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PAOLO CARNEVALE

“A FUTURA MEMORIA”: DALLA CORTE SEGNALI “PER IL DOPO” (*)

 

SOMMARIO: 1. Delimitazione del thema – 2. La questione della violazione dell’art. 138 della Costituzione- 3. Il problema della posizione costituzionale del Presidente del Consiglio ed il messaggio della Corte alla politica.

 

1. Delimitazione del thema. Decisione dalla motivazione decisamente corposa[1] – questa sentenza n. 262 del 2009 della Corte costituzionale sulla legge n. 124 del 2008 (c.d. legge Alfano) – la cui ricchezza, articolazione ed approfondimento testimoniano, ove ce ne fosse stato bisogno, l’evidente densità politico-costituzionale della vicenda portata all’attenzione del nostro giudice delle leggi. Cura argomentativa, quella suddetta, cui non deve essere stata estranea, a mio avviso, la preoccupazione per talune  incertezze ed aporie che avevano contrassegnato l’impianto motivatorio della antecedente pronunzia di accoglimento del 2004 sull’omologa disciplina ex lege  n. 140 del 2003 – e che, non a caso, avevano indotto i commentatori a letture fortemente divergenti[2] – nel cui confronto l’attuale decisione vede ancor più accentuata la robustezza del proprio “considerato in diritto”.

Tanti i punti che meriterebbero una riflessione e moltissimi gli stimoli che la sentenza in parola suscita nel commentatore. Il limitato spazio a disposizione e il carattere di annotazione a primissima lettura, mi spingono, per un verso, a selezionare i profili da esaminare, per l’altro, a illustrarli con una certa rapidità di tratto.

Quanto agli aspetti da affrontare vorrei limitarmi essenzialmente a due: a) la portata preclusiva della declaratoria di incostituzionalità ex art. 138 Cost.; b) il problema della posizione costituzionale del Presidente del Consiglio nella nostra forma di governo. La scelta si spiega essenzialmente sul fatto che si tratta, in ambo i casi, di profili che presentano un alto grado di proiettività, esibendo una forte vocazione prospettica, in grado come sono di gettare riflessi sulle dinamiche future del nostro sistema costituzionale. Insomma, segnali per il dopo.

Vado con ordine.

 

2. La questione della violazione dell’art. 138 della Costituzione. Per quel che riguarda l’aspetto sub a), la prima cosa che viene da notare è che il parametro della dichiarazione d’incostituzionalità della legge n. 124 è rappresentato da un “combinato disposto”, risultando la stessa dalla violazione congiunta degli artt. 3 e 138 della Costituzione. A prima vista, ciò potrebbe significare che il mancato rispetto della forma costituzionale (art. 138) sarebbe l’immediata (ed esclusiva) conseguenza del fatto di aver voluto dettare, con legge ordinaria, una disciplina derogatoria del canone di uguaglianza, sub specie di principio di parità di trattamento dinanzi alla giurisdizione (art. 3). Ciò, peraltro, nel solco della prospettazione delle quaestiones legitimitatis operata dal giudice remittente (recte: il Tribunale di Milano), che – come ricorda la stessa Corte – prefigura «una questione specifica e di carattere sostanziale, in quanto denuncia – con adeguata indicazione dei parametri – la violazione del principio di uguaglianza facendo espresso riferimento alle prerogative degli organi costituzionali» e non si limita «a denunciare la violazione dell’art. 138 Cost. quale mera conseguenza della violazione di una qualsiasi norma della Costituzione».

La Corte parrebbe così esplicitare quanto, secondo un indirizzo teorico di chiara eco kelseniana patrocinato nel giudizio dinanzi alla stessa Corte[3], sarebbe implicitamente sotteso ad ogni declaratoria di illegittimità costituzionale: vale a dire che, dietro ogni dispositivo di accoglimento per qualsivoglia trasgressione costituzionale, vi sarebbe pur sempre un accertamento del vulnus apportato all’art. 138 della Costituzione, per il fatto di aver provveduto nelle forme (insufficienti) della legislazione ordinaria e non in quelle (necessarie) della legge costituzionale.

Se così fosse, se ne dovrebbe dedurre la conseguenza per cui il principio ex art. 3 Cost. rappresenterebbe il solo limite cogente in materia, onde il legislatore (ordinario) che riuscisse ad escogitare una disciplina di protezione dalla giurisdizione delle Alte cariche in grado di eludere la censura di violazione di tale parametro sostanziale – così come, del resto, pensava di aver fatto proprio il ministro Alfano[4] – avrebbe visto risolto automaticamente anche il problema del vizio formale ex art. 138.

In questa prospettiva appare evidente l’attenuazione della portata preclusiva della declaratoria di incostituzionalità della legge n. 124 sotto quest’ultimo profilo e il suo carattere fondamentalmente ancillare e recessivo.

Si tratterebbe, tuttavia, di una conclusione decisamente errata. Il perché è presto detto.

Innanzitutto, va rilevato che – questa volta – la censura espressa dalla Corte in merito alla violazione del principio di parità di trattamento dinanzi alla giurisdizione risulta, per come essa è formulata, davvero “senza appello”, escludendo la conformità a Costituzione di ogni possibile forma di protezione dal processo per le Alte cariche e lasciando aperta soltanto la via dell’utilizzo di (già esistenti, ma per tutti i cittadini) mezzi endoprocessuali, quali il legittimo impedimento, al fine di assicurare salvaguardia alle esigenze di tutela delle funzioni dell’Alta carica, del loro sereno svolgimento e dello stesso diritto di difesa del soggetto che la ricopre.

Insomma, i margini di manovra futura per il legislatore che volesse reintervenire in materia per assicurare alle Alte cariche un regime di favore sono pressoché nulli[5].

Secondariamente, va considerato che nella decisione in commento la Corte riconduce la disciplina impugnata nell’ambito della materia delle prerogative costituzionali, respingendo in modo molto deciso la prospettazione della parte privata secondo la quale la legge n. 124 non avrebbe previsto una nuova immunità, bensì una ulteriore ipotesi di sospensione del processo, in quanto tale suscettibile di essere introdotta attraverso una legge ordinaria.

La tesi patrocinata dalla Consulta, secondo cui ogni forma protettiva di soggetti dotati di munus costituzionale, ordinata allo scopo di salvaguardia delle relative funzioni e derogatoria rispetto al regime giurisdizionale comune, ha da qualificarsi come prerogativa costituzionale (o immunità in senso lato), grava in realtà l’intera materia del trattamento processuale differenziato per le Alte cariche di una riserva di legge costituzionale. Non già in senso formale, ma in senso sostanziale, giacché l’intero “sistema”delle prerogative costituzionali risulta regolato «da norme di rango costituzionale». Proprio questo suo ergersi a sistema (o, come pure dice la Corte, ad «architettura istituzionale»), al cui interno si realizza il contemperamento delle diverse esigenze di pregio costituzionale in lizza – la salvaguardia della funzione costituzionale ascritta, l’equilibrio fra i poteri dello Stato – fa sì che ci si trovi dinanzi ad una situazione di “bilanciamento costituzionalmente bloccato”, una sorta di garanzia di assetto che «non è consentito al legislatore alterare né in peius in melius»[6].

Il che, peraltro, non comporta una totale esclusione della legge ordinaria in subiecta materia, ma più esattamente – come, d’altronde, avviene anche nelle ipotesi di formale riserva di legge costituzionale – implica che quella, «in tema di prerogative (e cioè di immunità intese in senso ampio), può intervenire solo per attuare, sul piano procedimentale, il dettato costituzionale, essendogli preclusa ogni eventuale integrazione o estensione di tale dettato»[7].

Se ne ricava l’incostituzionalità di leggi ordinarie che, pur non contraddicendo puntuali precetti costituzionali, introducano comunque una modifica nel “sistema”, mutandone gli equilibri interni. Così che, non solo il numerus clausus delle prerogative costituzionali, ma anche la condizione di reciproca ponderazione, che contrassegna ab intra il relativo sistema, costituisce un fattore di impedimento per la legge che, innovando, finirebbe comunque per incidere sull’assetto dei rapporti fra gli organi costituzionali fissato a livello della Carta.

Peraltro, se così si chiarisce in modo definitivo la valenza autonoma del profilo della violazione dell’art. 138 Cost. rispetto a quello riguardante il principio di uguaglianza, nondimeno si evidenzia, al medesimo tempo, la condizione di reciproca interferenza e mutuo richiamo che lega, nella specie, i due parametri.

Ciò, sol che si tenga conto del fatto che la disparità davanti alla giurisdizione che il regime di sospensione dei processi ex lege n. 124 determina è dalla Corte correlata, non soltanto alla differenza di trattamento fra Alta carica e quisque de populo, ma anche fra Alta carica, in quanto presidente di organo costituzionale collegiale, e membri del relativo collegio: cioè fra soggetti costituzionali, i cui rapporti vengono alterati per l’alterarsi dell’equilibrio fra le rispettive sfere di immunità. Ne discende, quindi, che la diseguaglianza si traduce, in pratica, nella incisione sull’architettura del sistema delle guarentigie costituzionali: dominio (e vulnus) dell’art. 3 e dominio (e vulnus) dell’art. 138 paiono così, pur nella reciproca specificità, fatalmente riabbracciarsi.

Il tutto, sullo sfondo di una comune attitudine ad esprimere un identico niet a futuri interventi di legislazione ordinaria di protezione dalla giurisdizione per le Alte cariche dello Stato.

Senonché, quanto da ultimo osservato in tema di interferenza funzionale (parametrica) fra riserva costituzionale in tema di prerogative costituzionali e principio di parità di trattamento davanti alla giurisdizione, introduce alla trattazione del secondo aspetto che mi sono ripromesso di affrontare: quello relativo alla posizione del Presidente del Consiglio nel nostro sistema costituzionale.

 

3. Il problema della posizione costituzionale del Presidente del Consiglio ed il messaggio della Corte alla politica. Ricalcando quanto già espresso nella sentenza del 2004 (e che era stato uno degli argomenti alla base della pronunzia di incostituzionalità dell’art. 1 della legge n. 140 del 2003) la Corte ricorda che ogni tentativo del legislatore di differenziare, dinanzi alla giurisdizione, la figura dei presidenti del consiglio e delle camere rispetto a quella dei membri dei rispettivi collegi – ministri e parlamentari – contraddice la condizione di parità di regime disegnata per essi dalla Costituzione. Tale condizione discende, innanzitutto, dal fatto che quest’ultima attribuisce, «rispettivamente, alle Camere e al Governo, e non ai loro Presidenti, la funzione legislativa (art. 70 Cost.) e la funzione di indirizzo politico ed amministrativo (art. 95 Cost.)»[8].

Per quanto riguarda, in specie, il Presidente del Consiglio si rammenta che il compito, costituzionalmente assegnato, di mantenere l’unità dell’indirizzo politico e di promuovere e coordinare l’attività dei ministri, oltre che di dirigere la politica generale del governo, fa dello stesso semplicemente un primus inter pares all’interno della compagine governativa. Il che risulta, fra l’altro, confermato proprio dal regime di responsabilità disegnato dall’art. 96 Cost., dalla legge costituzionale n. 1 del 1989, nonché dalla legge ordinaria n. 219 dello stesso anno, per i reati commessi dal Presidente del Consiglio e dai singoli ministri nell’esercizio delle funzioni (c.d. reati ministeriali); regime in cui non è dato rintracciare alcun segno di sostanziale differenziazione fra l’uno e gli altri e che risulterebbe «alterato dalla previsione per il solo Presidente del Consiglio dei ministri della sospensione per reati extrafunzionali»[9].

  Né – aggiunge ancora la Corte – «a tali conclusioni può opporsi - come fa la difesa della parte privata - che il Presidente del Consiglio dei ministri avrebbe assunto una posizione costituzionale differenziata rispetto a quella dei ministri in forza della legge 21 dicembre 2005, n. 270 (Modifiche alle norme per l’elezione della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica), che ha introdotto nel d.P.R. 30 marzo 1957, n. 361 (Approvazione del testo unico delle leggi recanti norme per la elezione della Camera dei deputati), l’art. 14-bis, secondo cui, nel procedimento elettorale è necessaria la formale indicazione preventiva del capo della forza politica o della coalizione». Il carattere di fonte di rango ordinario di questa legge – conclude seccamente la sentenza – esclude che essa possa essere considerata «idonea a modificare la posizione costituzionale del Presidente del Consiglio dei ministri»[10].

Il passaggio è assai significativo sul piano costituzionale ed assume, a mio parere, una rilevanza che eccede sensibilmente la pur rilevante vicenda oggetto della decisione della Consulta.

Ad essere evocata, infatti, è la delicata questione del ruolo costituzionale del Presidente del Consiglio nella attuale forma di governo; ruolo che – secondo un diffuso modo di vedere che trova forti consensi in ambito politico ed istituzionale – si vorrebbe in qualche modo rimodellato da un sistema elettorale nel quale si ritiene realizzata una sorta di investitura popolare del leader della formazione politica vincente alle elezioni per il rinnovo delle camere.

Si tratta davvero di un punto cruciale.

Non credo che ci si debba semplicemente appuntare su una questione di rango delle fonti, come invece fa sbrigativamente la Corte. Invero, il fatto che una normativa di legge ordinaria possa comportare una rilettura della Costituzione e, quindi, incidere sul senso e la portata di precetti costituzionali non è motivo di scandalo. Tantopiù, laddove si tratti della legge elettorale, di quella cioè che, pur sotto le spoglie dell’atto normativo primario, appare sicuramente la più materialmente costituzionale di tutte le sue consorelle.

Mi sovviene, fra i tanti esempi possibili, il caso dell’art. 30 della legge n. 87 del 1953 che, nel prevedere che «le norme dichiarate incostituzionali non possono avere applicazione dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione» di accoglimento della Corte, corregge in qualche modo la previsione dell’art. 136 Cost. la quale, prescrivendo la cessazione di efficacia di quest’ultima, avrebbe potuto legittimamente intendersi come prescrittiva di una sanzione di inefficacia solo pro futuro. Penso pure all’art 16 della legge n. 400 del 1988, che ha escluso dal controllo preventivo della Corte dei conti i decreti con forza di legge del Governo, operando una reductio della portata normativa dell’art. 100 della Costituzione il quale, attribuendo alla stessa Corte il controllo preventivo di legittimità sugli atti del Governo, non pare consentire alcuna distinzione tipologica all’interno degli atti governativi.

Tutto questo si spiega evidentemente alla luce del peculiare rapporto esistente fra Costituzione e legge che, più che in termini di netta soggezione della seconda alla prima, va visto come animato da una dinamica interna di tipo circolare, nella quale alla impossibilità per la legge di contraddire la Costituzione si accompagna l’idoneità della prima, nell’esplicarla e dare ad essa svolgimento, di contribuire a delinearne la fisionomia, atteggiandosi a principale strumento attraverso il quale essa vive nell’ordinamento. E’, questo, uno dei più significativi aspetti qualificativi dell’interpretazione costituzionale come duplex interpretatio[11].

Senonché, se tutto questo è vero, non può tuttavia trascurarsi il fatto che simili operazioni, se non vogliono risolversi tout-court in forzature o strappi della Costituzione, debbono mantenersi all’interno di una logica di sistema, sorreggendosi a robuste ragioni di pregio costituzionale, onde si possa dire che la riconformazione legislativa della Costituzione avvenga alla luce della stessa Costituzione, interpretando in realtà la legge il ruolo di strumento esplicativo di una interpretazione sistematica dei precetti costituzionali.

Così, per tornare agli esempi fatti in precedenza, l’estensione dell’efficacia pro praeterito della declaratoria di incostituzionalità ben può spiegarsi alla stregua dell’incidentalità del giudizio costituzionale ex lege constitutionale n. 1 del 1948 e del principio di uguaglianza; la riduzione della sfera del controllo della Corte dei conti sugli atti governativi trova sostegno del particolare regime dei controlli di legittimità cui ope Constitutionis sono sottoposti decreti legislativi e decreti-legge.

 Ed è proprio questa essenziale condizione che manca nella specie, non trovando la pretesa trasformazione della posizione costituzionale del Presidente del Consiglio, che si vorrebbe indotta dalla nuova legge elettorale, alcuna sponda proprio sul piano della Costituzione vigente.

Ma c’è di più: in questo caso manca forse l’avallo della stessa legge elettorale.

E’ stato giustamente osservato[12], infatti, che la legge n. 270 non assicura in sé le condizioni per garantire una posizione di priorità al “capo della forza politica” o del “capo” della coalizione, il cui nome non può essere positivamente ed autonomamente opzionato dall’elettore, se non nella misura in cui il simbolo della forza politica prescelta ne preveda la presenza; né tantomeno compare sui manifesti elettorali. Non solo, in presenza di coalizioni è, altresì, possibile che la scelta dell’elettore vada ad una forza della coalizione che neppure preveda l’indicazione nel contrassegno del nome del “capo” della stessa, mancando nella specie un simbolo unitario cui collegare le forze coalizzate. Insomma,  la scelta del leader effettuata all’atto della presentazione delle liste potrebbe rimanere priva della necessaria evidenziazione esterna.

Non solo, è la stessa legge elettorale che fornisce una chiara indicazione in tal senso. Giacché, nel medesimo comma 3 dell’art. 14 bis del d.P.R. n. 361 del 1957, immediatamente dopo la previsione relativa all’individuazione del capo della forza politica o della coalizione, ci si affretta a precisare che rimangono «ferme le prerogative spettanti al Presidente della Repubblica previste dall’art. 92, 2°c., Cost.». Si tratta, come dire, di una netta presa di distanza nei confronti di eventuali interpretazioni enfatiche del senso di quella individuazione, che non può trasformarsi in veicolo dell’investitura popolare del Presidente del Consiglio.

Certo, nessuno si nasconde la forte legittimazione che sul piano politico riceve, nell’attuale sistema, il capo del partito o della coalizione vincenti e come questa legittimazione eserciti la propria capacità di condizionamento sulla decisione presidenziale di affidamento dell’incarico a formare il nuovo governo, a valle dell’esito elettorale. Ritenere, tuttavia, che sic et simpliciter questa condizione si risolva sul piano giuridico-costituzionale in un mutamento tacito del ruolo costituzionale della figura del Presidente del Consiglio è un altro paio di maniche. Come, del resto, dimostra il fatto che, laddove si verifichi una crisi di governo durante la legislatura, nell’invarianza del quadro costituzionale e, in specie, in presenza dell’art. 94 al. Cost. – “Il governo deve avere la fiducia delle Camere” – l’eventuale prefigurarsi di una maggioranza (come già accaduto dal 1994 in poi) impone al Presidente della Repubblica l’attribuzione dell’incarico (anche) ad una nuova personalità politica, piuttosto che procedere allo scioglimento delle Camere. Ed allora? Bisognerebbe, forse, immaginare uno status costituzionale variabile e intermittente a seconda delle vicende che sono all’origine della nomina del Presidente del Consiglio?

Ebbene, la secca reiezione da parte della Corte dell’assunto della differentia specifica dello status costituzionale del Presidente del Consiglio mi pare abbia un merito evidente: liquidando la teorica del primus super pares[13] i giudici di palazzo della Consulta, non hanno soltanto argomentato l’infondatezza di una tesi difensiva, hanno bensì inteso sgombrare il campo da malintese concezioni surrettiziamente trasformistiche della forma di governo, lanciando implicitamente un monito a chi, enfatizzando il principio di sovranità popolare, appare dimentico del chiaro dictum dell’art. 1 della nostra Costituzione: che essa, cioè, si esercita «nelle forme e nei limiti della Costituzione». Non sovranità del popolo come faro accecante e mito assoluto, insofferente a regole e limiti, ma quale potestas quae superiorem recognoscit: la sovranità della Costituzione.

Questo mi sembra il lascito più importante di questa sentenza e il suo plusvalore politico-costituzionale. La speranza è che, oltre ad un giudice a Berlino (id est: Roma), ci sia anche un Federico II (id est: un sistema politico) che, al contrario di quanto narrato nella nota vicenda del mugnaio Arnold[14], dia al primo ascolto sul serio[15].



* Questo scritto è destinato alla pubblicazione nel volume curato da A. CELOTTO, Prerogativa o privilegio? Opinioni a confronto sul lodo Alfano, Nel diritto, Roma, 2009.

[1] Di attesa di una ampia motivazione aveva espressamente parlato E. BALBONI, Una sentenza degna di Elia, in Europa del 9 ottobre 2009.

[2] V., a questo riguardo, per una interessante riproposizione delle diverse e contrastanti interpretazioni date in dottrina al pronunciamento della Corte costituzionale del 2004, A. PUGIOTTO, Letture e riletture della sentenza costituzionale n. 24/ 2004, in F. MODUGNO (a cura di), La legge Alfano sotto la lente del costituzionalista, in Giur. it., 2009, 778 ss.

[3] V. A. PACE, Memoria illustrativa, relativa alla costituzione di parte della Procura della Repubblica di Milano nel giudizio di legittimità costituzionale sulla legge n. 124 del 2008, 20 ss. del paper (ma già in precedenza dello stesso A., Cinque pezzi facili, in ID., I limiti del potere, Torino, 2008, 176 ss.)

[4] Si veda, in proposito, la relazione illustrativa al disegno di legge n. 1442 presentato alla Camera  (e poi divenuto legge n. 124 del 2008), tutta costruita intorno alla tesi di una riscrittura della disciplina sulla sospensione dei processi per le Alte cariche dello Stato sotto dettatura della sentenza n. 24 del 2004 (Atti parl., XVI Legisl. – Dis. leg.e rel.- Doc.n. 1442). Finiscono per quodammodo accreditare una simile operazione anche i due comunicati del Presidente della Repubblica, resi in occasione della autorizzazione alla presentazione alle Camere del ddl e della promulgazione della legge n. 124 (vedili sul sito www.quirinale.it).

[5] Forse con la sola eccezione di prevedere una sorta di «corsia preferenziale» per la più celere definizione del giudizio in cui l’Alta carica si trovi coinvolta (ipotesi su cui v. M. RUOTOLO, Legge Alfano e vizio da riproduzione di norme dichiarate incostituzionali, in F. MODUGNO [a cura di], La legge Alfano, cit., 787, il quale tuttavia, seppur dubitativamente, preferirebbe il ricorso alla legge costituzionale).

[6] Cfr. sent. n. 262 del 2009 della Corte costituzionale, § 7.3.1.

[7] Ibidem.

[8] Ivi, 7.3.2.3.1.

[9] Ibidem.

[10] Ibidem.

[11] V., per tutti, F. MODUGNO, Sulla specificità dell’interpretazione costituzionale, in ID.,  Scritti sull’interpretazione costituzionale, Napoli, 2008, 199 e spec. 209 ss.

[12] V., ad esempio, R. BALDUZZI e M. COSULICH, In margine alla nuova legge elettorale politica, in www.associazionedeicostituzionalisti.it e, analogamente, N. LUPO, Nell'era della comunicazione digitale, è mai possibile che il nome dei candidati alle elezioni politiche si conosca solo mediante l'affissione del manifesto elettorale?, in www.forumcostituzionale.it

[13] L’espressione non è riportata nella motivazione della sentenza, ma, secondo quanto risulta da molte fonti di stampa, sarebbe stata utilizzata dalla difesa della parte privata nell’udienza pubblica del giudizio sulla costituzionalità della legge n. 124, onde riassumere sinteticamente la posizione giuridica differenziata del Presidente del Consiglio scaturente dalla nuova disciplina elettorale.

[14] La vicenda del mugnaio di Sanssouci e della sua celebre controversia è espressamente richiamata da G. FERRARA, Lo scudo della democrazia, ne Il Manifesto dell’8 ottobre 2009.

[15] Faccio mia, nell’ottica del testo, la qualificazione di pronunzia che vuole impartire una «lezione alla politica», data da M. AINIS, Lezione alla politica, ne La Stampa dell’8 ottobre 2009.