Le zone dÂ’ombra della giustizia costituzionale. I giudizi sulle leggi.

Genova, 10 marzo 2006

 

Oggetto e parametro

Francesca Biondi

(versione provvisoria)

 

Sommario: 1. Un’ipotesi: molte delle zone d’ombra del giudizio di legittimità incidentale possono trovare soluzione in altre sedi - 2. Le zone d’ombra del giudizio in via incidentale risolte attraverso una diversa nozione dei presupposti per l’instaurazione del giudizio o della determinazione dell’oggetto o del parametro - 3. Una “falsa” zona d’ombra? Il giudizio di costituzionalità dei regolamenti tra Corte costituzionale e giudici comuni - 4. Zone d’ombra o conflitto fra poteri? 4.1. L’autonomia della politica: i regolamenti parlamentari come oggetto e come parametro 4.2. Le leggi di organizzazione - 5. Zone d’ombra o autoesclusione della Corte costituzionale in relazione al controllo dei rapporti tra ordinamenti? 5.1. Ordinamento interno e ordinamento comunitario 5.2. Ordinamento interno e ordinamento internazionale - 6. Il referendum abrogativo: un problema risolto solo teoricamente - 7. Una zona franca: le leggi elettorali di Camera e Senato.

 

 

1. UnÂ’ipotesi: molte delle zone dÂ’ombra del giudizio di legittimitĂ  incidentale possono trovare soluzione in altre sedi.

 

Diversi sono i punti di vista dai quali si può muovere per studiare i profili attinenti all’oggetto e al parametro nel giudizio di legittimità costituzionale.

Anzitutto, si può verificare “come” essi devono essere individuati dal giudice a quo ex art. 23, comma 1, l. n. 87 del 1953, se, cioè, la Corte sia più o meno esigente nella loro esatta determinazione. Questo studio della giurisprudenza costituzionale, che riguarda il modo in cui viene prospettata la questione di legittimità costituzionale, ed implica anche un’analisi dell’idoneità della motivazione, può essere utile per orientare i giudici ad impostare correttamente la questione[1] o per suggerire alla Corte atteggiamenti più o meno rigorosi.

Un altro tema di ricerca – che riguarda il giudizio sulle leggi in generale, non solo quello in via incidentale - può consistere nel capire come i “tempi” del processo costituzionale possono incidere su un efficace controllo di costituzionalitĂ , sia con riferimento allÂ’oggetto, sia con riferimento al parametro. Su questo punto, la Corte ha giĂ  dato risposte soddisfacenti, da una parte, consentendo il trasferimento della questione alla disposizione successiva[2], dallÂ’altra, modulando il proprio giudizio a seconda che il parametro sopravvenuto riguardi vizi formali o sostanziali[3]. 

Allo scopo di riflettere sulle “zone d’ombra” della giustizia costituzionale appare, invece, utile muovere da una analisi distinta delle problematiche attinenti all’oggetto, inteso come atto normativo[4], e di quelle attinenti al parametro e chiedersi, da una parte, quali atti normativi sfuggano al giudizio di costituzionalità promosso in via incidentale, o per natura stessa dell’atto normativo o per le strettoie del giudizio incidentale, e, dall’altra, quali parametri non siano efficacemente giustiziabili in questo giudizio.

A questo scopo, è necessario distinguere l’ipotesi in cui l’atto incostituzionale non trova efficace sanzione nel giudizio di costituzionalità dall’ipotesi in cui non trova sanzione nel giudizio in via incidentale. L’ipotesi che si intende verificare è che molte (non certo tutte) le tradizionali zone d’ombra del giudizio di legittimità in via incidentale sono una conseguenza necessaria del modo di instaurazione di questo giudizio, ma possono trovare tutela in altre sedi. Le zone d’ombra del giudizio in via incidentale sono solo quelle in cui un atto normativo, di rango primario, che pregiudica una situazione giuridica di soggetti che non hanno altro accesso alla giustizia costituzionale, difficilmente (e in alcuni casi mai) può essere sottoposto da un giudice alla Corte.

Questa semplice constatazione muove dalla lettura delle ricerche in tema di giustizia costituzionale degli anni passati dove si presupponeva che il sistema incidentale fosse il “sistema-base atto a coprire tutte le possibili ipotesi di incostituzionalità delle leggi”[5] e, pertanto, che tutte le leggi, in quanto potenzialmente incostituzionali, avrebbero dovuto poter essere sottoposte alla Corte da parte di un giudice[6], e tutti i parametri avrebbero dovuto essere “giustiziabili” nel giudizio in via incidentale[7].

Anche la Corte, del resto, è sembrata spesso muovere da questa premessa, sia lĂ  dove ha ampliato la nozione di giudice a quo, pur potendo forse piĂą opportunamente suggerire la via del conflitto (per es., cfr. sentenze nn. 226 del 1976 e 384 del 1991[8]), sia lĂ  dove ha invece inizialmente escluso che il conflitto fra poteri potesse avere ad  oggetto un atto legislativo (sent. n. 406 del 1989).

La giurisprudenza costituzionale più recente ha invece dimostrato come, mentre il giudizio di legittimità costituzionale in via incidentale costituisce la sede più idonea a garantire quelle norme della Costituzione che toccano le situazioni soggettive – e, dunque, solo in questi casi è opportuno anche “forzare” certi presupposti processuali per consentire che la questione di costituzionalità giunga alla Corte (cfr. § 2) -, spetta invece agli altri giudizi garantire il rispetto delle norme che riguardano i rapporti tra i pubblici poteri[9], anche quando in discussione è una legge[10].

Vi è una distinzione abbastanza netta tra i diversi giudizi costituzionali e le situazioni giuridiche pregiudicate da cui essi hanno origine. Solo in casi particolari, può esservi una sovrapposizione di interessi. E sono quei casi in cui o la Corte opera una scelta a favore di uno dei due giudizi (come quando afferma che il conflitto avente ad oggetto una legge è ammissibile solo se questa non trova applicazione in un giudizio: cfr. infra, § 4.2), oppure essa è costretta ad estendere il contraddittorio.

Proprio alla luce di questa distinzione e dell’ampio sviluppo che hanno avuto i giudizi diversi da quello sulle leggi promosso in via incidentale può allora essere utile ripercorre le tradizionali ricostruzioni in tema di oggetto e parametro, per verificare se certe carenze di giustiziabilità in via incidentale siano in realtà compensate da altri rimedi.

Vi è, infine, un secondo ordine di considerazioni che spinge a tentare questa diversa ricostruzione della problematica delle zone d’ombra del giudizio di costituzionalità in via indentale, ossia il fatto che spesso vi è coincidenza tra le problematiche attinenti all’oggetto e quelle attinenti al parametro: all’impossibilità di controllare il contenuto un atto normativo corrisponde spesso anche la difficoltà di utilizzare quelle fonti come parametro. Ciò forse significa che vi sono “interi settori” la cui tutela costituzionale deve essere cercata in giudizi diversi da quello in via incidentale.

 

 

2. Le zone dÂ’ombra del giudizio in via incidentale risolte attraverso una diversa nozione dei presupposti per lÂ’instaurazione del giudizio o del parametro

 

Il sistema incidentale di instaurazione del giudizio sulle leggi presenta lÂ’indubbio pregio di poter valutare la disposizione nella sua applicazione concreta. La Corte costituzionale può interpretare la legge alla luce dei fatti, valutandone anche le conseguenze applicative. Tale modo di instaurazione del giudizio, tuttavia,  talvolta impedisce o rende alquanto difficile lÂ’impugnazione di certi atti che pure, per loro natura, hanno rango primario e che pregiudicano situazioni giuridiche concrete.

Anche alla luce di quanto si dirà di seguito, si può sin d’ora osservare che la Corte costituzionale, per scongiurare certe strettoie del giudizio di costituzionalità, non ha inciso sulla determinazione dell’oggetto, e solo in minima parte ha integrato il parametro.

Quanto all’oggetto, infatti, la Corte è rimasta ancorata alla definizione di cui all’art. 134 cost., ribadendo ripetutamente che possono essere sottoposte al suo giudizio solo le leggi o gli atti aventi forza di legge ed escludendo così i regolamenti amministrativi di Stato, Regioni ed enti locali (su cui cfr. § 3), i regolamenti parlamentari (su cui cfr. § 4.1.) e i contratti collettivi di lavoro.

Quanto al parametro, lÂ’unico “strumento processuale” che ha consentito di estendere il controllo sul rispetto del disposto costituzionale­ è il ricorso allo schema della norma interposta (e ciò a prescindere dal dibattito in merito alla necessitĂ , o meno, di estenderne lÂ’utilizzo[11]).

L’analisi della giurisprudenza costituzionale dimostra, invece, come la Corte, per estendere il proprio giudizio a fonti di rango primario lesive di situazioni giuridiche soggettive, abbia piuttosto “rimediato” allargando la nozione di giudice a quo (cfr. relazione di A. Oddi) o quella di rilevanza[12].

 

3. Una falsa zona dÂ’ombra? Il giudizio di costituzionalitĂ  dei regolamenti tra Corte costituzionale e giudici comuni.

 

Una sintetica disamina delle zone d’ombra del giudizio di costituzionalità non può prescindere da alcune brevi osservazioni relative al problema della sindacabilità dei regolamenti, considerata una delle tradizionali zone d’ombra della giustizia costituzionale.

Per la quantità e l’importanza di tali atti, la dottrina si è sempre interrogata in merito alla necessità di estendere il controllo della Corte costituzionale anche ad essi, nonostante la loro natura di fonte secondaria li escluda dall’elenco di cui all’art. 134 cost.

Ritenendo insufficiente il controllo esercitato dai giudici ordinari e amministrativi, sia per la natura non costituzionale dei giudici e del giudizio, sia per gli effetti inter partes delle decisioni del giudice ordinario, già in passato autorevole dottrina, muovendo da una concezione “sostanziale” della primarietà, aveva proposto di prendere in considerazione l’effettivo rapporto diretto che si crea tra l’atto normativo e la Costituzione, allo scopo di unificare il controllo dei vizi di incostituzionalità nella Corte costituzionale, a prescindere dalla natura dell’atto[13].

E’ noto, tuttavia, come la Corte si sia mantenuta salda alla concezione “formale” della primarietà, con la conseguenza di non ritenere necessaria o opportuna l’apertura del suo giudizio anche a fonti di secondo grado[14]. Tale soluzione è stata ritenuta coerente con il sistema monista accolto nella nostra Costituzione: “Finché l’evoluzione storica del sistema costituzionale, pur nel crescente pluralismo delle forme di produzione normativa, conserverà l’attuale configurazione monistica di forma di governo con potere legislativo riservato al Parlamento e non riconosciuto in via originaria e concorrente anche all'esecutivo o ad altri organi, il controllo, demandato a questa Corte, dall'art. 134 della Costituzione deve intendersi limitato alle sole fonti primarie” (sent. n. 23 del 1989). Secondo la Corte, dunque, solo una riserva costituzionale di potestà regolamentare potrebbe aprire al giudizio sui regolamenti[15].

Di conseguenza, o il regolamento è conforme alla legge sulla quale si fonda, e allora sarà quest’ultima a porsi in contrasto con la Costituzione e ad essere oggetto del giudizio di costituzionalità, oppure il regolamento è in contrasto con la legge, e allora il vizio, più che di incostituzionalità, sarà di illegittimità[16].

Spesso purtroppo questo schema non è stato sufficiente a fornire tutela nei confronti del regolamento.

E questa considerazione vale sia per il caso in cui il regolamento risulti incostituzionale poiché viola un diritto, sia perchè altera il sistema delle fonti.

Nella prima ipotesi, se si esclude la possibilità di impugnare il regolamento di fronte alla Corte, l’unico strumento di tutela resta il controllo operato direttamente dal giudice ordinario o amministrativo. La dottrina, ma anche la Corte costituzionale[17], hanno sempre ammesso che, pur in assenza di un parametro legislativo di riferimento, nulla impedisce che le disposizioni incostituzionali contenute nel regolamento siano comunque annullate o disapplicate. La prassi dimostra però che i giudici comuni si dimostrano sempre molto restii a fare una diretta applicazione della Costituzione[18].

Deve essere tuttavia segnalato come la Corte costituzionale, pur senza scalfire questa impostazione, in alcune occasioni, abbia accolto la teoria di Esposito sul “diritto vivente di origine giurisprudenziale”[19] e ammesso così una sorta di sindacato sul regolamento nei casi in cui la legge non poteva non essere giudicata nel modo in cui aveva trovato applicazione nel regolamento. Secondo questa teoria, poiché la Corte giudica su norme, e non su disposizioni, per ricavare il significato normativo di una disposizione può essere necessario considerare anche l’interpretazione fornita dal regolamento. La Corte costituzionale sembra avere recepito questa impostazione là dove la fattispecie legale risultava integrata dalla recezione del contenuto normativo di disposizioni regolamentari precedenti (sent. n. 1104 del 1988 e sent. n. 456 del 1994) o successive (sentenze nn. 364 del 1990 e 257 del 1991). E’ interessante notare che in caso di decisioni di accoglimento è stato caducato solo il regolamento e non anche la fonte primaria[20].

Talvolta la Corte, di fronte alla richiesta del giudice di sindacare il contenuto di una fonte secondaria, aveva anche tentato di distinguere tra rinvio “sostanziale”, che si avrebbe quando “il richiamo sia indirizzato a norme determinate ed esattamente individuate dalla stessa norma che lo effettua”, e rinvio “formale”, che si avrebbe invece quando la fonte primaria rinvia genericamente alla disciplina contenuta in un regolamento. Solo nel primo caso, secondo la Corte, sarebbe stato possibile ammettere un controllo sul contenuto del regolamento (sent. n. 311 del 1993; ord. n. 484 del 1993)[21]. La distinzione, molto criticata in dottrina, non è stata più riproposta, contando solo il collegamento materiale tra norma legislativa e norma regolamentare.

Si tratta tuttavia di aperture al sindacato sui regolamenti che hanno trovato scarso seguito: si ricordi la recente decisione in tema di esposizione del crocifisso nelle aule scolastiche (ordinanza n. 389 del 2004).

Quanto sin qui detto con riferimento ai regolamenti governativi vale, ovviamente, anche per i regolamenti regionali e per gli statuti e i regolamenti degli enti locali.

Nella diversa ipotesi in cui il regolamento non appaia conforme al sistema delle fonti, le soluzioni sono diverse.

Anzitutto, si è ritenuto che, in generale, quando la legge non abbia in alcun modo delimitato il potere del governo, il giudice possa impugnare direttamente la legge per violazione del principio di legalità[22].

Il problema del rispetto del sistema delle fonti diventa ancora piĂą evidente nel caso dei regolamenti indipendenti e dei regolamenti di delegificazione[23].

Di fronte ad un regolamento cd. indipendente, la dottrina maggioritaria ha ritenuto che si tratti di un regolamento di per sé inammissibile[24] e, quindi, sempre da annullare o disapplicare. Il problema teorico è stato poi ridimensionato dallo scarso numero di questa tipologia di regolamenti.

Il problema del rispetto, da parte del regolamento, del sistema costituzionale delle fonti si pone invece, sempre più frequentemente, per i regolamenti di delegificazione, nei casi, cioè, in cui la legge di delegificazione si limita ad autorizzare il regolamento, senza delimitare il potere regolamentare, oppure quando le disposizioni regolamentari, e non la legge di autorizzazione, dispongono l’abrogazione di fonti di rango ordinario precedenti, oppure, ancora, quando il regolamento eccede rispetto al compito attribuito dalla legge di autorizzazione: in tutti i casi, cioè, in cui si “aggira” il modello delineato dall’art. 17, comma 2, della l. n. 400 del 1988.

Premesso che, anche in questo caso, spetterebbe ai giudici amministrativi e ordinari operare un controllo sulla conformitĂ  del regolamento alle disposizioni costituzionali che regolano il sistema delle fonti, la scarsa sensibilitĂ  dimostrata dai giudici comuni ha indotto al dottrina ad individuare soluzioni diverse[25].

Per quanto concerne la giurisprudenza costituzionale, nonostante alcune aperture talvolta tratte dalla dottrina nelle parole della Corte[26], non si segnalano decisioni volte ad estendere il sindacato di costituzionalità ai regolamenti. Al contrario, la Corte ha ribadito l’inammissibilità di questioni di costituzionalità aventi ad oggetto norme regolamentari, poiché spetta al giudice rimettente valutare il rapporto tra la legge di delegificazione e il regolamento adottato in base ad essa, annullando o disapplicando le disposizioni regolamentari adottate “al di fuori” della materia oggetto di delegificazione[27].

Nel quadro così sinteticamente ricordato, merita tuttavia di essere ricordata la “collaborazione” tra giudici e Corte in relazione alle modifiche apportate al codice della strada[28]. I giudici a quibus avevano impostato la questione in modo alquanto innovativo, sostenendo che, se la disposizione regolamentare eccede la delega ricevuta dalla legge delegificante, non produce lÂ’effetto abrogativo nei confronti della disposizione legislativa precedente, e, pertanto, è questÂ’ultima che deve essere ancora applicata. La Corte costituzionale ha implicitamente condiviso questa  impostazione, dichiarando ammissibile la questione di legittimitĂ  costituzionale avente ad oggetto la fonte primaria precedente[29]. Come sottolineato da autorevole dottrina, alla base di questa soluzione vi è lÂ’idea che il regolamento illegittimo (per incostituzionalitĂ  o per violazione della legge di autorizzazione) non è annullabile o disapplicabile, bensì nullo. In caso contrario, non si giustificherebbe la conclusione secondo cui non si è verificato lÂ’effetto abrogativo[30]. Si tratta di un orientamento giurisprudenziale ad ogni modo apprezzabile, poichĂ© consente di sanzionare almeno le piĂą evidenti violazioni della legge di autorizzazione da parte del regolamento.

Nella stessa direzione si è poi recentemente mossa la Corte anche in relazione a “vizi” della legge delegificante. Il giudice a quo lamentava che la legge di delegificazione avesse consentito al regolamento di individuare i soggetti passivi di una imposta, con ciò violando la riserva di legge di cui all’art. 23 cost. La Corte ha dichiarato la questione infondata, affermando che, poiché la legge impugnata aveva invitato il Governo solo al “riordino” della materia, doveva considerarsi illegittimo il regolamento nella parte in cui aveva introdotto disposizioni innovative. L’individuazione dei soggetti passivi doveva dunque essere effettuato guardando ancora alla disciplina legislativa precedente (sentenza n. 303 del 2005, e successiva ordinanza n. 359 del 2005).

In questo modo la Corte invita i giudici ad operare direttamente un controllo penetrante sul processo di delegificazione, non solo con riferimento alla violazione della legge da parte del regolamento, ma anche in caso di carenze della legge di delegificazione. Solo se sia pienamente rispettato il modello di cui allÂ’art. 17 l. 400 del 1988, il regolamento costituirĂ  lÂ’evento a partire dal quale la legge precedente potrĂ  dirsi abrogata. In caso contrario, non potrĂ  considerarsi avvenuta la sostituzione della legge da parte del regolamento.

I piĂą recenti orientamenti giurisprudenziali sembrano dunque fugare, almeno in parte, le preoccupazioni relative al controllo sul contenuto delle fonti secondarie, soprattutto per quanto concerne il controllo sul rispetto del sistema delle fonti: lÂ’unico sindacato resta quello dei giudici, ma lÂ’avallo della Corte contribuisce certamente a diffondere una certa sensibilitĂ  costituzionale su questi profili.

Discorso parzialmente diverso deve infine essere condotto nel caso in cui si ritenga che il regolamento contrasti con l’art. 117 cost., ossia non rispetti la distinzione delle competenze statali e regionali da parte delle fonti regolamentari. Nel giudizio in via incidentale, il controllo è – ancora una volta – esclusivamente nelle mani dei giudici. La questione potrebbe tuttavia giungere anche alla Corte attraverso il conflitto di attribuzione fra Stato e Regioni[31].

 

4. Zone dÂ’ombra o conflitto fra poteri?

4.1. LÂ’autonomia della politica: i regolamenti parlamentari come oggetto e come parametro

 

La legge non è la sola fonte “primaria”. Pertanto, a meno di ritenere che la “primarietà” caratterizzi solo la legge e gli atti fungibili rispetto ad essa (decreti-legge e decreti legislativi), è opportuno verificare se esistono altri atti cui la Costituzione demanda direttamente la disciplina di determinate materie. Il rapporto diretto tra questi atti e la Costituzione potrebbe giustificare la sottoponibilità di essi al controllo della Corte.

Tra gli atti “primari”, in quanto atti fondati direttamente sulla Costituzione rientrano i regolamenti degli organi costituzionali e, in particolare, i regolamenti parlamentari, espressamente previsti dall’art. 64 cost., e a cui l’art. 72 cost. demanda l’integrazione dei principi sul procedimento legislativo. Tali atti si distinguono dalle altre fonti per la diversa materia trattata[32].

Nessuno dubita della “primarietà” dei regolamenti parlamentari, tuttavia la loro sottoponibilità al giudizio della Corte ha sempre incontrato forti ostacoli.

La Corte, infatti, ha incidentalmente ammesso la normatività dei regolamenti (sentenze nn. 78 e 292 del 1984), ma ha espressamente escluso la possibilità di impugnare le disposizioni regolamentari (v. sent. n. 154 del 1985, confermata dalle ordinanza nn. 444 e 445 del 1993)[33]. Secondo la Corte i regolamenti parlamentari potrebbero rientrare nell’elenco di cui all’art. 134 cost. solo in via interpretativa. Tale soluzione – sempre nelle parole della Corte - “urterebbe”, però, contro il sistema, poiché il Parlamento, in quanto espressione immediata della sovranità popolare, è diretto partecipe di tale sovranità, ed i regolamenti, in quanto svolgimento diretto della Costituzione, hanno una “peculiarità e dimensione”, che ne impedisce la sindacabilità. Il regolamento è insindacabile poiché la riserva costituzionale di competenza regolamentare rientra fra le guarentigie disposte dalla Costituzione per assicurare l'indipendenza dell’organo sovrano da ogni potere.

Due, dunque, gli argomenti per escludere la sindacabilità delle disposizioni regolamentari: l’uno, formale, basato sulla considerazione che il regolamento non rientra nell’elenco di cui all’art. 134 cost., l’altro, sostanziale e certamente più decisivo, consistente nel fatto che tale atto è espressione dell’autonomia parlamentare.

La posizione assunta dalla Corte è solo parzialmente condivisibile.

Come sottolineato dalla dottrina, i regolamenti parlamentari hanno come oggetto i rapporti tra le forze politiche parlamentari, mentre non dovrebbero mai disciplinare situazioni che coinvolgano soggetti non politici[34] (la distinzione non si fonda dunque sull’efficacia esterna o interna del regolamento, ma sugli oggetti disciplinati). In relazione a questi casi, quando il regolamento pretende di incidere su posizioni giuridiche di terzi[35], è dunque necessario individuare una sede per verificare la correttezza delle disposizioni regolamentari e, se del caso, annullarle.

EÂ’ stato proposto che, in queste ipotesi, il giudice sollevi un conflitto di attribuzione lamentando la lesione della propria sfera di competenza prodotta dalle devoluzione ad organi interni delle Camere del sindacato di atti che coinvolgono soggetti terzi[36].

Secondo altra dottrina dovrebbe spettare alla giurisdizione comune tutelare la posizione giuridica dei terzi e risolvere la controversia applicando la legge e non il regolamento[37]. Si tratta di una soluzione ampiamente auspicabile, che, tuttavia, i giudici, sino ad oggi, non hanno “osato” seguire[38].

Sarebbe pertanto opportuno che la Corte potrebbe ripensasse la propria giurisprudenza e ammettesse la questione di legittimitĂ  costituzionale avente ad oggetto le disposizioni che pregiudicano posizioni di soggetti non politici, non per sindacarne il contenuto, ma in quanto adottate in una materia che non spetta al regolamento parlamentare disciplinare.

A questo proposito, si noti che il tema dell’insindacabilità dei regolamenti solo in parte si intreccia con quello dell’insindacabilità degli interna corporis acta, cioè dei fatti che si verificano all’interno delle Camere, e che, in relazione a questo profilo, la Corte ha adottato una posizione più “equilibrata” (almeno in linea di principio), poiché, da una parte, ha ribadito l’attualità del principio di autonomia delle istituzioni rappresentative, dall’altra, però, ha ammesso che, in un ordinamento costituzionale che sancisce il principio di uguaglianza, il diritto di difesa e il principio di indipendenza della magistratura, il problema consiste nel tracciare “la linea di confine tra i comportamenti dei membri delle Camere posti sotto il presidio di tale garanzia e quelli che non possono sfuggire al diritto comune” (sentenza n. 379 del 1996).

La tensione tra autonomia, da una parte, e legalità-giurisdizione, dall’altra, potrebbe allora indurre a ripensare la soluzione adottata dalla Corte con la decisione del 1985 (resa proprio in tema di autodichia) e ad ammettere il sindacato su quelle disposizioni regolamentari che illegittimamente pregiudicano la posizione di soggetti terzi, estranei cioè alle Camere. A questa conclusione induce del resto la constatazione che i soggetti lesi da disposizioni regolamentari (per es., i dipendenti delle camere) non hanno la possibilità di adire la Corte in altra sede.

Tra le due soluzioni proposte, giudizio in via incidentale o conflitto, la prima appare preferibile, poiché consentirebbe alla parte privata lesa di partecipare al giudizio di fronte alla Corte, mentre, nel caso del conflitto, sono ancora incerti i criteri di ammissibilità dell’intervento delle parti private.

Le ragioni che – secondo la Corte - impediscono la sindacabilità dei regolamenti rendono impossibile anche il ricorso alle disposizioni regolamentari come parametri interposti per valutare la correttezza degli atti posti in essere sulla base delle norme regolamentari. A questa conclusione depone in particolare il principio dell’autonomia parlamentare. Se, infatti, la Corte avesse escluso il sindacato sul regolamento solo in quanto fonte diversa dalle leggi e dagli atti aventi forza di legge, si sarebbe almeno potuto ragionare dell’uso del regolamento quale parametro interposto nel giudizio di costituzionalità, come suggerito da autorevole dottrina[39].

E’ noto, invece, come la Corte, sia pure con qualche incertezza[40], abbia sempre mantenuto fermo quanto affermato nella sentenza n. 9 del 1959 con riferimento alla violazione di norme procedimentali per la formazione delle leggi: solo la violazione dell’art. 72 cost. può essere rilevata nel giudizio di costituzionalità, non anche il contrasto con disposizioni regolamentari. E se, in altri casi, la Corte ha utilizzato il regolamento nel giudizio di legittimità della legge, lo ha fatto solo per valutarne il rispetto (v. in particolare sentenze nn. 292 del 1994 e 78 del 1984)[41].

La posizione assunta dalla Corte merita alcune osservazioni.

Anzitutto, il criterio distintivo utilizzato dalla Corte si può prestare ad alcune incertezze. Come sottolineato in alcuni recenti contributi[42], talvolta non è chiaro se la violazione della disposizione regolamentare comporti anche una lesione dell’art. 72 cost. Si pensi al disposto costituzionale secondo cui il progetto di legge, prima di giungere in assemblea, deve essere esaminato da una commissione: se questo esame non viene concluso, se il tempo lasciato alle commissioni risulta irrisorio alla luce di quanto prescritto nei regolamenti, vi è, o meno, una violazione della Costituzione? In questi casi, l’accertamento della violazione della disposizione costituzionale difficilmente potrà prescindere da una analisi di ciò che il regolamento prescrive.

PiĂą in generale, poi, il criterio utilizzato dalla Corte appare limitativo.

Da una parte, come si deduce anche da quanto già detto, sembra corretto che la Corte rispetti l’autonomia del parlamento, intesa come spazio di libertà della politica da regole giuridiche. Il principio che verrebbe compromesso da un sindacato esteso al rispetto di tutte le disposizioni regolamenti parlamentari è quello della possibilità (se nessuno si oppone) di derogare puntualmente ad alcune disposizioni regolamentari, senza con ciò comprometterne l’efficacia[43]. E la Corte, giustamente, reputa una conseguenza eccessiva l’annullamento di una legge per solo vizio formale, senza che sia stato compromesso un interesse sostanziale.

Dall’altra parte, il principio così enunciato non sembra discendere tanto dalla distinzione tra violazione della Costituzione e violazione del regolamento. Potrebbero verificarsi casi in cui un interesse sostanziale sia leso da una disposizione regolamentare[44].

Pertanto, se la posizione della Corte appare condivisibile con riferimento proprio al giudizio in via incidentale, dove può apparire eccessivo che un soggetto estraneo alle Camere denunci il mancato rispetto di una disposizione regolamentare senza che ciò abbia direttamente inciso su un suo interesse sostanziale, questa chiusura appare insoddisfacente se riferita a tutti gli altri tipi di giudizio e, in particolare, al conflitto fra poteri.

Una versione “attuale” del principio di autonomia dovrebbe infatti indurre a riflettere sull’opportunità – già avanzata in dottrina[45] - di ammettere il ricorso al conflitto di attribuzioni fra poteri quando la violazione di una disposizione regolamentare lede la posizione costituzionale di un soggetto interno alle Camere.

Non tutte le disposizioni regolamentari assurgerebbero a “parametro interposto” del conflitto, ma solo quelle che, in attuazione della Costituzione, definiscono i rapporti tra organi titolari di una attribuzione costituzionale. Tuttavia, anche con tale precisazione, non mancano gli ostacoli.

E’ opportuno ricordare che potrebbe non essere facile dimostrare che un organo interno alle Camere è potere dello Stato.

La Corte, recentemente (cfr. ordinanza n. 79 del 2006, su cui v. anche § 7), mossa dall’intento di evitare che, attraverso il conflitto, si costituiscano surrettiziamente nuovi giudizi costituzionali, ha ribadito che è necessaria la “previsione della titolarità di uno specifico potere da parte della Costituzione”. Forse preoccupata dell’eccessivo ricorso al conflitto, la Corte adotta un atteggiamento più restrittivo nella definizione dei poteri, ritenendo che tali siano solo coloro cui la Costituzione direttamente e specificamente attribuisce una funzione.

Se questo orientamento fosse confermato, per esempio, i parlamentari che rappresentano un quinto dei componenti della Camera dovrebbero poter promuovere un conflitto, qualora sia respinta la loro richiesta di rimettere la discussione e la votazione di un disegno di legge all’Assemblea, perché questa attribuzione gli è demandata direttamente dall’art. 72 cost. Più problematico sarebbe, invece, dimostrare l’ammissibilità di un conflitto proposto dall’opposizione o da una minoranza, poiché non vi sono – nella Costituzione vigente – disposizioni che attribuiscono espressamente a tali soggetti funzioni determinate. In altri termini, proprio in una delle ipotesi in cui è maggiormente sentita la necessità di un controllo imparziale sull’applicazione del regolamento, quello della tutela delle prerogative delle minoranze o dell’opposizione, sarebbe difficile argomentare la legittimazione al conflitto. E ciò nonostante il fatto che l’art. 64 cost. richieda una maggioranza qualificata per l’adozione del regolamento dimostri che la tutela delle minoranze costituisce un interesse per l’ordinamento[46].

Pur ritenendo opportuno che, in relazione a determinate situazioni, la Corte intervenga a dirimere i conflitti tra organi interni alle Camere, appare difficile immaginare che, oggi, essa decida di aprire indiscriminatamente a conflitti di questo tipo. Proprio nella già citata ordinanza n. 79 del 2006, nel negare che il partito politico sia potere dello Stato, si osserva che “il riconoscimento ai partiti politici di poteri costituzionali - … - finirebbe con l’introdurre un nuovo tipo di giudizio costituzionale, avente ad oggetto, la procedura di elezione delle Assemblee, e persino il procedimento di approvazione delle leggi”. Pur tenendo conto della distinzione tra partito politico e minoranza parlamentare, la volontà di non aprire a controlli di questo genere non potrebbe essere espressa più chiaramente.

A diverse conclusioni si potrebbe forse giungere qualora fosse approvata la proposta di modifica della seconda parte della Costituzione, che espressamente demanda la regolazione dei rapporti tra maggioranza e opposizione ai regolamenti[47].

In conclusione, sia con riferimento alla sindacabilitĂ  delle disposizioni regolamentari, sia in merito alla possibilitĂ  di invocare il rispetto di esse, resta lÂ’impressione che davvero residui siano gli spazi per un intervento della Corte costituzionale, anche in giudizi diversi da quello in via incidentale, restando ancora prevalente il principio dellÂ’autonomia dellÂ’organo politico.

 

4.2. Le leggi di organizzazione

 

Le leggi “di azione”, a differenza di quelle di relazione, non regolano i rapporti tra amministrazione e cittadino o fra cittadini, ma sono norme strumentali volte a definire l’organizzazione e il funzionamento dei pubblici poteri[48].

Non è frequente che le leggi di organizzazione possano essere impugnate nel giudizio in via incidentale[49].

Ciò può accadere solo nel caso in cui tale legge violi una competenza costituzionalmente stabilita. In questa ipotesi, se nel giudizio a quo viene impugnato un provvedimento lesivo di una posizione giuridica soggettiva, adottato sulla base della disposizione legislativa incostituzionale, il giudice può sollevare la questione di legittimità costituzionale della norma attributiva della competenza, denunciandone la lesione con principi costituzionali di organizzazione.

Se invece la lesione delle disposizioni costituzionali di organizzazione non hanno immediati riflessi pregiudizievoli su posizioni soggettive, le sede idonea a far valere il rispetto della Costituzione è il conflitto di attribuzione fra poteri. La Corte ormai ammette che il conflitto possa avere ad oggetto anche una legge, purché vi sia una stretta consequenzialità “tra la sfera di attribuzioni pregiudicata dalla legge e il suo “ripristino” per il tramite dell’intervento demolitorio della Corte”[50].

Sono dunque due le condizioni perché un conflitto di tal genere sia ammissibile: in primo luogo, dall’atto di rango legislativo devono derivare lesioni dirette all'ordine costituzionale delle competenze; in secondo luogo, non deve esistere un giudizio nel quale tale atto deve trovare applicazione (ordinanza n. 343 del 2003).

Con ciò la Corte conferma che non è necessario “forzare” i presupposti per il promuovimento della questione in via incidentale: se manca il giudizio, poiché la legge non incide su una situazione giuridica soggettiva, significa che la legge è incostituzionale poiché lede una disposizione organizzativa, e, quindi, il rimedio è costituito dal conflitto[51]. Ovviamente, la distinzione non è semplice, poiché si può sospettare dell’incostituzionalità di una legge che, insieme, lede le competenze costituzionali di un potere dello Stato, ma può anche trovare concreta applicazione in un giudizio. In questi casi, la Corte ha dimostrato chiaramente di considerare il conflitto lo strumento residuale (cfr. sentenza n. 284 del 2005[52]).

Il discorso sin qui condotto vale anche per le leggi costituzionali e di revisione costituzionale che possono essere oggetto di impugnazione di fronte alla Corte costituzionale qualora ledano un principio supremo (sent. n. 1146 del 1988). Si è argomentata la possibilità di individuare anche dei principi supremi di organizzazione[53]. E’ tuttavia difficile che una legge di revisione costituzionale che incide sulla seconda parte della Costituzione sia rilevante in un giudizio comune. E’ accaduto che la Corte accogliesse la questione poiché la legge costituzionale (in particolare, lo Statuto della Regione siciliana) violava il principio di unità della giurisdizione costituzionale (sentenza n. 6 del 1970). In altre occasioni, la Corte si è pronunciata sulla non incompatibilità con il principio della riserva della giurisdizione allo Stato di alcune norme del Concordato che devolvono la decisione di controversie ad organi giurisdizionali non statali (sentenze nn. 30 del 1971, 175 del 1973 e 18 del 82). Ma, a parte questioni aventi ad oggetto norme strumentali alla tutela dei diritti, è difficile immaginare altri casi in cui la legge di rango costituzionale possa assumere rilievo nel giudizio in via incidentale.

Infine, alle medesime conclusioni si giunge anche con riferimento alle norme di organizzazione contenute negli Statuti regionali. Anche qui è opportuno distinguere l’ipotesi in cui lo Statuto venga in rilievo come oggetto o come parametro.

EÂ’ difficile immaginare che la questione di costituzionalitĂ  abbia ad oggetto una disposizione statutaria, eppure si tratta di una ipotesi da non escludere, anche dopo che la riforma costituzionale del 1999 ha fatto assumere allo Statuto una posizione peculiare nel sistema delle fonti. Incidentalmente anche la Corte, nellÂ’escludere lÂ’intervento del singolo consigliere regionale nel giudizio di impugnazione dello Statuto, ha lasciato intendere che, superato lÂ’eventuale ricorso governativo e/o lÂ’eventuale referendum, il giudice potrĂ  sollecitare il controllo di costituzionalitĂ  su una disposizione statutaria (sent. n. 378 del 2004 ).

Pertanto, mentre la Corte ha escluso che una disposizione statutaria possa essere impugnata dallo Stato nel giudizio in via principale, poiché ciò consentirebbe al Governo di eludere i termini previsti all’art. 123 cost.[54], ben può un soggetto diverso dallo Stato sollecitare il controllo di costituzionalità in via incidentale.

Rari sono anche i casi in cui la disposizione statutaria può assurgere al rango di parametro interposto del giudizio di costituzionalità in via incidentale[55]. Oltre a quanto già osservato sulle norme di organizzazione, si ricordi che – secondo la Corte - proposizioni in tema di diritti che rientrano tra i “Principi generali” e le “Finalità principali” non costituiscono contenuto “necessario”, bensì solo “eventuale” degli Statuti, in quanto fonti “a competenza riservata e specializzata”. Inoltre, disposizioni di questo tipo “esplicano una funzione, per così dire, di natura culturale o anche politica, ma certo non normativa”[56]. E se una disposizione non ha valenza normativa non si potrà certo pretendere che sia garantita in sede giudiziaria.

 

5. Zone dÂ’ombra o autoesclusione della Corte costituzionale in relazione al controllo dei rapporti tra ordinamenti?

5.1. Ordinamento interno e ordinamento comunitario

 

Uno dei temi più studiati dalla dottrina costituzionalistica è quello dei rapporti tra ordinamento interno e ordinamento comunitario, con particolare attenzione al ruolo della Corte costituzionale nel controllare il rispetto delle reciproche interferenze.

Molti hanno ritenuto che spetti allÂ’organo di giustizia costituzionale garantire, da una parte, lÂ’osservanza della Costituzione da parte del diritto comunitario, che diventerebbe oggetto del controllo di costituzionalitĂ , dallÂ’altra, il rispetto da parte del diritto interno dei vincoli comunitari, che assumerebbero la posizione di parametro.

E’ noto – e qui non è il caso di ripercorrere l’intenso dibattito dottrinale – che la Corte ha assunto una posizione marginale nell’esercitare tali controlli.

Per quanto concerne la possibilità di esercitare un sindacato sul contenuto del diritto comunitario, la Corte, muovendo da una impostazione dualista, ha escluso che un atto di un ordinamento esterno possa essere oggetto del sindacato di costituzionalità. Solo qualora si dubiti della conformità di un atto comunitario ai principi supremi della Costituzione (cd. controlimiti), è possibile sollecitare il suo intervento: ma, in questo caso, sottoposta al sindacato di costituzionalità è la legge italiana che ha dato esecuzione al Trattato istitutivo (cfr. sentenze nn. 98 del 1965, 183 del 1973, 170 del 1984, ma soprattutto 232 del 1989).

Non vi sono state decisioni in cui la Corte ha accertato la violazione di principi supremi dellÂ’ordinamento costituzionale da parte di atti comunitari. Tuttavia, la teoria dei controlimiti, elaborata per arginare la penetrazione del diritto comunitario, nel caso in cui esso avesse in qualche modo messo in discussione il contenuto di diritti fondamentali, potrebbe in futuro – se venisse ratificato il  Trattato che istituisce una Costituzione per lÂ’Europa - assolvere ad una diversa, ma utile, funzione, nel processo di integrazione europea. La dottrina ha richiamato lÂ’attenzione sulla possibilitĂ  che, grazie allÂ’affermazione contenuta nel Trattato, la teoria dei controlimiti possa essere rielaborata in chiave non difensiva, bensì positiva.

Più complessa, o quantomeno più travagliata, è stata la definizione della posizione della Corte in ordine al controllo di conformità delle leggi interne al diritto comunitario. La decisione che ancora oggi ne costituisce il caposaldo è la n. 170 del 1984, in cui la Corte esclude che il contrasto tra ordinamento interno e ordinamento comunitario si risolva in un problema di costituzionalità. Questa decisione non si fonda tanto sull’impianto dualista - dato che oggetto della questione di costituzionalità sarebbe una norma di diritto interno, mentre l’atto comunitario assurgerebbe a parametro interposto della questione di costituzionalità -, quanto sul primato del diritto comunitario, inteso come applicabilità del diritto comunitario a preferenza di quello nazionale.

Sono due le eccezioni a questo schema. Anzitutto, vi è la possibilità, alquanto problematica[57] e discutibile[58], di impugnare nel giudizio in via principale leggi contrastanti con il diritto comunitario, in quanto non esiste un giudice in grado di operare il controllo (sentenze nn. 384 del 1994 e 94 del 1995). In secondo luogo, si può – anche se si tratta di ipotesi residuali[59] - sollecitare il sindacato di costituzionalità quando la norma interna contrasta con il diritto comunitario non direttamente applicabile, ossia direttive non self-executing, indipendentemente dal fatto che esse siano, o meno, già scadute[60], o principi comunitari[61] (cfr. sentenza n. 286 del 1986[62]).

Per quali ragioni la Corte ha adottato questa interpretazione?

Il primo motivo consiste nel fatto che essa, non volendo essere obbligata a rinviare le questioni pregiudiziali alla Corte di Giustizia[63], ha preferito evitare interferenze con lÂ’organo comunitario, inevitabili nel momento in cui si fosse occupata in qualche modo del contenuto del singoli atti comunitari.

In secondo luogo, non ha voluto impedire lÂ’immediata applicabilitĂ  delle norme comunitarie.

La conseguenza di questa impostazione è che la Corte ha preferito riservarsi solo il controllo del “rispetto da parte dell’Italia del sistema dell’integrazione comunitaria (“costituzionalizzato” per il tramite dell’art. 11)”.[64] Il discrimine è costituito dunque dal parametro: “se si tratta di interpretare e applicare non le norme della Costituzione, ma quelle del diritto comunitario, la sede propria non è la Corte costituzionale, ma la Corte di giustizia”[65].

Un elemento che avrebbe le potenzialità di scardinare l’impianto così faticosamente costruito è la formulazione introdotta, dalla l. cost. n. 3 del 2001, all’art. 117, comma primo, Cost., dove si stabilisce che la potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle Regioni nel rispetto dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario (a meno di ritenere, ovviamente, che l’art. 117, comma 1, cost. non abbia la capacità di incidere sul tema in oggetto in quanto norma relativa ai rapporti tra gli ordinamenti, e non tra le fonti[66]).

Il quesito potrebbe essere così sintetizzato: l’art. 11 cost. ammette che l’adesione all’Unione europea comporti delle limitazioni di sovranità e, pertanto, tale disposizione costituzionale consente esclusivamente di sollecitare il controllo della Corte costituzionale in ordine alle conseguenze di tali limitazioni sulle garanzie costituzionali; l’art. 117, comma 1, cost. introduce, invece, un nuovo parametro idoneo ad estendere il sindacato della Corte costituzionale a tutte le norme interne contrastanti con l’ordinamento comunitario?

Già da come è stato posto l’interrogativo, si deduce che alle due disposizioni non è attribuito identico significato, poiché, mentre l’art. 11 cost. autorizza le limitazioni di sovranità, l’art. 117 cost. riconosce le conseguenze che derivano da tali limitazioni[67].

Anche ammettendo una portata innovativa all’art. 117, comma 1, cost. sul sistema delle fonti, non sembra, tuttavia, che esso sia in grado di mettere in discussione l’impianto sino ad oggi seguito, e ciò soprattutto perchè non sono venute meno le ragioni che lo hanno determinato.

In altri termini, pur avendo un significato diverso da quello dell’art. 11 cost., l’art. 117, comma 1, cost. per certi versi “fotografa” l’esistente, ossia la prevalenza delle norme comunitarie su quelle interne, quale conseguenza delle limitazioni di sovranità autorizzate dall’art. 11 cost. Già in passato tale prevalenza avrebbe potuto essere garantita dalla Corte costituzionale, ma essa, per i motivi che sono stati sinteticamente individuati, ha consapevolmente demandato il compito ai giudici. Questa scelta non deve essere necessariamente essere messa in discussione oggi. Al limite, ci si può chiedere se mutano i termini e la sostanza della “non applicazione”[68].

Oltretutto, dato il numero degli atti comunitari, la scelta di trasformare tutti i problemi di compatibilitĂ  con il diritto comunitario in questioni di legittimitĂ  costituzionale[69] avrebbe presumibilmente effetti devastanti sul carico di lavoro dellÂ’organo di giustizia costituzionale.

Resta ovviamente alla Corte il compito di verificare la compatibilitĂ  delle disposizioni interne con il diritto comunitario non direttamente applicabile e, in particolare, con i principi comunitari.

Può essere interessante ricordare che questa interpretazione dell’art. 117, comma 1, cost. sembra prevalere anche in giurisprudenza.

Ciò è dimostrato dal fatto che davvero rari sono i casi di contrasto tra diritto interno e diritto comunitario che i giudici trasformano in questioni di legittimità costituzionale, invocando l’art. 117, comma 1, cost. come parametro[70]: il che dimostra come essi continuino a risolvere autonomamente tali conflitti. Anche la Corte di cassazione ha affermato che l’art. 117, comma 1, cost., almeno sotto questo profilo, non ha portata innovativa[71].

Per quanto concerne la giurisprudenza costituzionale, si attende ancora un intervento chiarificatore sul punto. Merita tuttavia di essere segnalata l’ordinanza n. 434 del 2005. Il parametro invocato dal giudice rimettente era l’art. 117, comma 1, cost. (insieme all’art. 11 cost.), poiché le norme oggetto erano ritenute in contrasto con un articolo della Carta sociale europea (già ratificata e resa esecutiva con legge). La Corte dichiara inammissibile la questione per difetto di motivazione sulla rilevanza, lasciando però intendere la propria competenza ad entrare nel merito della questione, avente ad oggetto il contrasto tra norme interne e principi comunitari.

Si può dunque concludere nel senso che, pur non mutando radicalmente i criteri per la risoluzione dei contrasti tra ordinamento interno e ordinamento comunitario, la Corte potrebbe cogliere l’occasione per estendere il proprio giudizio in caso di contrasto tra norme interne e principi comunitari non immediatamente applicabili, dove, cioè, più ampia è la valutazione discrezionale da compiere.

 

5.2. Ordinamento interno e ordinamento internazionale

 

Analogamente a quanto osservato nel paragrafo precedente, anche il tema dei rapporti tra ordinamento interno e ordinamento internazionale potrebbe subire delle conseguenze grazie alla modifica introdotta allÂ’art. 117, comma 1, cost.

Prima di essa, la giurisprudenza costituzionale era consolidata nel distinguere nettamente lo status delle norme di diritto internazionale generalmente riconosciute dalle norme di diritto internazionale pattizio.

Quanto alle prime, la Corte, giĂ  con la sentenza n. 67 del 1961, ha affermato la propria competenza a verificare la compatibilitĂ  del diritto interno con le consuetudini internazionali. Successivamente, con le decisioni nn. 48 del 1979 e 15 del 1996, ha sancito la natura costituzionale di tali fonti e, di conseguenza, ha implicitamente negato la necessitĂ  di ricorrere allo schema delle norma interposta[72].

Quanto alla consuetudine internazionale come oggetto, è ovviamente impossibile che possa essere sollevata una questione di costituzionalitĂ  su un fatto, tuttavia la Corte ha ammesso di poter sindacare il contenuto della consuetudine, negando che essa possa incidere sui principi fondamentali della Costituzione (decisioni nn. 54 del 1979 e 15 del 1996).  

Per quanto concerne il diritto internazionale convenzionale, nessun problema sorge nel porre le norme di diritto internazionale pattizio ad oggetto della questione di costituzionalitĂ , dal momento che esse sono recepite con legge ordinaria (sentenza n. 73 del 2001).

Più complesso e dibattuto è il problema relativo alla possibilità di utilizzare il diritto internazionale pattizio come parametro. Pur avendo la Corte sempre escluso l’assimilazione di tali norme a quelle consuetudinarie (tra le tante, cfr. decisioni nn. 32 del 1999 e 224 del 2005), il tema è rimasto di grande attualità, soprattutto con riferimento alle Carte in tema di protezione dei diritti e, in particolare, alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo (più precisamente, alle leggi interne di esecuzione di tali accordi).

Nonostante la chiusura della Corte, le disposizioni di diritto internazionale pattizio vengono ancora invocate dai giudici o come parametro interposto ex art. 10 o 11 cost.[73]; o direttamente come parametro, da sole o insieme ad altri principi costituzionali[74]; o per interpretare disposti costituzionali[75].

Per parte sua, la Corte ha sempre confermato che gli artt. 10 e 11 cost. esorbitano dal diritto internazionale pattizio. Quando il giudice invoca la disposizione di diritto internazionale convenzionale insieme ad altri parametri, essa decide la questione solo in base alle norme costituzionali invocate (sentenza n. 78 del 2002) o richiamando le norme internazionali come ulteriore argomento a supporto di decisione presa in base ad altro parametro (sentenza n. 135 del 2002). Da segnalare, infine, il fatto che la Corte non solo avalli, ma addirittura solleciti, lÂ’interpretazione del diritto interno in modo conforme al diritto internazionale (cfr. ordinanze nn. 315 e 487 del 2002 e 68 del 2003).

Nonostante l’apprezzabile tentativo della Corte di inserire le norme internazionali di protezione dei diritti umani nelle proprie argomentazioni, la chiusura in merito alla valutazione della compatibilità tra norma interna e norma convenzionale è spesso considerata insoddisfacente, al punto che si registrano casi di diretta applicazione, da parte dei giudici, di disposizioni della CEDU con conseguente non applicazione delle norme interne[76].

Pertanto, la domanda in merito agli eventuali effetti innovatori dellÂ’art. 117, comma 1, cost. diventa oltremodo interessante. In particolare, si tratta di verificare se la modifica costituzionale incida non tanto sulle modalitĂ  di recezione degli atti internazionali[77], quanto sul modo di risolvere lÂ’eventuale contrasto tra norma interna e norma di diritto internazionale pattizio, conclusa secondo il procedimento di cui allÂ’art. 80 cost.[78].

Non è facile prevedere quali conseguenze trarrà la Corte dal nuovo disposto costituzionale. Fino ad ora essa ha potuto evitare di entrare nel merito della questione (in un caso i giudici avevano invocato l’art. 117, comma 1, cost. con riferimento ad una disposizione contenuta in un trattato internazionale ratificato con legge, ma la Corte ha dichiarato la questione inammissibile per altri profili: cfr. sentenza n. 161 del 2004).

Certamente qui non sussistono le ragioni che, presumibilmente, indurranno la Corte a non mettere in discussione l’impianto faticosamente costruito in merito ai rapporti tra diritto interno e diritto comunitario (cfr. retro § 5.1). Al contrario, proprio il raffronto con quella giurisprudenza potrebbe indurre ad adottare, per l’ordinamento internazionale pattizio, una soluzione parzialmente diversa.

Con riferimento al diritto comunitario la Corte è stata mossa soprattutto dalla necessità di dare diretta applicazione a norme di un ordinamento esterno che contengono precetti precisi. Nel caso in cui, invece, si tratta di verificare la conformità della legge interna ad un principio o ad una disposizione non direttamente applicabile, essa si riserva il controllo di costituzionalità.

Se questa è la soluzione adottata per il diritto comunitario, a maggior ragione appare opportuno che la Corte, attraverso l’art. 117, comma 1, cost., recuperi il controllo sulla conformità del diritto interno ai principi contenuti in trattati internazionali. Lo Stato italiano, con la legge di autorizzazione e l’ordine di esecuzione, ha già dimostrato di volerli rispettare. La Corte stessa ha affermato che la legge di esecuzione non può essere abrogata o modificata da una legge successiva (sentenza n. 10 del 1993)[79]. Se ciò però avviene, se, cioè, la legge di esecuzione del trattato è in qualche modo violata, a chi spetta sancire l’invalidità della norma interna se non alla Corte? Fino ad oggi mancava un preciso parametro costituzionale, e ciò ha dato luogo alle incertezze segnalate. Ora che il rapporto tra legge di autorizzazione e di esecuzione e legge interna è stato costituzionalizzato, nulla impedisce il ricorso allo schema della norma interposta per trasformare il problema di compatibilità con il trattato internazionale in una questione di costituzionalità.

 

 

 

6. Il referendum abrogativo: un problema risolto solo teoricamente

 

Il tema della “giustizibilità” nel giudizio in via incidentale del referendum abrogativo concerne in primo luogo la possibilità di sottoporre al controllo della Corte costituzionale l’atto di abrogazione adottato per referendum, attraverso l’impugnazione del decreto del Presidente della Repubblica che, a norma dell’art. 37, l. n. 352 del 1970, dichiara l’avvenuta abrogazione della legge o dell’atto avente forza di legge e determina l’effetto abrogativo.

Il referendum è atto di rango “primario”. I problemi in merito all’ammissibilità di un tale giudizio riguardano l’imputabilità dell’atto al corpo elettorale, e non allo Stato, secondo quanto previsto dall’art. 134 cost.[80], e, soprattutto, i vizi suscettibili di essere presi in considerazione. Con riferimento a questi ultimi, l’impugnazione del decreto non potrebbe essere volta a contestare o rivedere i vizi di ammissibilità già valutati dalla Corte, poiché ciò contrasterebbe con il divieto di impugnazione delle decisioni della Corte ex art. 137, comma 3, cost., né a proporre in via preventiva e astratta eventuali questioni di costituzionalità relative a vizi sostanziali nella normativa di risulta.

L’unico vizio contestabile potrebbe essere di tipo procedurale, in relazione alla fase svoltasi successivamente al giudizio di ammissibilità. Ma, anche in questo caso, dovrebbe trattarsi di un vizio “costituzionale”, poiché altre irregolarità procedurali trovano tutela di fronte alla giustizia comune.

Più studiato è il profilo attinente alla “giustiziabilità” del risultato referendario rispetto a leggi successive che pretendessero di superarlo.

La Corte stessa ha affermato la sussistenza di un vincolo giuridico, e non solo politico, al rispetto dell’esito referendario[81]. Essa ha espressamente parlato di un “divieto di formale o sostanziale ripristino della normativa abrogata”[82], ben potendo, invece, il legislatore “correggere, modificare o integrare la disciplina residua” (sentenze nn. 468 del 1990, 32 e 33 del 1993).

Il problema consiste nellÂ’individuare gli strumenti idonei a sanzionare la violazione di questo divieto.

La Corte costituzionale ha espressamente escluso che, una volta terminato, con le votazioni, il procedimento referendario, il comitato promotore possa ergersi a “custode” del risultato abrogativo[83]. E ha così dichiarato inammissibile il conflitto promosso dal comitato promotore avente ad oggetto la legge che reintroduceva disposizioni abrogate (ordinanza n. 9 del 1997).

Proprio in questa occasione essa ha però suggerito la via del giudizio di legittimità in via incidentale. In tal modo il referendum - che, anche secondo la Corte, è parificato alle fonti primarie - assumerebbe il valore di norma interposta nel giudizio di costituzionalità, in quanto la violazione dell’esito della votazione importerebbe una lesione degli artt. 1 e 75 cost.[84].

Parte della dottrina ha criticato tale soluzione poiché il vizio, consistente nella lesione del diritto politico di tutti i cittadini che hanno votato per l’abrogazione[85], potrebbe essere rilevato solo da colui che è parte in un processo in cui deve essere applicata la nuova disposizione. Sarebbe uno di quei casi di dissociazione (qui, magari, anche solo di non coincidenza) tra titolarità del potere di accesso e titolarità della posizione soggettiva tutelata dalla disposizione costituzionale. Si può tuttavia obiettare che, portando questa osservazione a estreme conseguenze, si dovrebbe giungere a negare che il singolo possa contestare la violazione di disposizioni che regolano, per es., il rapporto tra le fonti, solo perché questo non provoca una immediata lesione di una sua posizione soggettiva. In realtà, il rispetto della Costituzione è comunque interesse dell’ordinamento, come dimostra chiaramente il fatto che il giudizio può essere instaurato d’ufficio e prosegue anche senza la costituzione delle parti. La tipologia dei vizi solo in seconda battuta determina la scelta del giudizio di fronte alla Corte: se, infatti, la disposizione legislativa è in qualche modo impugnabile nel giudizio in via incidentale, questa resta in linea di principio la sede più idonea, in caso contrario, si potrà verificare se la natura del vizio consenta l’impugnazione di quella disposizione con altro tipo di ricorso.

Teoricamente non vi sono dunque ostacoli allÂ’utilizzo dellÂ’esito referendario come parametro interposto. SarĂ  interessante vederne qualche applicazione concreta.

 

7. Una zona franca: le leggi elettorali di Camera e Senato

 

La difficoltà, o, meglio l’“impossibilità”, di sottoporre al controllo di costituzionalità le leggi in materia elettorale relative alle elezioni di Camera e Senato deriva dal fatto che, nel nostro ordinamento[86], la verifica dei poteri è affidata dalla Costituzione alle Camere. Secondo l’art. 66 cost., “ciascuna Camera giudica dei titoli di ammissione dei suoi componenti e delle cause sopraggiunte di ineleggibilità e di incompatibilità”.

La scelta fatta dai Costituenti pone due problemi distinti, tra loro parzialmente collegati.

Anzitutto, essa merita delle considerazioni di ordine generale. Ci si può chiedere cioè se sia ancora opportuno mantenere questo tipo di giudizio esclusivamente in capo alle Camere, oppure se, come spesso proposto[87], sia giunto il momento di procedere ad una riforma costituzionale[88], in modo da coinvolgere la Corte costituzionale o ammettere la competenza della giurisdizione comune[89]. Si tratta di proposte che, anche alla luce di recenti vicende, appaiono certamente auspicabili. Non solo nella legislatura appena conclusa, la giunta per le elezioni della Camera, incapace di trovare una soluzione giuridica o politica all’assegnazione dei seggi rimasti vacanti, ha deciso di non procedere all’assegnazione di tutti i seggi[90], ma si è ripetuto un fatto davvero anomalo: non è stata annullata l’elezione di un deputato, nonostante si fosse accertato che la proclamazione era stata determinata da un mero errore materiale del Presidente di sezione[91]. Il sistema maggioritario (per cui l’annullamento di una elezione determina automaticamente la proclamazione del candidato dello schieramento opposto) ha acuito la sensazione che, venuta meno la ragione originaria dell’istituto, l’attribuzione della verifica dei poteri alle Camere possa prestarsi ad abusi ingiustificati. Se, come osservato da Leopoldo Elia, “l’elemento decisivo per spossessare il Parlamento di questa sua prerogativa è una spinta alla giurisdizionalizzazione, che ben difficilmente può scompagnarsi dalla coscienza di abusi più o meno gravi compiuti in sede di verifica parlamentare”[92], allora forse è davvero opportuno riflettere nuovamente su questi temi. Del resto, non si può dimenticare quanto recentemente affermato anche dalla Corte costituzionale, nell’escludere che il contenzioso elettorale possa essere demandato ai Consigli regionali: “sottrarre alla giurisdizione, per riservare esclusivamente all’Assemblea degli eletti, della quale fanno parte i soggetti portatori di interessi anche individuali coinvolti, il giudizio sulle cause di ineleggibilità e di incompatibilità, significherebbe negare il “diritto al giudice”, e ad un giudice indipendente ed imparziale, sancito dalla Costituzione e garantito anche a livello internazionale dalla convenzione europea dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali” (sentenza n. 29 del 2003).

In questo quadro più generale, si inserisce poi il tema, più specifico e oggetto del presente intervento, della sindacabilità da parte della Corte costituzionale delle leggi in materia elettorale (ossia quelle che stabiliscono le cause di ineleggibilità e incompatibilità e disciplinano il procedimento e il sistema elettorale). Si tratta di un profilo distinto, ma strettamente connesso a scelte di ordine più generale, poiché le vie di accesso alla Corte dipendono dall’affermazione della natura giurisdizionale o politica del giudizio elettorale: in altre parole, se si demandasse il contenzioso elettorale ai giudici comuni, non vi sarebbero difficoltà a sollevare questioni di legittimità costituzionale in via incidentale aventi come oggetto leggi in materia elettorale (come, del resto, avviene – sia pure con soluzioni che possono risultare incongrue[93] - per le leggi elettorali di comuni, province, regioni e parlamento europeo), ma anche qualora si decidesse di introdurre un sistema “misto”, suddiviso cioè tra Camere e Corte, si potrebbe ipotizzare che l’organo di giustizia costituzionale sollevi di fronte a se stesso una questione di legittimità costituzionale.

Gli ostacoli più grossi nel portare di fronte alla Corte costituzionale una questione avente ad oggetto una disposizione che disciplina la materia elettorale si hanno invece proprio quando – come nel sistema attuale - il giudizio è esclusivamente riservato all’organo politico, poiché, nel corso dell’intero procedimento, non vi è “giudice” a cui ricorrere.

L’art. 87, comma 1, del D.P.R. 30 marzo 1957, n. 361 stabilisce che “Alla Camera dei deputati è riservata la convalida della elezione dei propri componenti. Essa pronuncia giudizio definitivo sulle contestazioni, le proteste e, in generale, su tutti i reclami presentati agli Uffici delle singole sezioni elettorali o all'Ufficio centrale durante la loro attività o posteriormente.”

Questa disposizione è sempre stata interpretata nel senso che spetta alle Camere la decisione in ordine a tutti i reclami presentati a partire dalla pubblicazione del decreto di convocazione dei comizi elettorali emanato dal Presidente della Repubblica, su deliberazione del Consiglio dei Ministri.

Si potrebbe, infatti, ipotizzare unÂ’impugnazione del decreto che dĂ  inizio al procedimento elettorale, ma è difficile dimostrare lÂ’interesse a ricorrere, che  sorge solo con riferimento a specifici provvedimenti adottati dagli uffici elettorali fino alla proclamazione ad opera dellÂ’autoritĂ  elettorale competente, e dalle giunte in seguito.

Deve essere tuttavia segnalata una decisione della Corte costituzionale, che dimostra la possibilità di adottare una soluzione diversa, che, almeno in parte, potrebbe far recuperare uno spazio di intervento alla giurisdizione comune. Con l’ordinanza n. 512 del 2000, è stata decisa una questione di costituzionalità avente ad oggetto proprio l’art. 87 cit., insieme all’art. 16 del medesimo decreto, per violazione degli artt. 24 e 113 cost., nella parte in cui non consentono di agire in giudizio nei confronti della decisione emessa dall’ufficio centrale nazionale sull’opposizione proposta contro il provvedimento del Ministero dell’interno di ricusazione di un contrassegno elettorale presentato per le elezioni politiche. Il Tar Lazio, giudice rimettente, era stato adito per l’annullamento del provvedimento ministeriale, nonostante fosse in assoluto carente di giurisdizione. La Corte, superate diverse eccezioni di inammissibilità per profili processuali[94], ha dichiarato manifestamente inammissibile la questione, poiché “il giudice a quo non indica la giurisdizione alla quale dovrebbe essere devoluta, con sentenza di accoglimento, la cognizione delle controversie di cui si tratta, ritenendo addirittura indifferente che la giurisdizione sia affidata a sé medesimo o ad altro giudice, né identifica le norme procedimentali concernenti i tempi e i modi della invocata tutela giurisdizionale; che di una questione di legittimità vi è, nella specie, soltanto una parvenza, poiché nella sostanza si sollecita una radicale riforma legislativa, che eccede i compiti di questa Corte”. Senza voler forzare questa sintetica motivazione, è utile sottolineare come la Corte non abbia semplicemente fondato l’inammissibilità in quanto la disposizione legislativa è costituzionalmente imposta dall’art. 66 cost., bensì abbia fatto espressamente riferimento alla possibilità che la materia possa essere oggetto di una riforma legislativa. Ciò conferma la correttezza di una interpretazione restrittiva del disposto costituzionale (che, del resto, riserva alle Camere solo il giudizio sui titoli di ammissione e sulle cause sopraggiunte di ineleggibilità e incompatibilità), e alla possibilità che il legislatore ammetta, almeno per quanto concerne la regolarità delle operazioni elettorali preliminari (tra cui il sindacato sulla legittimità del contrassegno, sulla presentazione delle liste, etc.), l’intervento della giurisdizione comune[95].

La previsione legislativa attualmente vigente, secondo cui tutte le controversie che sorgono durante il procedimento elettorale devono necessariamente essere devolute, in ultima istanza, alle Camere e mai ad un giudice, impedisce che disposizioni contenute nelle leggi elettorali di Camera e Senato possano mai essere sottoposte al controllo di costituzionalità (l’unico caso che si ricorda è appunto quello, appena ricordato, proposto da un giudice e relativo proprio alla sua giurisdizione).

Inoltri, si noti bene, né gli uffici elettorali[96], né le giunte[97], si sono mai auto-qualificati giudici, nonostante, almeno con riferimento agli organi parlamentari, autorevole dottrina abbia spesso sostenuto la natura giurisdizionale della procedura seguita e, di conseguenza, la possibilità che le giunte potessero essere qualificate come giudici a quo[98] (cfr. relazione di A. Oddi).

Oltre al tema delle leggi in materia elettorale come oggetto, è interessante verificare quali sono i parametri che in giudizi di questo tipo vengono in rilievo. A tal fine, ci aiuta l’analisi della giurisprudenza costituzionale avente ad oggetto le disposizioni che regolano le elezioni degli organi rappresentativi di regioni ed enti locali.

Il maggior numero di questioni di costituzionalitĂ  hanno ad oggetto le disposizioni che stabiliscono le cause di incompatibilitĂ  (cfr., tra le ultime, decisioni nn. 383 del 2002, 398 del 2002, 404 del 2002, 220 del 2003, 223 del 2003) e di ineleggibilitĂ  (decisioni nn. 131 del 2001, 306 del 2003 e 84 del 2006).

Più rare, ma non certo di minore interesse, sono le questioni relative al sistema elettorale e, in particolare, alla formula con cui i seggi vengono ripartiti. Si ricordi che la Corte, nel giudizio di ammissibilità del referendum, ha ammesso che la scelta del sistema elettorale non è costituzionalmente vincolata (pur essendo la legge elettorale costituzionalmente obbligatoria). Pertanto, a meno che non entri in vigore la riforma costituzionale recentemente approvata (che detta alcune regole sul sistema elettorale)[99], la Corte non può che valutare la ragionevolezza del sistema prescelto alla luce degli artt. 1, 3, 48, 51, 56 e 57 cost.

EÂ’ interessante ricordare come la Corte, con riferimento allÂ’elezione degli organi amministrativi, non si sia sottratta a questo giudizio, valutando la conformitĂ  alla Costituzione delle disposizioni che disciplinano la ripartizione dei seggi (cfr. sentenza n. 429 del 1995, sentenza n. 107 del 1996, ordinanze nn. 305 e 361 del 2004), ma abbia sempre risolto le questioni nel senso della non fondatezza.

Ci si può chiedere come si comporterebbe la Corte se la questione risultasse fondata, tenuto conto che, in sede di ammissibilità del referendum, ha ammesso che una legge che consenta il rinnovo degli organi rappresentativi non può non esserci. Una decisione di accoglimento potrebbe invece determinare un vuoto normativo. Sarebbe necessario verificare se la Corte ha elaborato uno strumento efficace per differire gli effetti delle sue decisioni (ma questo è un tema che riguarda le zone d’ombra del giudizio di costituzionalità relativamente agli effetti delle pronunce).

Alla luce delle difficoltà segnalate affinché una questione di costituzionalità avente ad oggetto la legge elettorale di Camera e Senato giunga all’attenzione delle Corte, resta infine da chiedersi – seguendo il metodo sin qui elaborato – se esistono altri giudizi che possano compensare questa zona d’ombra.

Anzitutto, deve essere citata una recentissima decisione della Corte, l’ordinanza n. 79 del 2006, che, oltre a meritare una riflessione approfondita sulle affermazioni in merito al ruolo costituzionale dei partiti politici e alla definizione di potere dello Stato (su cui retro § 4.1), deve essere ricordata poiché ha escluso che partiti o formazioni politiche possano impugnare, nel conflitto fra poteri, disposizioni contenute nella legge elettorale (nella fattispecie, quelle che dettano i requisiti per la presentazione delle liste). Nel ricorso si faceva espresso riferimento alla residualità del conflitto, eppure la Corte, senza spendere alcuna parola sull’esistenza di altri strumenti di tutela, ha dichiarato l’inammissibilità del ricorso, negando che i partiti politici siano poteri dello Stato. Per sollecitare un controllo della Corte attraverso il conflitto bisognerebbe immaginare – ma appare alquanto difficile - quale altro potere dello Stato possa, nel procedimento elettorale, vedere lese le proprie prerogative: un gruppo di elettori che vedessero non eletto il soggetto che hanno votato? Un certo numero di sottoscrittori delle liste?

Un’altra soluzione, recentemente prospettata con riferimento ad un vizio di incostituzionalità contenuto nella legge elettorale del Senato come modificata dalla l. n. 270 del 2005, consiste nell’impugnazione della legge nel giudizio in via principale. In particolare, si ipotizza che la Regione Valle d’Aosta contesti la mancata considerazione, ai fini del premio di maggioranza, dai voti espressi dai suoi cittadini, poiché tale previsione costituirebbe una violazione del principio di uguaglianza tra le Regioni[100]. A prescindere dal fatto che non si tratta di un rimedio generalizzabile, bensì limitato ad ipotesi davvero residue, questa soluzione muove dall’idea che le leggi elettorali disciplinano l’organizzazione e le attività dei pubblici poteri. Al contrario (e, infatti, la scelta di dedicare una trattazione autonoma al problema della sindacabilità delle leggi elettorali di Camera e Senato non è casuale), si ritiene preferibile sottolineare che esse toccano, in primo luogo, situazioni giuridiche soggettive e, in particolare, il diritto di elettorato attivo e passivo garantito ad ogni cittadino. L’incostituzionalità della legge elettorale del Senato lede il principio di uguaglianza fra le Regioni, ma certamente viola, in prima battuta, il principio di uguaglianza del voto sancito dall’art. 48, comma 2, Cost.[101]. Pertanto, la sede idonea a promuovere la questione di legittimità costituzionale dovrebbe essere il giudizio in via incidentale.

Concludendo su questo punto, è innegabile che una zona franca qui vi sia davvero, ma non tanto a causa delle strettoie del giudizio incidentale, o per orientamenti restrittivi della Corte costituzionale, bensì per preciso disposto costituzionale e, soprattutto, per espressa scelta legislativa.

L’art. 66 cost. consentirebbe di devolvere almeno parte del contenzioso al giurisdizione comune. Spetta al legislatore compiere tale scelta, consentendo così anche l’intervento della Corte costituzionale.

 



[1] EÂ’ interessante notare come il maggior numero delle decisioni della Corte costituzionale rese nel giudizio in via incidentale si risolvano in ordinanze di inammissibilitĂ  per difetti attinenti al requisito della non manifesta infondatezza e, soprattutto, della rilevanza.

[2] A partire dalla sentenza n. 84 del 1996, muovendo dalla distinzione tra giudizio sulla disposizione e giudizio sulla norma, la Corte verifica se la norma impugnata è stata trasfusa in una nuova disposizione e, se necessario, trasferisce direttamente il giudizio sul testo vigente. Ciò accade soprattutto quando viene sollevata una questione di costituzionalità su una norma contenuta in un decreto-legge che, in attesa della decisione, viene convertito in legge. Se invece il decreto legge decade senza conversione, la Corte non ammette la trasferibilità della questione alla legge di sanatoria (recentemente, cfr. ord. n. 443 del 2005).

Il trasferimento della questione è ammesso anche in caso di successione di leggi nel tempo. Talvolta, ciò avviene quando la norma impugnata viene abrogata e riprodotta in un testo unico (cfr., recentemente, ordinanze nn. 299 del 2003 e 149 del 2004), oppure trasfusa in un atto normativo successivo (cfr. sentenze nn. 135 del 2003 e 345 del 2005). In un caso la norma era stata riprodotta in una legge successiva già al momento del promuovimento della questione, ma la Corte ha comunque corretto l’ordinanza di rimessione e trasferito il suo giudizio alla disposizione vigente (sentenza n. 161 del 2005).

[3] Il problema concerne la possibilitĂ  di assumere come parametro solo la Costituzione e le leggi costituzionali vigenti al momento della formazione dellÂ’atto normativo, oppure anche le disposizioni costituzionali sopravvenute. Esso si pose con riferimento agli atti posti in essere nellÂ’ordinamento pre-costituzionale, sia con riferimento a vizi formali, sia con riferimento a vizi materiali. La distinzione relativa alla natura del vizio appare infatti particolarmente importante.

Se il vizio fatto valere riguarda la procedura di formazione dell’atto, è corretto che la Corte operi una valutazione con riferimento alle disposizioni vigenti al momento della sua formazione. La Corte ebbe occasione di occuparsi di questo profilo in alcune risalenti decisioni. In un caso, essa operò un controllo in base a ciò che prevedeva la legge dell’epoca (sentenza n. 129 del 1957), in altri due, aventi ad oggetto deleghe legislative concesse e attuate prima della Costituzione, essa ha escluso di potere operare una valutazione in base a ciò che l’art. 76 cost. prevede, pur assicurando che era ne era comunque rispettato il contenuto minimo (sentenze nn. 53 del 1961 e 164 del 1973). Queste decisioni potrebbero costituire dei precedenti interessanti qualora entrasse in vigore la riforma costituzionale recentemente approvata che modifica profondamente il procedimento di formazione delle leggi. E’ pacifico che le nuove disposizioni avranno rilevanza solo con riferimento alle leggi poste in essere a partire dall’entrata in vigore della nuova disposizione costituzionale. Qualche problema potrebbe forse porre la complicata e progressiva entrata in vigore della riforma.

Diverso impatto ha una modifica della Costituzione che incide sul contenuto sostanziale. In questi casi, la Corte non può sottrarsi dal controllo della disposizione precedente rispetto al parametro sopravvenuto. Ed è ciò che ha fatto sia con riferimento alle disposizioni pre-costituzionali, sia quando si è trattato di valutare disposizioni precedenti alla luce di nuove norme costituzionali. Si ricordi, ad es., il sindacato esercitato su alcune disposizioni contenute nel codice di procedura penale rispetto all’art. 111 cost. come modificato dalla l. cost. n. 2 del 1998, in cui la Corte muta radicalmente la propria giurisprudenza alla luce della riforma (cfr. sentenza n. 440 del 2000 che ribalta l’interpretazione assunta con la sentenza n. 179 del 1994), oppure la decisione, però resa in sede di giudizio di legittimità costituzionale in via principale, in tema di rappresentanza politica “di genere” (sentenza n. 49 del 2003).

Diversamente, è da segnalare che, con riferimento ad una questione avente come parametro l’art. 51 cost. nella precedente formulazione, la Corte ha restituito gli atti al giudice a quo affinché rivalutasse la rilevanza della questione alla luce delle modifiche apportate dalla l. cost.. La decisione è stata dettata dal fatto che il parametro sopravvenuto in questo caso faceva cadere la censura (ordinanza n. 39 del 2005).

[4] Appare opportuno precisare che in questa sede non si intende ripercorrere il tema dell’individuazione dell’oggetto del giudizio di costituzionale nella disposizione o nella norma (o situazione normativa, secondo la definizione preferita da A. Ruggeri – A. Spadaro, Lineamenti di giustizia costituzionale, Torino 2001, 130-132). L’incidentalità del giudizio e l’ineliminabilità del momento interpretativo nell’individuazione della disposizione applicabile al caso concreto da parte del giudice fanno ormai per propendere decisamente per questa seconda soluzione. Non solo. E’ la stessa Corte costituzionale ad imporre al giudice a quo di individuare la norma, e non semplicemente la disposizione, quando solleva la questione di legittimità costituzionale. Uno studio di questo tipo si rivela particolarmente interessante, soprattutto per la stretta implicazione con la dottrina del diritto vivente. Tuttavia, dal momento che il tema del seminario riguarda le “zone d’ombra” del giudizio di costituzionalità, al fine di individuare, appunto, quali atti normativi, e perché, sfuggono al controllo di costituzionalità, sembra più utile prescindere da questa distinzione e prendere in considerazione l’atto oggetto del giudizio di costituzionalità. E ciò in quanto, se un atto “sfugge”, e sistematicamente, al controllo di costituzionalità, non dipende certo dal fatto che esso non sia stato bene interpretato bensì dalla sua natura giuridica o da altri elementi che di tenterà di mettere in luce.

[5] Cfr. G. Zagrebelsky, Corte costituzionale e magistratura: a proposito di una discussione sulla “rilevanza” delle questioni incidentali di costituzionalità sulle leggi, in Giur. cost. 1973, 1190.

[6] Proprio per sopperire alle naturali strettoie del giudizio di costituzionalitĂ , si tentò, ad esempio,  di costruire una nozione piĂą ampia di rilevanza. Cfr. il dibattito innescato dalla nota di G. Zagrebelsky in Giur. Cost. 1968.

[7] Emblematico il tentativo di estendere lo schema della  norma interposta, su cui cfr., nel testo, § 2.

[8] La Corte ha ammesso la legittimazione della Corte dei conti in sede di controllo preventivo a sollevare la questione di legittimitĂ  costituzionale, ma solo qualora si tratti di verificare la conformitĂ  dellÂ’atto avente forza di legge allÂ’art. 81 Cost. La dottrina ha giustamente criticato questa legittimazione limitata per parametro, poichĂ© se un giudice è tale, deve essere legittimato a promuovere tutte le questioni di legittimitĂ  costituzionale e ha sostenuto che la Corte dei conti dovrebbe piuttosto agire in sede di conflitto fra poteri, in quanto  titolare del potere di salvaguardia degli equilibri finanziari: cfr. V. Onida, Legittimazione della Corte dei conti limitata “per parametro” o conflitto di attribuzioni?, in Giur. Cost. 1991, 4169, e, giĂ  prima, Id., Note critiche in tema di legittimazione del giudice a quo nel giudizio incidentale delle leggi (con particolare riferimento alla Corte dei conti in sede di controllo), in Giur. it. 1968, IV, 254 ss.

In questo senso cfr. anche R. Bin, LÂ’ultima fortezza, Milano 1996, 152.

[9] Lo spunto si trova giĂ  in L. Elia, Manifesta irrilevanza della quaestio o carenza di legittimazione del giudice a quo?, in Giur. cost. 1968, 2357.

[10] Sul legame tra “zone franche di incostituzionalità” e conflitto di attribuzioni, cfr. G. Brunelli, Una riforma non necessaria: l’accesso diretto delle minoranze parlamentari al giudizio sulle leggi, in Prospettive di accesso alla giustizia costituzionale, a cura di A. Anzon, P. Caretti, S. Grassi, Torino 2000, 194.

[11] Tra i critici ad un uso eccessivo al ricorso alla norma interposta si ricordino G. Zagrebelsky, La giustizia, cit., …; P. Giocoli Nacci, Norme interposte e giudizio di costituzionalità, in Scritti su la giustizia costituzionale in onore di Vezio Crisafulli, I, Padova 1985, 359. Il dibattito è ampiamente ripercorso in M. Siclari, Le “norme interposte” nel giudizio di costituzionalità, Padova 1992, 95 ss.

[12] Il caso più emblematico è quello delle norme penali di favore, poiché l’irrilevanza deriva necessariamente dal principio di non retroattività delle norme penali di sfavore. Il rischio era quello di sottrarre al giudizio della Corte di una intera categoria di leggi. Com’è noto, la creazione di una vera e propria zona franca dal giudizio di costituzionalità, adombrata in una serie di risalenti decisioni, è stata successivamente scongiurata dalla sentenza n. 148 del 1983, dove, precisando la nozione di rilevanza, si è affermato che questa non dipende dagli effetti materiali della decisione, bensì dagli effetti giuridici (in questo caso sulla ratio decidendi della pronuncia).

Sulle norme penali di favore, cfr. recentemente gli interventi al Seminario di Ferrara del 6 maggio 2005, in Ai confini del “favor rei”. Il falso in bilancio davanti alle Corti costituzionale e di giustizia, a cura di R. Bin – G. Brunelli – A. Pugiotto – P. Veronesi, Torino 2005.

[13] Cfr. C. Mortati, Atti con forza di legge e sindacato di costituzionalitĂ , Milano 1964, spec. 93 ss.

[14] E ciò soprattutto poiché i regolamenti, anche se non fondati su una fonte di rango ordinario, possono pur sempre essere superati da una fonte primaria: cfr. A. Ruggeri – A. Spadaro, op. cit., 122.124.

In generale, contrari ad una estensione generalizzata del sindacato della Corte sui regolamenti si dimostrano: M. Cartabia, Il sindacato della Corte costituzionale sulle norme regolamentari Â…aventi (orami) forza di legge, in Giur. cost. 1994, 469. 

[15] Si noti come la riforma costituzionale approvata dalle Camere non modifica questo profilo.

[16] Cfr. G. Zagrebelsky, La giustizia costituzionale, Bologna 1988, 102 ss.

[17] Cfr., tra le tante, sent. n. 7 del 1966, ord. n. 484 del 1993.

[18] Cfr., sul punto, G. Di Cosimo, Delegificazione e tutela giurisdizionale, in Quad. cost. 2002, 243 ss.

[19] C. Esposito, Diritto vivente, legge e regolamento di esecuzione, in Giur. cost. 1962, 605 ss., e, successivamente, L. Carlassare, voce Regolamento (dir. cost.), in Enc. dir. XXXIX, Milano 1988, 636- 638, A. Pugiotto, La rivincita di Esposito (legge, regolamento e sindacato di costituzionalitĂ ), in Giur. cost. 1995, 588; Id. Sindacato di costituzionalitĂ  e diritto vivente, Milano 1954, 456 ss.

[20] Cfr. le osservazioni di A. Concaro, Brevi riflessioni in merito al sindacato “indiretto” della Corte costituzionale sui regolamenti governativi, in Giur. cost. 1995, 466.

[21] La dottrina ha spesso sottolineato l’improprietà dell’uso, in questa sede, delle nozioni di rinvio “materiale” e “formale”: cfr. A. Ruggeri – A. Spadaro, op. cit., …; L. Carlassare, La Corte, il regolamento, la legge, in Giur. cost. 1993, 3949-3951.

[22] Cfr. L. Carlassare, voce Regolamento (dir. cost.), cit., 636-637.

[23] Su cui cfr. M. Cuniberti, La delegificazione, in I rapporti tra parlamento e Governo attraverso le fonti del diritto, a cura di V. Cocozza e S. Staiano, Torino 2001

[24] Cfr. G. Zagrebelsky, op. cit., 103.

[25] Ad es, i giudici sono stati invitati ad impugnare la legge di delegazione per violazione dellÂ’art. 76 cost., avendo il legislatore concesso “une delega ‘mascherataÂ’ da delegificazione e priva dei suoi requisiti essenziali”: fr. P. Bianchi - E. Malfatti, LÂ’accesso in via incidentale, in Prospettive di accesso alla giustizia costituzionale, a cura di A. Anzon, P. Caretti, S. Grassi, Torino 2000, 39; E. Malfatti, Rapporti tra deleghe legislative e delegificazioni, Torino 1999, 286.  A tale soluzione osta però la giurisprudenza costituzionale, secondo cui gli artt. 76 e 77 cost. possono essere invocati solamente in relazione ai rapporti tra legge delega e decreti legislativi delegati (sentenza n. 218 del 1987, ordinanza n. 159 del 2004; ordinanza n. 268 del 2005).

Ritiene che la Corte dovrebbe annullare la legge che non delimita il potere regolamentare di delegificazione e, di conseguenza, anche il regolamento, G. Di Cosimo, “Mortati può attendere” (A proposito del controllo di costituzionalità del regolamento di delegificazione), in Giur. cost. 2000, 4402 ss. Si segnala che, in un caso, un giudice aveva impostato la questione in questi termini, ma la Corte ha dichiarato la manifesta inammissibilità della questione per altri motivi: cfr. ord. n. 64 del 2002.

[26] Cfr. G. Tarli Barbieri, Regolamenti di delegificazione e giudizio di legittimitĂ  costituzionale: verso nuovi orizzonti?, in Giur. cost. 1998, 3890, in relazione alla sentenza n. 354 del 1998.

[27] Cfr. ord. n. 230 del 1999.

[28] Cfr., nellÂ’ordine, ord. n. 230 del 1999, sent. n. 354 del 1998, sent. n. 427 del 2000, sent. n. 251 del 2001, sent. n. 239 del 2003.

[29] Cfr. sent. n. 251 del 2001, ord. n. 440 del 2001, sent. n. 587 del 2000.

[30] Cfr. la ricostruzione di G.U. Rescigno, I regolamenti illegittimi (alcuni o tutti) sono nulli?, in Giur. cost. 2001, 2156 ss.

[31] Il regolamento può essere oggetto di questo giudizio solo nel caso in cui invada la competenza di attribuzione regionale o statale, non per altri vizi: cfr. in particolare sent. n. 482 del 1995. Il principio è tuttavia ribadito senza eccezioni.

[32] I ragionamenti di seguito espressi valgono anche per i regolamenti delle assemblee regionali: v. sent. n. 288 del 1987.

[33] Come sottolineato dalla dottrina, del resto, ammettere la natura normativa dei regolamenti, non implica necessariamente ammettere anche la loro sindacabilitĂ : cfr. M. Manetti, La legittimazione del diritto parlamentare, Milano 1990, 155-156.

[34] Cfr. M. Manetti, op. cit., 138 ss.

[35] Cfr., ad es., lÂ’art. 12 del Regolamento della Camera.

[36] Cfr. L. Cassetti, I regolamenti parlamentari nei conflitti di attribuzione tra i poteri dello Stato, in Le Camere nei conflitti, a cura di G. Azzariti, Torino, Â…, 196.

[37] Cfr. M. Manetti, op. cit., 160.

[38] Cfr. G.A. Ferro, LÂ’autodichia delle Camere e di principi costituzionali e sovranazionali in tema di tutela giurisdizionale, in Scritti dei dottorandi in onore di Alessandro Pizzorusso, Torino 2005, 229.

[39] V. Crisafulli, Lezioni, cit., 361.

[40] Cfr. lÂ’analisi giurisprudenziale di F. Dal Canto, La piĂą recente giurisprudenza costituzionale in tema di regolamenti parlamentari, in AA.VV., Il contributo della giurisprudenza costituzionale alla determinazione della forma di governo, Torino 1997, 375 ss., e di A. Sciortino, Il parametro del sindacato di legittimitĂ  costituzionale delle leggi, inIl parametro nel giudizio di costituzionalitĂ , Torino 2000, 569 ss.

[41] Cfr. M. Manetti, op. cit., 123.

[42] Cfr. gli studi di M. Magrini, La programmazione dei lavori dÂ’Assemblea: una lettura critica, in Quad. cost. 2005, 780 e C. Bergonzini, I lavori in commissione referente tra regolamenti e prassi parlamentari, in Quad. cost. 2005, 799.

[43] A. Manzella, Il Parlamento, Bologna 2003, 50.

[44] Su questo punto, cfr. G. Zagrebelsky, La giustizia, cit., 134-135.

[45] Cfr. G. Brunelli, op. cit., 193; L. Cassetti, I regolamenti parlamentari nei conflitti di attribuzione tra i poteri dello Stato, in Le Camere nei conflitti, a cura di G. Azzariti, Torino, Â…, 186 ss.

[46] Cfr. G. Zagrebelsky, La giustizia, cit. 134.

[47] A parte alcune limitate previsioni contenute nella Costituzione (come la presidenza delle commissioni di controllo e di inchiesta e l’innalzamento di alcuni quorum per le prime votazioni) la garanzie dei diritti delle opposizioni alla Camera e delle minoranze al Senato è, infatti, lasciato ai regolamenti.

[48] La definizione è data da G. Zagrebelsky, Il sistema delle fonti del diritto, Torino 1988, 9.

[49] Sul tema, cfr. E. Catalani, Norme di organizzazione ed accesso alla Corte costituzionale, in Prospettive di accesso alla Corte costituzionale, a cura di A. Anzon, P. Certti, S. Grassi, Torino 2000, 506 ss.

[50] Così E. Malfatti, Il conflitto di attribuzioni tra poteri dello Stato, in Aggiornamenti in tema di processo costituzionale (2002-2004), a cura di R. Romboli, Torino 2005, cap. VI § 3.2.

[51] Emblematica la giurisprudenza con cui sono stati ammessi i conflitti promossi dalla Corte dei conti nei aventi ad oggetto un atto normativo di rango primario: cfr. sentenze nn. 457 del 1999, 139 del 2001, 221 del 2002.

[52] Critica la decisione A. Celotto, Una inammissibilitĂ  che non persuade, in ww.giustamm.it

[53] Sui principi supremi di organizzazione, cfr. N. Zanon, Premesse ad uno studio sui “principi supremi” d’organizzazione come limiti alla revisione costituzionale, in Il parametro nel giudizio di costituzionalità, a cura di G. Pitruzzella, F. Teresi, G. Verde, Torino, 2000, 106 ss.

[54] Cfr. sentenza n. 469 del 2005, dove, per altro, la Corte suggerisce al Governo la possibilitĂ  di ricorrere al conflitto di attribuzione Stato-Regioni per impugnare la promulgazione e la successiva vera e propria pubblicazione di un testo statutario in ipotesi incostituzionale per vizi non rilevabili tramite il procedimento di cui all'art. 123, secondo comma, Cost.

[55] Cfr., prima della riforma costituzionale del 2001, le decisioni nn. 10 del 1980, 48 del 1983 e 290 del 1984 e, successivamente, con riguardo al potere regolamentare, le sentenze nn. 3131 e 324 del 2003.

[56] Cfr. sentenze nn. 372, 378 e 379 del 2004.

[57] Come potrebbe in questi casi la Corte costituzionale sottrarsi dal rinviare la questione di pregiudizialitĂ  alla Corte di giustizia?

[58] Si chiede Ruggeri “come possa la medesima situazione giuridica e di fatto (il conflitto tra norme di questo e quell’ordinamento) esser qualificata in termini concettuali (ora di irrilevanza, ora d’invalidità delle norme interne) così radicalmente diversi da dimostrarsi reciprocamente incompatibili”. Così A. Ruggeri, Fonti, norme, criteri ordinatori. Lezioni, Torino 2005, 223.

[59] Anzitutto, in caso di dubbio sulla diretta applicabilità del diritto comunitario il giudice deve previamente sollecitare l’intervento della Corte di Giustizia, la cui decisione spesso già risolve la questione, senza intervento della Corte costituzionale (se la Corte verifica che non è stata previamente adita la Corte di giustizia, la questione di costituzionalità è irrilevante). In un caso, avente ad oggetto le disposizioni sul reato di falso in bilancio, essa ha adottato una decisione per così dire interlocutoria, sospendendo il proprio giudizio, in attesa della decisione della Corte di Giustizia (ordinanza n. 165 del 2004). E’ probabile che la decisione fosse stata dettata dal fatto che come parametro non si invocava solo l’art. 117 cost., ma si sollevavano anche altri dubbi di costituzionalità. La questione è stata comunque risolta con una restituzione degli atti al giudice a quo poiché nel frattempo era stata emanata una nuova legislazione nazionale (ordinanza n. 70 del 2006).

In secondo luogo, tale è il diffuso sentire dei giudici comuni - alimentato appunto dalla giurisprudenza costituzionale e comunitaria - in merito al compito ad essi devoluto nell’applicazione del diritto comunitario, che sempre più spesso decidono di non applicare la normativa interna, non perché contrastante con un atto comunitario dotato di effetto diretto, ma perché contrastante con un principio comunitario (sancito ora nel trattato ora in una decisione della Commissione o della Corte di Giustizia), senza neppure interrogarsi se un “principio” possa, per definizione, dirsi “preciso” e quindi dotato di effetti diretti.

[60] Con la sentenza 22 novembre 2005, causa C-144/04, la Corte di Giustizia, oltre ad introdurre il principio della diretta applicabilità delle direttive comunitarie anche nei rapporti c. d. orizzontali, ha stabilito che la direttiva esplica degli effetti anche se il termine concesso agli Stati per la sua attuazione non è ancora scaduto.

[61] Sul punto, cfr. I. Massa Pinto, La Corte di Giustizia ricorda (involontariamente) alla Corte costituzionale lo strumento per riappropriarsi, almeno in parte, della competenza a giudicare in ordine alla conformitĂ  delle fonti statali allÂ’ordinamento comunitario? (In margine a Corte di Giustizia, 22 novembre 2005, causa C-144/04) (13/2/2006), in www.costituzionalismo.it, che giustamente sottolinea la necessitĂ  che la Corte recuperi un ruolo quando si tratta di verificare la compatibilitĂ  del diritto interno con principi comunitari non direttamente applicabili.

[62] Nella fattispecie la questione aveva ad oggetto la compatibilità della legislazione interna con il principio fondamentale ricavabile dal Trattato secondo cui compito principale della Comunità è quello di promuovere, mediante l'instaurazione di un Mercato Comune ed il graduale avvicinamento delle politiche degli Stati aderenti, lo sviluppo armonioso dell'attività economica nell'ambito coperto dal Trattato.

[63] Dopo avere  negato, con lÂ’ordinanza n. 206 del 1976, la possibilitĂ  di sollevare questione di pregiudiziale alla Corte di Giustizia, nella sentenza n. 168 del 1991 la Corte costituzionale aveva affermato incidentalmente la propria competenza in tal senso (definendola una “facoltà”). Con lÂ’ordinanza n. 206 del 1976, torna però sul tema. Chiarendo esplicitamente che spetta al giudice, e mai alla Corte, adire la Corte di giustizia in modo da provocare una pronuncia che assicuri lÂ’effettiva rilevanza della questione di costituzionalitĂ .

[64] Cfr. V. Onida, “Armonia tra diversi” e problemi aperti. La giurisprudenza costituzionale sui rapporti tra ordinamento interno e ordinamento comunitario, in Quad. cost. 2002, 550-551, il quale ribadisce che “questa soluzione, oltre a risultare convergente di fatto con quella seguita dalla Corte di Giustizia, ha il pregio di ricondurre l’opera del giudice costituzionale sul suo terreno proprio, che è quello di garante delle norme della Costituzione, e non di garante interno delle norme comunitarie. A ognuno il suo mestiere!”.

[65] Così ancora V. Onida, op. cit., 552.

[66] Cfr. C. Pinelli, I limiti generali alla potestà legislativa statale e regionale e i rapporti con l’ordinamento internazionale e con l’ordinamento comunitario, in Foro it. 2001, V, 194 ss., per il quale la nuova disposizione costituzionale riguarderebbe i rapporti tra ordinamento interno e ordinamento internazionale; e E. Cannizzaro, La riforma “federalista” della Costituzione e gli obblighi internazionali, in Riv. dir. intern. 2001, 931, il quale, muovendo dal presupposto che, in seguito alla modifica costituzionale, potrebbe non esservi coincidenza tra competenze interne ed esterne, ritiene che l’art. 117, comma 1, cost. avrebbe la funzione di “stabilire che l’assunzione degli obblighi internazionali ad opera di ciascuno degli enti titolari di tale potere costituisca un limite di legittimità per l’esercizio delle competenze normative dell’altro”.

[67] In questo senso F. Sorrentino, Nuovi profili costituzionali dei rapporti tra diritto interno e diritto internazionale e comunitario, relazione al Convegno Regioni, diritto internazionale e diritto comunitario, Genova 23 marzo 2002, § 3, in www.associazionedeicostituzionalisti.it. Cfr. anche A. Guazzarotti, Niente di nuovo sul fronte comunitario? La Cassazione in esplorazione del nuovo art. 117, comma 1, Cost., in Giur. cost. 2003, 478.

[68] Sul punto, cfr. F. Paterniti, La riforma dellÂ’art. 117, comma 1, cost. e le nuove prospettive nei rapporti tra ordinamento giuridico nazionale e unione europea, in Giur. cost. 2004, 2116.

[69] In questo senso, cfr., invece, S. Catalano, Riflessioni su alcuni profili relativi all’art. 117, comma 1, Costituzione, in Ai confini del “favor rei”. Il falso in bilancio davanti alle Corti costituzionale e di giustizia, a cura di R. Bin – G. Brunelli – A. Pugiotto – P. Veronesi, Torino 2005, 146 ss.

[70] Il primo caso risulta essere quello avente ad oggetto le norme sul falso in bilancio, deciso nel senso dellÂ’inammissibilitĂ  (cfr. retro, ordinanze citate alla nt. 58).

[71] Cfr. Corte di Cassazione, sez. tributaria, sentenza 10 dicembre 2002, n. 17564, in Giur. cost. 2003, 459.

 

[72] Sul punto, cfr. G. Sorrenti, La conformità dell’ordinamento italiano alle “norme di diritto internazionale generalmente riconosciute” e il giudizio di costituzionalità delle leggi, in Il parametro nel giudizio di costituzionalità, a cura di G. Pitruzzella, F. Teresi, G. Verde, Torino, 2000, 605; L. Cappuccio, Le consuetudini internazionali tra Corte costituzionale e Corte di Giustizia, in Quad. cost. 2004, 11-12.

[73] Cfr., tra le piĂą recenti, le decisioni nn. 20, 195, 350, 441 e 449 del 2002; n. 260 del 2005.

[74] Cfr., tra le piĂą recenti, 78, 135, 191, 335, 444 del 2002, nn. 139 e 250 del 2005

[75] Cfr., ad es., la decisione n. 464 del 2005.

[76] Cfr. i casi citati da B. Randazzo Giudici comuni e Corte europea dei diritti, relazione al Convegno La Corte costituzionale e le Corti dÂ’Europa, Copanello 31 maggio-1 giugno 2002, in Riv. it. dir. pubbl. com. 2002, 1357 ss.; e A. Guazzarotti, I giudici comuni e la CEDU alla luce del nuovo art. 117 della Costituzione, in Quad. cost. 2003, 25 ss.

[77] La dottrina pressoché maggioritaria ha dato una risposta negativa, osservando, giustamente, come l’art. 117, comma 1, cost. debba comunque essere letto insieme agli artt. 10 e 11 cost.

[78] Ai sensi dell’art. 1 della legge n. 131 del 2003, “Costituiscono vincoli alla potestà legislativa dello Stato e delle Regioni, ai sensi dell’articolo 117, primo comma, della Costituzione, quelli derivanti dalle norme di diritto internazionale generalmente riconosciute, di cui all’articolo 10 della Costituzione, da accordi di reciproca limitazione della sovranità, di cui all’articolo 11 della Costituzione, dall’ordinamento comunitario e dai trattati internazionali”. Sono stati eslcusi gli accordi in forma semplificata.

[79] Secondo la corte ciò dipende dal fatto che si tratta di norme derivanti da fonte riconducibile ad una competenza atipica.

[80] L’argomento, avanzato da V. Crisafulli, Lezioni di diritto costituzionale, Padova 1984, 334, è tuttavia facilmente superato già dallo stesso Autore.

[81] In senso opposto si erano invece espressi Pace - Roversi Monaco – Scoca, in Giur. cost. 1987, I, 3091.

[82] In tal modo la Corte, da una parte, ha escluso la possibilità di dare addirittura rilievo alle finalità “propositive” dei promotori del referendum abrogativo, dall’altra, non sembra distinguere l’ipotesi che il ripristino della normativa abrogata avvenga con effetto ex tunc o solo con effetto ex nunc.

Si ricordi che la dottrina ha sostenuto che il legislatore non solo non potrebbe reintrodurre una disciplina abrogata con referendum ma, a certe condizioni, non potrebbe neppure abrogare una disciplina uscita indenne dalla consultazione: cfr. P. Carnevale – A. Celotto, Nuovi problemi sull’integrazione legislativa del parametro di costituzionalità, in Il parametro nel giudizio di costituzionalità, a cura di G. Pitruzzella, F. Teresi, G. Verde, Torino, 2000, 177 ss.

[83] L’espressione è di S.P. Panunzio, Chi è il “custode” del risultato abrogativo del referendum?, in Giur. cost. 1997, 1993.

[84] Cfr. anzitutto Modugno, LÂ’invaliditĂ  della legge, II, Milano 1970, 120. 

[85] Cfr. S.P. Panunzio, op. cit., 2001.

[86] Come è noto, la scelta per la competenza parlamentare costituisce una tappa dell’affermazione dell’indipendenza del Parlamento rispetto al potere sovrano e, sebbene resista in diversi ordinamenti, ve ne sono altri, di lunga e consolidata tradizione parlamentare, quali l’Inghilterra e la Francia, che hanno da tempo optato per la competenza giurisdizionale. Per note di diritto comparato, cfr. L. Elia, voce Elezioni politiche (contenzioso), in Enc. dir. XIV, Milano 1965, 750 ss.; M. Manetti, L’accesso alla Corte costituzionale nei procedimenti elettorali, in Prospettive di accesso alla giustizia costituzionale, a cura di A. Anzon, P. Caretti, S. Grassi, Torino 2000, 136 ss.

[87] Tra le tante, si ricordi la proposta della “Commissione bicamerale per le riforme istituzionali” secondo cui l’interessato poteva ricorrere alla Corte costituzionale contro le delibere dell’assemblea entro quindici giorni.

[88] Si ricordi che quella recentemente approvata non incide sul punto.

[89] Se vi fosse la volontĂ  di mettere mano alla materia, le soluzioni prospettabili sarebbero diverse, e dipenderebbero principalmente dal grado di legittimazione del Parlamento e dei giudici e dalla qualificazione del diritto allÂ’elettorato passivo come diritto fondamentale: su questi profili cfr. M. Manetti, op. ult. cit., in part. 12 ss.

[90] Infine, è stato approvato il d.l. 26 aprile 2005, n. 64, conv, in l. 25 giugno 2005, n. 110.

[91] Si fa riferimento al mancato annullamento dell’elezione del deputato Sardelli, esponente della Casa delle Libertà, a danno di Faggiano, esponente dell’Ulivo, nonostante fosse stato accertato – in sede penale - che il Presidente di Sezione aveva erroneamente trascritto nei verbali i risultati dell’uno all’altro, e viceversa: la vicenda è ripercorsa dettagliatamente da F. Friolo, Il caso “Sardelli-Faggiano” tra autodichia parlamentare e necessità di revisione (15 febbraio 2005), in forumcostituzionale.it. Ma non è certo l’unico caso: nella XII legislatura erano stati due candidati del centro-sinistra a vedere ingiustamente convalidate le loro elezioni: cfr. G. Lasorella, la verifica dei poteri alla prova del nuovo sistema elettorale: nuove vicende e antiche perplessità, in Quad. cost. 1996, 281.

[92] Cfr. L. Elia, op. cit., 750-751.

[93] Il riferimento è a quanto osservato dalla stessa Corte costituzionale nella sentenza n. 84 del 2006. Il giudice, adito da un soggetto che intendeva ottenere il riconoscimento a candidarsi legittimamente alle prossime elezioni, aveva sollevato una questione di legittimità costituzionale sulla legge regionale che stabilisce le cause di ineleggibilità. La questione viene dichiarata inammissibile, in quanto l’oggetto del giudizio principale coincideva sostanzialmente con quello del giudizio costituzionale e non sussisteva dunque il carattere di incidentalità della questione. E’ interessante tuttavia notare che la Corte, nella parte finale della motivazione, osserva: “La Corte è consapevole che la vigente normativa consente di rilevare l'esistenza di cause di ineleggibilità – nonostante che queste siano intese a garantire la pari opportunità fra i concorrenti – soltanto dopo lo svolgimento delle elezioni; con la conseguenza che un procedimento giurisdizionale può sorgere, e in esso essere proposta la questione incidentale di legittimità costituzionale, non prima che i consigli regionali abbiano esercitato la loro “competenza a decidere sulle cause di ineleggibilità dei propri componenti” (art. 2, comma 1, lett. d), della legge n. 165 del 2004). Si tratta di una normativa evidentemente incongrua: non assicura la genuinità della competizione elettorale, nel caso in cui l’ineleggibilità sia successivamente accertata; induce il cittadino a candidarsi violando la norma che, in asserito contrasto con la Costituzione, ne preveda l'ineleggibilità; non consente che le cause di ineleggibilità emergano, come quelle di incandidabilità, in sede di presentazione delle liste agli uffici elettorali. Tuttavia, la Corte non può che dichiarare inammissibile una questione sollevata in un giudizio il cui unico scopo si risolve nell'impugnare direttamente la norma di legge sospettata di illegittimità costituzionale”.

[94] Su cui cfr. C. Chiola, Sindacato sulla legittimitĂ  del contrassegno dei partiti. Una nuova political question?, in Giur. cost. 2000, 4038.

[95] Cfr. R. Balduzzi – M. Cosulich, In margine alla nuova legge elettorale politica, in www.associazionedeicostituzionalisti.it (2/3/2006), i quali propongono di distinguere come procedimento a sĂ© stante quello elettorale, che si concluderebbe con la proclamazione degli eletti da parte dellÂ’ufficio centrale circoscrizionale, per poi riservare alle Camere solo la successiva       verifica dei titoli di ammissione dei componenti. In tal modo, nel procedimento elettorale si potrebbe ammettere il ricorso al giudice amministrativo.

[96] Si veda la decisione adottata dallÂ’Ufficio centrale nazionale presso la Corte di cassazione il 26 maggio 2001.

[97] Cfr. i dati riportati da V. Lippolis, Art. 66, in Commentario della Costituzione, a cura di G. Branca, Bologna-Roma 1986, 175-177.

[98] In questo senso, espressamente, L. Elia, op. cit., 784-79. Sostiene la natura giurisdizionale del procedimento seguito dalle giunte per le elezioni A. Manzella, op. cit., 232. Sulla natura politica del giudizio, cfr. M. Cerase, Sviluppi e contrasti in materia di verifica dei poteri, in Diritto pubblico 2004, 647, spec. 666.

[99] L’art. 92, comma 2, cost., come modificato dall’art. 30 del ddl. costituzionale così recita: “La candidatura alla carica di Primo ministro avviene mediante collegamento con i candidati ovvero con una o più liste di candidati all’elezione della Camera dei deputati, secondo modalità stabilite dalla legge. La legge disciplina l’elezione dei deputati in modo da favorire la formazione di una maggioranza, collegata al candidato alla carica di Primo ministro”.

[100] Cfr. A. Pertici - A. Rossi, La possibilitĂ  di impugnare la nuova legge elettorale alla Corte costituzionale e gli effetti della sua eventuale sospensione (23 gennaio 2006), in www.forumcostituzionale.it.

[101] Cfr. C. Fusaro, La questione dei voti della Valle dÂ’Aosta nella legge proporzionale con premio in attesa di promulgazione (19 dicembre 2005), in www.forumcostituzionale.it.