CONSULTA ONLINE 

 

Rossana Caridà*

 

La Consulta decreta la fine dell’acquisizione sanante? La parola al legislatore … o alla fantasia della giurisprudenza.

 

1. L’art. 43 e la sua applicazione. Una legale via d’uscita?. - 2. Le obiezioni della giurisprudenza europea. - 3. Il contenuto delle ordinanze di rimessione. - 4. La risposta del giudice delle leggi.  - 5. Quali prospettive per le occupazioni illegittime?.   

 

1. L’art. 43 e la sua applicazione. Una legale via d’uscita?

Con la sentenza annotata[1], la Corte costituzionale, pronunciandosi sulla questione sollevata dal T.A.R. Campania con tre distinte ordinanze, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale, per eccesso di legge delega, e quindi per violazione dell’art. 76 della Costituzione, dell’art. 43 del Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di espropriazione per pubblica utilità (d. P.R. n. 327 dell’8 giugno 2001), con il quale è stato codificato l’istituto della c.d. acquisizione sanante.

Tale articolo costituiva la risposta del nostro legislatore ai moniti della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, la quale ha più volte condannato l’occupazione acquisitiva perché in contrasto con l’art. 1 del Primo Protocollo allegato alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo[2]: di qui, l’introduzione di una disciplina volta a comporre conseguenze economiche ed effetti scaturenti dalla realizzazione di un’opera a seguito di occupazione illegittima.

La fattispecie, elaborata dalla Corte di cassazione, si sarebbe determinata ove la pubblica amministrazione, occupando illegittimamente un fondo per costruirvi un’opera pubblica, avesse realizzato una radicale trasformazione del bene occupato: la creazione di questo nuovo bene avrebbe comportato l’estinzione del diritto di proprietà del privato (previo risarcimento del danno scaturente dalla perdita del diritto dominicale) e la contestuale acquisizione della proprietà del bene alla mano pubblica. Mancando una previsione normativa che disciplinasse la fattispecie e ricorrendo ai principi generali dell’ordinamento, la ricostruzione cui era pervenuta la Cassazione mirava a contemperare due diverse esigenze: quella di garantire la tutela effettiva del diritto di proprietà leso, ma comunque adeguatamente ristorato, e quella di evitare lo spreco di pubbliche risorse, mediante l’attribuzione della proprietà del suolo e della nuova costruzione all’amministrazione espropriante.

Secondo la Corte europea questa impostazione[3] si sarebbe posta in contrasto con il principio di legalità, sia per l’imprevedibilità della disciplina normativa, sia per la mancata subordinazione dell’autorità pubblica alla legge: più volte il giudice comunitario ha manifestato serie perplessità sulla legittimità di un meccanismo che avrebbe consentito all’amministrazione di trarre beneficio da una situazione illegale[4].

Alla luce delle critiche mosse dalla giurisprudenza europea, l’art. 43 è stato redatto con finalità di sanatoria postuma di tutte le procedure espropriative illegittime, se non addirittura illecite, poste in essere dall’amministrazione[5] o di situazioni nelle quali l’autorità pubblica si fosse espressa mediante “una compressione del fondamentale diritto di proprietà in assenza delle procedure legittime di esproprio”[6].

Tale disposizione, ai commi I e II, prevedeva che la finalità di sanatoria potesse in concreto ammettersi purchè l’amministrazione emanasse un provvedimento discrezionale di acquisizione[7]: in tal caso, dopo aver utilizzato[8] un bene privato per scopi pubblici, l’attività pubblica posta in essere, anziché essere sanzionata, veniva giustificata perché la norma attribuiva la consapevole possibilità di sanare una procedura illegittima, e comunque corrispondendo al proprietario il completo ristoro del danno[9]; opzione, si ritiene, talvolta obbligata, una volta ipotizzato lo spreco di risorse che si realizzerebbe ove il proprietario venisse reintegrato nelle sue ragioni[10].

L’amministrazione poteva dunque divenire proprietaria o al termine di un ordinario procedimento che si fosse concluso con l’adozione di un decreto di esproprio (o con la cessione del bene espropriando), oppure, nell’ipotesi di patologie del procedimento ed in presenza di significative trasformazioni del bene, con l’adozione di questo nuovo provvedimento ablatorio ad effetti sananti, avente data certa, natura discrezionale[11], “effettiva valenza espropriativa”[12], in ogni caso sottoposto a tutte le garanzie imposte dalla legge in tema di giusto procedimento (in primis, comunicazione di avvio e conseguente partecipazione[13]), che contenesse la misura di quanto spettante al proprietario.

Per la giurisprudenza, l’art. 43, I e II c., aveva dunque ribadito il principio per il quale, nel caso di occupazione sine titulo, si sarebbe verificato un illecito, il cui autore avrebbe avuto l’obbligo di restituire il suolo e di risarcire il danno cagionato, salvo il potere dell’amministrazione di fare venire meno l’obbligo di restituzione con l’atto formale di acquisizione del bene al proprio patrimonio[14].

All’art. 43, III e IV c., veniva, invece, precisato che, ove fosse stato impugnato uno dei provvedimenti indicati nei commi I e II (l’atto di acquisizione, l’atto da cui fosse sorto il vincolo preordinato all’esproprio, l’atto dichiarativo della pubblica utilità, il decreto di esproprio), ovvero fosse stata esercitata un’azione volta alla restituzione di un  bene utilizzato per scopi di pubblico interesse, l’amministrazione interessata o chi avesse utilizzato il bene avrebbe potuto chiedere che il giudice amministrativo, ove fondato il ricorso o la domanda, disponesse la condanna al risarcimento del danno, con esclusione della restituzione del bene senza limiti di tempo. Veniva, altresì, specificato che, qualora il giudice amministrativo avesse escluso la restituzione del bene senza limiti di tempo e disposto la condanna al risarcimento del danno, l’autorità occupante avrebbe dovuto emanare l’atto di acquisizione, dando atto dell’avvenuto risarcimento del danno (decreto da trascrivere nei registri immobiliari a cura e spese della medesima autorità).

Dunque, ipotizzando un ricorso avente ad oggetto l’annullamento degli atti di una procedura di esproprio illegittima, l’amministrazione interessata, o chi avesse utilizzato il bene, avrebbe potuto chiedere al giudice una pronuncia che, nel caso di fondatezza della pretesa avversaria, convertisse la misura restitutoria, chiesta dal ricorrente/privato illegittimamente espropriato, in risarcimento monetario per equivalente. In altri termini, il giudice si sarebbe pronunciato sulla illegittimità dei provvedimenti impugnati, li avrebbe annullati (vista la fondatezza del ricorso), e tuttavia, data la domanda dell’amministrazione interessata, avrebbe potuto escludere la restituzione del bene “senza limiti di tempo” e disporre la condanna al risarcimento del danno per equivalente.

In mancanza di esplicite indicazioni normative, la giurisprudenza aveva chiarito che la domanda in questione, non assumendo la natura di riconvenzionale[15], poteva essere proposta in ogni fase del giudizio amministrativo, non necessitasse di rituale notifica e non costituisse domanda nuova la cui introduzione fosse vietata nel giudizio di appello[16].

Nel decidere se concedere la riparazione per equivalente, in luogo di quella restitutoria, il sindacato del giudice non si sarebbe limitato ai soli profili di legittimità dell’atto, ben potendo riguardare anche valutazioni di merito[17] circa l’opportunità di privilegiare l’uno o l’altro dei contrapposti interessi, così disponendo, di volta in volta, l’accoglibilità o meno della tutela in forma reale[18].

Ad ogni modo, la sentenza di accoglimento della domanda poteva costituire titolo per mantenere la disponibilità del bene, ma sarebbe stato sempre necessario il successivo decreto di acquisizione sanante, tempestivamente trascritto, affinché si potesse produrre l’effetto acquisitivo della proprietà alla mano pubblica: secondo la disposizione, l’autorità occupante (avrebbe dovuto) “emana(re)” l’atto di acquisizione, dando atto dell’avvenuto risarcimento del danno. Pertanto, riconosciuta giudizialmente la particolare rilevanza dell’interesse pubblico rispetto a quello privato, il provvedimento di acquisizione sarebbe stato rispettoso del principio di legalità e di preminenza del diritto.

Nel 2005, sull’art. 43 è intervenuta l’Adunanza Plenaria, con la nota sentenza n. 2 del 2005, la quale, nel tentativo di fornire una interpretazione della disposizione il più possibile conforme alla giurisprudenza europea, ha statuito che il mero fatto della avvenuta realizzazione dell’opera non avrebbe impedito la restituzione dell’area, che l’amministrazione non avrebbe comunque potuto eccepire né l’eccessiva onerosità della prestazione né il pregiudizio all’economia nazionale e che l’unico titolo idoneo a far acquistare la proprietà alla mano pubblica, nel rispetto del principio di legalità e di preminenza del diritto, sarebbe stato un motivato provvedimento formale di acquisizione, adottato previa valutazione degli interessi in conflitto e corresponsione del risarcimento del danno (mancando il provvedimento di acquisizione, sarebbe prevalso il diritto alla restituzione, escluso solo in presenza di una rinuncia del proprietario)[19].

La soluzione fornita nel 2005 dall’Adunanza Plenaria ha, in tal modo, attribuito al provvedimento formale di acquisizione valore sanante della illegittimità della procedura espropriativa, anche se solo con effetti ex nunc[20]: sebbene l’art. 43 ricollegasse l’acquisto del diritto di proprietà alla mano pubblica ad una precedente situazione di illegittimo spossessamento del bene, la giurisprudenza amministrativa si è pronunciata a favore della conformità della disposizione ai principi costituzionali ed all’art. 1 del Protocollo della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, proprio per la garanzia offerta dalla presenza di un formale provvedimento previsto dalla legge (sicché sarebbero state rispettate le esigenze di chiarezza dell’ordinamento e di preminenza del diritto), il cui carattere discrezionale risultava comunque circondato da particolari cautele, eventualmente sindacabili in sede giurisdizionale, e salva, in ogni caso, la corresponsione dei danni[21].

 

2. Le obiezioni della giurisprudenza europea.

Nonostante questa interpretazione dell’art. 43, la Corte europea ha ribadito che il principio giurisprudenziale della espropriazione indiretta non avrebbe mai dato luogo ad una regolamentazione stabile, completa e prevedibile, ed anzi, avrebbe permesso alla pubblica amministrazione di trarre comunque vantaggio da un comportamento illegale[22].

La soluzione interpretativa indicata dall’Adunanza Plenaria è stata riscontrata positivamente dal Consiglio d’Europa - Comitato dei Ministri, perché volta a sanzionare il comportamento illegittimo dell’amministrazione e preordinata a restituire il terreno al proprietario, mancando l’atto di acquisizione, nonostante l’irreversibile trasformazione[23].

L’art. 43, definito “strumento innovativo[24], era una norma di chiaro favore per il soggetto pubblico, che certo determinava in capo allo stesso uno squilibrato vantaggio[25], pregiudicando la certezza dei rapporti giuridici e sacrificando l’affidamento dei soggetti nella possibilità di far valere le proprie ragioni sulla base di condizioni normative «operanti nell’ordinamento vigente in un determinato periodo storico», ritenuta pacificamente idonea a regolamentare tutte le fattispecie di occupazione illegittima[26], ancorchè perfezionatesi prima della entrata in vigore della stessa[27].

Dal canto loro, le amministrazioni, applicando concretamente la disposizione in via generalizzata, hanno optato per una interpretazione dell’art. 43 a “maglie larghissime”.

Infatti, non avendo il legislatore posto termini entro i quali esercitare il potere espropriativo in sanatoria, il provvedimento di acquisizione è stato, tra l’altro, emanato in presenza del giudicato che avesse disposto la restituzione del terreno[28], in palese violazione del principio generale della irretrattabilità del giudicato; una parte della giurisprudenza amministrativa ha avallato tale soluzione, viceversa questa volta non condivisa dal tribunale campano, il quale ha optato per una rimessione degli atti alla Corte  costituzionale.

 

3. Il contenuto delle ordinanze di rimessione.

Sulla fattispecie, così come applicata dalla giurisprudenza, sono sorti dubbi di legittimità costituzionale, in concreto sintetizzati nelle ordinanze di rimessione del T.A.R. Campania.

In estrema sintesi, le prime due ordinanze (r.o. n. 114 e n. 115 del 2009) hanno esposto che i ricorrenti, tutti proprietari di un fondo già oggetto di una prima procedura ablatoria, avevano ottenuto l’annullamento, per incompetenza, degli atti inerenti l’ulteriore procedura ex art. 43 e la condanna del Comune alla restituzione del terreno, previo ripristino dello stato dei luoghi.

Essi avevano, quindi, proposto ricorso per l’esecuzione del giudicato, chiedendo la restituzione del fondo, pure impugnando la successiva deliberazione ex art. 43, con la quale il Comune aveva, nel frattempo, disposto l’acquisizione al patrimonio indisponibile delle aree in questione, corrispondendo la somma a titolo di risarcimento dei danni.

La terza ordinanza (r.o. n. 116 del 2009) rilevava che il proprietario aveva subito l’occupazione di un fondo senza alcun procedimento espropriativo ed il tribunale ordinario, ritenendo sussistente la natura usurpativa dell’occupazione, aveva radicato la propria giurisdizione, negando l’acquisto della proprietà in capo all’amministrazione. Anche in tal caso l’amministrazione aveva emesso un decreto ex art. 43 con il quale veniva disposta l’acquisizione coattiva al patrimonio indisponibile comunale, prevedendo in favore del proprietario, oltre all’indennizzo, anche il risarcimento del danno; decreto che era stato impugnato innanzi al T.A.R.

I giudici a quibus hanno ricordato che, nell’ipotesi di annullamento giurisdizionale degli atti relativi alla procedura espropriativa, il proprietario avrebbe potuto chiedere, mediante il giudizio di ottemperanza, la restituzione del bene piuttosto che il risarcimento del danno per equivalente, anche nell’ipotesi di trasformazione irreversibile dell’area conseguente alla esecuzione dell’opera pubblica e che l’unico rimedio per evitare la restituzione dell’area sarebbe stato l’emanazione del provvedimento di acquisizione sanante ex art. 43, mancando il quale l’Amministrazione non avrebbe potuto addurre la intervenuta realizzazione dell’opera pubblica quale causa di impedimento alla restituzione.

Il T.A.R. Campania, dopo aver ricordato la ricostruzione pretoria dell’occupazione appropriativa (ed usurpativa), ha ritenuto quest’ultima del tutto incompatibile con la disciplina introdotta dall’art. 43, in quanto disposizione che “subordina all’adozione di apposito provvedimento discrezionale il trasferimento di proprietà dei beni immobili utilizzati per scopi di interesse pubblico, a seguito di modificazione avvenuta in assenza del valido ed efficace provvedimento di esproprio o dichiarativo della pubblica utilità”; ha inoltre riconosciuto all’art. 43 natura processuale, ritenendolo pertanto applicabile in via immediata a tutti i casi di occupazione sine titulo, ivi compresi quelli già sussistenti alla data di entrata in vigore del Testo unico.

Dal punto di vista della giurisdizione, il Collegio rimettente non si è discostato dal consolidato orientamento giurisprudenziale in base al quale, nella materia dell’espropriazione, sono devolute alla giurisdizione amministrativa esclusiva le controversie nelle quali si faccia questione, anche a fini risarcitori, di attività di occupazione e trasformazione di un bene conseguenti ad una dichiarazione di pubblica utilità e con essa congruenti, anche se il procedimento all’interno del quale sono state espletate non sia sfociato in un tempestivo e formale atto traslativo della proprietà, ovvero sia caratterizzato dalla presenza di atti poi dichiarati illegittimi (c.d. occupazione acquisitiva).

Con riferimento all’art. 43, il Tribunale richiama quella giurisprudenza secondo la quale tale disposizione “persegue una finalità di sanatoria di situazioni nelle quali l’autorità dello Stato si sia espressa mediante una compressione del fondamentale diritto di proprietà in assenza delle procedure legittime di esproprio”, non rilevando dunque “la causa della illegittimità del comportamento”, se cioè tenuto in assenza di una dichiarazione di pubblica utilità o a seguito dell’annullamento di essa o per altre cause, “essendo sostanziale che l’interesse pubblico non possa essere soddisfatto se non con il mantenimento della situazione ablativa”.

Tesi ormai consolidata, secondo il T.A.R. Campania, è che l’art. 43 sia espressione del principio secondo cui, nel caso di occupazione divenuta sine titulo, vi è un illecito il cui autore ha l’obbligo di restituire il suolo e di risarcire il danno cagionato, salvo il potere dell’amministrazione di far venire meno l’obbligo di restituzione con il nuovo atto di acquisizione del bene al proprio patrimonio.

Secondo il Tribunale, ove si dovesse aderire a tale impostazione, il ricorso per l’ottemperanza, avente ad oggetto la domanda di restituzione, avrebbe dovuto subire una declaratoria di improcedibilità una volta intervenuto l’atto di acquisizione sanante, dovendosi optare per il rigetto di un eventuale ricorso avverso quest’ultimo, perché astrattamente conforme al modello normativamente descritto di cui all’art. 43.

Tuttavia, il Collegio campano ha dubitato della legittimità costituzionale di tale disposizione per violazione degli articoli 3, 24, 42, 76, 97, 113 e 117 della Costituzione.

In riferimento alla violazione degli articoli 3, 24, 42, 97 e 113 Cost., precisa il Tribunale che, con l’art. 43, per la prima volta si è normato il comportamento delle amministrazioni tenuto in violazione delle regole del giusto procedimento espropriativo, attraverso la formazione di un nuovo procedimento volto a regolarizzare le procedure ablative illegittime, così osservando i principi affermati a Strasburgo secondo cui “l’ingerenza di una pubblica autorità nell’esercizio del diritto al rispetto dei beni deve essere legale” e “deve assicurare un equo bilanciamento tra le esigenze dell’interesse generale della collettività e quelle della salvaguardia dei diritti fondamentali dell’individuo”.

Tuttavia, secondo il T.A.R. campano, mentre nelle intenzioni del legislatore la norma avrebbe dovuto conservare natura eccezionale trattandosi di una potestà unilaterale a vantaggio esclusivo dell’amministrazione, l’art. 43 avrebbe di fatto assunto la natura di strumento ordinario, che consente di evitare la restituzione del bene e di sanare la commessa illegalità, a mezzo del quale “si legalizza l’illegale”, poiché si rimuove l’illecito attraverso l’atto di acquisizione.

In tal modo si ritiene violata la garanzia costituzionale del diritto di proprietà di cui all’art. 42 Cost., “nella misura in cui si consente alla Pubblica Amministrazione, anche deliberatamente, (..) di eludere gli obblighi procedimentali della instaurazione del contraddittorio, delle tre fasi progettuali e della verifica delle norme di conformità urbanistica”.

Per il T.A.R., l’abuso di tale strumento, che certo non può divenire un modo istituzionale per sovvertire il diritto, imporrebbe una lettura restrittiva della disposizione[29].

Viene, altresì, precisata la necessità di sollevare la questione dinanzi alla Corte, in quanto la sentenza di accertamento dell’illegittimità della procedura “si sostanzia e si colloca quale sorta di atto presupposto del procedimento che si perfeziona con l’atto di acquisizione; si pone allo stato il problema di una grave lesione del principio generale dell’intangibilità del giudicato amministrativo, (..) in sostanza vanificato da un atto amministrativo di acquisizione per utilizzazione senza titolo di un bene per scopi di interesse pubblico”.

Per il giudice rimettente, il pericolo è tanto l’elusione dell’efficacia sostanziale del giudicato civile o amministrativo disciplinata dall’art. 2909 cod. civ.[30], quanto i principi che disciplinano la valenza e gli effetti propri degli atti amministrativi in funzione della loro natura; pure considerando (come in realtà è accaduto nella concreta fattispecie sottoposta al T.A.R.) che, in tal modo, l’applicazione dell’art. 43 “potrebbe essere reiterata all’infinito, a conferma di come uno strumento che era stato concepito come straordinario è diventato strumento ordinario, con relativa vanificazione dei principi di certezza giuridica e di tutela delle posizioni giuridiche”.

Secondo l’Avvocatura erariale, ad avviso della quale “nulla avrebbe impedito ai giudici rimettenti di valutare alla stregua di una interpretazione costituzionalmente orientata l’illegittimità dell’atto acquisitivo, nel corso del giudizio di ottemperanza, per le medesime ragioni che sono state poste a sostegno della questione di costituzionalità”, comunque, lo strumento dell’acquisizione sanante si sostanzia in una “legale via d’uscita” dalle situazioni di illegalità, verificatesi nel corso degli anni.

L’Avvocatura ha sottolineato, altresì, come, nel caso di specie, il giudice avrebbe potuto dichiarare, ai sensi dell’art. 21 septies della legge n. 241/1990, la nullità del provvedimento di acquisizione adottato dall’amministrazione comunale per violazione del giudicato.

In ordine a tale censura la Corte non ha assunto una esplicita posizione.

Secondo il T.A.R., dubbi sulla legittimità dell’istituto sarebbero pure stati manifestati dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, secondo la quale la deroga alle regole fissate per l’espropriazione potrebbe creare il rischio di un risultato arbitrario ed imprevedibile, in violazione del principio della certezza del diritto, essendo in ogni caso necessario garantire il rispetto della legalità sostanziale.

Con riferimento alla violazione dell’art. 117, il collegio campano, dopo aver richiamato i principi espressi con la sentenza costituzionale n. 349 del 2007 (a proposito del rapporto tra norma statale ed obblighi derivanti dalla Convenzione Europea per la salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle libertà fondamentali, la cui eventuale incompatibilità si presenta come una questione di legittimità costituzionale per violazione dell’art. 117, I c., Cost.), l’art. 43 non apparirebbe conforme ai principi della Convenzione Europea che hanno una diretta rilevanza nell’ordinamento interno (art. 117, I c., Cost.), per l’appunto, ed all’art. 6 (F) del Trattato di Maastricht (modificato dal Trattato di Amsterdam), in base al quale “l’Unione rispetta i diritti fondamentali quali sono garantiti dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, (..) in quanto principi generali del diritto comunitario”[31].

Anche in tal caso è mancata una netta presa di posizione da parte della Consulta, la quale si è limitata a porre “il legittimo dubbio quanto alla idoneità della scelta realizzata con la norma di garantire il rispetto dei principi della CEDU” e che quella prefigurata potrebbe costituire “soltanto una delle molteplici soluzioni possibili”.

In altri termini, per la Corte costituzionale, il legislatore nazionale, nel rispettare i moniti della Corte europea[32], avrebbe potuto disciplinare in modo diverso la materia, ed anche “espungere del tutto la possibilità di acquisto connesso esclusivamente a fatti occupatori, garantendo la restituzione del bene al privato, in analogia con altri ordinamenti europei”.

 

4. La risposta del giudice delle leggi.

Come premesso, alle ordinanze di rimessione, corpose in punto di motivazione e di norme-parametro presuntivamente violate, la Corte ha risposto optando per una declaratoria di illegittimità per il solo vizio di eccesso di delega, dunque per violazione dell’art. 76 della Costituzione: il testo unico n. 327/2001 è stato redatto in attuazione della legge delega n. 50/1999, collegata alla legge 15 marzo 1997 n. 59 e riguardava il «riordino» delle norme elencate nell’allegato I alla legge stessa, ovverosia, quelle concernenti “il procedimento di espropriazione per causa di pubblica utilità e altre procedure connesse: legge 25 giugno 1865, n. 2359; legge 22 ottobre 1971, n. 865”.

Nel redigere il testo unico, il legislatore delegato avrebbe dovuto rispettare i seguenti principi e criteri direttivi (art. 7, II c., l. n. 50/99): la puntuale individuazione del testo vigente delle norme; l’indicazione delle norme abrogate (anche implicitamente) da successive disposizioni; il coordinamento «formale» del testo delle disposizioni vigenti, apportando le modifiche necessarie per garantire coerenza logica e sistematica alla normativa, anche al fine di adeguare e semplificare il linguaggio normativo.

Secondo la Corte, tra i presupposti per la verifica della sussistenza del vizio di eccesso di delega, occorre annoverare la ratio della delega, la possibilità di introdurre norme che siano un coerente sviluppo dei principi fissati nella stessa e la discrezionalità “temperata” del legislatore delegato, nel senso che, pur riconoscendo a quest’ultimo la possibilità di emanare norme che rappresentino un coerente sviluppo e, se del caso, anche un completamento delle scelte espresse dal delegante, è comunque necessario che tale discrezionalità venga esercitata nell’ambito dei limiti stabiliti dai principi e criteri direttivi.

Ove, poi, la delega abbia la finalità di revisionare e riordinare norme preesistenti, è giustificato un adeguamento della disciplina al nuovo quadro normativo complessivo; ma l’introduzione di soluzioni sostanzialmente innovative rispetto al precedente sistema normativo, ribadisce la Corte, è plausibile “soltanto nel caso in cui siano stabiliti principi e criteri direttivi idonei a circoscrivere la discrezionalità del legislatore delegato” (punto 8.4 del considerato in diritto).

La Consulta, riconoscendo la portata innovativa dell’art. 43 rispetto alla disciplina espropriativa contenuta nella legge delega, ha optato per la declaratoria di illegittimità costituzionale.

Essa, non avendo individuato nell’allegato I alla legge n. 59 del 1997 alcuna norma che giustificasse un potere amministrativo in via di sanatoria sulle procedure ivi disciplinate, ha ritenuto che nel regime risultante dalla norma impugnata si prevedesse un generalizzato potere di sanatoria (di entrambe le patologie dell’occupazione acquisitiva ed usurpativa) “attribuito alla stessa amministrazione che ha commesso l’illecito, a dispetto di un giudicato che dispone il ristoro in forma specifica del diritto di proprietà violato” (8.5 del considerato in diritto).                    

Certamente, la disposizione legittimava un ampio ricorso al potere di regolarizzazione di attività espropriative illegittime, tra l’altro senza alcun limite temporale in ordine alla azionabilità del potere acquisitivo. Se è vero, tuttavia, che il rispetto delle regole, e dunque il principio di legalità in un moderno Stato di diritto, deve essere preteso anche, e soprattutto, dagli organi del potere amministrativo, è anche vero che, nella specie, il privato espropriato non era completamente privato di qualsivoglia forma di ristoro.

Anzi, era comunque prevista una adeguata forma di risarcimento: l’art. 42 della Costituzione riconosce e garantisce la proprietà allo scopo di assicurarne la funzione sociale, ma non era certo conforme alla funzione sociale lo spreco di risorse pubbliche che si sarebbe verificato ove il proprietario fosse stato reintegrato nel suo diritto potestativo.

Tutto sommato, l’adozione del motivato provvedimento di acquisizione consentiva la composizione di una pluralità di interessi: sottoposizione del provvedimento al sindacato del giudice; data certa di acquisto del diritto di proprietà in capo all’amministrazione; tutela del privato adeguatamente risarcito e non esposto alle incertezze di taluni orientamenti giurisprudenziali; valutazione dell’interesse pubblico sotteso all’utilizzo del bene trasformato.

Forse, sarebbe stato necessario un intervento del legislatore volto a delimitare, anche temporalmente, l’esercizio della potestà in capo all’amministrazione, indicando l’organo competente ad emanare il provvedimento, il termine finale entro cui adottarlo, il rispetto delle norme in materia di giusto procedimento, la necessità dell’elemento materiale della irreversibile definitiva trasformazione, la presenza indefettibile del pubblico interesse, la previsione dei limiti prodotti da un eventuale giudicato, che il nuovo provvedimento non avrebbe mai potuto/dovuto comunque mettere in discussione.

Circoscritti i suddetti presupposti, e salva in ogni caso la previsione di un “eccezionale potere” in sanatoria, che non si risolva, in altri termini, in una alternativa al giusto procedimento espropriativo, forse una ri-edizione della norma non si porrebbe in completo contrasto con il giudicato costituzionale.

Il condizionale è d’obbligo, poiché, per la Corte, nel dubbio circa l’idoneità della scelta realizzata con l’art. 43 di garantire il rispetto dei principi della CEDU, “quella prefigurata costituisce una delle molteplici soluzioni possibili”, potendo il legislatore “conseguire tale obiettivo e disciplinare in modi diversi la materia, ed anche espungere del tutto la possibilità di acquisto connesso esclusivamente a fatti occupatori, garantendo la restituzione del bene al privato, in analogia con altri ordinamenti europei” (punto 8.5 del considerato in diritto).

Ed infatti, la Consulta conclude, pur considerando la giurisprudenza europea, che “non è affatto sicuro che la mera trasposizione in legge di un istituto, in astratto suscettibile di perpetuare le stesse negative conseguenze dell’espropriazione indiretta, sia suscettibile di per sé a risolvere il grave vulnus al principio di legalità”.

 

5. Quali prospettive per le occupazioni illegittime?

Con l’articolo 43, unica alternativa alla restituzione del bene al privato, l’amministrazione poteva evitare i danni, che sarebbero ricaduti sulla collettività, scaturenti dalla definitiva perdita di un’opera pubblica seppur illegittimamente realizzata.

A seguito di un cattivo esercizio del potere, la disposizione consentiva comunque al nuovo provvedimento di tentare la composizione autoritativa di tutti gli interessi coinvolti nella fattispecie: l’amministrazione acquisiva la disponibilità del bene, il privato veniva risarcito dei danni scaturenti dalla definitiva perdita del suo diritto dominicale.

In questa direzione, alla alternativa del diritto alla restituzione potrebbe affiancarsi una previsione legislativa, possibilmente chiara ed accessibile, che circoscriva l’ambito di operatività ed i limiti (soprattutto temporali e rispettosi del principio generale di irretrattabilità del giudicato) di un eccezionale potere in sanatoria, circondato dalle opportune garanzie procedimentali.

La pronuncia della Corte non può provocare un ritorno al passato: in questa direzione è molto delicata la posizione della giurisprudenza, la quale non potrebbe reintrodurre nel nostro sistema le figure patologiche di occupazione dalla stessa elaborate, ma che proprio l’art. 43 avrebbe voluto espungere dal nostro ordinamento.

Il rischio sarebbe, evidentemente, quello di vedere il nostro Stato potenziale destinatario di ulteriori pronunce di condanna da parte della Corte europea.

Al vuoto normativo creato dalla sentenza annotata che certo ha comportato il venir meno dell’espropriazione indiretta (nella duplice forma di quella appropriativa ed usurpativa) e dell’acquisizione sanante, ha, nell’immediato, supplito l’interpretazione operata da recente giurisprudenza, che ha individuato nell’art. 940 del cod. civ. la disposizione applicabile al caso sottoposto al suo giudizio[33].

Per effetto della specificazione (e dunque della trasformazione di una cosa in un’altra), in tal caso, di un fondo privato, la proprietà dell’opera pubblica viene acquistata a titolo originario dall’ente trasformatore nel momento in cui l’opera stessa viene completata, cioè nel momento in cui si è avuta la specificazione.

Precisa tale giurisprudenza che si tratta di un fatto dal quale scaturisce un indennizzo, necessariamente commisurato al valore venale del bene (cioè il fondo che per effetto della specificazione non esiste più) e non un illecito che dà diritto al risarcimento del danno, e che le norme, nel rispetto delle indicazioni del giudice comunitario, sono precise e prevedibili. Ove l’opera venga realizzata in violazione dei termini fissati, la richiesta indennitaria potrebbe essere avanzata nel termine di dieci anni dalla verificazione del fatto; ove, invece, l’opera sia stata realizzata a seguito di una procedura successivamente annullata il termine decorre, ex art. 2395 del cod. civ., dal giorno in cui il diritto può essere fatto valere (cioè, dal passaggio in giudicato della sentenza di annullamento degli atti della procedura).

Soluzione, questa, che si concreta in un “giusto equilibrio fra l’interesse generale e le esigenze della protezione dei diritti fondamentali dei singoli”[34].

Onde evitare mirabili ed innovative, ma ora più che mai incerte, soluzioni interpretative, si rende necessario il definitivo intervento di un legislatore chiaro, accessibile e prevedibile, che assicuri l’osservanza del principio di legalità, garantisca il corretto esercizio del potere amministrativo e tuteli il principio di certezza delle situazioni giuridiche soggettive.

 

 



* Assegnista di ricerca di Diritto amministrativo - Università degli Studi “Magna Graecia” di Catanzaro.

[1] Sentenza costituzionale  8 ottobre 2010, n. 293, in www.giucost.org. Tra i primi commenti alla stessa, G. Virga, Una possibile “exit strategy” dopo la dichiarazione di incostituzionalità dell’art. 43 del T.U. espropriazione per p.u., in www.lexitalia.it; F. Patroni Griffi, Prime impressioni a margine della sentenza della Corte costituzionale n. 293 del 2010, in tema di espropriazione indiretta, in www.federalismi.it, n. 19/2010; A. Ruffino Espropriazioni: quale destino per l’occupazione illegittima?, in Diritto e pratica amministrativa, Il Sole 24ore, n. 11/2010; D. Ponte, Travolta un’altra norma in materia di espropri: ora un intervento non viziato da eccesso di delega, Guida al diritto, Il Sole 24ore, pp. 109-114. 

[2] Che così recita “Ogni persona fisica o giuridica ha diritto al rispetto dei suoi beni. Nessuno può essere privato della sua proprietà se non per causa di pubblica utilità e nelle condizioni previste dalla legge e dai principi generali del diritto internazionale.

Le disposizioni precedenti non portano pregiudizio al diritto degli Stati di porre in vigore le leggi da essi ritenute necessarie per disciplinare l’uso dei beni in modo conforme all’interesse generale per assicurare il pagamento di imposte o di altri contributi o delle ammende”. Mentre la nostra Costituzione include il diritto di proprietà tra le libertà economiche, prevedendo che sia la legge a riconoscerla ed a garantirla, nonché a determinarne i modi di acquisto, di godimento ed i limiti allo scopo di assicurarne la funzione sociale e di renderla a accessibile a tutti, l’art. 1 sembra tutelare la proprietà in termini di diritto fondamentale ed inviolabile.  

[3] Indirizzo seguito al fine di risolvere le liti relative soprattutto alle opere pubbliche diffusamente eseguite negli anni 70 ed 80 e per la necessità di evitare che il prevedibile accoglimento delle varie azioni soprattutto risarcitorie, ed in misura assai più modesta restitutorie, determinasse sconquassi nella finanza pubblica, ovvero ostacolasse lo svolgimento dei compiti istituzionali dell’amministrazione.       

[4] Il riferimento è alle note sentenze Belvedere Alberghiera s.r.l. c/Italia e Carbonara e Ventura c/Italia (30 maggio 2000). Per una attenta disamina dell’istituto, dal punto di vista sia giurisprudenziale che dottrinario, il recentissimo il contributo di F. Volpe, Acquisizione amministrativa e acquisizione giudiziaria nel sistema delle espropriazioni per pubblica utilità, in www.giustamm.it.  

[5] T.A.R. Trentino Alto Adige - Trento, 27 marzo 2008, n. 75, in www.giustizia-amministrativa.it.

[6] C.G.A., 29 maggio 2008, n. 490, in www.giustizia-amministrativa.it .

[7] Valutati gli interessi in conflitto, l’autorità utilizzatrice di un bene immobile per scopi di interesse pubblico, modificato in assenza del valido ed efficace provvedimento di esproprio o dichiarativo della pubblica utilità, avrebbe potuto disporne l’acquisizione al suo patrimonio indisponibile, previa corresponsione del risarcimento dei danni al proprietario. L’atto di acquisizione avrebbe dovuto indicare le circostanze che avevano condotto alla indebita utilizzazione dell’area, determinare la misura del risarcimento, essere notificato al proprietario nelle forme degli atti processuali civili, essere titolo costitutivo del diritto di proprietà opportunamente trascritto.

Lo stesso avrebbe potuto emanarsi anche nell’ipotesi di annullamento: a) dell’atto da cui fosse sorto il vincolo preordinato all’esproprio; b) dell’atto dichiarativo della pubblica utilità; c) del decreto di esproprio.

[8] Utilizzo da intendersi in termini di modifica del bene secondo modalità concrete, tali da far ritenere la mancata acquisizione dello stesso al patrimonio pubblico una scelta contrastante con il principio di economicità dell’azione amministrativa e, più in generale, con il principio cardine del corretto e proficuo utilizzo delle risorse pubbliche: T.A.R. Calabria - Catanzaro, sez. I, 2 febbraio 2006, n. 84, in www.giustizia-amministrativa.it.     

[9] Cfr., in dottrina, F.G. Scoca - S. Tarullo, La metamorfosi dell’accessione invertita: l’atto di acquisizione di immobili utilizzati sine titulo, in Riv. amm. Rep. It. 2001, 1, p. 551, per i quali occorreva guardare con disfavore ad un istituto che denotava un permanente atteggiamento di indulgenza nei riguardi delle ‘disfunzioni’ amministrative, poiché incentivava “le condotte lassiste dei pubblici poteri, autorizzandoli - se non addirittura invogliandoli - ad omettere, anche preordinatamene, la dichiarazione di pubblica utilità ed il decreto di esproprio”.

[10] Più volte, nella comparazione tra interesse pubblico (a conservare il bene derivante dalla trasformazione) ed interesse privato (alla restituzione di un bene appreso senza il corretto esercizio della funzione pubblica), la giurisprudenza ha ritenuto determinante “la assoluta necessità, e non mera utilità, che l’immobile sia acquisito nello stato in cui si trova e che la mancata acquisizione costituirebbe uno spreco di risorse pubbliche”: cfr. la stessa ordinanza di rimessione del T.A.R. Campania - Napoli, sez. V, 28 ottobre 2008, n. 730, in www.giustizia-amministrativa.it; secondo C.G.A., 21 aprile 2010, n. 558, ibidem, al fine di scongiurare il prodursi del pregiudizio economico rappresentato dalla definitiva perdita (da parte dell’amministrazione) di utilità connesse ad opere e lavori realizzati con denaro pubblico, e dunque nel contemperamento tra la tutela della proprietà privata e l’esigenza di evitare lo spreco di risorse finanziarie pubbliche, sarebbe stata sufficiente “l’esistenza di apprezzabili mutazioni, economicamente valutabili, realizzate in forza del correlativo impiego di fondi pubblici”.

[11] L’amministrazione doveva, infatti, valutare gli interessi in conflitto, chiarire le circostanze che avessero condotto alla indebita utilizzazione dell’area, specificare l’interesse alla realizzazione dell’opera, spiegare i motivi per i quali l’interesse pubblico non potesse essere soddisfatto se non con il mantenimento della nuova situazione ablativa, indicare la non percorribilità di soluzioni alternative e dell’urgenza che non aveva consentito l’utilizzo delle procedure ordinarie, le contingenze che avessero interrotto, sospeso, annullato o comunque non avessero condotto a buon fine il giusto procedimento espropriativo.

Sulla “particolare rilevanza dell’interesse pubblico” e sulla necessità che la motivazione dovesse contenere questa valutazione rafforzata dell’interesse stesso, cfr. Cons. Stato, sez. IV, 26 febbraio 2009, n. 1136, in www.giustizia-amministrativa.it; sez. VI, 9 giugno 2010, n. 3655, ibidem.   

[12] Idoneo ad assorbire in sé sia la dichiarazione di pubblica utilità che il decreto di esproprio, adatto a concentrare “uno actu lo svolgimento dell’intero procedimento, in presenza di presupposti di legge che devono essere valutati in maniera estremamente analitica dall’amministrazione nell’esercizio del proprio potere discrezionale”: così Cons. Stato, sez. IV, 26 novembre 2009, n. 7446, in www.giustizia-amministrativa.it; 17 dicembre 2009, n. 915, ibidem. Critico sul punto F. Volpe, op. cit., p. 45, secondo cui alla soppressione delle distinte fasi del procedimento espropriativo corrisponde la concentrazione, in un’unica autorità, delle relative competenze.    

[13] T.A.R. Basilicata, 16 dicembre 2006, n. 871; T.A.R. Calabria - Catanzaro, sez. I, 2 febbraio 2006, n. 84; T.A.R. Sicilia - Catania, sez. I, 5 gennaio 2007, n. 18, in www.giustizia-amminisrativa.it; R. Conti, Atto di acquisizione sanante: legittimazione attiva, avvio del procedimento e presupposti per l’adozione, in Giur. merito 2006, pp. 1008-1012; S. Licciardello, Espropriazioni e giurisdizione, Torino 2007, p. 45.        

[14] Cons. Stato, sez. IV, 15 settembre 2009, n. 5523 e 30 novembre 2007, n. 6124; C.G.A., 18 febbraio 2009, n. 49; 25 maggio 2009, n. 483, in www.giustizia-amministrativa.it.

[15] In quanto essa, “se conserva lo schema formale di quella riconvenzionale (controdomanda), si differenzia dalla sua essenza contenutistica in quanto non mira ad ampliare il thema decidendum, ma si mantiene nell’alveo di quello introdotto dall’attore, limitandosi a sollecitare, per il convenuto, una condanna ad una misura risarcitoria sì meno gradita, ma sicuramente e potenzialmente già ricompresa nella domanda avversaria, tanto da poter essere disposta anche d’ufficio dal giudice”: così Cons. Stato, sez. V, 26 gennaio 2009, n. 394. Ma cfr. sez. V, 12 marzo 2009, n. 1441, che ha ritenuto trattarsi di una vera e propria riconvenzionale azionabile dalla parte soccombente per sostituire la condanna al risarcimento alla condanna alla restituzione, proponibile mediante memoria, munita di procura speciale apposta in calce o a margine dell’atto, notificata al ricorrente; T.A.R. Emilia Romagna - Parma, 18 settembre 2008, n. 384, ne ha ritenuto corretta la formulazione nella forma del ricorso incidentale, dunque, in atto notificato ai ricorrenti ed alle altre parti in causa.

[16] Da ultimo, Cons. Stato, sez. IV, 19 febbraio 2010, n. 997; viceversa, secondo C.G.A., 25 maggio 2009, n. 486 (entrambe le pronunce in www.giustizia-amministrativa.it) “in via processuale, la domanda proposta ai sensi dell’art. 43, III c., è inammissibile risultando essere stata proposta per la prima volta in sede di appello”.

In dottrina, F. Saitta, I nova nell’appello amministrativo, Milano 2010, pp. 380-383.

[17] Secondo G. Cerisano, Manuale della nuova espropriazione per pubblica utilità, Padova 2004, p. 395, si tratta di “un anomalo trasferimento di funzioni in capo al giudice amministrativo, il quale invece di sindacare i profili di legittimità dell’atto amministrativo che abbia valutato l’interesse pubblico alla realizzazione dell’opera, sarà egli stesso a compiere tale valutazione di merito e a decidere, di volta in volta, l’accoglibilità della domanda restitutoria del bene occupato illecitamente. In tal modo dipendendo tutto dalla decisione del giudice, verrebbe a mancare uno dei requisiti essenziali del principio di legalità, e cioè quello della prevedibilità della disciplina di una determinata fattispecie in relazione all’applicazione di una norma”.     

[18] Per Cons. Stato, sez. V, 23 maggio 2005, n. 2095, in www.giustizia-amministrativa.it, l’art. 43 avrebbe istituito un nuovo caso di giurisdizione di merito. Secondo L. Maruotti, in AA. VV., L’espropriazione per pubblica utilità - Commento al testo unico emanato con il decreto del Presidente della Repubblica 8 giugno 2001, n. 327 come modificato dal D. lgs. 302/2002, Milano 2003, p. 601, si era in presenza di poteri valutativi del tutto simili a quelli caratterizzanti la giurisdizione di merito, poiché la norma aveva disposto che il giudice amministrativo potesse e dovesse “valutare caso per caso tutti gli interessi coinvolti nella vicenda e dare la soluzione del caso concreto”; per G. Vacirca, La giurisdizione di merito: cenni storici e profili problematici, in www.giustizia-amministrativa.it, “non sembra configurabile una giurisdizione di merito allorché il sindacato sul miglior modo di soddisfare l’interesse pubblico sia sollecitato al giudice non dal ricorrente, ma in via di eccezione dalla stessa amministrazione che richieda la conferma della legittimità di una propria valutazione”. Tra i più recenti contributi sul tema, in dottrina, F. Saitta, Contratti pubblici e riparto di giurisdizione: prime riflessioni sul decreto di recepimento della direttiva n. 2007/66/CE, in www.giustamm.it.              

[19] Decisione 29 aprile 2005, n. 2, in www.giustizia-amministrativa.it. In dottrina, M. L. Maddalena, Dalla occupazione appropriativa alla acquisizione ad effetti sananti: osservazioni a margine dell’adunanza plenaria n. 2 del 2005, in Foro amm. C.d.S. 2005, pp. 2109 ss.; V. Gasparini Casari, Utilizzo senza titolo di un bene per scopi di interesse pubblico e giurisdizione esclusiva, in Riv. giur. urb. 2005, pp. 527 ss.; R. Conti, Restituzione del bene trasformato nei casi di occupazione usurpativa. Revirement del Consiglio di Stato, in Urb. app. 2005, pp. 809-813; A. Travi, Inefficacia del decreto di occupazione e giurisdizione esclusiva: la soluzione dell’adunanza plenaria non convince, in Corr. giur. 2005, pp. 1573-1578.         

[20] “Una valutazione, quella degli interessi in conflitto, da condurre con particolare rigore. L’atto di acquisizione, che assorbe dichiarazione di pubblica utilità e decreto di esproprio, deve, infatti, non solo valutare la pubblica utilità dell’opera, secondo i parametri consueti, ma deve altresì tener conto che il potere acquisitivo in parola (avente, in qualche misura, valore “sanante” dell’illegittimità della procedura espropriativa, anche se solo ex nunc) ha natura “eccezionale” e non può risolversi in una mera alternativa alla procedura ordinaria. Il nuovo provvedimento deve perciò trovare la sua giustificazione nella particolare rilevanza dell’interesse pubblico posto a raffronto con l’interesse privato”.    

[21] Cons. Stato, sez. IV, 4 febbraio 2008, n. 303. Sul ruolo centrale del provvedimento, cfr. sez. V, 11 maggio 2009, n. 2877, secondo cui, “una volta adottato il provvedimento in sanatoria, tutte le aspettative di tutela del privato, restitutorie e risarcitorie, si canalizzano nell’eventuale contenzioso avente ad oggetto il provvedimento in questione e ben possono essere integralmente soddisfatte a conclusione del relativo giudizio”. 

[22] Alcune pronunce del 2005 e del 2006 hanno censurato, in termini di illiceità, l’istituto dell’occupazione acquisitiva, ritenuto inidoneo a garantire la certezza giuridica della proprietà privata, in ragione della non prevedibilità della disciplina, contestando all’amministrazione italiana l’esercizio di questo potere ablatorio completamente svincolato da presupposti univoci, vista, tra l’altro, la sua potenziale applicazione a qualsivoglia ipotesi di illegittima espropriazione.

Si segnalano, a solo titolo esemplificativo, le pronunce Dominici c/Italia (15 novembre 2005) e genovese c/Italia (2 febbraio 2006). Nella prima è stato evidenziato che la violazione della Convenzione sarebbe scaturita da un vizio originario, ovverossia l’acquisto della proprietà sulla base di un fatto illecito. Non rileva che tale meccanismo fosse giustificato dalla giurisprudenza o dall’art. 43: per la Corte, la sostanza dell’illegalità non sarebbe mutata, proprio per l’inammissibilità dello strumento in sé, a prescindere dalla fonte che lo avrebbe legittimato.

Nella seconda, viene ribadito che il meccanismo dell’espropriazione indiretta avrebbe consentito all’amministrazione di scavalcare le regole fissate in materia di espropriazione, con il rischio di un risultato imprevedibile o arbitrario, a scapito di una “buona amministrazione delle procedure di espropriazione”, viceversa necessaria al fine di “prevenire episodi di illegalità”: “che sia in virtù di un principio giurisprudenziale o di un testo di legge come l’art. 43 del Testo Unico, l’espropriazione indiretta non potrebbe dunque costituire un’alternativa ad un’espropriazione nella forma corretta e dovuta”.

Nel constatare che l’espropriazione indiretta avrebbe permesso all’amministrazione di occupare un terreno, trasformarlo irreversibilmente ed acquisirlo al suo patrimonio indisponibile in mancanza di un atto che formalizzasse il trasferimento della proprietà, la Corte ha rimarcato che l’elemento che avrebbe permesso di trasferire al patrimonio pubblico il bene occupato sarebbe stato “la constatazione d’illegalità da parte del giudice, con valore di dichiarazione di trasferimento di proprietà”, e che di fronte a questi elementi il meccanismo dell’espropriazione indiretta non sarebbe stato comunque adatto “ad assicurare un grado sufficiente di sicurezza giuridica”. V. Domenichelli, Occupazione espropriativa, comportamenti e giudice amministrativo (una storia italiana), in Dir. proc. amm. 2005, p. 849, ha definito l’istituto una “aggressione amministrativa”, che avrebbe dovuto trovare un’esemplare e sicura protezione giudiziaria, non risultando specificate le modalità di protezione del cittadino: “essendo sicuro che di un’aggressione si tratta, comunque si guardi al fenomeno dell’occupazione, a prescindere dalla «dose» di illegalità, più o meno massiccia, che caratterizza l’operato dell’amministrazione”.

In dottrina, R. Conti, L’espropriazione indiretta alla luce della giurisprudenza europea, in www.giustamm.it; F. Gaspari, La tutela del diritto di proprietà tra Corte costituzionale e Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. La funzione sociale come principio ordinatore dello statuto proprietario multilivello, in www.giustamm.it.         

[23] Il Consiglio d’Europa insiste sul fatto che la giurisprudenza del Consiglio di Stato “deve essere seguita da altre giurisdizioni italiane ed essere ulteriormente sviluppata per risolvere le incertezze sussistenti sull’articolo 43 del Testo Unico”, pure incoraggiando “le autorità italiane a proseguire i loro sforzi e ad adottare rapidamente tutte le misure necessarie addizionali al fine di rimediare in maniera definitiva alla pratica della ‘espropriazione indiretta’ e di assicurare che qualsiasi occupazione di terreni da parte dell’amministrazione sia conforme al principio di legalità, quale è codificato dalla Convenzione”: risoluzione interinale 14 febbraio 2007 ResDH(2007)3, riguardante “Violazioni sistematiche da parte dell’Italia del diritto di proprietà con l’espediente delle espropriazioni indirette”, in www.dirittiuomo.it.  

[24] C.G.A., 25 maggio 2009, n. 486, in www.giustizia-amministrativa.it. 

[25] Proprio nella sentenza annotata, nel punto 2.1 del ritenuto in fatto, si legge che, per i ricorrenti, l’art. 43, poiché finalizzato a “sanare” un’attività posta in essere dalla pubblica amministrazione contra ius, determinando la perdita della proprietà, violerebbe gli artt. 3, 24, 42, 97 e 117 della Costituzione, conducendo a «legalizzare» l’illegale, consentendo l’illecito aquiliano.

In dottrina, è stato rilevato il problema della salvaguardia del “contenuto minimo” del diritto di proprietà di fronte ad una disciplina che abilita(va) “l’amministrazione, in una vastissima serie di casi, a convertire in espropriazione legittima un’espropriazione non conforme alle regole, persino ammettendo al comma 3° un sostanziale mutamento (se non uno squilibrio) delle rispettive posizioni nel processo in corso”: F. Cintioli, I criteri di riparto della giurisdizione in materia di espropriativa, in www.giustamm.it.    

[26] Anche nelle ipotesi in cui non vi sia stata alcuna preventiva dichiarazione di pubblica utilità, o la medesima sia stata annullata o resa inefficace ex tunc.

[27] Cfr. Cons. Stato, sez. IV, 08 giugno 2009, n. 3509; 21 maggio 2007, n. 2582, in www.giustizia-amministrativa.it; contra, 26 settembre 2008, n. 4660, ibidem.

La difesa dello Stato ha contestato l’applicabilità dell’art. 43 alle occupazioni appropriative verificatesi prima del 30 giugno 2003 (come nel caso che ha dato origine alla questione di legittimità costituzionale), eccependo, a tal fine, l’inammissibilità della questione per difetto di rilevanza.

La Corte, nel richiamare la giurisprudenza “assolutamente prevalente” ed il “diritto vivente” del Consiglio di Stato, ritenendo operante il principio secondo cui la procedura di acquisizione in sanatoria ex art. 43 avrebbe trovato applicazione generale, ha optato per l’infondatezza della eccezione (punti 5 e 5.1 del considerato in diritto).

[28] Era stato sostenuto in dottrina che in pendenza del giudizio di annullamento e di restituzione, l’amministrazione non potesse emettere il provvedimento ex art. 43, ma solo rivolgere al giudice la domanda di restituzione: F. Goggiamani, Limiti scritti e non scritti all’art. 43 del Testo unico 327 del 2001, in Foro amm. T.A.R. 2005, pp. 1682-1683.   

[29] Invero, per lo stesso Cons. Stato, Ad. Gen., 29 marzo 2001, punto 29.4, in www.giustizia-amministrativa.it, l’art. 43 avrebbe avuto l’obiettivo di “eliminare la figura, sorta nella prassi giurisprudenziale, della occupazione appropriativa o espropriazione sostanziale (c.d. accessione invertita), nonché quella della occupazione usurpativa”. Nel senso che tale disposizione consente di ritenere definitivamente superato l’istituto inventato dalla giurisprudenza, da ultimo, anche T.A.R. Sicilia - Catania, sez. III, 28 ottobre 2009, n. 1795, ibidem.    

La giurisprudenza ha optato per una attuazione generalizzata dell’art. 43, applicabile a “qualunque situazione pregressa di illegittimità ed illiceità posta in essere dalla Pubblica Amministrazione”, ritenendo il provvedimento di acquisizione “per sua stessa natura abilitato dalla legge a sacrificare (in funzione del soddisfacimento di scopi di interesse pubblico) anche l’eventuale diritto alla restituzione”: così T.A.R. Puglia - Lecce, sez. I, 10 maggio 2005, n. 3307, in www.giustizia-amministrativa.it; secondo Cons. Stato, sez. IV, 16 novembre 2007, n. 5830, ibidem, il legislatore delegato avrebbe emanato tale articolo “per dare una legale via d’uscita alle diffuse e risalenti situazioni di illegalità che si sono stratificate nel corso del tempo e cioè per consentire all’amministrazione di adeguare la situazione di fatto a quella di diritto”.

Ribadisce la valenza di “istituto di carattere generale avente la specifica finalità di far conseguire all’amministrazione pubblica un bene anche nel caso del mancato esito fruttuoso di procedure espropriative in precedenza svolte”, C.G.A., 21 aprile 2010, n. 558, in www.giustizia-amministrativa.it.             

[30] La giurisprudenza amministrativa sul punto non è univoca. Proprio la sentenza del C.G.A., citata nella precedente, nota ha ribadito il principio secondo il quale il potere di acquisizione incontrava, quale limite insuperabile, il passaggio in giudicato della “dichiarazione giurisdizionale del diritto dei proprietari alla restituzione del bene immobile conteso”.

Ma cfr. Cons. Stato, sez. V, 13 ottobre 2010, n. 7472, in www.giustizia-amministrativa.it, che ha ritenuto la presenza del giudicato non ostativa, sia in sé sia quanto agli accertamenti di fatto che ne formano il presupposto, all’applicazione dell’art. 43.

Quest’ultima pronuncia si segnala perché pubblicata in data 13 ottobre 2010, dunque cinque giorni dopo il deposito in cancelleria della sentenza costituzionale annotata. La questione ripropone il problema della sospensione del processo ai sensi dell’art. 295 c.p.c. in attesa della decisione della Corte, ove il giudice si trovi ad applicare una norma di cui si sospetta l’incostituzionalità, oggetto di altra questione sollevata da altro giudice (o dallo stesso giudice nel corso di diverso processo) e sia pendente dinnanzi alla Corte il relativo giudizio. Com’è noto, l’ordinanza di rimessione è pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale della Repubblica, “in modo da far conoscere a tutti gli operatori giuridici che una determinata disposizione di legge è sub iudice, sollecitando così prudenza nella applicazione della stessa”: E. Malfatti, S. Panizza, R. Romboli, Giustizia costituzionale, Torino 2007, p. 101. Prudenza, ancor più doverosa, allorquando il giudice di secondo grado sia quello amministrativo, avverso le cui pronunce è costituzionalmente previsto il sindacato in Cassazione per i soli motivi attinenti alla giurisdizione.

[31] In questa direzione, non sono mancate le pronunce della Corte europea volte ad affermare la contrarietà dell’occupazione sanante all’art. 1 del Protocollo addizionale (cfr. supra, nota 22). 

[32] Nella causa Sciarrotta ed altri c/Italia (12 gennaio 2006), la Corte di Strasburgo ha ribadito il contrasto della espropriazione indiretta con il principio di legalità, perché non idonea ad assicurare un sufficiente grado di certezza e perché consente all’amministrazione di utilizzare a proprio vantaggio una situazione di fatto derivante comunque da “azioni illegali”. Sia allorché derivi da una interpretazione giurisprudenziale, sia da una norma di legge, l’espropriazione indiretta “non può comunque costituire un’alternativa ad una espropriazione adottata secondo «buona e debita forma»” (8.5 del considerato in diritto).       

[33] Secondo cui “Se taluno ha adoperato una materia che non gli apparteneva per formare una  nuova cosa, possa o non possa la materia riprendere la sua prima forma, ne acquista la proprietà pagando al proprietario il prezzo della materia, salvo che il valore della materia sorpassi notevolmente quello della mano d’opera. In quest’ultimo caso la cosa spetta al proprietario della materia, il quale deve pagare il prezzo della mano d’opera”. 

[34] T.A.R. Puglia - Lecce, sez. I, 24 novembre 2010, n. 2683, in www.giustizia-amministrativa.it.

 

* Assegnista di ricerca di Diritto amministrativo - Università degli Studi Magna Graecia di Catanzaro.