Antonio Ruggeri
La Corte costituzionale davanti alla politica
(nota minima su una questione controversa, rivista attraverso taluni
frammenti della giurisprudenza in tema di fonti)*
Sommario: 1. Come “pesare” l’incidenza
della Corte sulla politica e quella della politica sulla Corte? – La Corte e il
canto ammaliante delle sirene della politica, ovverosia la Corte fa politica
costituzionale col fatto stesso di prestare alle volte eccessivo ossequio alla… politica tout court. – 2. Limiti e “controlimiti”
al piano delle relazioni interordinamentali e limiti
alle innovazioni costituzionali. – 3.
La relativizzazione dei criteri ordinatori delle fonti, in presenza del bisogno
impellente di dare appagamento a beni costituzionalmente protetti, e il
sostanziale avallo prestato alla politica dalla giurisprudenza relativa agli
atti primari di normazione del Governo. – 4. La giurisprudenza in materia
referendaria e le (non di rado squilibrate) mediazioni da essa svolte tra la
politica dei rappresentanti e la politica dei rappresentati. – 5. Quando
l’apparenza inganna, ovverosia i molti volti della Corte davanti alla
politica, rivisti allo specchio delle tecniche processuali e dei modi sempre
rinnovati del loro utilizzo.
1. Si può “pesare” l’incidenza della giurisprudenza costituzionale sulla
politica e quella della politica sulla giurisprudenza? E, se sì, in che modo,
vale a dire su che piano e a mezzo di quali strumenti o criteri?
I quesiti si trascinano stancamente da tempo, senza nondimeno trovare ad
oggi sicure o, come che sia, in tutto persuasive risposte[1].
E invero è fin troppo facile, quanto però scontato, osservare che, in fondo,
ogni pronunzia – sia come tipo che come decisione individua – del giudice
costituzionale è potenzialmente idonea a lasciare un segno, ora più ed ora meno
marcato, sui processi politici, così come, di rovescio, ogni legge e, più
largamente, ogni atto o comportamento che pervenga al sindacato del giudice
stesso, in quanto espressivo di una carica intrinseca di “politicità”, pur
variamente apprezzabile, è tenuto in conto, negli effetti che ha già prodotti e
in quelli che potrebbe ulteriormente produrre, da chi è chiamato a valutarlo.
La Corte infatti confronta e soppesa la situazione normativa presente con
quella futura, quale potrebbe aversi a seguito della eventuale caducazione dell’atto impugnato, che poi potrebbe talora
coincidere con quella… passata, per il caso
che dovesse assistersi al ripristino della situazione esistente prima
dell’avvento dell’atto stesso[2].
È però chiaro che, in questa sua generalissima (ma
anche genericissima) accezione, il rapporto di mutua condizionalità che viene
ad intrattenersi tra Corte e politica non può essere colto nei suoi tratti più
immediatamente espressivi, l’indagine finendo dunque col disperdersi nei mille
rivoli nei quali prende corpo e svolgimento la giurisprudenza costituzionale in
ogni sua manifestazione.
Delimitando il campo di esperienza attraversato dalla giurisprudenza
stessa e, soprattutto, andando alla ricerca di indici attendibili – diciamo
così, relativamente sicuri – dell’influenza dell’uno sull’altro termine della
relazione in discorso, è possibile pervenire a risultati di un certo interesse,
nondimeno meritevoli di ulteriori verifiche ed approfondimenti che dovranno
aversi in sedi diverse da questa.
Enuncio subito la tesi nella quale mi riconosco, con specifico riguardo
al campo prescelto per l’indagine che ora si avvia, quello delle vicende della normazione e dei modi della composizione delle fonti in
sistema, con l’avvertenza che le prime conclusioni su di esso raggiunte
potrebbero, anche in significativa misura, divergere da quelle conseguite in
altri campi. Nessuna impropria generalizzazione può dunque aversi; ed anzi
l’impressione che ho da tempo e che qui sento di non poter nascondere è che la
relazione tra Corte e politica abbia molti volti, prestandosi pertanto a varie
analisi, reciprocamente discoste per impostazione e svolgimenti.
La tesi è che la Corte non rimanga insensibile al canto ammaliante delle
sirene della politica[3],
perseguendo dunque una sua politica costituzionale prevalentemente
(seppur non esclusivamente) volta all’obiettivo di salvaguardare la politica
tout court; e, invero, il paradosso (apparente?) in cui si avvolge la
giurisprudenza è che quest’ultima faccia politica col fatto stesso di difendere
a tutti i costi la… politica stessa, pur laddove
appaia oggettivamente non difendibile. Un obiettivo, questo, che dunque, per il
modo con cui specie in taluni campi di esperienza è preso di mira, porta alla
formazione di linee giurisprudenziali che sembrano talora non essere né imposte
né consentite dal modello costituzionale e, ciononostante, in qualche caso
almeno, in sé non disprezzabili (come dire che la giurisprudenza ha “riscritto”
e riscrive senza sosta il modello stesso anche… in
melius), pur se nell’insieme non poche né lievi
perplessità solleva il complessivo orientamento della giurisprudenza. E si
tratta allora di chiedersi (ma in una sede diversa da questa) quale possa
essere stata la ragione che ha determinato lo stato di cose qual è (o, meglio,
quale a chi scrive appare essere) e – ciò che più importa – quali possano
essere i suoi ulteriori, prossimi sviluppi, che poi – com’è chiaro – sono i
prevedibili sviluppi di un rapporto tra Costituzione e politica che appare
farsi col tempo vieppiù squilibrato e complessivamente
alterato.
2. Procederò in questa rapida disamina in ordine sparso, limitandomi a
richiamare talune note esperienze e facendone nuovamente oggetto di rapida
considerazione dal peculiare angolo visuale congeniale a questo studio. Si
tratta – come evoca il titolo dato a queste notazioni – di “frammenti” di
giurisprudenza, che attendono di essere posti l’uno accanto all’altro e
confrontati, allo scopo di verificare se possano comporsi in un unico disegno
ovvero se restino reciprocamente slegati.
Nulla ora dirò a riguardo dell’ormai nutrito, complesso capitolo della
giurisprudenza che attiene al piano delle relazioni interordinamentali
(e, segnatamente, dei rapporti con l’ordinamento dell’Unione europea). Mi
limito solo a rilevare che non v’è forse campo in cui in modo ancora più
lampante emerga l’orientamento della Consulta volto ad assecondare i processi
politici (qui, addirittura, un processo
costituente di dimensioni europee).
La forzatura del modello, invero, si tocca con mano: col fatto stesso della
conversione in norma sulla produzione giuridica di una norma di valore, quella
dell’art. 11, in cui – per comune riconoscimento – è il fondamento del primato
del diritto sovranazionale. Da questo vizio di origine, poi, discende a cascata
tutta una lunga serie di ulteriori (e più o meno palesi) scostamenti dal
modello, dei quali nondimeno non è questo il luogo giusto per la loro opportuna
trattazione. Rammento solo, prima di passare ad altro, che l’unico limite posto
all’incalzante avanzata dell’Unione nei territori degli Stati (e, dunque, del
processo d’integrazione sovranazionale) è dato dai c.d. “controlimiti”,
che però non sono – come si sa – fino ad oggi mai stati fatti valere dalla
giurisprudenza costituzionale[4].
La qual cosa si è naturalmente tradotta in un sostanziale, formidabile puntello
offerto al processo d’integrazione, nelle forme da esso storicamente e
politicamente assunte.
La dottrina dei “controlimiti”, poi, è figlia
di una certa idea, risalente, di potere costituente, nel suo rapporto coi
poteri costituiti in genere e col potere di revisione costituzionale in ispecie. Non a caso, l’ossequio ai principi fondamentali
dell’ordinamento è comunque imposto, persino alle massime espressioni della normazione, quale che ne sia l’origine (interna ovvero
esterna)[5].
Ora, in quest’ordine di idee si dispone – come si sa – la ricostruzione
teorica corrente; e però due rilievi sono al riguardo subito da fare, con
riserva di ulteriori approfondimenti altrove.
Il primo è che, quand’anche nei termini suddetti risulti davvero essere
il modello (e – come subito si dirà – non sembra), ugualmente la Corte parrebbe
(peraltro, comprensibilmente) essere assai restia a far valere il limite dei
principi nei riguardi delle più vigorose manifestazioni della politica, sia di
diritto esterno che di diritto interno (con specifico riferimento alle leggi di
revisione costituzionale).
Si noti la differenza. Per quanto tutte le norme sopra richiamate si
considerino dotate della medesima forza (“paracostituzionale” o costituzionale tout court), la carica di politicità
insita nelle leggi con le quali la Carta è riscritta non è certo eguale a
quella di norme aventi origine lontana dagli ambienti politici nazionali. È poi
interessante osservare che l’atteggiamento della Corte parrebbe prescindere
dalla circostanza per cui le leggi stesse siano approvate coi più larghi
consensi politici (andando cioè oltre le logiche di schieramento) ovvero siano
espressive della sola maggioranza di turno, com’è stato per la legge che ha
rifatto il Titolo V. E, invero, non poche formule della legge cost. n. 3 del
2001 sono apparse a molti commentatori di dubbia conformità ai principi
fondamentali (o, diciamo pure, di certa incostituzionalità); eppure, col fatto
stesso di averle poste a parametro di centinaia di giudizi, la Corte vi ha
ormai dato il suo benevolo, sostanziale avallo. Non si dimentichi che – come la
stessa giurisprudenza ha tenuto a precisare già con la prima delle pronunzie
“gemelle” sulla CEDU del 2007 – la Consulta ritiene essere suo preciso,
indeclinabile dovere verificare preliminarmente l’idoneità della fonte
interposta di volta in volta evocata in campo ad integrare il parametro
costituzionale. In nessun caso, però, la Corte ha escluso che questa ovvero
quella norma del nuovo Titolo V possa validamente stare a base del suo
giudizio.
Il limite dei principi è, insomma, più predicato che praticato; e la
circostanza per cui sia stato fatto valere con riguardo ad atti costituzionali
ormai datati (addirittura precostituzionali, quale lo
statuto siciliano) ulteriormente avvalora la regola (o, meglio, la regolarità),
di cui si fa ora parola.
Il secondo rilievo, poi, richiederebbe un lungo ed articolato discorso,
per la cui effettuazione non si dispone qui purtroppo dello spazio necessario.
Mi limito solo ad enunciare la tesi della quale mi sono fatto convinto,
rimandando ad altra sede per la sua argomentazione.
A mia opinione, infatti, costituiscono limite alla revisione non già i principi fondamentali ut sic bensì i valori dei quali i principi
stessi danno la prima e più genuina (pur se inevitabilmente imperfetta)
trascrizione positiva[6].
Il che sta a significare che, per un verso, i principi soggiacciono al loro
eventuale mutamento, ogni qual volta esso non soltanto non si traduca in una inammissibile
incisione dei valori ma, anzi, a questi ultimi offra un accresciuto (e temporis ratione
aggiornato) servizio, nel mentre, per un altro verso, al mutamento stesso
resistono anche norme di per sé inespressive di principi che tuttavia si
dimostrino idonee a dare la prima, diretta e necessaria
specificazione-attuazione ai valori.
Sotto quest’ultimo aspetto in particolare, la giurisprudenza offre
materiali di varia fattura e consistenza, l’analisi della cui struttura si apre
ad esiti ricostruttivi di non secondario rilievo per ciò che attiene ai modi di
composizione delle fonti (rectius, delle
norme) in sistema, specificamente apprezzabili dall’angolo di osservazione
privilegiato della giustizia e della giurisprudenza costituzionale.
3. Il discorso sopra succintamente svolto è infatti generalizzabile,
proiettandosi ben al di là del campo di esperienza coperto dalle innovazioni al
piano costituzionale. La Corte invero non sembra voler far propria, in via di
principio, una prospettiva assiologicamente orientata
di osservazione delle vicende della normazione; e,
tuttavia, in non pochi casi proprio questo sembra essere il “metodo” seguito al
momento della qualifica delle vicende in parola.
Farò ora solo i primi esempi che mi vengono in mente; prima di dirne,
però, mi preme mettere subito in chiaro che essi possono prestarsi a
valutazioni di vario segno, per le specifiche esigenze ricostruttive di questo
studio, con un tendenziale orientamento tuttavia, che traspare dalla
giurisprudenza cui si fa adesso cenno, di “copertura” nei riguardi della
politica e delle sue più vistose espressioni.
Si pensi, ad es., al caso di norme dalla dubbia conformità a Costituzione
ovvero dalla certa, acclarata (dalla stessa Corte)
incostituzionalità. Norme fatte però ugualmente salve, a motivo della
congiuntura (straordinaria o di “emergenza”, latamente
intesa) che ne giustifica l’adozione e/o degli interessi di cui esse si fanno
cura o ancora di taluni bisogni elementari dell’uomo il cui mancato appagamento
ridonderebbe in una intollerabile ferita alla dignità dell’uomo stesso. È in
nome di quest’ultima che, a conti fatti, “saltano” i meccanismi usuali di
composizione delle fonti in sistema, coi criteri ordinatori che presiedono alla
loro attivazione, da quello gerarchico a quello della lex
posterior, all’altro della competenza[7].
Ora, la prospettiva assiologico-sostanziale ai
miei occhi appare essere la più idonea – secondo modello – ad offrire un
servizio non nominale o di facciata alla Carta ed ai suoi valori. Le norme,
d’altronde, ovunque poste (in atti costituzionali e non), si scompongono e
ricompongono senza sosta in sistema unicamente per il modo con cui, a un tempo,
si piegano verso gli interessi per la cui cura sono adottate e si volgono verso
i valori, da cui prendono luce, alimento, giustificazione. Eppure, va
riconosciuto che la prospettiva stessa è proprio quella che più d’ogni altra dà
modo alla “forza politica” di cui la Corte dispone di spiegarsi in tutto il
formidabile potenziale di cui è dotata[8].
La qual cosa poi prende corpo attraverso esperienze processuali che suonano ora
conferma ed ora contestazione nei riguardi delle più salienti espressioni della
politica.
L’arma è, insomma, potente, anzi potentissima, suscettibile di essere
usata per fini buoni come pure cattivi; nei fatti, nondimeno, si è assistito ad
una tendenziale (ed alle volte fin troppo benevola) “copertura” offerta alla
politica.
Faccio, come di consueto, solo un paio di esempi, per dare un minimo di
concretezza alla succinta riflessione che si va ora facendo. Si consideri,
dunque, la giurisprudenza relativa agli atti primari di normazione
del Governo, qui ovviamente rivisitata solo in alcuni dei suoi molti profili.
Come leggere, dunque, la “dottrina” della Corte secondo cui i
decreti-legge sono censurabili unicamente in caso di “evidente mancanza” dei
presupposti fattuali giustificativi della loro adozione?
Riconsiderata questa nota vicenda in prospettiva storica, posta cioè a
confronto col tempo in cui nessuna sanzione, per mano della Corte, si riteneva
possibile per l’aspetto in parola, non v’è dubbio che sia sensibilmente
cresciuto il sindacato sulla politica, nell’intento di arginare la marea
montante delle sue deviazioni dal solco costituzionale[9].
Eppure, non può certo dirsi – a me pare – che la Consulta faccia sentire il
fiato sul collo del Governo (e, anzi, di entrambi gli organi della direzione
politica, se si considera che le stesse leggi di conversione possono risultare
contagiate dal virus invalidante di cui dovessero essere in partenza
colpiti gli atti di urgenza del Governo).
Diciamo le cose come stanno. La tesi della “evidente mancanza” non sta né
in cielo né in terra né in alcun altro luogo. La Corte – come si è tentato di
mostrare altrove – non è stata istituita allo scopo di sanzionare unicamente le
violazioni certe della Costituzione bensì per risolvere i casi
dubbi, le “controversie”, secondo la non accidentale formulazione dell’art. 134[10].
Si capisce molto bene la ragione che ha consigliato alla Corte di tracciare e
tener ferma sul punto la linea giurisprudenziale suddetta, linea di compromesso
tra il bisogno di non esporre la Corte stessa oltre il dovuto o l’opportuno, a
pena della sua grave delegittimazione, e il bisogno, non meno rilevante ed
apprezzabile, di delimitare l’area delle “zone franche” o – come pure s’è detto
– “d’ombra” della giustizia costituzionale[11].
Sta di fatto che la “dottrina” della “evidente mancanza” porta
tendenzialmente acqua al mulino di una politica vistosamente deviante dal
modello costituzionale; costituisce, cioè, la teorizzazione del primato della
politica sulla Costituzione, passibile di arresto unicamente in caso di
macroscopiche violazioni della Costituzione stessa[12].
Ciò che, poi, è ancora più gravido di significati e complessive valenze se si
tiene conto del fatto che, nelle esperienze fin qui maturate, estremamente
ridotti sono stati i casi in cui la mancanza dei requisiti costituzionali è
stata giudicata “evidente”.
Se poi – al di là dell’aspetto ora specificamente rilevante – si
considera l’andamento complessivo della giurisprudenza sugli atti di urgenza
del Governo, possono aversi ulteriori, importanti conferme dell’ipotesi
ricostruttiva qui formulata.
L’analisi, a questo punto, si intreccia con quella relativa agli altri
atti primari del Governo, i decreti legislativi. Non poche volte si è infatti
assistito a decreti-legge che hanno anticipato l’adozione dei decreti delegati
(ad es., in fatto di semplificazione) ovvero li hanno modificati in pendenza
della delega; e, ancora, si sono avute innovazioni di non secondario rilievo
alle stesse leggi di delega, comunemente considerate non consentite dal modello
e, ciononostante, fatte salve da una fin troppo indulgente giurisprudenza.
La più sensibile dottrina ha fatto notare che, in realtà, la
giurisprudenza è più severa nei riguardi degli atti delegati che nei riguardi
delle leggi che li precedono e condizionano[13],
fatte salve pur laddove il loro scostamento dal modello si abbia per tabulas[14].
È vero che proprio la giurisprudenza sulle deleghe è forse quella che meglio
rappresenta quell’animus di sostanziale acquiescenza della Consulta
verso le esperienze della normazione e la politica
che vi dà corpo e sostegno, di cui qui si viene dicendo. Il punto ora maggiormente
rilevante non è tuttavia tanto quello riguardante l’equilibrio (o, meglio, lo squilibrio…) tra gli organi della direzione politica, con
evidenti ricadute sulla conformazione e gli sviluppi della forma di governo.
Ciò che ora importa è il senso complessivo che la giurisprudenza possiede e
manifesta sul fronte dei rapporti tra Corte e politica (e, per ciò pure, tra
Costituzione e politica): un senso che – come si tenta qui di mostrare – appare
nettamente orientato ad assecondare taluni, pur se vistosi, scostamenti dal
modello costituzionale, sia ad opera della fonte parlamentare che di quella
governativa e, non poche volte, congiuntamente di entrambe. La stessa
sottolineatura del diverso trattamento fatto agli organi d’indirizzo è, ad ogni
buon conto, almeno in parte artificiosa, sol che si consideri, per un verso,
che tutti e due vedono la propria azione politica poggiare sulla stessa
maggioranza e, per un altro verso, che le deleghe sono in buona sostanza
confezionate dallo stesso Governo, pur restando ovviamente imputabili quoad formam alle
assemblee parlamentari e da queste ultime variamente emendabili.
4. Un cenno solo, di sfuggita, alla giurisprudenza in materia referendaria[15].
Qui, nuovamente, a seconda dei profili di volta in volta in rilievo può
pervenirsi ad esiti ricostruttivi di vario segno, con un tendenziale
orientamento tuttavia di favore per la politica, in alcune delle sue più
vigorose espressioni.
Si consideri, ad es., la giurisprudenza nella parte in cui sottrae ad
abrogazione popolare le norme legislative che danno una “tutela minima” a beni
costituzionalmente protetti. Una giurisprudenza che può essere vista a doppia
faccia: da un canto, al pari della “dottrina” sulla “evidente mancanza”, di cui
s’è appena detto, può rilevarsi che l’indirizzo della Corte è di far distendere
i propri interventi volti a riaprire la partita tra Parlamento-legislatore
e popolo-legislatore unicamente laddove il margine di apprezzamento “politico”
della Corte stessa risulti ridotto all’osso, a presidio delle opzioni politiche
racchiuse nei testi di legge. Da un altro canto, il fatto stesso che gli
interventi in parola abbiano comunque l’opportunità di spiegarsi in casi non
catalogabili secondo schemi di formale fattura testimonia che la Corte vuol
detenere in via esclusiva il fischietto da usare nel corso della partita aperta
dall’iniziativa dei promotori della consultazione popolare, ritagliando dunque
per sé un ruolo arbitrale connotato da cospicua discrezionalità.
La formula relativa alla “tutela minima”, al pari delle altre con le
quali si stabiliscono i casi in cui le domande referendarie non possono trovare
accoglienza, dà perciò modo alla Corte di fissare i punti di equilibrio di
volta in volta giudicati più adeguati, lungo il fronte dei rapporti tra
giurisdizione costituzionale e politica così come su quello relativo ai
rapporti tra l’una e l’altra forma della politica. Mi riferisco, a quest’ultimo
riguardo, alle sottili (e, invero, non di rado, problematiche) mediazioni che
la Corte effettua tra la politica dei rappresentanti e la politica dei
rappresentati. La circostanza, poi, che il referendum possa, per l’uno o per
l’altro verso, essere giudicato inammissibile (per inidoneità dell’oggetto,
cattiva formulazione della domanda o produzione di effetti incostituzionali)
può essere vista come una spia del maggior favore che tendenzialmente la Corte
nutre nei riguardi della democrazia rappresentativa piuttosto che per la
diretta[16].
Lo stesso frequente scivolamento del giudizio di ammissibilità in un giudizio
anticipato di costituzionalità sulla normativa di risulta, nel mentre parrebbe
evocare uno scenario segnato dal primato comunque assegnato alla Costituzione
sulla politica, per la sua parte ulteriormente avvalora la preferenza accordata
alla democrazia rappresentativa sulla democrazia diretta, la seconda risultando
ostacolata nelle sue possibili proiezioni in nome degli effetti
incostituzionali causati dai prodotti della… prima,
così come però emendati dal popolo in armi.
5. Un riferimento, da ultimo, al modo con cui il rapporto tra Corte e
politica traspare in conseguenza dell’uso fatto di certe tecniche processuali.
In generale, si tende – come si sa – a rilevare che l’essersi col tempo la
Corte dotata di tecniche vieppiù raffinate ed
incisive testimonia una penetrazione crescente della Corte stessa negli ambiti
tradizionalmente considerati di esclusivo dominio della politica. C’è senza
dubbio del vero, diciamo pure molto di vero, in questa diffusa credenza;
e, però, il quadro appare nel suo complesso assai più variegato di come sia
talora rappresentato, con eccessiva semplificazione dei materiali offerti
dall’esperienza e dei modi della loro reciproca combinazione.
Si pensi solo a quelle che sono usualmente considerate le pronunzie
maggiormente invasive della politica, le additive e manipolative in genere. È
fuor di dubbio che, per il loro tramite, la Corte abbia non poche volte
sostanzialmente (e, se si vuole, indebitamente) riscritto i testi di legge. A
mia opinione, tuttavia, nulla può dirsi in astratto o in vitro a riguardo di queste esperienze, sotto il duplice aspetto
della loro rispondenza al modello e della occupazione dei campi riservati alla
politica, il giudizio piuttosto richiedendo ogni volta di essere rinnovato in
concreto, in vivo. Riviste infatti
queste vicende dal punto di vista dei valori e dell’equilibrio che tra di essi
deve costantemente intrattenersi, la conclusione può talvolta divergere dalla
prima, affrettata impressione sopra riportata, le addizioni e manipolazioni in
genere rivelando una finalità conservativa, a fronte dell’ipotesi alternativa
rappresentata dalla caducazione “secca” di un testo
parzialmente incompatibile rispetto alla Carta. Il giudice infatti – come si
accennava ad altro riguardo poc’anzi – fa sempre luogo, pur non esplicitandolo,
ad un raffronto, ad un vero e proprio bilanciamento, tra la situazione
normativa presente e la situazione normativa quale potrebbe aversi a seguito
del mero annullamento dell’atto impugnato; e, ove si rappresenti come
indesiderabile (al piano della opportunità così come a quello della
costituzionalità) lo scenario che verrebbe a delinearsi per effetto
dell’annullamento stesso, può talora temperare o ridurre la portata di
quest’ultimo a mezzo appunto delle manipolazioni in parola.
È interessante notare come queste ultime, per quanto esteriormente
vistose, siano talora meno “creative” di altre operazioni apparentemente in
tutto e per tutto conservative[17].
Si pensi, ad es., ai casi d’interpretazione conforme, specialmente a
quelli in cui è la Corte stessa a somministrare ai giudici l’interpretazione
ritenuta la più corretta (alle volte, la sola corretta[18]),
di cui si sollecita appunto l’adozione. Ebbene, non è infrequente riscontrare
che la Corte fa luogo a quest’ultima proprio perché consapevole della
improponibilità della manipolazione testuale, in nome della impalpabile nozione
di “discrezionalità” del legislatore. Solo che la manipolazione è talora
occulta ed ancora più corposa: portandosi oltre la crosta del dato testuale va
infatti a colpire al cuore la sostanza normativa racchiusa nel dato stesso,
operandone una più o meno incisiva trasformazione. La politica è in tal modo
posta, di tutta evidenza, sotto stress,
pur risultando allo stesso tempo (e per paradossale che possa per più aspetti sembrare)
rilegittimata o valorizzata, ma col costo appunto del
rifacimento dei suoi prodotti iussu iudicis. Certo, rimane pur sempre il diverso effetto
che è, rispettivamente, proprio delle manipolazioni testuali, valevoli per
tutti, e delle manipolazioni per via d’interpretazione, provviste di mera
efficacia persuasiva (nei riguardi della stessa autorità remittente e, quindi,
degli operatori in genere). Ma questo è l’esito linearmente discendente, per
sistema, dalla previa opzione fatta, che induce la Corte ad avviarsi lungo
l’uno ovvero l’altro percorso.
Se poi si scava ancora più a fondo in queste esperienze, ci si avvede che
alle volte dietro la manipolazione dei testi ovvero della loro sostanza si
annida una sostanziale manipolazione del parametro, che anzi dà la spinta e
spiana la via alla realizzazione della prima. La Corte così diventa il massimo
decisore politico, un vero e proprio decisore costituente permanente,
investito dell’autorità di enunciare “verità” di diritto costituzionale
giuridicamente indiscutibili[19],
tanto più temibile quanto più riesca abilmente a mimetizzarsi, dichiarandosi
costantemente scrupoloso e fedele servitore della Carta, dei suoi valori, delle
sue norme.
Ciò che ora solo importa, per chiudere, è che la partita si apre ogni volta
ad esiti plurimi, non preconfezionati, tra i quali v’è anche quello esattamente
opposto al quadro sopra succintamente raffigurato, un esito che vede le
manipolazioni testuali fortemente aggressive nei riguardi della politica e
invece in tutto insussistenti le manipolazioni per via d’interpretazione[20].
Quel che si vuol dire, insomma, è che il modello può non riconoscersi,
così come effettivamente non si riconosce, né nell’uno né nell’altro degli scenari
sopra delineati. E, invero, il modello è per sua natura duttile ed aperto,
consegnando alla Corte ed ai pratici in genere unicamente una direttiva
d’azione, da cui risulta che le operazioni di giustizia costituzionale, in
tanto si giustificano, in quanto rispondano al fine di conciliare, nel modo più
adeguato in ragione dei contesti, l’autodeterminazione
della politica e il primato della
Costituzione, la vocazione dell’una ad affermarsi in modo pieno negli
ambiti suoi propri e il bisogno dell’altra di farsi sempre (e per intero)
valere: nelle sue regole e, soprattutto, nei suoi principi (e, in ultima
istanza, nei valori). Come poi far luogo agli opportuni bilanciamenti tra
istanze comunque meritevoli di appagamento è affare della Corte; quel che è certo
è che è la stessa Costituzione a
voler preservata la sana politica,
quella che è servente la
Costituzione, ed a voler sanzionata la cattiva
politica, quella che si serve della
Costituzione, piegandola ai propri, inconfessabili scopi.
L’autodeterminazione della politica è, insomma, nella stessa Costituzione, siccome rispondente ad uno dei valori positivizzati nella Carta: nasce e si perfeziona fuori di
questa ma ha pure bisogno di essere da questa riconosciuta e salvaguardata.
Allo stesso modo, l’orientamento verso la Carta dovrebbe essere un fatto naturale per la politica, un suo impulso
irrefrenabile, costante. Mentre però l’una cosa è provata, l’altra attende ad
oggi di farsi, in una consistente misura, apprezzare nell’esperienza.
Lo scarto tra modello e prassi è, dunque, vistoso. Sta alla politica
rinvenire dentro di sé le risorse necessarie alla propria rigenerazione, idonee
a farla ricongiungere con la Costituzione o, quanto meno, ad accorciare la non
poca distanza che la separa da questa. Sta alla Corte fare ciò che può, specie
in una congiuntura oggettivamente non facile, perché questo obiettivo sia,
almeno in parte, raggiunto, promuovendo la sana
e bocciando la cattiva politica.
* In corso
di stampa in Percorsi costituzionali, 2-3/2010.
[1] Rammento qui
solo il confronto non molto tempo addietro avutosi in occasione di uno dei
convegni annuali del Gruppo di Pisa, su Corte costituzionale e processi di decisione politica, svoltosi
ad Otranto il 4 e 5 giugno 2004, a cura di V. Tondi
della Mura - M. Carducci
- R.G. Rodio, Giappichelli,
Torino 2005.
[2] … per
quanto il riconoscimento della “reviviscenza” di leggi abrogate da leggi
giudicate come costituzionalmente illegittime sia compito del giudice e degli
operatori in genere, non della Corte, che nondimeno può ugualmente
prefigurarsene l’esistenza, così come s’è avuto in alcuni casi.
[3] Questa
immagine è già nel mio La Corte e le sirene della politica (frammenti di uno
studio su esperienze e tendenze della normazione e
politicità dei giudizi di costituzionalità), in V. Tondi della Mura - M. Carducci - R.G. Rodio
(a cura di), Corte costituzionale e processi di decisione politica,
cit., pp. 664 ss.
[4] Lo sono
stati – come pure è noto – dal Consiglio
di Stato, in una decisione del 2005; non è, poi, senza interesse rilevare
che la loro violazione non è stata (e seguita a non essere) stranamente
denunziata dai giudici comuni: a riprova del fatto che all’esito del
praticamente incondizionato primato del diritto dell’Unione ha in modo decisivo
concorso, con la giurisprudenza costituzionale, la giurisprudenza ordinaria
che, con la sua stessa inerzia, ha prevenuto l’insorgere di talune spinose
questioni che avrebbero verosimilmente potuto dare non poco filo da torcere
alla Consulta.
[5] Così,
dunque, oltre che per il diritto dell’Unione, altresì per le norme
internazionali generalmente riconosciute e le norme concordatarie.
[6] La tesi
può, volendo, vedersi nei miei Revisioni formali, modifiche tacite
della Costituzione e garanzie dei valori fondamentali dell’ordinamento, in Dir. soc., 4/2005, pp. 451 ss., e Valori e
principi costituzionali degli Stati integrati d’Europa, in
Teoria dir. e St., 2-3/2009, pp. 292
ss. Cfr. al mio punto di vista quello ora fatto proprio da A. Barbera, Ordinamento costituzionale e carte costituzionali, in Quad. cost., 2/2010, pp. 311 ss., spec.
350 ss.
[7] Un solo
esempio a quest’ultimo riguardo. Si pensi, dunque, al (non paritario)
bilanciamento effettuato tra il bisogno di offrire comunque protezione ai
diritti fondamentali e il bisogno di preservare integro il riparto
costituzionale delle competenze tra Stato e Regioni, che ha portato (e porta)
all’accantonamento del secondo in funzione del prioritario appagamento del
primo (così, ad es., in sentt.
nn. 10 e 121 del 2010, a
proposito della social card). L’intera giurisprudenza costituzionale sulle
materie, con l’ambiguo riferimento al canone della “prevalenza” ovvero, nella
impossibilità della sua messa in atto, al canone della “leale cooperazione”,
esibisce una forte connotazione (latamente) politica,
che per vero trae alimento dalla strutturale vaghezza del linguaggio
costituzionale e che poi, nei fatti, perlopiù si traduce in un tendenziale
avallo nei riguardi delle opzioni fatte dal legislatore statale (in argomento,
per tutti, F. Benelli - R. Bin, Prevalenza
e “rimaterializzazione delle materie”: scacco matto
alle Regioni, in Le Regioni, 6/2009, pp. 1185 ss., e riferimenti ivi).
[8] La formula
della “forza politica” è – come si sa – una delle più felici intuizioni del mio
compianto Maestro [v., dunque, di T. Martines il suo ormai “classico” Contributo ad una
teoria giuridica delle forze politiche (1957), ora in Opere, I, Giuffrè, Milano 2000, spec. pp. 196 ss.].
[9] Si
rammenti al riguardo anche la giurisprudenza sul divieto di reiterazione dei
decreti-legge, che nondimeno non ha dato i frutti sperati, forse anche per
effetto del temperamento operato dalla stessa giurisprudenza nei riguardi del
divieto in parola, con riferimento al caso che possa sopraggiungere una nuova e
diversa situazione di emergenza, pur se richiedente di essere fronteggiata con
le medesime norme (la qual cosa è invero poco credibile) ovvero che, anche
perdurando la vecchia emergenza, il secondo decreto si differenzi
sostanzialmente dal primo (nel qual caso, però, non v’è vera “reiterazione”…).
[10] Note
critiche sul punto, tra gli altri, in A. Rauti,
La giurisprudenza costituzionale in tema di decreti-legge ed i suoi
problematici riflessi sulla forma di governo, in A. Ruggeri (a cura di), La ridefinizione della forma di
governo attraverso la giurisprudenza costituzionale, ESI, Napoli 2006,
spec. pp. 63 ss.
[11] Su ciò,
per tutti, i due volumi relativi a due incontri del Gruppo di Pisa, dal titolo
emblematico: Le zone d’ombra della
giustizia costituzionale. I giudizi sulle leggi, a cura di R. Balduzzi e P. Costanzo, Giappichelli,
Torino 2007, e Le zone d’ombra della giustizia costituzionale. I giudizi sui
conflitti di attribuzione e sull’ammissibilità del referendum abrogativo, a cura di R. Pinardi, Giappichelli,
Torino 2007.
[12] Fa da
specchio a questa “dottrina” del sindacato di costituzionalità, per l’aspetto
ora considerato, sugli atti del Governo l’altra (ed essa pure non poco discussa
e discutibile) “dottrina” di cui s’è fatto portatore il Presidente della
Repubblica Ciampi, secondo cui l’esercizio del potere di rinvio delle leggi si
giustificherebbe unicamente in casi di manifesta incostituzionalità
delle leggi stesse. Ciò che, però, è – come si sa – contraddetto da una prassi
assai varia ed oscillante, che conosce non pochi rinvii (taluno dello stesso Ciampi…) di “merito costituzionale” – come, con una certa,
non rimossa ambiguità, suole essere chiamato – ovvero di merito tout court
(su di che i dati riferiti da S. Calzolaio,
Il rinvio delle leggi nella prassi, in Quad. cost., 4/2006, pp.
853 ss.).
[13] Si è
infatti detto che «la Corte incontra maggiori difficoltà nel sanzionare il
Parlamento che non difende le proprie prerogative piuttosto che il Governo che
le usurpi» [G. Di Cosimo, Tutto
ha un limite (la Corte e il Governo legislatore), in www.forumcostituzionale.it, par.
9]; in argomento, v., poi, tra i molti altri, i contributi al Seminario
svoltosi presso la Corte costituzionale il 24 ottobre 2008 su La delega
legislativa, Milano 2009 e G. Tarli
Barbieri, che ne ha trattato a più riprese (da ultimo in Legge ed
atti del Governo e di altre autorità statali, in AA.VV., Osservatorio
sulle fonti 2008, a cura di P. Caretti, Torino
2010, 71 ss., spec. 91 ss.).
[14] Si pensi, per
tutti, al caso non infrequente di deleghe largamente indeterminate, quando non
del tutto prive dei requisiti loro propri, per non dire delle deleghe contenute
in leggi di conversione o delle deleghe “clandestine”, come sono state da
taluno chiamate.
[15] Su di che,
ora, A. Pertici,
Il Giudice delle leggi e il giudizio di ammissibilità del referendum
abrogativo, Giappichelli, Torino 2010.
[16] Netta
l’opzione in tal senso di G. Azzariti,
Corte e democrazia, relaz. al Convegno del
Gruppo di Pisa su Corte costituzionale e sistema istituzionale, 4-5
giugno 2010 (la versione provv. dello scritto può
vedersi in www.gruppodipisa2010.it),
nel quadro di una generale ricostruzione del modello che tuttavia sembra
sottolineare in modo eccessivo la pur indefettibile funzione della
rappresentanza.
La più emblematica raffigurazione della “copertura” dalla
Corte offerta al potere dei rappresentanti si ha, forse, nella nota
giurisprudenza sulla insindacabilità dei regolamenti camerali in sede di
giudizio sulle leggi, mentre espressiva di una sofferta mediazione (essa pure, in
nuce, politica) tra rappresentanza e
giurisdizione, politica e Stato di diritto costituzionale, è la giurisprudenza
sulle controversie ex art. 68.
[17] Il punto è
stato già toccato in precedenti riflessioni (v., dunque, volendo, il mio La
giustizia costituzionale italiana tra finzione e realtà, ovverosia tra
esibizione della “diffusione” e vocazione all’“accentramento”, in Riv. dir. cost., 2007, pp. 69 ss., spec. pp.
73 ss.).
[18] … quasi
che, però, la Corte possa proporsi quale organo d’interpretazione autentica
delle leggi...
[19] Ma v., a
riguardo della possibilità che – a certe condizioni – il giudicato
costituzionale possa essere riconsiderato all’impatto con pronunzie delle Corti
europee di segno opposto, quanto se ne dice ora nel mio Corte costituzionale e Corti
europee: il modello, le esperienze, le prospettive, Relazione al Convegno del Gruppo di
Pisa su Corte costituzionale e sistema istituzionale, Pisa 4-5 giugno
2010, in www.associazionedeicostituzionalisti.it.
[20] Così, ad
es., laddove il giudice costituzionale tenti di riportare interpretazioni –
diciamo così – “eccentriche”, fuori posto, prospettate da qualche giudice a quo nell’alveo del diritto vivente.
Nel qual caso, poi, non è detto che l’operazione si traduca sempre in un
puntello offerto alla politica, potendo all’inverso “rilegittimare”
letture ormai diffuse nelle aule giudiziarie e sensibilmente discoste dal
dettato legislativo.