LARA TRUCCO
ANCORA UN “VIA LIBERA” DELLA CORTE DI
LUSSEMBURGO ALLA “CIRCOLAZIONE” DEI COGNOMI
(UN ALTRO CONTRIBUTO ALL’ELABORAZIONE
PRETORIA DELLO “STATUTO EUROPEO DEL NOME”)
Corte di Giustizia (Grande Sezione), sent. del 14 ottobre 2008
C-353/06, Stefan Grunkin e Dorothee Regina Paul
(per gentile
concessione della Rivista “Giurisprudenza
Italiana”)
Sommario: 1. I fatti all’origine della questione. – 2. Il cognome tra lex mercatoria e diritti
fondamentali. – 3. Le argomentazioni
“processuali” del giudice di Lussemburgo. – 4. Segue: …e quelle “sostanziali” del giudice di Strasburgo. – 5. Il problematico regime del cognome
nell’ordinamento nazionale: le “chiusure”… – 6. Segue: …e le “aperture” del giudice costituzionale e della Cassazione. – 7. Quale incidenza della decisione della
Corte di giustizia nell’ordinamento interno.
1. I fatti all’origine della questione.
Dopo il «caso
Konstantidinis», in cui la Corte di Giustizia ha ingiunto agli Stati membri
di procedere alla corretta traslitterazione negli atti di stato civile dei
cognomi dei cittadini comunitari[1],
e il «caso
García Avello» in cui ha riconosciuto il diritto dei figli di portare il
cognome di cui sono titolari in forza del diritto e della tradizione dello
Stato di appartenenza[2],
il caso «Grunkin-Paul»[3], che qui si commenta, costituisce un
ulteriore importante tassello nella definizione dello «Statuto del cognome» dei
cittadini europei.
Ma ecco i fatti. Un
minore, cittadino tedesco nato in Danimarca da coniugi tedeschi e residente fin
dalla nascita nel Paese scandinavo, veniva iscritto, conformemente al diritto
danese[4],
col “doppio cognome” “Grunkin-Paul” sull’atto di nascita e sul certificato di
riconoscimento del nome (“navnebevis”)
danesi.
Rivoltisi agli uffici
dello stato civile tedesco per ottenere, anche in Germania, l’iscrizione del
figlio nel libretto di famiglia, i predetti coniugi si vedevano però respingere
l’istanza, in quanto, in forza dell’art. 10 dell’EGBGB (Einführungsgesetz zum Bürgerlichen Gesetzbuch), il cognome della persona
è disciplinato dalla legge dello Stato di cui essa possiede la cittadinanza e
il diritto tedesco prevede l’attribuzione di un solo “cognome” e non di un
doppio cognome composto (nella specie) da quello del padre e da quello della
madre.
Nonostante le ulteriori
procedure messe in atto per il riconoscimento del cognome e benché nel
frattempo fosse intervenuto il divorzio, il problema non veniva superato.
Ricevuto l’ennesimo diniego da parte dello Standesamt
di Niebüll[5],
i due genitori (tra cui nel frattempo era intervenuto il divorzio) adivano l’Amtsgericht di Flensburg (in quanto Familiengericht), chiedendo che venisse
ingiunto all’amministrazione di riconoscere il cognome del figlio così come
determinato e registrato in Danimarca, procedendosi quindi alla sua iscrizione
nel libretto di famiglia tedesco.
Il magistrato di
Flensburg, pur allineandosi all’evidenza sull’inammissibilità del
riconoscimento del doppio cognome, nutrendo tuttavia dubbi sulla compatibilità
col diritto comunitario del fatto che un cittadino dell’Unione si trovi a
portare un cognome diversificato in Stati membri differenti, si rivolgeva in
via pregiudiziale alla Corte di Giustizia delle Comunità.
2. Il cognome tra lex mercatoria
e diritti fondamentali.
Anche senza dover
rievocare nel dettaglio i citati precedenti casi della Corte di Giustizia,
dovrebbe essere evidente come due tratti fondamentali accomunino la triade di
decisioni: da un lato, il riconoscimento del diritto al mantenimento del
cognome rivendicato dal soggetto interessato, in quanto meglio idoneo a
riflettere una certa aspettativa “identitaria”; e, dall’altro, la tutela della
libertà di circolazione, nelle varie forme in cui questa è suscettibile di
manifestarsi.
Sotto un più ampio
profilo, tale filone giurisprudenziale conferma la strategia d’integrazione che
(verosimilmente nell’inerzia vigile delle altre Istituzioni comunitarie e degli
Stati) la Corte sta portando avanti anche in materie che, come quella qui
riguardata, «allo stato attuale del diritto comunitario» continuano a rientrare
«nella competenza degli Stati membri» e a costituire addirittura il “ponte di
collegamento” tra individuo e ordinamento giuridico statuale di appartenenza.
L’idea di fondo sarebbe
che tutte le norme dell’ordinamento statale al quale si appartiene per
cittadinanza «devono rispettare il diritto comunitario», almeno nel senso
spiccatamente “comunitaristico”, che non devono costituire un ostacolo per
l’esercizio del diritto a circolare e soggiornare liberamente nel territorio
europeo. Ciò che può anche vedersi come un ulteriore approfondimento della
strategia dell’incorporation,
ruotante intorno al principio di “eguaglianza”, a sua volta fondato sul
concetto di “cittadinanza europea”[6],
con l’obiettivo di garantire “pari opportunità” ai cittadini dell’Unione
indipendentemente dal Paese membro di appartenenza. Approccio che, pur non
mancando di rispettare le diverse discipline nazionali, finisce per dare
impulso alla concorrenzialità tra sistemi, dando modo ai cittadini europei,
ricorrendone le condizioni, di optare per il regime giuridico – nel caso di
specie, in vista dell’attribuzione del cognome – reputato più consono alle
proprie aspettative.
A quest’ultimo riguardo,
la decisione si segnala anche per la particolare valorizzazione, tra i “parametri”
di collegamento con lo Stato di opzione, della “residenza”, benché
elettivamente gravitante nell’ambito di spettanza del diritto nazionale[7].
Ed infatti, mentre nelle anteriori pronunce, ciò che si rivendicava era, a ben
vedere, la conservazione del cognome ottenuto nello Stato di cittadinanza,
nella fattispecie, è il mantenimento di quello ottenuto nel Paese di residenza
(in relazione alla quale mette conto osservare come essa rappresenti un legame
alquanto più labile, essendo sufficiente in genere dimostrare di dimorare
stabilmente in una determinata località, su una base dunque essenzialmente
“volontaria”[8]).
Derivandone, in ultima istanza, la possibilità di una sorta di forum shopping a livello comunitario
nella scelta del cognome: circostanza, questa, che dovrebbe indurre una
maggiore attenzione al problema, se non da parte delle altre Istituzioni
comunitarie (che sarebbero comunque costrette a “giocare al ribasso”, data la
difficoltà a trovare un regime giuridico, in materia, condiviso)[9],
certamente da parte degli Stati (specie i più tradizionalisti), nell’allestire
discipline interne maggiormente rispondenti alle personali aspettative
identitarie e di vita dei propri cittadini.
3. Le argomentazioni “processuali” del giudice di Lussemburgo.
Nel merito della
decisione, il giudice comunitario arriva a censurare il regime regolativo
tedesco di individuazione della normativa applicabile per la “registrazione”
del nome patronimico, che, non consentendo di “recepire” il cognome attribuito
in un altro Stato, finirebbe per «generare per gli interessati seri
inconvenienti di ordine tanto professionale quanto privato», date le difficoltà
che ne scaturirebbero a giovarsi di determinati atti e documenti (riprendendo
gli esempi proposti dal giudice comunitario: attestati, certificati e diplomi
per fruire di una qualsiasi prestazione o di un qualsiasi diritto, oppure per
attestare il superamento di prove o l’acquisizione di capacità). In
particolare, il fatto che il cognome figurante nel documento esibito non
corrisponda a quello effettivamente utilizzato renderebbe incerti sia
l’autenticità dei documenti prodotti, sia la veridicità dei dati in essi
contenuti, producendosi il “rischio” per il soggetto «di essere obbligato a
dissipare dubbi sulla sua identità e ad allontanare sospetti di falsa
dichiarazione», con pregiudizio per la sua libertà di circolare nello spazio
europeo ex art.
18 TCE.
Di fronte ai «seri inconvenienti»
causati dal «collegamento esclusivo della determinazione del cognome alla
cittadinanza» operato dal diritto internazionale privato tedesco, il giudice
comunitario non ravvisa dunque alcun motivo né di ordine pubblico né, più in
generale «talmente importante da giustificare che le autorità competenti di uno
Stato membro […] rifiutino di riconoscere il cognome di un figlio così come
esso è stato determinato e registrato in un altro Stato membro in cui tale
figlio è nato e risiede sin dalla nascita». Non ragioni di certezza e
continuità giuridica, considerato che, anzi, come dimostra il caso di specie,
l’esclusivo collegamento con la cittadinanza per determinare il cognome della
persona può condurre all’opposto risultato di farla risultare in possesso di
più cognomi. Né, tanto meno, il rilievo della maggiore «praticità
amministrativa» del “cognome unico”, a fronte dell’eccessiva lunghezza dei
“doppi cognomi” e delle difficoltà che esso può creare, in particolare, alle
generazioni successive che si trovino a non poter più disporre delle stesse
possibilità di combinazione della generazione precedente o, all’opposto, a
dover rinunciare ad una parte del cognome dei propri antenati; tanto più lo
stesso ordinamento tedesco mostra di consentire eccezioni delle proprie regole
di conflitto, riconoscendo sia ai figli che hanno uno dei genitori cittadino di
un altro Stato di vedersi attribuire un cognome secondo la normativa di tale
sistema; sia a quelli che, analogamente al caso in esame, al pari dei genitori,
non possiedano la cittadinanza tedesca, di ottenere un cognome secondo la
normativa tedesca quando venga dimostrato che la residenza abituale di uno dei
genitori si trovi in Germania.
4. Segue: …e quelle “sostanziali” del giudice di Strasburgo.
Merita dunque di essere
senz’altro segnalata la tendenza della Suprema Corte comunitaria ad assecondare
al possibile determinate istanze individuali[10],
sia pur nell’ambito di un sindacato attento all’individuazione della “legge
applicabile” per l’attribuzione del cognome. Significativo è che, in un’ottica
ora esclusivamente focalizzata sulla “sostanza” dello “statuto del cognome”, un
approccio per più versi analogo è ravvisabile anche nella giurisprudenza della
Corte europea dei diritti dell’uomo. Anche
Su questa base è stato
sviluppato un controllo giurisdizionale piuttosto orientato a censurare
normative ingiustificatamente discriminatorie per determinate categorie di
soggetti (ex
art. 14 CEDU), ritenute di riflesso lesive del principio di autonomia
privata (ex
art. 8 CEDU). Così nel caso
Burghartz, di cui sono tratte le argomentazioni appena riportate,
Maggiormente controversa
si è rivelata invece l’ipotesi in cui l’esigenza “identitaria” si è
concretizzata in una rivendicazione non, per così dire, “in negativo” di
mantenimento, ma “in positivo”, di cambiamento del cognome: la Corte, infatti,
non ha ritenuto di dover ravvisare la presenza di un diritto “alla scelta” del
cognome, nemmeno dinnanzi a denunciate difficoltà di ortografia e di pronuncia
e alla dimostrazione del già avvenuto impiego, del nome patronimico
controverso, da parte di avi del soggetto richiedente[14].
5. Il problematico regime del cognome nell’ordinamento nazionale: le
“chiusure”…
In linea con la giurisprudenza
di Strasburgo sembra quel filone giurisprudenziale nazionale che, configurando
il cognome alla stregua di un profilo inviolabile dell’identità individuale, si
è rivelata attenta a salvaguardarne la “conservazione”, oltre che
l’“ottenimento”[15],
con ciò preparando la strada ad altri giudici, quando si sono trovati a dover
decidere questioni analoghe di “rivendicazione” dell’“integrità” del nome
patronimico stesso[16].
È per quanto riguarda invece il versante “rivendicativo”, dato dal
riconoscimento della facoltà individuale di cambiare le proprie generalità
anagrafiche, che la giurisprudenza interna presenta maggiori aperture rispetto
a quella di Strasburgo. Più precisamente, posta la non predicabilità di un
diritto soggettivo incondizionato ad ottenere la modifica del proprio cognome,
può dirsi che le posizioni favorevoli all’amministrazione (secondo cui «la salvaguardia dell’interesse pubblico alla
tendenziale stabilità del nome, connesso ai profili pubblicistici dello stesso
come mezzo di identificazione dell’individuo nella comunità sociale, può», ma
non deve «venire contemperata con gli interessi di coloro che quel nome
intendano mutare o modificare»[17]) siano state superate da un parere reso dal Consiglio di
Stato, propenso ad un «ampio riconoscimento della facoltà di cambiare il
proprio cognome (nel caso di specie assumendo quello della madre) a fronte del
quale la sfera di discrezionalità riservata alla PA deve intendersi
circoscritta alla individuazione di puntuali ragioni di pubblico interesse che
giustifichino il sacrificio dell’interesse privato del soggetto al cambiamento
del proprio cognome, ritenuto anch’esso meritevole di tutela dell’ordinamento»[18].
Dal canto suo,
Un atteggiamento analogo è
riscontrabile anche in ordine alle problematiche in punto di individuazione del
regime di attribuzione del nome patronimico. La mancanza, infatti, di una norma
esplicita sul punto ed i dubbi di compatibilità della disciplina (rectius: prassi)[21]
con i principi costituzionali, hanno portato i giudici ordinari a rivolgersi a
più riprese alla Corte costituzionale, confidando in un’utile risoluzione della
questione. Tuttavia, pur non mancando, sin dalle
prime pronunce[22], di evidenziare i profili di criticità della situazione,
al punto da invocare l’applicazione di «un criterio diverso, più rispettoso
dell’autonomia dei coniugi», il giudice delle leggi è rimasto poi fermo nel ritenere di esclusiva spettanza
del legislatore la possibilità di intervenire in materia, considerata, da un
lato, la varietà delle soluzioni adottabili a riguardo, e, dall’altro lato, il
rischio dell’emergere di “vuoti legislativi” in punto di attribuzione del
cognome. Ancora di recente, chiamata dalla Cassazione[23] a pronunciarsi nuovamente sulla questione, nel ribadire
«che l’attuale sistema di attribuzione del cognome è retaggio di una concezione
patriarcale della famiglia, la quale affonda le proprie radici nel diritto di
famiglia romanistico, e di una tramontata potestà maritale, non più coerente
con i principi dell’ordinamento e con il valore costituzionale dell’uguaglianza
tra uomo e donna», essa ha riconfermato che «l’intervento che si invoca con la
ordinanza di rimessione», fuoriuscendo dallo schema delle “rime obbligate” [24], «richiede una operazione manipolativa esorbitante dai
poteri della Corte»[25].
6. Segue: …e le “aperture” del giudice
costituzionale e della Cassazione.
Ciò
nonostante, all’indomani delle decisioni nn. 348 e 349 del 2007
dello stesso giudice costituzionale[26],
In questo
mutato quadro ordinamentale, è stata però la stessa Prima Sezione a
rappresentare la duplice alternativa o di un’interpretazione adeguatrice della
disciplina, orientata ai principi desumibili dalle normative internazionali in
proposito rilevanti (CEDU, ma anche le altre citate regolamentazioni di
carattere internazionale); o, nel caso in cui dovesse ritenersi non consentita
una simile operazione ermeneutica, di una nuova questione di costituzionalità
della norma “interna”[30], riconvertendo le
normative in parola in altrettanti parametri di giudizio ex art. 117,
1° comma Cost. (offrendosi, tra l’altro, l’occasione per precisare l’esatto
statuto parametrico di stipulazioni internazionali diverse dalla Convenzione di
Roma[31]).
7. Quale incidenza della decisione della Corte di giustizia
nell’ordinamento interno.
Nell’attesa,
sembra comunque ipotizzabile un qualche effetto in ambito interno della
decisione comunitaria in commento. Intanto, sul piano pratico, difficilmente
dovrebbe restare senza conseguenze la possibilità ora riconosciuta a chiunque
intenda attribuire al proprio figlio il “doppio cognome”, di prendere (ove ne
abbia le possibilità…) la residenza danese[32] in vista di far nascere qui la propria prole, per
richiedere poi la trascrizione del nome patronimico nel proprio ordinamento di
appartenenza. In punto di principio, poi, l’ammissibilità, che dalla pronuncia
parrebbe emergere, di una varietà di opzioni relative alla disciplina del “nome
patronimico” nell’ambito di cui effettuare la scelta, potrebbe portare al
superamento dell’idea della necessaria “unità” regolamentativa circa i modi di
attribuzione del cognome, ferme restando le esigenze di stabilità
identificativa. Ma, soprattutto,
dovrebbero essere ulteriormente[33] aggiornati i “criteri di
recepimento” dei cognomi “esteri”, considerato che l’art. 98, comma 2° del
D.P.R. 3 novembre 2000, n. 396 prevede che l’ufficiale dello stato civile, al momento di ricevere l’atto
di nascita di un cittadino nato all’estero «al quale sia stato imposto un
cognome diverso da quello ad esso spettante per la legge italiana», debba
provvedere d’ufficio alla correzione dell’atto di nascita secondo la normativa
italiana: portando dunque all’attribuzione del cognome paterno, e ciò senza
eccezioni proprio nei casi analoghi a quello affrontato dal giudice comunitario
nel sentenza in commento (in presenza, cioè, di soggetti in possesso della sola
cittadinanza italiana nati tuttavia all’estero, a cui è stato attribuito un
cognome diverso da quello che avrebbero acquisito in Italia)[34].
[1] V.
Corte giust. CE, 30 marzo
[2] V.
Corte giust. CE, 2 ottobre
[3] La
domanda di pronuncia pregiudiziale, pubblicata in Gazz. Uff. C 281 del 18 novembre 2006, è stata sottoposta alla
Corte di Giustizia dall’Amtsgericht di Flensburg (Tribunale tedesco),
nell’ambito di una controversia tra il sig. Grunkin e la sig.ra Paul e lo
Standesamt Niebüll (Ufficio dello stato civile della città di Niebüll), in
merito al rifiuto, da parte di quest’ultimo, di riconoscere e iscrivere il
cognome del figlio Leonhard Matthias, così come esso era stato determinato e
registrato in Danimarca nel libretto di famiglia tedesco.
[4] Al
riguardo, l’Avv. Gen. E. Sharpston precisa che: «Ai sensi del diritto
internazionale privato danese, le questioni relative alla determinazione del
cognome di una persona sono disciplinate dalla legge dello Stato in cui la
detta persona ha la propria residenza (ossia la propria dimora abituale), come
definita dalla legge danese. Pertanto, qualora occorra determinare il cognome
di una persona che risiede abitualmente in Danimarca, trova applicazione la
legge danese» (così nelle Conclusioni
presentate il 24 aprile 2008, par. 11).
[5] Peraltro,
trovatosi in precedenza a dover decidere in punto di conferimento, a uno dei
genitori, del diritto di determinare il cognome del figlio in applicazione
dell’art. 1617 del BGB, lo Standesamt si era rivolto all’Amtsgericht di
Niebüll, che, a sua volta, con decisione 2 giugno 2003 aveva sottoposto alla
Corte di giustizia una domanda di pronuncia pregiudiziale. Il giudice
comunitario si era però dichiarato incompetente a risolvere la questione,
ritenendo che l’Amtsgericht Niebüll fosse stato adìto nell’ambito di un
procedimento di volontaria giurisdizione, e stesse agendo dunque non
nell’esercizio di un’attività giurisdizionale ma in qualità di autorità
amministrativa (v. Corte giust. CE, 27 aprile
[6] In questo senso cfr., tra gli altri, E. Castorina (Il caso «Garcia Avello» innanzi alla Corte di giustizia: conferme e caute aperture in materia di cittadinanza europea, in Giur. It., 2004, 2013) il quale ritiene che la regola desunta dalla Corte lussemburghese nel caso García Avello per cui nei settori ratione materiae rientranti nell’applicazione del Trattato ciascuno Stato membro deve farsi carico di non discriminare il cittadino nazionale ove il medesimo possieda parimenti la cittadinanza di altro Stato membro, costituisca «una nuova ed ulteriore sfaccettatura del carattere «complementare» della cittadinanza europea».
[7] Scrive al proposito l’Avv. Gen.: «si tratta chiaramente di un ambito in cui la corte deve procedere con cautela e attenzione. Ma proprio perché deve procedere con cautela, ciò non significa affatto che debba avere timore di procedere» (v. Conclusioni, cit. par. 41). Più avanti, lo stesso affermerà di non aversi a che fare con alcuna modifica rilevante della normativa sostanziale sul conflitto di leggi in materia «bensì semplicemente la possibilità di concedere un più ampio spazio al riconoscimento della scelta di un nome validamente operata in precedenza in conformità alle leggi di un altro Stato membro», per cui, in questo senso, tale approccio implicherebbe «semplicemente l’applicazione del principio del mutuo riconoscimento che caratterizza gran parte del diritto comunitario, non soltanto per quanto concerne la sfera economica ma anche le materie civili» (v. Conclusioni, cit. par. 91).
[8] Sulla
tendenza, in ambito europeo, ad espandere la concezione individualistica dei
diritti e sui rischi ad essa connessi si veda per tutti M. Cartabia, L’ora dei diritti fondamentali nell’Unione
Europea, in I diritti in azione,
a cura di M. Cartabia, Bologna 2007, 33 e segg.
[9] Al proposito, l’Avv. Gen. ritiene «certamente vero che tali questioni sarebbero più semplici se si fosse adottata una normativa comunitaria per disciplinare la situazione (ovvero se tutti gli Stati membri facessero parte dell’ICCS e avessero tutti ratificato le sue convenzioni). Inoltre, una soluzione legislativa o convenzionale sarebbe adeguata in un tale ambito. Le discussioni che precedono l’adozione del diritto comunitario o gli accordi multilaterali sono necessariamente più lunghe, più approfondite, e di più ampia portata rispetto a quanto si possa raggiungere nell’ambito di un rinvio pregiudiziale dinanzi alla Corte. Inoltre, data la crescente mobilità dei cittadini nel territorio dell’Unione europea, che non è semplicemente un mercato unico ma uno spazio unico di libertà, sicurezza e giustizia, è evidente che i conflitti di interesse relativi alla determinazione e all’uso dei nomi di persona possono sorgere (e probabilmente sorgeranno) con frequenza crescente, finché o salvo che si pervenga ad una soluzione adeguata. Una siffatta soluzione dovrebbe essere compiutamente e sistematicamente ponderata, prendendo in debita considerazione tutte le sue implicazioni per gli ordinamenti giuridici coinvolti» (v. Conclusioni cit., par. 45).
[10] Sui punti di contatto tra identità individuale e libero svolgimento della personalità si consenta il rinvio a L. Trucco, Introduzione allo studio dell’identità individuale nell’ordinamento costituzionale italiano, Torino, 2004, 186 e segg.
[11] Così Corte eur. dir. uomo, 22 febbraio 1994, req. n. 16213/90, Affaire Burghartz c. Suisse (reperibile, come le pronunce della Corte europea dei diritti dell’uomo che si richiameranno nel prosieguo, in https://cmiskp.echr.coe.int/).
[12] V.
Corte eur. dir. uomo, Affaire
Burghartz c. Suisse, cit..
[13] Cfr. Corte eur. dir. uomo, 16 febbraio 2005, req. n. 29865/96, Affaire Ünal Tekeli c. Turquie.
[15]
Risulta infatti come
[16]
Su questa base, per esempio,
[17] Così Cons. di Stato, 15
gennaio 2004, n. 2572 (reperibile, come le altre pronunce del Consiglio di
Stato che si richiameranno nel prosieguo, in https://www.giustizia-amministrativa.it).
[18] Così Cons. di
Stato, parere 17 marzo 2004, n. 515. Peraltro, già in un parere
del 30 gennaio 2001, n. 2069, il supremo organo di giustizia amministrativa
aveva ravvisato la possibilità per un soggetto riconosciuto alla nascita dalla
sola madre di cui aveva assunto il cognome, una volta riconosciuto, altresì,
dal padre, di cambiare idea in merito all’aggiunta del cognome di quest’ultimo,
ritenendo che «La scelta sull’assunzione o meno del cognome paterno, in quanto
estrinsecazione di un diritto della personalità (diritto al nome), non può
reputarsi irrevocabile ma, al contrario, deve poter essere riconsiderata in
relazione alle mutate situazioni personali e sociali dell’interessato, come
asserite dallo stesso», ritenendo, tuttavia, alla fine, «che la scelta di cui
all’art. 262, comma 2, del cod. civ. [potesse] considerarsi irreversibile
tuttalpiù nel caso in cui il figlio sceglie di cambiare nome non già nella
fattispecie in esame, in cui la ricorrente ha chiesto di aggiungere al cognome
materno quello paterno».
[19]
Così, dopo una prima fase riluttante precedente la messa a punto della
normativa (v. Corte
cost. 1° agosto 1979, n. 98, in Giur.
cost., 1979, I, 321)
[20] Ed
infatti, pur ammettendo la sussistenza di un “rapporto conflittuale” fra il
diritto dell’adottato alla propria identità personale e quello della madre
naturale al rispetto della sua volontà di anonimato, la Corte non ravvisa
alcuna violazione dei valori costituzionali richiamati, considerando la
disciplina giustificata dall’obiettivo da un lato di assicurare che il parto
avvenga in condizioni ottimali, sia per la madre che per il figlio, e
dall’altro lato, di distogliere la donna da decisioni irreparabili,
pregiudizievoli per la vita del figlio stesso (sulla tendenza manifestata dalla
Corte nel caso di specie ad ancorare la nozione d’“identità” a profili
maggiormente soggettivistici, si consenta il rinvio a L. Trucco, Anonimato della madre versus “identità” del
figlio davanti alla Corte costituzionale, in Dir. informazione e informatica, 117 e segg.
[21] Ciò ha
favorito il sorgere di una disputa tra, da un lato, i
fautori della tesi dell’esistenza, comunque, di una norma di sistema, sia pur
implicita, che dispone l’attribuzione al figlio legittimo del solo cognome
paterno (in questo senso cfr. Cass., 29 maggio 2006, n.
16093); e, dall’altro lato, i sostenitori dell’idea che la disciplina di attribuzione del cognome paterno derivi da
una norma consuetudinaria “ribaltabile” in senso favorevole alla madre,
ritenendo i dati testuali dai quali viene desunta (artt. 237, 262 e 299 c.c. e
artt. 33 e 34 d.p.r. n. 396/2000) insufficienti – in quanto eterogenei e non
univoci – a giustificare l’automaticità del meccanismo di attribuzione del
cognome paterno (in questo senso cfr. Cfr. Cass.,
ord. 17 luglio 2004, n. 13298).
[22] Ci
riferiamo Corte
cost., 11 febbraio 1988, n. 176, in Giur. cost., 1988,
605; e Id., 19
maggio 1988, n. 586, ivi 2726.
[23] Cfr. Cass., ord. 17 luglio 2004, n. 13298, cit.
[24] Di ciò, del resto, secondo la Corte, costituirebbe prova l’eterogeneità delle soluzioni offerte dai diversi disegni di legge che erano stati presentati in materia nel corso della XIV legislatura, tutti favorevoli, peraltro, al doppio cognome ma, a seconda dei casi: con sicura precedenza di quello del padre (d.d.l. n. 1739-S.), piuttosto che nell’ordine stabilito di comune accordo tra i genitori (d.d.l. n. 1454-S.); manifestato, se del caso, nel corso della celebrazione del matrimonio (d.d.l. n. 3133-S.). Merita inoltre di ricordarsi che nel corso della XV legislatura in commissione Giustizia del Senato era stato approvato un pacchetto di norme (d.d.l. n. 19, c.d. “d.d.l. Bindi”) di riforma il codice civile, che, tra l’altro, dava modo ai genitori di dare il cognome della madre o quello del padre o entrambi (art. 2).
[25] Così Corte cost., 16
febbraio 2006, n. 61, in Giur. cost.,
2006, 543, sulle cui argomentazioni dimostrano più di una qualche perplessità,
tra gli altri, E. Palici di Suni, Il nome
di famiglia:
[26] Cfr. Corte cost., 24
ottobre 2007, n. 348, in Giur. It.,
2007, 2382; Id.,
24 ottobre 2007, n. 349, ivi, 309.
[27] Cfr. Cass., 22 settembre 2008, n. 23934. Al riguardo, dimostra particolare attenzione per la questione il magistrato Luccioli, relatrice dell’ordinanza del 2004 ed ora presidente della Prima sezione civile della Cassazione.
[28] La “Convenzione sull’eliminazione di ogni forma di
discriminazione nei confronti della donna” è stata adottata a New York il 18 dicembre
1979, ed è stata ratificata e resa esecutiva nel nostro ordinamento, con la L.
14 marzo 1985, n. 132.
[29] Cfr. supra § 4.
[30] Cfr. supra la nota 21.
[31] In
particolare, si tratta di chiarire se l’attitudine all’interposizione
costituzionale degli obblighi internazionali cui fa riferimento l’art. 117, 1°
comma Cost. possa dirsi “semichiuso”, definendo in termini di
“sub-costituzionalità” esclusivamente le norme del sistema CEDU in virtù della
sua peculiare natura (rilevata dalla Corte e messa in luce dalla più attenta
dottrina: cfr.
D. Tega, Le sentenze della Corte
costituzionale nn. 348 e 349 del 2007:
[32] V. la nota n. 4.
[33] V. al proposito R.
Calvigioni, La disciplina del cognome
secondo le recenti direttive ministeriali.
[34] Al riguardo, cfr. la “Comunicazione
urgente in tema di applicabilità dell’art. 98 c. 2 del D.P.R. n. 396/2000”
del Ministero interno del 15 maggio 2008. Dalla medesima comunicazione emerge
come, invece, in seguito alla decisione della Corte di Giustizia relativa al caso
García Avello (v. Corte
giust. CE, C-148/02, cit.), la stessa normativa sia stata interpretata
dall’amministrazione in modo più elastico, ostativo cioè alla possibilità, per
gli ufficiali dello stato civile, di procedere a correzioni del cognome senza
il consenso dell’interessato, in presenza di soggetti muniti di doppia
cittadinanza: italiana e di altro paese, non solo europeo (benché l’art. 24
della L. 31 maggio 1995 n. 218, disponga che nel settore si applichi la
normativa del Paese di cui la persona stessa è cittadino…). In ambito
giurisprudenziale, l’impatto della decisione del giudice comunitario è
particolarmente evidente in Trib.
di Roma, 18 novembre 2005, n. 8734); ma, per esempio, il Tribunale di
Torino era già in precedenza giunto ad analoghe conclusioni, affermando l’illegittimità
della rettificazione dell’atto di nascita della persona che sia stato formato
in forza della legge straniera, anche quando la persona stessa acquista la
cittadinanza italiana e l’atto di nascita viene quindi trascritto in Italia,
(cfr. Trib. Torino, 10 marzo