Rossana Caridà*
La Consulta
decreta la fine dell’acquisizione sanante? La parola al legislatore … o alla fantasia della giurisprudenza.
1. L’art. 43 e la sua applicazione.
Una legale via d’uscita?. - 2. Le
obiezioni della giurisprudenza europea. - 3. Il contenuto delle ordinanze di rimessione. - 4. La risposta del giudice delle leggi. - 5. Quali
prospettive per le occupazioni illegittime?.
1. L’art. 43 e la sua applicazione. Una legale via d’uscita?
Con la sentenza annotata[1],
la Corte costituzionale, pronunciandosi sulla questione sollevata dal T.A.R.
Campania con tre distinte ordinanze, ha dichiarato l’illegittimità
costituzionale, per eccesso di legge delega, e quindi per violazione dell’art.
76 della Costituzione, dell’art. 43 del Testo unico delle disposizioni
legislative e regolamentari in materia di espropriazione per pubblica utilità
(d. P.R. n. 327 dell’8 giugno 2001), con il quale è stato codificato l’istituto
della c.d. acquisizione sanante.
Tale articolo costituiva
la risposta del nostro legislatore ai moniti della Corte Europea dei Diritti
dell’Uomo, la quale ha più volte condannato l’occupazione acquisitiva perché in
contrasto con l’art. 1 del Primo Protocollo allegato alla Convenzione europea
dei diritti dell’uomo[2]:
di qui, l’introduzione di una disciplina volta a comporre conseguenze
economiche ed effetti scaturenti dalla realizzazione di un’opera a seguito di
occupazione illegittima.
La fattispecie, elaborata
dalla Corte di cassazione, si sarebbe determinata ove la pubblica
amministrazione, occupando illegittimamente un fondo per costruirvi un’opera
pubblica, avesse realizzato una radicale trasformazione del bene occupato: la
creazione di questo nuovo bene avrebbe comportato l’estinzione del diritto di
proprietà del privato (previo risarcimento del danno scaturente dalla perdita
del diritto dominicale) e la contestuale acquisizione della proprietà del bene
alla mano pubblica. Mancando una previsione normativa che disciplinasse la
fattispecie e ricorrendo ai principi generali dell’ordinamento, la
ricostruzione cui era pervenuta la Cassazione mirava a contemperare due diverse
esigenze: quella di garantire la tutela effettiva del diritto di proprietà
leso, ma comunque adeguatamente ristorato, e quella di evitare lo spreco di
pubbliche risorse, mediante l’attribuzione della proprietà del suolo e della
nuova costruzione all’amministrazione espropriante.
Secondo la Corte europea
questa impostazione[3]
si sarebbe posta in contrasto con il principio di legalità, sia per
l’imprevedibilità della disciplina normativa, sia per la mancata subordinazione
dell’autorità pubblica alla legge: più volte il giudice comunitario ha
manifestato serie perplessità sulla legittimità di un meccanismo che avrebbe
consentito all’amministrazione di trarre beneficio da una situazione illegale[4].
Alla luce delle critiche
mosse dalla giurisprudenza europea, l’art. 43 è stato redatto con finalità di
sanatoria postuma di tutte le procedure espropriative illegittime, se non
addirittura illecite, poste in essere dall’amministrazione[5]
o di situazioni nelle quali l’autorità pubblica si fosse espressa mediante “una
compressione del fondamentale diritto di proprietà in assenza delle procedure
legittime di esproprio”[6].
Tale disposizione, ai
commi I e II, prevedeva che la finalità di sanatoria potesse in concreto
ammettersi purchè l’amministrazione emanasse un
provvedimento discrezionale di acquisizione[7]:
in tal caso, dopo aver utilizzato[8]
un bene privato per scopi pubblici, l’attività pubblica posta in essere,
anziché essere sanzionata, veniva giustificata perché la norma attribuiva la
consapevole possibilità di sanare una procedura illegittima, e comunque
corrispondendo al proprietario il completo ristoro del danno[9];
opzione, si ritiene, talvolta obbligata, una volta ipotizzato lo spreco di
risorse che si realizzerebbe ove il proprietario venisse reintegrato nelle sue
ragioni[10].
L’amministrazione poteva
dunque divenire proprietaria o al termine di un ordinario procedimento che si
fosse concluso con l’adozione di un decreto di esproprio (o con la cessione del
bene espropriando), oppure, nell’ipotesi di patologie del procedimento ed in
presenza di significative trasformazioni del bene, con l’adozione di questo
nuovo provvedimento ablatorio ad effetti sananti,
avente data certa, natura discrezionale[11],
“effettiva valenza espropriativa”[12],
in ogni caso sottoposto a tutte le garanzie imposte dalla legge in tema di
giusto procedimento (in primis,
comunicazione di avvio e conseguente partecipazione[13]),
che contenesse la misura di quanto spettante al proprietario.
Per la giurisprudenza, l’art.
43, I e II c., aveva dunque ribadito il principio per il quale, nel caso di
occupazione sine titulo, si
sarebbe verificato un illecito, il cui autore avrebbe avuto l’obbligo di
restituire il suolo e di risarcire il danno cagionato, salvo il potere dell’amministrazione
di fare venire meno l’obbligo di restituzione con l’atto formale di
acquisizione del bene al proprio patrimonio[14].
All’art. 43, III e IV c.,
veniva, invece, precisato che, ove fosse stato impugnato uno dei provvedimenti
indicati nei commi I e II (l’atto di acquisizione, l’atto da cui fosse sorto il
vincolo preordinato all’esproprio, l’atto dichiarativo della pubblica utilità,
il decreto di esproprio), ovvero fosse stata esercitata un’azione volta alla
restituzione di un bene utilizzato per
scopi di pubblico interesse, l’amministrazione interessata o chi avesse
utilizzato il bene avrebbe potuto chiedere che il giudice amministrativo, ove
fondato il ricorso o la domanda, disponesse la condanna al risarcimento del
danno, con esclusione della restituzione del bene senza limiti di tempo. Veniva, altresì, specificato che, qualora il
giudice amministrativo avesse escluso la restituzione del bene senza limiti di
tempo e disposto la condanna al risarcimento del danno, l’autorità occupante
avrebbe dovuto emanare l’atto di acquisizione, dando atto dell’avvenuto
risarcimento del danno (decreto da trascrivere nei registri immobiliari a cura
e spese della medesima autorità).
Dunque, ipotizzando un
ricorso avente ad oggetto l’annullamento degli atti di una procedura di
esproprio illegittima, l’amministrazione interessata, o chi avesse utilizzato
il bene, avrebbe potuto chiedere al giudice una pronuncia che, nel caso di
fondatezza della pretesa avversaria, convertisse la misura restitutoria,
chiesta dal ricorrente/privato illegittimamente espropriato, in risarcimento
monetario per equivalente. In altri termini, il giudice si sarebbe pronunciato
sulla illegittimità dei provvedimenti impugnati, li avrebbe annullati (vista la
fondatezza del ricorso), e tuttavia, data la domanda dell’amministrazione
interessata, avrebbe potuto escludere la restituzione del bene “senza limiti di tempo” e disporre la
condanna al risarcimento del danno per equivalente.
In mancanza di esplicite
indicazioni normative, la giurisprudenza aveva chiarito che la domanda in
questione, non assumendo la natura di riconvenzionale[15],
poteva essere proposta in ogni fase del giudizio amministrativo, non
necessitasse di rituale notifica e non costituisse domanda nuova la cui
introduzione fosse vietata nel giudizio di appello[16].
Nel decidere se concedere
la riparazione per equivalente, in luogo di quella restitutoria, il sindacato
del giudice non si sarebbe limitato ai soli profili di legittimità dell’atto,
ben potendo riguardare anche valutazioni di merito[17]
circa l’opportunità di privilegiare l’uno o l’altro dei contrapposti interessi,
così disponendo, di volta in volta, l’accoglibilità o
meno della tutela in forma reale[18].
Ad ogni modo, la sentenza
di accoglimento della domanda poteva costituire titolo per mantenere la
disponibilità del bene, ma sarebbe stato sempre necessario il successivo
decreto di acquisizione sanante, tempestivamente trascritto, affinché si
potesse produrre l’effetto acquisitivo della proprietà alla mano pubblica:
secondo la disposizione, l’autorità occupante (avrebbe dovuto) “emana(re)” l’atto di acquisizione, dando
atto dell’avvenuto risarcimento del danno. Pertanto, riconosciuta
giudizialmente la particolare rilevanza dell’interesse pubblico rispetto a
quello privato, il provvedimento di acquisizione sarebbe stato rispettoso del
principio di legalità e di preminenza del diritto.
Nel 2005, sull’art. 43 è
intervenuta l’Adunanza Plenaria, con la nota sentenza n. 2 del 2005, la quale, nel
tentativo di fornire una interpretazione della disposizione il più possibile
conforme alla giurisprudenza europea, ha statuito che il mero fatto della
avvenuta realizzazione dell’opera non avrebbe impedito la restituzione
dell’area, che l’amministrazione non avrebbe comunque potuto eccepire né
l’eccessiva onerosità della prestazione né il pregiudizio all’economia
nazionale e che l’unico titolo idoneo a far acquistare la proprietà alla mano
pubblica, nel rispetto del principio di legalità e di preminenza del diritto,
sarebbe stato un motivato provvedimento formale di acquisizione, adottato
previa valutazione degli interessi in conflitto e corresponsione del
risarcimento del danno (mancando il provvedimento di acquisizione, sarebbe
prevalso il diritto alla restituzione, escluso solo in presenza di una rinuncia
del proprietario)[19].
La soluzione fornita nel
2005 dall’Adunanza Plenaria ha, in tal modo, attribuito al provvedimento
formale di acquisizione valore sanante
della illegittimità della procedura espropriativa, anche se solo con effetti ex nunc[20]:
sebbene l’art. 43 ricollegasse l’acquisto del diritto di proprietà alla mano
pubblica ad una precedente situazione di illegittimo spossessamento del bene,
la giurisprudenza amministrativa si è pronunciata a favore della conformità
della disposizione ai principi costituzionali ed all’art. 1 del Protocollo
della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, proprio per la garanzia
offerta dalla presenza di un formale provvedimento previsto dalla legge (sicché
sarebbero state rispettate le esigenze di chiarezza dell’ordinamento e di
preminenza del diritto), il cui carattere discrezionale risultava comunque
circondato da particolari cautele, eventualmente sindacabili in sede
giurisdizionale, e salva, in ogni caso, la corresponsione dei danni[21].
2. Le obiezioni della giurisprudenza europea.
Nonostante questa
interpretazione dell’art. 43, la Corte europea ha ribadito che il principio
giurisprudenziale della espropriazione indiretta non avrebbe mai dato luogo ad
una regolamentazione stabile, completa e prevedibile, ed anzi, avrebbe permesso
alla pubblica amministrazione di trarre comunque vantaggio da un comportamento
illegale[22].
La soluzione
interpretativa indicata dall’Adunanza Plenaria è stata riscontrata
positivamente dal Consiglio d’Europa - Comitato dei Ministri, perché volta a
sanzionare il comportamento illegittimo dell’amministrazione e preordinata a
restituire il terreno al proprietario, mancando l’atto di acquisizione,
nonostante l’irreversibile trasformazione[23].
L’art. 43, definito “strumento innovativo”[24],
era una norma di chiaro favore per il soggetto pubblico, che certo determinava
in capo allo stesso uno squilibrato vantaggio[25],
pregiudicando la certezza dei rapporti giuridici e sacrificando l’affidamento
dei soggetti nella possibilità di far valere le proprie ragioni sulla base di
condizioni normative «operanti nell’ordinamento vigente in un determinato
periodo storico», ritenuta pacificamente idonea a regolamentare tutte le
fattispecie di occupazione illegittima[26],
ancorchè perfezionatesi prima della entrata in vigore
della stessa[27].
Dal canto loro, le
amministrazioni, applicando concretamente la disposizione in via generalizzata,
hanno optato per una interpretazione dell’art.
Infatti, non avendo il
legislatore posto termini entro i quali esercitare il potere espropriativo in
sanatoria, il provvedimento di acquisizione è stato, tra l’altro, emanato in
presenza del giudicato che avesse disposto la restituzione del terreno[28],
in palese violazione del principio generale della irretrattabilità
del giudicato; una parte della giurisprudenza amministrativa ha avallato tale
soluzione, viceversa questa volta non condivisa dal tribunale campano, il quale
ha optato per una rimessione degli atti alla Corte costituzionale.
3. Il contenuto delle ordinanze di rimessione.
Sulla fattispecie, così
come applicata dalla giurisprudenza, sono sorti dubbi di legittimità
costituzionale, in concreto sintetizzati nelle ordinanze di rimessione del
T.A.R. Campania.
In estrema sintesi, le
prime due ordinanze (r.o. n. 114 e n. 115 del 2009)
hanno esposto che i ricorrenti, tutti proprietari di un fondo già oggetto di
una prima procedura ablatoria, avevano ottenuto
l’annullamento, per incompetenza, degli atti inerenti l’ulteriore procedura ex art. 43 e la condanna del Comune alla
restituzione del terreno, previo ripristino dello stato dei luoghi.
Essi avevano, quindi,
proposto ricorso per l’esecuzione del giudicato, chiedendo la restituzione del
fondo, pure impugnando la successiva deliberazione ex art. 43, con la quale il Comune aveva, nel frattempo, disposto
l’acquisizione al patrimonio indisponibile delle aree in questione,
corrispondendo la somma a titolo di risarcimento dei danni.
La terza ordinanza (r.o. n. 116 del 2009) rilevava che il proprietario aveva
subito l’occupazione di un fondo senza alcun procedimento espropriativo ed il
tribunale ordinario, ritenendo sussistente la natura usurpativa
dell’occupazione, aveva radicato la propria giurisdizione, negando l’acquisto della
proprietà in capo all’amministrazione. Anche in tal caso l’amministrazione
aveva emesso un decreto ex art. 43
con il quale veniva disposta l’acquisizione coattiva al patrimonio
indisponibile comunale, prevedendo in favore del proprietario, oltre all’indennizzo,
anche il risarcimento del danno; decreto che era stato impugnato innanzi al
T.A.R.
I giudici a quibus hanno
ricordato che, nell’ipotesi di annullamento giurisdizionale degli atti relativi
alla procedura espropriativa, il proprietario avrebbe potuto chiedere, mediante
il giudizio di ottemperanza, la restituzione del bene piuttosto che il
risarcimento del danno per equivalente, anche nell’ipotesi di trasformazione
irreversibile dell’area conseguente alla esecuzione dell’opera pubblica e che
l’unico rimedio per evitare la restituzione dell’area sarebbe stato
l’emanazione del provvedimento di acquisizione sanante ex art. 43, mancando il quale l’Amministrazione non avrebbe potuto
addurre la intervenuta realizzazione dell’opera pubblica quale causa di impedimento
alla restituzione.
Il T.A.R. Campania, dopo
aver ricordato la ricostruzione pretoria
dell’occupazione appropriativa (ed usurpativa), ha
ritenuto quest’ultima del tutto incompatibile con la disciplina introdotta
dall’art.
Dal punto di vista della
giurisdizione, il Collegio rimettente non si è discostato dal consolidato
orientamento giurisprudenziale in base al quale, nella materia
dell’espropriazione, sono devolute alla giurisdizione amministrativa esclusiva
le controversie nelle quali si faccia questione, anche a fini risarcitori, di
attività di occupazione e trasformazione di un bene conseguenti ad una
dichiarazione di pubblica utilità e con essa congruenti, anche se il
procedimento all’interno del quale sono state espletate non sia sfociato in un
tempestivo e formale atto traslativo della proprietà, ovvero sia caratterizzato
dalla presenza di atti poi dichiarati illegittimi (c.d. occupazione
acquisitiva).
Con riferimento all’art.
43, il Tribunale richiama quella giurisprudenza secondo la quale tale
disposizione “persegue una finalità di sanatoria di situazioni nelle quali
l’autorità dello Stato si sia espressa mediante una compressione del
fondamentale diritto di proprietà in assenza delle procedure legittime di
esproprio”, non rilevando dunque “la causa della illegittimità del
comportamento”, se cioè tenuto in assenza di una dichiarazione di pubblica
utilità o a seguito dell’annullamento di essa o per altre cause, “essendo
sostanziale che l’interesse pubblico non possa essere soddisfatto se non con il
mantenimento della situazione ablativa”.
Tesi ormai consolidata,
secondo il T.A.R. Campania, è che l’art. 43 sia espressione del principio
secondo cui, nel caso di occupazione divenuta sine titulo, vi è un illecito il cui autore
ha l’obbligo di restituire il suolo e di risarcire il danno cagionato, salvo il
potere dell’amministrazione di far venire meno l’obbligo di restituzione con il
nuovo atto di acquisizione del bene al proprio patrimonio.
Secondo il Tribunale, ove
si dovesse aderire a tale impostazione, il ricorso per l’ottemperanza, avente
ad oggetto la domanda di restituzione, avrebbe dovuto subire una declaratoria
di improcedibilità una volta intervenuto l’atto di acquisizione sanante,
dovendosi optare per il rigetto di un eventuale ricorso avverso quest’ultimo,
perché astrattamente conforme al modello normativamente descritto di cui
all’art. 43.
Tuttavia, il Collegio
campano ha dubitato della legittimità costituzionale di tale disposizione per
violazione degli articoli 3, 24, 42, 76, 97, 113 e 117 della Costituzione.
In riferimento alla
violazione degli articoli 3, 24, 42, 97 e 113 Cost., precisa il Tribunale che,
con l’art. 43, per la prima volta si è normato il
comportamento delle amministrazioni tenuto in violazione delle regole del
giusto procedimento espropriativo, attraverso la formazione di un nuovo
procedimento volto a regolarizzare le procedure ablative illegittime, così
osservando i principi affermati a Strasburgo secondo cui “l’ingerenza di una
pubblica autorità nell’esercizio del diritto al rispetto dei beni deve essere
legale” e “deve assicurare un equo bilanciamento tra le esigenze dell’interesse
generale della collettività e quelle della salvaguardia dei diritti
fondamentali dell’individuo”.
Tuttavia, secondo il
T.A.R. campano, mentre nelle intenzioni del legislatore la norma avrebbe dovuto
conservare natura eccezionale trattandosi di una potestà unilaterale a
vantaggio esclusivo dell’amministrazione, l’art. 43 avrebbe di fatto assunto la
natura di strumento ordinario, che consente di evitare la restituzione del bene
e di sanare la commessa illegalità, a mezzo del quale “si legalizza
l’illegale”, poiché si rimuove l’illecito attraverso l’atto di acquisizione.
In tal modo si ritiene
violata la garanzia costituzionale del diritto di proprietà di cui all’art. 42
Cost., “nella misura in cui si consente alla Pubblica Amministrazione, anche
deliberatamente, (..) di eludere gli obblighi procedimentali della
instaurazione del contraddittorio, delle tre fasi progettuali e della verifica
delle norme di conformità urbanistica”.
Per il T.A.R., l’abuso di
tale strumento, che certo non può divenire un modo istituzionale per sovvertire
il diritto, imporrebbe una lettura restrittiva della disposizione[29].
Viene, altresì, precisata
la necessità di sollevare la questione dinanzi alla Corte, in quanto la
sentenza di accertamento dell’illegittimità della procedura “si sostanzia e si
colloca quale sorta di atto presupposto del procedimento che si perfeziona con
l’atto di acquisizione; si pone allo stato il problema di una grave lesione del
principio generale dell’intangibilità del giudicato amministrativo, (..) in
sostanza vanificato da un atto amministrativo di acquisizione per utilizzazione
senza titolo di un bene per scopi di interesse pubblico”.
Per il giudice
rimettente, il pericolo è tanto l’elusione dell’efficacia sostanziale del
giudicato civile o amministrativo disciplinata dall’art. 2909 cod. civ.[30],
quanto i principi che disciplinano la valenza e gli effetti propri degli atti
amministrativi in funzione della loro natura; pure considerando (come in realtà
è accaduto nella concreta fattispecie sottoposta al T.A.R.) che, in tal modo,
l’applicazione dell’art. 43 “potrebbe essere reiterata all’infinito, a conferma
di come uno strumento che era stato concepito come straordinario è diventato
strumento ordinario, con relativa vanificazione dei principi di certezza
giuridica e di tutela delle posizioni giuridiche”.
Secondo l’Avvocatura erariale,
ad avviso della quale “nulla avrebbe impedito ai giudici rimettenti di valutare
alla stregua di una interpretazione costituzionalmente orientata
l’illegittimità dell’atto acquisitivo, nel corso del giudizio di ottemperanza,
per le medesime ragioni che sono state poste a sostegno della questione di
costituzionalità”, comunque, lo strumento dell’acquisizione sanante si
sostanzia in una “legale via d’uscita”
dalle situazioni di illegalità, verificatesi nel corso degli anni.
L’Avvocatura ha
sottolineato, altresì, come, nel caso di specie, il giudice avrebbe potuto
dichiarare, ai sensi dell’art. 21 septies della legge n. 241/1990, la nullità del
provvedimento di acquisizione adottato dall’amministrazione comunale per
violazione del giudicato.
In ordine a tale censura
la Corte non ha assunto una esplicita posizione.
Secondo il T.A.R., dubbi
sulla legittimità dell’istituto sarebbero pure stati manifestati dalla Corte
Europea dei Diritti dell’Uomo, secondo la quale la deroga alle regole fissate
per l’espropriazione potrebbe creare il rischio di un risultato arbitrario ed
imprevedibile, in violazione del principio della certezza del diritto, essendo
in ogni caso necessario garantire il rispetto della legalità sostanziale.
Con riferimento alla
violazione dell’art. 117, il collegio campano, dopo aver richiamato i principi
espressi con la sentenza costituzionale n. 349 del 2007 (a proposito del
rapporto tra norma statale ed obblighi derivanti dalla Convenzione Europea per
la salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle libertà fondamentali, la cui
eventuale incompatibilità si presenta come una questione di legittimità
costituzionale per violazione dell’art. 117, I c., Cost.), l’art. 43 non
apparirebbe conforme ai principi della Convenzione Europea che hanno una diretta
rilevanza nell’ordinamento interno (art. 117, I c., Cost.), per l’appunto, ed
all’art. 6 (F) del Trattato di Maastricht (modificato dal Trattato di
Amsterdam), in base al quale “l’Unione rispetta i diritti fondamentali quali
sono garantiti dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti
dell’uomo e delle libertà fondamentali, (..) in quanto principi generali del
diritto comunitario”[31].
Anche in tal caso è
mancata una netta presa di posizione da parte della Consulta, la quale si è
limitata a porre “il legittimo dubbio quanto alla idoneità della scelta
realizzata con la norma di garantire il rispetto dei principi della CEDU” e che
quella prefigurata potrebbe costituire “soltanto una delle molteplici soluzioni
possibili”.
In altri termini, per la Corte
costituzionale, il legislatore nazionale, nel rispettare i moniti della Corte
europea[32],
avrebbe potuto disciplinare in modo diverso la materia, ed anche “espungere del
tutto la possibilità di acquisto connesso esclusivamente a fatti occupatori,
garantendo la restituzione del bene al privato, in analogia con altri
ordinamenti europei”.
4. La risposta del giudice delle leggi.
Come premesso, alle
ordinanze di rimessione, corpose in punto di motivazione e di norme-parametro
presuntivamente violate, la Corte ha risposto optando per una declaratoria di
illegittimità per il solo vizio di eccesso di delega, dunque per violazione
dell’art. 76 della Costituzione: il testo unico n. 327/2001 è stato redatto in
attuazione della legge delega n. 50/1999, collegata alla legge 15 marzo 1997 n.
59 e riguardava il «riordino» delle norme elencate nell’allegato I alla legge
stessa, ovverosia, quelle concernenti “il procedimento di espropriazione per
causa di pubblica utilità e altre procedure connesse: legge 25 giugno 1865, n.
2359; legge 22 ottobre 1971, n.
Nel redigere il testo
unico, il legislatore delegato avrebbe dovuto rispettare i seguenti principi e
criteri direttivi (art. 7, II c., l. n. 50/99): la puntuale individuazione del
testo vigente delle norme; l’indicazione delle norme abrogate (anche
implicitamente) da successive disposizioni; il coordinamento «formale» del
testo delle disposizioni vigenti, apportando le modifiche necessarie per
garantire coerenza logica e sistematica alla normativa, anche al fine di
adeguare e semplificare il linguaggio normativo.
Secondo la Corte, tra i
presupposti per la verifica della sussistenza del vizio di eccesso di delega,
occorre annoverare la ratio
della delega, la possibilità di introdurre norme che siano un coerente sviluppo
dei principi fissati nella stessa e la discrezionalità “temperata” del
legislatore delegato, nel senso che, pur riconoscendo a quest’ultimo la
possibilità di emanare norme che rappresentino un coerente sviluppo e, se del
caso, anche un completamento delle scelte espresse dal delegante, è comunque
necessario che tale discrezionalità venga esercitata nell’ambito dei limiti
stabiliti dai principi e criteri direttivi.
Ove, poi, la delega abbia
la finalità di revisionare e riordinare norme preesistenti, è giustificato un
adeguamento della disciplina al nuovo quadro normativo complessivo; ma
l’introduzione di soluzioni sostanzialmente innovative rispetto al precedente
sistema normativo, ribadisce la Corte, è plausibile “soltanto nel caso in cui
siano stabiliti principi e criteri direttivi idonei a circoscrivere la
discrezionalità del legislatore delegato” (punto 8.4 del considerato in
diritto).
La Consulta, riconoscendo
la portata innovativa dell’art. 43 rispetto alla disciplina espropriativa
contenuta nella legge delega, ha optato per la declaratoria di illegittimità
costituzionale.
Essa, non avendo
individuato nell’allegato I alla legge n. 59 del 1997 alcuna norma che
giustificasse un potere amministrativo in via di sanatoria sulle procedure ivi
disciplinate, ha ritenuto che nel regime risultante dalla norma impugnata si
prevedesse un generalizzato potere di sanatoria (di entrambe le patologie
dell’occupazione acquisitiva ed usurpativa) “attribuito alla stessa
amministrazione che ha commesso l’illecito, a dispetto di un giudicato che
dispone il ristoro in forma specifica del diritto di proprietà violato” (8.5
del considerato in diritto).
Certamente, la
disposizione legittimava un ampio ricorso al potere di regolarizzazione di
attività espropriative illegittime, tra l’altro senza alcun limite temporale in
ordine alla azionabilità del potere acquisitivo. Se è
vero, tuttavia, che il rispetto delle regole, e dunque il principio di legalità
in un moderno Stato di diritto, deve essere preteso anche, e soprattutto, dagli
organi del potere amministrativo, è anche vero che, nella specie, il privato
espropriato non era completamente privato di qualsivoglia forma di ristoro.
Anzi, era comunque
prevista una adeguata forma di risarcimento: l’art. 42 della Costituzione
riconosce e garantisce la proprietà allo scopo di assicurarne la funzione
sociale, ma non era certo conforme alla funzione sociale lo spreco di risorse
pubbliche che si sarebbe verificato ove il proprietario fosse stato reintegrato
nel suo diritto potestativo.
Tutto sommato, l’adozione
del motivato provvedimento di acquisizione consentiva la composizione di una
pluralità di interessi: sottoposizione del provvedimento al sindacato del
giudice; data certa di acquisto del diritto di proprietà in capo
all’amministrazione; tutela del privato adeguatamente risarcito e non esposto
alle incertezze di taluni orientamenti giurisprudenziali; valutazione
dell’interesse pubblico sotteso all’utilizzo del bene trasformato.
Forse, sarebbe stato
necessario un intervento del legislatore volto a delimitare, anche
temporalmente, l’esercizio della potestà in capo all’amministrazione, indicando
l’organo competente ad emanare il provvedimento, il termine finale entro cui
adottarlo, il rispetto delle norme in materia di giusto procedimento, la
necessità dell’elemento materiale della irreversibile definitiva
trasformazione, la presenza indefettibile del pubblico interesse, la previsione
dei limiti prodotti da un eventuale giudicato, che il nuovo provvedimento non
avrebbe mai potuto/dovuto comunque mettere in discussione.
Circoscritti i suddetti
presupposti, e salva in ogni caso la previsione di un “eccezionale potere” in
sanatoria, che non si risolva, in altri termini, in una alternativa al giusto
procedimento espropriativo, forse una ri-edizione della norma non si porrebbe
in completo contrasto con il giudicato costituzionale.
Il condizionale è
d’obbligo, poiché, per la Corte, nel dubbio circa l’idoneità della scelta
realizzata con l’art. 43 di garantire il rispetto dei principi della CEDU,
“quella prefigurata costituisce una delle molteplici soluzioni possibili”,
potendo il legislatore “conseguire tale obiettivo e disciplinare in modi
diversi la materia, ed anche espungere del tutto la possibilità di acquisto
connesso esclusivamente a fatti occupatori, garantendo la restituzione del bene
al privato, in analogia con altri ordinamenti europei” (punto 8.5 del
considerato in diritto).
Ed infatti, la Consulta
conclude, pur considerando la giurisprudenza europea, che “non è affatto sicuro
che la mera trasposizione in legge di un istituto, in astratto suscettibile di
perpetuare le stesse negative conseguenze dell’espropriazione indiretta, sia
suscettibile di per sé a risolvere il grave vulnus
al principio di legalità”.
5. Quali prospettive per le occupazioni illegittime?
Con l’articolo 43, unica
alternativa alla restituzione del bene al privato, l’amministrazione poteva
evitare i danni, che sarebbero ricaduti sulla collettività, scaturenti dalla
definitiva perdita di un’opera pubblica seppur illegittimamente realizzata.
A seguito di un cattivo
esercizio del potere, la disposizione consentiva comunque al nuovo
provvedimento di tentare la composizione autoritativa
di tutti gli interessi coinvolti nella fattispecie: l’amministrazione acquisiva
la disponibilità del bene, il privato veniva risarcito dei danni scaturenti
dalla definitiva perdita del suo diritto dominicale.
In questa direzione, alla
alternativa del diritto alla restituzione potrebbe affiancarsi una previsione
legislativa, possibilmente chiara ed accessibile, che circoscriva l’ambito di
operatività ed i limiti (soprattutto temporali e rispettosi del principio
generale di irretrattabilità del giudicato) di un
eccezionale potere in sanatoria, circondato dalle opportune garanzie
procedimentali.
La pronuncia della Corte
non può provocare un ritorno al passato: in questa direzione è molto delicata
la posizione della giurisprudenza, la quale non potrebbe reintrodurre nel
nostro sistema le figure patologiche di occupazione dalla stessa elaborate, ma
che proprio l’art. 43 avrebbe voluto espungere dal nostro ordinamento.
Il rischio sarebbe,
evidentemente, quello di vedere il nostro Stato potenziale destinatario di
ulteriori pronunce di condanna da parte della Corte europea.
Al vuoto normativo creato
dalla sentenza annotata che certo ha comportato il venir meno
dell’espropriazione indiretta (nella duplice forma di quella appropriativa ed usurpativa) e dell’acquisizione sanante,
ha, nell’immediato, supplito l’interpretazione operata da recente
giurisprudenza, che ha individuato nell’art. 940 del cod. civ. la disposizione
applicabile al caso sottoposto al suo giudizio[33].
Per effetto della
specificazione (e dunque della trasformazione di una cosa in un’altra), in tal
caso, di un fondo privato, la proprietà dell’opera pubblica viene acquistata a
titolo originario dall’ente trasformatore nel momento in cui l’opera stessa
viene completata, cioè nel momento in cui si è avuta la specificazione.
Precisa tale
giurisprudenza che si tratta di un fatto dal quale scaturisce un indennizzo,
necessariamente commisurato al valore venale del bene (cioè il fondo che per
effetto della specificazione non esiste più) e non un illecito che dà diritto
al risarcimento del danno, e che le norme, nel rispetto delle indicazioni del
giudice comunitario, sono precise e prevedibili. Ove l’opera venga realizzata
in violazione dei termini fissati, la richiesta indennitaria
potrebbe essere avanzata nel termine di dieci anni dalla verificazione del
fatto; ove, invece, l’opera sia stata realizzata a seguito di una procedura
successivamente annullata il termine decorre, ex art. 2395 del cod. civ., dal giorno in cui il diritto può essere
fatto valere (cioè, dal passaggio in giudicato della sentenza di annullamento
degli atti della procedura).
Soluzione, questa, che si
concreta in un “giusto equilibrio fra l’interesse generale e le esigenze della
protezione dei diritti fondamentali dei singoli”[34].
Onde evitare mirabili ed
innovative, ma ora più che mai incerte, soluzioni interpretative, si rende
necessario il definitivo intervento di un legislatore chiaro, accessibile e
prevedibile, che assicuri l’osservanza del principio di legalità, garantisca il
corretto esercizio del potere amministrativo e tuteli il principio di certezza
delle situazioni giuridiche soggettive.
* Assegnista di ricerca di Diritto amministrativo - Università degli Studi “Magna Graecia” di Catanzaro.
[1] Sentenza costituzionale 8 ottobre 2010, n.
[2] Che così recita “Ogni persona fisica
o giuridica ha diritto al rispetto dei suoi beni. Nessuno può essere privato
della sua proprietà se non per causa di pubblica utilità e nelle condizioni
previste dalla legge e dai principi generali del diritto internazionale.
Le
disposizioni precedenti non portano pregiudizio al diritto degli Stati di porre
in vigore le leggi da essi ritenute necessarie per disciplinare l’uso dei beni
in modo conforme all’interesse generale per assicurare il pagamento di imposte
o di altri contributi o delle ammende”. Mentre la nostra Costituzione include
il diritto di proprietà tra le libertà economiche, prevedendo che sia la legge
a riconoscerla ed a garantirla, nonché a determinarne i modi di acquisto, di
godimento ed i limiti allo scopo di assicurarne la funzione sociale e di
renderla a accessibile a tutti, l’art. 1 sembra tutelare la proprietà in
termini di diritto fondamentale ed inviolabile.
[3] Indirizzo seguito al fine di
risolvere le liti relative soprattutto alle opere pubbliche diffusamente
eseguite negli anni 70 ed 80 e per la necessità di evitare che il prevedibile
accoglimento delle varie azioni soprattutto risarcitorie, ed in misura assai
più modesta restitutorie, determinasse sconquassi nella finanza pubblica,
ovvero ostacolasse lo svolgimento dei compiti istituzionali
dell’amministrazione.
[4] Il riferimento è alle note sentenze
Belvedere Alberghiera s.r.l. c/Italia e Carbonara e Ventura c/Italia (30 maggio
2000). Per una attenta disamina dell’istituto, dal punto di vista sia
giurisprudenziale che dottrinario, il recentissimo il contributo di F. Volpe, Acquisizione amministrativa e acquisizione giudiziaria nel sistema
delle espropriazioni per pubblica utilità, in www.giustamm.it.
[5] T.A.R. Trentino Alto Adige - Trento,
27 marzo 2008, n.
[6] C.G.A., 29
maggio 2008, n.
[7] Valutati gli interessi in conflitto, l’autorità utilizzatrice di un bene immobile per scopi di interesse pubblico, modificato in assenza del valido ed efficace provvedimento di esproprio o dichiarativo della pubblica utilità, avrebbe potuto disporne l’acquisizione al suo patrimonio indisponibile, previa corresponsione del risarcimento dei danni al proprietario. L’atto di acquisizione avrebbe dovuto indicare le circostanze che avevano condotto alla indebita utilizzazione dell’area, determinare la misura del risarcimento, essere notificato al proprietario nelle forme degli atti processuali civili, essere titolo costitutivo del diritto di proprietà opportunamente trascritto.
Lo stesso avrebbe potuto emanarsi anche nell’ipotesi di annullamento: a) dell’atto da cui fosse sorto il vincolo preordinato all’esproprio; b) dell’atto dichiarativo della pubblica utilità; c) del decreto di esproprio.
[8] Utilizzo da intendersi in termini di
modifica del bene secondo modalità concrete, tali da far ritenere la mancata
acquisizione dello stesso al patrimonio pubblico una scelta contrastante con il
principio di economicità dell’azione amministrativa e, più in generale, con il
principio cardine del corretto e proficuo utilizzo delle risorse pubbliche:
T.A.R. Calabria - Catanzaro, sez. I, 2 febbraio 2006, n.
[9] Cfr., in dottrina, F.G. Scoca - S. Tarullo, La
metamorfosi dell’accessione invertita: l’atto di acquisizione di immobili
utilizzati sine titulo,
in Riv. amm. Rep. It.
2001, 1, p. 551, per i quali occorreva guardare con disfavore ad un istituto
che denotava un permanente atteggiamento di indulgenza nei riguardi delle
‘disfunzioni’ amministrative, poiché incentivava “le condotte lassiste dei
pubblici poteri, autorizzandoli - se non addirittura invogliandoli - ad
omettere, anche preordinatamene, la dichiarazione di pubblica utilità ed il
decreto di esproprio”.
[10] Più volte, nella comparazione tra
interesse pubblico (a conservare il bene derivante dalla trasformazione) ed
interesse privato (alla restituzione di un bene appreso senza il corretto
esercizio della funzione pubblica), la giurisprudenza ha ritenuto determinante
“la assoluta necessità, e non mera utilità, che l’immobile sia acquisito nello
stato in cui si trova e che la mancata acquisizione costituirebbe uno spreco di
risorse pubbliche”: cfr. la stessa ordinanza di rimessione del T.A.R. Campania
- Napoli, sez. V, 28 ottobre 2008, n.
[11] L’amministrazione doveva, infatti,
valutare gli interessi in conflitto, chiarire le circostanze che avessero condotto
alla indebita utilizzazione dell’area, specificare l’interesse alla
realizzazione dell’opera, spiegare i motivi per i quali l’interesse pubblico
non potesse essere soddisfatto se non con il mantenimento della nuova
situazione ablativa, indicare la non percorribilità di soluzioni alternative e
dell’urgenza che non aveva consentito l’utilizzo delle procedure ordinarie, le
contingenze che avessero interrotto, sospeso, annullato o comunque non avessero
condotto a buon fine il giusto procedimento espropriativo.
Sulla
“particolare rilevanza dell’interesse pubblico” e sulla necessità che la
motivazione dovesse contenere questa valutazione rafforzata dell’interesse stesso, cfr. Cons. Stato, sez. IV, 26
febbraio 2009, n.
[12] Idoneo ad assorbire in sé sia la
dichiarazione di pubblica utilità che il decreto di esproprio, adatto a
concentrare “uno actu
lo svolgimento dell’intero procedimento, in presenza di presupposti di legge
che devono essere valutati in maniera estremamente analitica
dall’amministrazione nell’esercizio del proprio potere discrezionale”: così
Cons. Stato, sez. IV, 26 novembre 2009, n.
[13] T.A.R. Basilicata, 16 dicembre 2006,
n. 871; T.A.R. Calabria - Catanzaro, sez. I, 2 febbraio 2006, n. 84; T.A.R.
Sicilia - Catania, sez. I, 5 gennaio 2007, n.
[14] Cons. Stato, sez. IV, 15 settembre
2009, n. 5523 e 30 novembre 2007, n. 6124; C.G.A., 18
febbraio 2009, n. 49; 25 maggio 2009, n.
[15] In quanto essa, “se conserva lo
schema formale di quella riconvenzionale (controdomanda),
si differenzia dalla sua essenza contenutistica in quanto non mira ad ampliare
il thema decidendum,
ma si mantiene nell’alveo di quello introdotto dall’attore, limitandosi a
sollecitare, per il convenuto, una condanna ad una misura risarcitoria sì meno
gradita, ma sicuramente e potenzialmente già ricompresa nella domanda
avversaria, tanto da poter essere disposta anche d’ufficio dal giudice”: così
Cons. Stato, sez. V, 26 gennaio 2009, n. 394. Ma cfr. sez. V, 12 marzo 2009, n.
1441, che ha ritenuto trattarsi di una vera e propria riconvenzionale
azionabile dalla parte soccombente per sostituire la condanna al risarcimento
alla condanna alla restituzione, proponibile mediante memoria, munita di
procura speciale apposta in calce o a margine dell’atto, notificata al
ricorrente; T.A.R. Emilia Romagna - Parma, 18 settembre 2008, n. 384, ne ha ritenuto
corretta la formulazione nella forma del ricorso incidentale, dunque, in atto
notificato ai ricorrenti ed alle altre parti in causa.
[16] Da ultimo, Cons. Stato, sez. IV, 19
febbraio 2010, n. 997; viceversa, secondo C.G.A., 25
maggio 2009, n. 486 (entrambe le pronunce in www.giustizia-amministrativa.it) “in via processuale, la domanda
proposta ai sensi dell’art. 43, III c., è inammissibile risultando essere stata
proposta per la prima volta in sede di appello”.
In dottrina, F. Saitta, I nova nell’appello amministrativo, Milano 2010, pp. 380-383.
[17] Secondo G. Cerisano, Manuale della nuova espropriazione per pubblica utilità, Padova
2004, p. 395, si tratta di “un anomalo trasferimento di funzioni in capo al
giudice amministrativo, il quale invece di sindacare i profili di legittimità
dell’atto amministrativo che abbia valutato l’interesse pubblico alla
realizzazione dell’opera, sarà egli stesso a compiere tale valutazione di
merito e a decidere, di volta in volta, l’accoglibilità
della domanda restitutoria del bene occupato illecitamente. In tal modo
dipendendo tutto dalla decisione del giudice, verrebbe a mancare uno dei
requisiti essenziali del principio di legalità, e cioè quello della
prevedibilità della disciplina di una determinata fattispecie in relazione
all’applicazione di una norma”.
[18] Per Cons. Stato, sez. V, 23 maggio
2005, n.
[19] Decisione 29 aprile 2005, n.
[20] “Una valutazione, quella degli
interessi in conflitto, da condurre con particolare rigore. L’atto di
acquisizione, che assorbe dichiarazione di pubblica utilità e decreto di
esproprio, deve, infatti, non solo valutare la pubblica utilità dell’opera,
secondo i parametri consueti, ma deve altresì tener conto che il potere
acquisitivo in parola (avente, in qualche misura, valore “sanante” dell’illegittimità
della procedura espropriativa, anche se solo ex nunc) ha natura “eccezionale” e non
può risolversi in una mera alternativa alla procedura ordinaria. Il nuovo
provvedimento deve perciò trovare la sua giustificazione nella particolare rilevanza
dell’interesse pubblico posto a raffronto con l’interesse privato”.
[21] Cons. Stato, sez. IV, 4 febbraio
2008, n. 303. Sul ruolo centrale del provvedimento, cfr. sez. V, 11 maggio
2009, n. 2877, secondo cui, “una volta adottato il provvedimento in sanatoria,
tutte le aspettative di tutela del privato, restitutorie e risarcitorie, si
canalizzano nell’eventuale contenzioso avente ad oggetto il provvedimento in
questione e ben possono essere integralmente soddisfatte a conclusione del
relativo giudizio”.
[22] Alcune pronunce del 2005 e del 2006
hanno censurato, in termini di illiceità, l’istituto dell’occupazione
acquisitiva, ritenuto inidoneo a garantire la certezza giuridica della
proprietà privata, in ragione della non prevedibilità della disciplina,
contestando all’amministrazione italiana l’esercizio di questo potere ablatorio completamente svincolato da presupposti univoci,
vista, tra l’altro, la sua potenziale applicazione a qualsivoglia ipotesi di
illegittima espropriazione.
Si segnalano,
a solo titolo esemplificativo, le pronunce Dominici
c/Italia (15 novembre 2005) e genovese c/Italia (2 febbraio 2006). Nella prima
è stato evidenziato che la violazione della Convenzione sarebbe scaturita da un
vizio originario, ovverossia l’acquisto della proprietà sulla base di un fatto
illecito. Non rileva che tale meccanismo fosse giustificato dalla
giurisprudenza o dall’art. 43: per la Corte, la sostanza dell’illegalità non
sarebbe mutata, proprio per l’inammissibilità dello strumento in sé, a
prescindere dalla fonte che lo avrebbe legittimato.
Nella
seconda, viene ribadito che il meccanismo dell’espropriazione indiretta avrebbe
consentito all’amministrazione di scavalcare le regole fissate in materia di
espropriazione, con il rischio di un risultato imprevedibile o arbitrario, a
scapito di una “buona amministrazione delle procedure di espropriazione”,
viceversa necessaria al fine di “prevenire episodi di illegalità”: “che sia in
virtù di un principio giurisprudenziale o di un testo di legge come l’art. 43
del Testo Unico, l’espropriazione indiretta non potrebbe dunque costituire
un’alternativa ad un’espropriazione nella forma corretta e dovuta”.
Nel
constatare che l’espropriazione indiretta avrebbe permesso all’amministrazione
di occupare un terreno, trasformarlo irreversibilmente ed acquisirlo al suo
patrimonio indisponibile in mancanza di un atto che formalizzasse il
trasferimento della proprietà, la Corte ha rimarcato che l’elemento che avrebbe
permesso di trasferire al patrimonio pubblico il bene occupato sarebbe stato
“la constatazione d’illegalità da parte del giudice, con valore di
dichiarazione di trasferimento di proprietà”, e che di fronte a questi elementi
il meccanismo dell’espropriazione indiretta non sarebbe stato comunque adatto
“ad assicurare un grado sufficiente di sicurezza giuridica”. V. Domenichelli,
Occupazione espropriativa, comportamenti
e giudice amministrativo (una storia italiana), in Dir. proc. amm. 2005, p.
In dottrina, R. Conti, L’espropriazione indiretta alla luce della giurisprudenza europea,
in www.giustamm.it; F. Gaspari, La tutela del diritto di proprietà tra Corte
costituzionale e Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. La funzione sociale come
principio ordinatore dello statuto proprietario multilivello, in www.giustamm.it.
[23] Il Consiglio d’Europa insiste sul
fatto che la giurisprudenza del Consiglio di Stato “deve essere seguita da
altre giurisdizioni italiane ed essere ulteriormente sviluppata per risolvere
le incertezze sussistenti sull’articolo 43 del Testo Unico”, pure incoraggiando
“le autorità italiane a proseguire i loro sforzi e ad adottare rapidamente
tutte le misure necessarie addizionali al fine di rimediare in maniera
definitiva alla pratica della ‘espropriazione indiretta’ e di assicurare che
qualsiasi occupazione di terreni da parte dell’amministrazione sia conforme al
principio di legalità, quale è codificato dalla Convenzione”: risoluzione
interinale 14 febbraio 2007 ResDH(2007)3, riguardante
“Violazioni sistematiche da parte dell’Italia del diritto di proprietà con
l’espediente delle espropriazioni indirette”, in www.dirittiuomo.it.
[24] C.G.A., 25
maggio 2009, n.
[25] Proprio nella sentenza annotata, nel
punto 2.1 del ritenuto in fatto, si legge che, per i ricorrenti, l’art. 43,
poiché finalizzato a “sanare”
un’attività posta in essere dalla pubblica amministrazione contra ius, determinando la perdita della
proprietà, violerebbe gli artt. 3, 24, 42, 97 e 117 della Costituzione,
conducendo a «legalizzare» l’illegale, consentendo l’illecito aquiliano.
In dottrina,
è stato rilevato il problema della salvaguardia del “contenuto minimo” del
diritto di proprietà di fronte ad una disciplina che abilita(va)
“l’amministrazione, in una vastissima serie di casi, a convertire in
espropriazione legittima un’espropriazione non conforme alle regole, persino
ammettendo al comma 3° un sostanziale mutamento (se non uno squilibrio) delle
rispettive posizioni nel processo in corso”: F.
Cintioli, I
criteri di riparto della giurisdizione in materia di espropriativa, in www.giustamm.it.
[26] Anche nelle ipotesi in cui non vi
sia stata alcuna preventiva dichiarazione di pubblica utilità, o la medesima
sia stata annullata o resa inefficace ex
tunc.
[27] Cfr. Cons. Stato, sez. IV, 08 giugno
2009, n. 3509; 21 maggio 2007, n.
La difesa
dello Stato ha contestato l’applicabilità dell’art. 43 alle occupazioni appropriative verificatesi prima del 30 giugno 2003 (come
nel caso che ha dato origine alla questione di legittimità costituzionale),
eccependo, a tal fine, l’inammissibilità della questione per difetto di
rilevanza.
La Corte, nel
richiamare la giurisprudenza “assolutamente prevalente” ed il “diritto vivente”
del Consiglio di Stato, ritenendo operante il principio secondo cui la
procedura di acquisizione in sanatoria ex
art. 43 avrebbe trovato applicazione generale, ha optato per l’infondatezza
della eccezione (punti 5 e 5.1 del considerato in diritto).
[28] Era stato sostenuto in dottrina che
in pendenza del giudizio di annullamento e di restituzione, l’amministrazione
non potesse emettere il provvedimento ex
art. 43, ma solo rivolgere al giudice la domanda di restituzione: F. Goggiamani,
Limiti scritti e non scritti all’art. 43
del Testo unico 327 del
[29] Invero, per lo stesso Cons. Stato,
Ad. Gen., 29 marzo 2001, punto 29.4, in www.giustizia-amministrativa.it,
l’art. 43 avrebbe avuto l’obiettivo di “eliminare la figura, sorta nella prassi
giurisprudenziale, della occupazione appropriativa o
espropriazione sostanziale (c.d. accessione invertita), nonché quella della
occupazione usurpativa”. Nel senso che tale disposizione consente di ritenere
definitivamente superato l’istituto inventato dalla giurisprudenza, da ultimo,
anche T.A.R. Sicilia - Catania, sez. III, 28 ottobre 2009, n. 1795, ibidem.
La
giurisprudenza ha optato per una attuazione generalizzata dell’art. 43,
applicabile a “qualunque situazione pregressa di illegittimità ed illiceità
posta in essere dalla Pubblica Amministrazione”, ritenendo il provvedimento di
acquisizione “per sua stessa natura abilitato dalla legge a sacrificare (in
funzione del soddisfacimento di scopi di interesse pubblico) anche l’eventuale
diritto alla restituzione”: così T.A.R. Puglia - Lecce, sez. I, 10 maggio 2005,
n.
Ribadisce la
valenza di “istituto di carattere generale avente la specifica finalità di far
conseguire all’amministrazione pubblica un bene anche nel caso del mancato
esito fruttuoso di procedure espropriative in precedenza svolte”, C.G.A., 21 aprile 2010, n.
[30] La giurisprudenza amministrativa sul
punto non è univoca. Proprio la sentenza del C.G.A.,
citata nella precedente, nota ha ribadito il principio secondo il quale il
potere di acquisizione incontrava, quale limite insuperabile, il passaggio in
giudicato della “dichiarazione giurisdizionale del diritto dei proprietari alla
restituzione del bene immobile conteso”.
Ma cfr. Cons.
Stato, sez. V, 13 ottobre 2010, n.
Quest’ultima
pronuncia si segnala perché pubblicata in data 13 ottobre 2010, dunque cinque
giorni dopo il deposito in cancelleria della sentenza costituzionale annotata. La
questione ripropone il problema della sospensione del processo ai sensi
dell’art. 295 c.p.c. in attesa della decisione della
Corte, ove il giudice si trovi ad applicare una norma di cui si sospetta
l’incostituzionalità, oggetto di altra questione sollevata da altro giudice (o
dallo stesso giudice nel corso di diverso processo) e sia pendente dinnanzi
alla Corte il relativo giudizio. Com’è noto, l’ordinanza di rimessione è
pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale della Repubblica, “in modo da far conoscere
a tutti gli operatori giuridici che una determinata disposizione di legge è sub iudice,
sollecitando così prudenza nella applicazione della stessa”: E. Malfatti, S. Panizza,
R. Romboli, Giustizia costituzionale, Torino 2007, p. 101. Prudenza, ancor più
doverosa, allorquando il giudice di secondo grado sia quello amministrativo,
avverso le cui pronunce è costituzionalmente previsto il sindacato in
Cassazione per i soli motivi attinenti alla giurisdizione.
[31] In questa direzione, non sono
mancate le pronunce della Corte europea volte ad affermare la contrarietà
dell’occupazione sanante all’art. 1 del Protocollo addizionale (cfr. supra, nota
22).
[32] Nella causa Sciarrotta
ed altri c/Italia (12 gennaio 2006), la Corte di Strasburgo ha ribadito il
contrasto della espropriazione indiretta con il principio di legalità, perché
non idonea ad assicurare un sufficiente grado di certezza e perché consente
all’amministrazione di utilizzare a proprio vantaggio una situazione di fatto
derivante comunque da “azioni illegali”. Sia allorché derivi da una
interpretazione giurisprudenziale, sia da una norma di legge, l’espropriazione
indiretta “non può comunque costituire un’alternativa ad una espropriazione
adottata secondo «buona e debita forma»” (8.5 del considerato in diritto).
[33] Secondo cui “Se taluno ha adoperato
una materia che non gli apparteneva per formare una nuova cosa, possa o non possa la materia
riprendere la sua prima forma, ne acquista la proprietà pagando al proprietario
il prezzo della materia, salvo che il valore della materia sorpassi
notevolmente quello della mano d’opera. In quest’ultimo caso la cosa spetta al
proprietario della materia, il quale deve pagare il prezzo della mano
d’opera”.
[34] T.A.R. Puglia - Lecce, sez. I, 24
novembre 2010, n.
* Assegnista di ricerca di Diritto amministrativo - Università
degli Studi Magna Graecia di Catanzaro.