentt. nn. 48/1979 e 15/1996) ovvero
il grado di leggi ordinarie ma con funzione di norme interposte (cfr. sentt. nn. 278 e 329/1992 e 131/2001). La
stessa conclusione vale per l’art. 117, comma 1, Cost. nella parte in cui impone
alle leggi statali e regionali il vincolo del rispetto dei trattati
internazionali, poiché l’eventuale modifica delle norme interne, create
mediante ordine di esecuzione delle clausole di un trattato internazionale, non
potrà avvenire mediante una legge ordinaria (pena la violazione indiretta della
citata norma costituzionale) ma dovrà necessariamente avvenire ad opera di una legge costituzionale.
[19] Cfr. le
ordinanze del Tribunale di Milano nn. 397 e 398 del 2008 all’inizio (punto 2) citate.
[20] Cfr.
sentt. nn. 175/1971, 18/1982 e 203/1989. Com’è
noto, la decisione della Corte
costituzionale che ha affermato l’esistenza di limiti taciti alla revisione
costituzionale con valore assoluto è la sent. n. 1146/1988.
Può sembrare contraddittorio che chi, come il sottoscritto, ha fortemente
criticato tale sentenza ed ha negato, fin dal 1973, l’esistenza di limiti
taciti alla revisione costituzionale con valore
assoluto, accetti oggi la logica dei principi supremi come principi
immodificabili da parte delle stesse leggi costituzionali. La spiegazione è
semplice: il giurista positivista non può rimanere innamorato delle proprie tesi, pur continuando a ritenerle esatte, a
fronte dell’esistenza di un diritto vivente, come quello relativo ai principi
supremi, che è oramai un dato di fatto consolidato da una costante giurisprudenza
della Corte costituzionale e del quale non si può non tenere conto.
[22] Cfr. la
precedente nota 10.
[23] L’unica
eccezione – eccezione doppia perché introdotta non con legge costituzionale ma
addirittura con legge ordinaria - è rappresentata dall’art. 5
della L. 3 gennaio 1981, n. 1, che ha previsto l’insindacabilità delle opinioni
espresse dai componenti del Consiglio superiore della magistratura
nell’esercizio delle loro funzioni e concernenti l’oggetto della discussione.
Tuttavia, la motivazione della sent. n. 148/1983,
con la quale la Corte costituzionale ha respinto la questione di
costituzionalità sollevata nei confronti della suddetta legge, è talmente poco
convincente da far ritenere che la legge stessa sia in realtà incostituzionale
e che dunque l’eccezione a quanto sostenuto nel testo sia, da un punto di vista
logico, soltanto apparente.
[24] Il
carattere di nota a prima lettura del presente lavoro spero
giustifichi la mancata citazione nominativa degli AA. che si sono occupati dei vari
“lodi” e delle relative sentenze. Per evitare di dimenticarne qualcuno non ne
cito nessuno e mi limito a rinviare alle indicazioni di cui alla nota 3.
[25] Cfr. punti
7.3.1. e 7.3.2.2.
[26] Cfr. punto
4.2.