Alessandro Pizzorusso
“Zone d’ombra” e “zone franche” della giustizia
costituzionale italiana*
Gli atti
dei due seminari sulle “zone d’ombra della giustizia costituzionale”
organizzati dal “Gruppo di Pisa” e svoltisi, il primo a Genova il 10 marzo 2006
sui giudizi di costituzionalità delle leggi e il secondo a Modena il 13 ottobre
successivo sui giudizi sui conflitti e sull’ammissibilità dei referendum (ed ora disponibili nei due
volumi pubblicati dall’editore Giappichelli nella collana dei “quaderni” curati
dall’associazione organizzatrice) vanno per molti versi al di là del loro tema
specifico, costituito dall’individuazione degli spazi che risultano preclusi al
controllo di costituzionalità così come esso è congegnato dalle regole vigenti
e così come esso concretamente funziona oggi in Italia. Partendo dalla ricerca
di tali spazi, i relatori e gli altri intervenuti finiscono per compiere
un’ampia rassegna dei problemi attuali del processo costituzionale, inserendosi
nell’ormai vastissima letteratura giuridica dedicata allo studio della Corte
costituzionale e della sua attività di interpretazione della Costituzione italiana.
L’occasione per una riflessione su questi temi, che i trentanove scritti
compresi in queste due raccolte di saggi offrono, ben si presta quindi per
festeggiare uno studioso come Pierfrancesco Grossi,
che a questi problemi ha dedicato larga parte della sua importante attività
scientifica e pratica e che mi piace salutare, in nome di una ormai antica
colleganza, nel momento in cui conclude il suo insegnamento, ma certamente non
anche la sua partecipazione alla ricerca sui temi costituzionalistici.
Come
Antonio Ruggeri esplicitamente mette in luce fin dalla presentazione del primo
seminario, e come Valerio Onida conferma nelle riflessioni che chiudono il
secondo, l’impiego del termine “zone d’ombra” allarga notevolmente il tema
delle “zone franche” dal controllo di costituzionalità. Con questo secondo
termine, infatti, si era spesso indicato in passato un obiettivo ben preciso,
cioè l’individuazione di quel complesso di questioni, potenzialmente
suscettibili di costituire oggetto di tale controllo, ma sulle quali la
delimitazione dei compiti assegnati alla Corte dalla Costituzione, quali
precisati dalle leggi attuative e dalla giurisprudenza sviluppatasi dal 1956 in
poi (oltre che da quella sorta di giurisprudenza in veste legislativa, ovvero
di legislazione a base giurisprudenziale, che è costituita dalle norme
integrative che la Corte si è data su basi teoriche che la dottrina ha faticato
non poco a mettere a fuoco), non le consentivano di pronunciarsi.
L’uso
del termine “zone d’ombra”, sfumando notevolmente i confini della categoria
presa in esame, allarga considerevolmente il tema e lo estende – come si
esprime Onida – “anche ai casi in cui il giudizio della Corte ha ugualmente
modo di spiegarsi, pur lasciando per l’uno o l’altro aspetto comunque
insoddisfatte o, come che sia, non pienamente appagate talune aspettative di
giustizia costituzionale (per una loro densa, esigente accezione)”, laddove il
termine “zone franche” alludeva ad una serie di precise chiusure che escludono
il controllo giurisdizionale (anche di costituzionalità) di una serie di
attività qualificate da un tasso di “politicità” che le renderebbero insindacabili
in sede giudiziaria (talora anche a costo del sacrificio di diritti, pur
costituzionalmente riconosciuti ai cittadini) e che risultano pertanto coperte
da “immunità” dei titolari di pubblici poteri (talora estese anche agli atti da
essi compiuti al di fuori dall’esercizio delle funzioni “politiche” loro
assegnate, e comunque tali da non assicurare alcun indennizzo, ex art. 2043, cod.civ., a chi ne abbia
riportato un danno, escludendosi esplicitamente o implicitamente
l’”ingiustizia” del fatto che l’ha provocato).
L’allargamento
del tema dei due convegni, che ne è risultato, ha consentito ai molti
partecipanti di offrire un quadro molto più completo di questo genere di
problemi della giustizia costituzionale, ma certamente non elimina la distinzione
fra i due temi, sulla quale giova aggiungere, proprio alla luce degli atti ora
pubblicati, qualche ulteriore riflessione.
La
lettura degli ottimi contributi raccolti nei due volumi offre infatti una
preziosa occasione per ripensare le molte controversie che hanno scandito le
fasi di attuazione di quei principi del “costituzionalismo” che hanno
comportato l’abolizione o la limitazione dei molti istituti giuridici mediante
i quali, prima che si sviluppasse la concezione della forma di Stato come “stato
di diritto” e della costituzione come garanzia dei diritti fondamentali della
persona, si giustificavano una quantità di deroghe alle varie forme di tutela
dei diritti stessi e, più in generale, a quel complesso di principi giuridici i
quali facevano sì che un paese “avesse una costituzione” (secondo la felice
espressione usata nell’art.16 della Dichiarazione dei diritti adottata in
Francia nel 1789).
In
Italia, la progressiva attuazione di quei principi ha dato luogo ad una serie
di transizioni che hanno determinato alcuni avanzamenti verso l’attuazione dei
principi del costituzionalismo (purtroppo sempre seguiti da fasi di segno
contrario in una specie di altalena che chi scrive ha cercato di sintetizzare
grazie all’ospitalità offertami da Aggiornamenti sociali, 2006, p.103 ss.) e
tuttora non è certo dove questo movimento pendolare finirà per arrestarsi.
Nell’auspicio che il pendolo giunga prima o poi a fermarsi sul punto più vicino
possibile alle situazioni di massima attuazione dei principi del costituzionalismo,
possono farsi alcune considerazioni sulle circostanze che hanno determinato
ostacoli ancora avvertibili ai relativi percorsi e gli scritti qui raccolti ci
offrono una preziosa rassegna di dati e di osservazioni, dalle quali si desume
innanzi tutto la possibilità di distinguere le remore che derivano da mere
imperfezioni tecniche che sono proprie di alcune delle soluzioni fin qui
adottate e praticate, cioè delle mere “zone d’ombra”, per lo più facilmente
eliminabili ove affrontate con buona volontà, dalle vere e proprie “zone
franche”, poste a tutela di posizioni di privilegio più difficilmente
scalzabili.
I
problemi del primo tipo dipendono prevalentemente dal fatto che l’ordinamento
della giustizia costituzionale è stato introdotto in Italia, con la
Costituzione del 1947, in vigore dal 1° gennaio 1948 (ma in questa parte
praticamente funzionante solo vari anni dopo e tra mille difficoltà), sulla
base di conoscenze assai limitate e da parte di assemblee legislative molto più
propense a tenere conto degli interessi di parte che delle acquisizioni
scientifiche che erano già allora utilizzabili. Nonostante tutto ciò, il
prodotto dei lavori dell’Assemblea costituente, del legislatore ordinario e
della stessa Corte, che durante la prima fase della sua attività pose una serie
di pietre miliari in via giurisprudenziale e mediante i suoi poteri
regolamentari, fu nel complesso assai positivo.
Da un
lato, infatti, fu colta l’inopportunità di affidarsi interamente all’opera dei
magistrati allora operanti, privi com’erano, nella loro maggioranza, di una
formazione sufficientemente orientata verso i principi del costituzionalismo
(secondo il modello americano di giustizia costituzionale, che era l’unico a
offrire un’esperienza abbastanza ampia, anche se poco familiare ai giuristi
italiani); dall’altro lato, si comprese le necessità di non rinunciare a quelle
forme di raccordo con la giurisprudenza giudiziaria che consentivano di
mantenere un collegamento con la realtà dei problemi che avrebbero dovuto
essere affrontati. La successiva esperienza dimostrò soprattutto come tali
raccordi consentissero alla Corte costituzionale di svolgere efficacemente una
preziosa funzione educativa ai valori espressi della Costituzione nei confronti
dei magistrati e avvocati che operarono nel periodo che seguì l’inizio
dell’attività dalla Corte.
Assai
fortunosamente, ne derivò così un sistema che affidava (con il fondamentale
art.1 della legge
costituzionale n. 1 del 1948) essenzialmente ai giudici (ed agli avvocati e
alle parti, per loro mezzo) l’iniziativa del controllo di costituzionalità
delle leggi che essi dovessero applicare, senza limiti di tempo o d’altro
genere e senza riserve a favore delle corti che occupavano le posizioni più
elevate della gerarchia giudiziaria (ereditata dai precedenti regimi e
provvisoriamente salvaguardata dalla VII disposizione transitoria della
Costituzione) e alla Corte costituzionale la decisione delle questioni con
effetti erga omnes, in caso di
accoglimento, ma soltanto inter partes in caso di rigetto (come stabilito
nell’altrettanto fondamentale art. 136 della Costituzione). Si rinunciò invece,
quasi completamente, al controllo su ricorso diretto, che pure era previsto, in
termini assai ampi, nell’art. 128, comma 2, del progetto di Costituzione
approvato dalla Commissione dei 75, limitandolo al campo dei rapporti
Stato-Regioni, cosicché esso rimase per molto tempo largamente ininfluente per
la mancata istituzione delle Regioni ordinarie e, anche dopo la loro creazione,
per il carattere asimmetrico attribuito all’iniziativa del controllo.
Grazie
inoltre alla fondamentale svolta impressa dalla Corte con la sua prima
sentenza, con la quale essa affermò la natura giuridica e l’efficacia invalidante
delle leggi con esse incompatibili di tutte le norme della Costituzione,
comprese quelle così dette “programmatiche”, nonché la sua competenza a
pronunciarsi anche nei confronti delle leggi anteriori, nel corso di alcuni
decenni la Corte poté assolvere all’importante compito di ripulire la
legislazione rimasta nonostante tutto in vigore, che un Parlamento ormai
svuotato dello spirito costituente che aveva animato l’Assemblea eletta il 2
giugno 1946 non appariva in grado di assolvere. E quando le indicazioni date
dalle sentenze dichiarative dell’incostituzionalità delle leggi anteriori
cominciarono a restare troppo spesso lettera morta, la Corte non mancò di
arricchire il proprio strumentario di nuovi tipi di sentenze (interpretative,
manipolative, ecc.), capaci di risultare self-executing.
Le
altre competenze che la Costituzione assegnava alla Corte furono oggetto di
sviluppo soltanto in un secondo momento: i giudizi che videro contrapporsi lo
Stato alle Regioni e viceversa, limitati dapprima quasi soltanto alla Regione
siciliana, ebbero un certo incremento dopo la formazione delle Regioni
ordinarie, ma soltanto dopo la riforma del titolo V della Costituzione adottata
con la legge costituzionale n. 2 del 2001 questo contenzioso (generalmente
orientato in senso limitativo della riforma) assunse un rilievo pratico
addirittura maggiore di quello incidentale. Di queste competenze accessorie
che, nonostante il numero relativamente piccolo dei casi cui hanno dato luogo,
hanno determinato spesso problemi pratici e teorici assai maggiori di quelli
delle competenze principali, non è il caso di parlare qui in generale, salvo
qualche cenno che si farà ai problemi del controllo di ammissibilità del referendum.
Fintanto
che il quadro politico del paese rimase indirizzato all’attuazione dei principi
stabiliti in occasione della escursione del pendolo più favorevole ai principi
del costituzionalismo che l’Italia abbia mai avuto (corrispondente agli anni
fra il 1945 e il 1948), il bilancio dell’attività della Corte risultò largamente
in attivo ed anche le difficoltà, sostanzialmente minori, che dettero luogo ad
alcune “zone d’ombra” nel senso sopra precisato, poterono essere superate senza
eccessive difficoltà, per lo più mediante evoluzione della giurisprudenza o
modifiche delle norme integrative.
I
rapporti con gli organi costituzionali politici, che avevano dato luogo ad una
crisi (peraltro non derivante dal merito delle decisioni della Corte) quando il
regolamento interno elaborato da essa elaborato nel 1966 fu overruled con la legge costituzionale 22 novembre
1967, n. 2, si svolsero in modo abbastanza normale (a parte i ritardi nelle
sostituzioni dei componenti di nomina parlamentare, determinati dal tipo di
rapporti che si erano venuti stabilendo fra i partiti, e qualche altra crisi
sostanzialmente minore). La situazione politica del paese, tuttavia, non
consentì mai una riflessione, di carattere prevalentemente tecnico, che sarebbe
stata opportuna per una riorganizzazione della giustizia costituzionale che le
conferisse una maggiore razionalità di quella conseguita, alquanto
faticosamente ed in parte quasi casualmente, all’indomani della caduta del
fascismo. Quello che poté essere fatto in questa direzione, soprattutto
mediante l’opera della giurisprudenza, fu tuttavia, nel complesso, sufficiente
ad assicurare un buon funzionamento dell’istituto, che ne fece il protagonista
più apprezzato della storia costituzionale italiana dell’ultimo mezzo secolo.
Ad
esempio, la mancanza di un’indicazione precisa circa la ratio della scelta del giudice quale titolare dell’iniziativa del
processo costituzionale (iniziativa che la giurisprudenza ha tuttavia
rigorosamente vincolato all’esistenza del rapporto di “rilevanza” generalmente
inteso come pregiudizialità) ha consentito di risolvere gran parte dei problemi
circa la regolarità dell’ordinanza di rimessione della questione, ma non ha
chiarito del tutto quale sia il fondamento logico dell’ulteriore requisito
della qualificazione del remittente, con riferimento al quale si sono avute
ricorrenti incertezze circa questioni sollevate da giudici esercenti funzioni
non giurisdizionali, da non-giudici esercenti funzioni siffatte, ecc. Una
spiegazione razionale avrebbe potuto consistere, probabilmente, nel ritenere
decisiva, a questo fine, l’alternativa fra un soggetto pubblico (anche diverso
da un giudice), il quale si trovi di fronte ad una questione di
costituzionalità mentre opera in regime di indipendenza, ed un soggetto che sia
invece inquadrato in una gerarchia amministrativa il cui organo di vertice
possa esercitare l’iniziativa legislativa (come il Governo nazionale o una
Giunta regionale) o addirittura legiferare (come le Camere e i Consigli
regionali).
Nel primo
caso, il soggetto in questione sarebbe chiaramente abilitato a rivolgersi
direttamente alla Corte costituzionale (ferma restando la necessità della
“rilevanza” della questione), mentre nel secondo dovrebbe rimettersi alle
decisioni del superiore gerarchico, che potrebbe impostare la soluzione della
questione di costituzionalità mediante l’esercizio del potere di iniziativa
legislativa. Sulla base di una tale ratio,
sarebbero automaticamente risolti, nel senso della legittimità dell’iniziativa
del processo costituzionale, i dubbi relativi alle autorità amministrative
indipendenti e ad altri organi analogamente operanti in condizioni simili, al
Consiglio di Stato in sede consultiva (ma sostanzialmente decisoria),
all’Ufficio centrale per il referendum,
agli organi che gestiscono le elezioni con provvedimenti definitivi, agli
organi che amministrano gli uffici giudiziari e il loro personale, ecc.
Resterebbero invece esclusi i soggetti privati, tranne che nel caso in cui
esercitino funzioni giurisdizionali (come gli arbitri) ovvero, in regime di
indipendenza, altre funzioni pubbliche che comportino un potere decisorio
analogo agli altri fin qui considerati (come potrebbe forse essere talora il
caso dei notai). Naturalmente, anche nei casi in cui il ricorso alla Corte
sarebbe stato così precluso, resterebbe immutato il sindacato di
costituzionalità esercitato dalla Corte, su iniziativa di altri soggetti, sugli
atti con forza di legge (fra i quali non possono, a ragion di logica, non
essere compresi i regolamenti parlamentari e simili).
Altro
problema assai delicato è quello che deriva dalla necessaria applicabilità ai
fatti anteriori delle norme penali di favore, dalla quale la giurisprudenza
deduce la carenza di rilevanza di una eventuale questione di costituzionalità
che le riguardi, per effetto del loro carattere autoapplicativo (cfr. l’art. 2,
codice penale, e le norme internazionali dello stesso tenore). La Corte ha
cercato di attenuare le conseguenze di questo principio muovendo dalla
considerazioni di taluni effetti che le norme in questione producono e che non
sono interamente assimilabili a quelli principali propri di esse (nella sentenza n.148 del
1983, che ha ritenuto rilevante, ma infondata, la questione di
costituzionalità della norma sull’immunità del componenti del C.S.M. per le
opinioni espresse nell’esercizio delle loro funzioni e concernenti l’oggetto
della discussione, adducendo, nel n. 3 della motivazione in “diritto”, proprio
la necessità di evitare “zone franche”).
Tuttavia,
questo tipo di osservazioni non hanno consentito di dare un’applicazione
razionale ai casi, fattisi da ultimo relativamente frequenti, nei quali
interventi legislativi, abrogativi o modificativi di norme penali, siano stati
adottati dal legislatore, non tanto sulla base di valutazioni di ordine
generale ed astratto, bensì per favorire, senza adeguata giustificazione,
persone determinate che si trovavano ad essere accusate di fatti commessi in
violazione di tali norme. In questi casi non parrebbe illogico che la questione
di costituzionalità possa consistere proprio in una censura del meccanismo
autoapplicativo nella parte in cui consente di realizzare il fine anticostituzionale
dell’esenzione da pena dell’autore di un delitto che altrimenti sarebbe
doverosamente perseguibile. L’introduzione di una esplicita deroga al principio
dell’applicazione della legge penale più favorevole ai fatti anteriori, ove
tale applicazione comporti una discriminazione positiva assolutamente
ingiustificata, parrebbe infatti derivare dalla più corretta interpretazione
del principio costituzionale di eguaglianza. Ma questa via non ha trovato
seguito nella giurisprudenza, né nella legislazione.
Molta
attenzione è stata dedicata inoltre, nel corso dei due convegni, alle
difficoltà concernenti l’attuazione del principio del contraddittorio, le quali
derivano dalla circostanza che in molti casi le decisioni della Corte
costituzionale assumono un’efficacia erga
omnes simile a quella delle leggi, per cui le regole applicabili negli
altri campi del diritto processuale, ove le decisioni hanno effetti soltanto inter partes, risultano qui inadatte,
nonostante che anch’esse prevedano regole particolari da applicare a situazioni
nelle quali il principio del contraddittorio comporti la necessità di
notificare atti ad un gran numero di persone, talora difficilmente
identificabili, come quelle che si effettuano “per pubblici proclami” o quelle
da adottare in casi di class actions
e simili.
Per i
provvedimenti della Corte costituzionale che presentano queste caratteristiche,
nonché per i relativi atti di iniziativa, la legge italiana prescrive la
pubblicazione in un’apposita sezione della Gazzetta
Ufficiale, e fa quindi ricorso alla tecnica impiegata per assicurare la
notorietà delle leggi, mentre le regole sulla partecipazione ai relativi
giudizi (in qualità di vere e proprie parti, ovvero di intervenienti, nonché il
regime di questi interventi) sono state fissate soprattutto dalla
giurisprudenza e dalle norme integrative, senza tuttavia che si sia riusciti a
individuare dei principi generali riferibili a tutte le ipotesi che da questo
punto di vista vengono in considerazione. Molti scritti compresi nei volumi qui
commentati si occupano dei problemi che sono stati affrontati nella pratica,
dapprima con un atteggiamento di radicale chiusura nei confronti di tutti
coloro che non fossero parti “necessarie” dei giudizi costituzionali che
presentano le caratteristiche proprie dei giudizi di parti, ovvero del giudizio
a quo da cui deriva un giudizio incidentale della Corte, poi con maggiore
disponibilità ad ammettere talune deroghe, ma senza tuttavia individuare un
criterio generale valido per tutti i casi di questo genere.
Il
caso più anomalo resta tuttavia quello costituito dalla creazione, ad opera
della giurisprudenza (sentenza n. 1150
del 1988 e successive), di una sorta di sostituzione processuale della
parte di un processo ordinario, mediante il quale un privato vorrebbe far
valere i suoi diritti nei confronti di un membro del Parlamento, ad opera del
giudice del processo stesso, nelle sue qualità di organo-rappresentante del
potere giudiziario, mediante la proposizione, da parte di quest’ultimo, di un
ricorso per conflitto di attribuzioni fra il potere stesso (configurato come
potere diffuso) e la Camera cui il parlamentare appartiene. Del relativo
giudizio, infatti, non possono essere parti, né il privato, né il parlamentare,
i quali risultano conseguentemente espropriati del relativo di diritto di
azione e di difesa e quindi anche del diritto sostanziale che per mezzo di essi
dovrebbe trovare tutela. Le gravi anomalie di una tale soluzione sono state ampiamente
illustrate dalla dottrina e alcuni degli scritti compresi in questi volumi ne
analizzano le sconcertanti particolarità, solo in parte superate da alcuni
insufficienti rimedi introdotti dalla giurisprudenza (la quale, ad esempio, non
ha tenuto conto del fatto che la condizione dell’interventore “dipendente” non
è equiparabile a quella della parte).
Le
molte difficoltà sorte in seguito all’assegnazione alla Corte costituzionale
del compito di controllare l’ammissibilità del referendum abrogativo previsto dall’art.75 della Costituzione, sono
una conseguenza dell’infelice scelta che fu compiuta dall’Assemblea costituente
di prevedere un istituto così congegnato, il quale può avere ad oggetto una
qualsiasi legge o parte di legge ordinaria che al momento in cui il referendum viene effettuato sia vigente
in Italia, salvo una serie di limiti di oggetto, esplicitamente indicati dallo
stesso art.75, comma 2. Queste difficoltà non furono certamente attenuate
dall’altrettanto infelice scelta, compiuta dal legislatore costituzionale nel 1953, di demandare il
compito di valutare l’ammissibilità delle proposte di referendum alla Corte costituzionale, che indusse la Corte, per
amor di patria, ad individuare una serie di limiti ulteriori dedotti dalle
caratteristiche tecniche del referendum
abrogativo. Ne sono derivati una miriade di problemi pratici e teorici (si
pensi che all’art. 75 il professor Massimo Luciani ha recentemente dedicato un
eccellente commento comprendente quasi ottocento pagine), molti dei quali
collegati alle gravi anomalie della disciplina costituzionale, legislativa e
giurisprudenziale dell’istituto, oltre che all’uso distorto che ne è stato
fatto da molti dei promotori, i quali hanno appassionato la dottrina
costituzionalistica italiana (chi scrive se ne è occupato, da ultimo, in un
saggio pubblicato nel volume curato da Hamon e Passelecq, Le référendum en Europe. Bilan et perspectives, L’Harmattan, Paris,
2001, p.74 ss., e riprodotto in Comparazione
giuridica e sistema delle fonti del diritto, Giappichelli, Torino, 2005,
p.193 ss., e, specialmente dopo l’attento lavoro di Luciani, non è il caso di
diffondersi ulteriormente in merito).
Quello
che si può dire, riassuntivamente, sulle molte questioni discusse a Modena in
tema di referendum abrogativo, è che
questo istituto, introdotto nella Costituzione per valorizzare la sovranità
popolare, seppur entro opportune “forme e limiti” (ai sensi dell’art. 1), si è
prestato a molti usi, prevalentemente influenzati dalla capacità che esso ha
assunto di proiettare al centro del circo mediatico un problema (reale o, più
spesso, costruito in vista di una campagna tendente al raggiungimento di scopi
che a volte vanno molto al di là dell’effetto abrogativo formalmente proposto
agli elettori come eventuale effetto giuridico della loro deliberazione). Lo
sviluppo di questa caratteristica, favorita soprattutto dalla possibilità, che
è stata ampiamente consentita dalla Corte, di trasformare il referendum “abrogativo” in un referendum “manipolativo” o “di
principio”, come tale tendente alla realizzazione di una riforma legislativa
della materia in questione anche in casi, riguardanti problemi largamente
influenzati da motivi tecnici, nei quali altre vie sarebbero più opportunamente
percorribili, ha consentito talora di conferire all’esito referendario la
portata di una dichiarazione di principio, suscettibile di applicazioni
estensive (come nel caso del referendum
sul nucleare), ma, in altri casi, quella di una mera aspirazione,
apparentemente satisfattiva delle esigenze dedotte, ma in pratica facilmente
aggirabile (come nel caso dei referendum
sul finanziamento pubblico dei partiti o in quelli sulla soppressione di alcuni
ministeri).
Queste
esperienze inducono perciò a valutazioni negative derivanti proprio dalle
caratteristiche che l’istituto del referendum
abrogativo ha assunto in Italia e che sarebbero state evitate, ad esempio, ove
lo si fosse configurato in Costituzione come un referendum puramente “oppositivo”, mediante il quale gli elettori
fossero chiamati a confermare o respingere, senza possibilità di modificarla,
una delibera parlamentare (come è previsto per le leggi costituzionali e di
revisione costituzionale dall’art. 138 e come è accaduto, in concreto, in
occasione dei primi due referendum ex art. 75, che hanno avuto ad oggetto
la legge istitutiva del divorzio e la legge sull’interruzione volontaria della
gravidanza, mediante i quali i cittadini hanno effettivamente avuto la
possibilità di sapere quello che facevano quando votavano “sì” oppure “no”).
Vari
interventi si sono occupati anche del referendum
ex art. 138, analizzando i problemi
di un eventuale controllo della Corte costituzionale da inserire nel
procedimento di formazione delle leggi costituzionali o di revisione
costituzionale, dei quali Giuseppe Ugo Rescigno ha opportunamente segnalato le
difficoltà. Come giustamente egli osserva nel suo intervento, un tale controllo
dovrebbe in realtà risolversi in un controllo sul Parlamento (e precisamente
sugli atti di iniziativa dei procedimenti di questo tipo), poiché non sarebbero
i promotori del referendum a
determinarne l’oggetto, che risulterebbe
automaticamente dal progetto approvato dalle Camere. Per cui il vero
problema si sposta sulla determinazione dei limiti formali e sostanziali del
potere di revisione, sull’ammissibilità di una riforma totale della
Costituzione e su altre questioni che non potrebbero ovviamente essere
affrontate in questo modo.
La
conclusione di queste note non può quindi non consistere nel ripetere che,
dall’evoluzione storica che ha portato alla redazione della Costituzione
italiana, sembra abbastanza agevole desumere che la stragrande maggioranza
dell’assemblea che l’approvò considerava irreversibile l’accoglimento pieno e
convinto dei principi del costituzionalismo che essa realizzava, dopo le tante
difficoltà che avevano impedito di conseguire questo esito già nel corso del
Risorgimento e successivamente a causa dell’avvento della dittatura fascista.
Una revisione totale (da adottarsi mediante convocazione di una nuova Assemblea
costituente, da eleggersi con metodo proporzionale, come segnalò Giuseppe
Dossetti, nella lettera al Sindaco di Bologna del 15 aprile 1994, riprodotta in
I valori della Costituzione, Edizioni
San Lorenzo, 1995, pp. 37-38) si giustificherebbe pertanto soltanto ove si
volessero abbandonare o modificare profondamente tali principi, mentre la
procedura di cui all’art. 138, può permettere aggiustamenti di modesta entità,
come quelli che si sono avuti sostanzialmente finora. Ma, a parte gli
interventi di questo tipo, poco suscettibili di sfruttamento propagandistico,
che non sembrano interessare granché le forze politiche attualmente presenti
sulla scena italiana, sembra difficile ammettere la possibilità di una rinuncia
a quell’impostazione anti-assolutistica che indusse gli italiani a
contrapporsi, prima alle monarchie esistenti nel periodo preunitario e poi ai
nazi-fascisti, e che costituisce la trama essenziale della Costituzione
attualmente vigente. Il referendum
costituzionale del 25 giugno 2006, del resto, ha dimostrato l’esistenza di
un’ampia maggioranza di cittadini chiaramente schierati a difesa dei principi
(non divisibili fra quelli enunciati nell’una o dell’altra delle due parti in
cui il testo della Costituzione è ripartito, come in quella circostanza si
proponeva di fare) che furono adottati con il referendum del 2 giugno 1946 e con la votazione dell’Assemblea
costituente del 22 dicembre 1947.
Del
resto, se davvero l’alternativa fra le riforme tendenti alla mera manutenzione
del testo costituzionale e il rovesciamento dei principi del costituzionalismo
potesse considerarsi come non esclusiva di altre intermedie (ritenendosi
sussistenti le condizioni generali per incidere in profondità su delimitati
settori del diritto costituzionale italiano, senza intaccare i principi
fondamentali cui esso nel suo complesso si ispira), il problema dell’omogeneità
del progetto (e conseguentemente dell’eventuale quesito) dovrebbe comportare
una difficile decisione circa chi potrebbe stabilire se il quesito proposto
offra all’elettore la possibilità di decidere senza essere condizionato dalla
formulazione del testo propostogli. In tal caso, solo il Corpo elettorale
avrebbe l’autorità di decidere, senza deleghe, su tale problema. Ma è evidente
che il voto sull’ammissibilità sarebbe difficilmente separabile dal voto sul
merito della proposta, senza alcuna possibilità di evitare il rischio
dell’effetto plebiscitario.
Le
“zone franche” del controllo di costituzionalità che danno luogo a maggiori
problemi sono quindi soprattutto quelle che risultano da una sorta di modus vivendi che la Corte ha stabilito
con la classe politica che governa il paese e che ha le sue basi nell’art. 66
della Costituzione, per il quale “ciascuna Camera giudica dei titoli di
ammissione dei suoi componenti e delle cause sopraggiunte di ineleggibilità e
di incompatibilità” (interpretato da Cass., sez. unite, 6 aprile 2006, n. 8118,
Foro it., Rep. 2006, voce Elezioni, n.108, nel senso di dedurne il
difetto di giurisdizione dei giudici ordinari e amministrativi su ogni
questione riguardante le elezioni politiche), e nella sentenza n.154 del
1985, con la quale la Corte costituzionale ha affermato che i regolamenti
parlamentari non sono “atti aventi forza di legge” ai sensi dell’art. 134 della
Costituzione e che, pertanto, essi non sono sindacabili dalla Corte
costituzionale.
Molte
altre pronunce, sia della Corte costituzionale che di altri giudici, hanno
sviluppato questi principi per dedurne la generale insindacabilità degli atti
non legislativi del Parlamento (salvo la parziale deroga stabilita, in tema di
immunità ex art. 68, Cost.,
all’evidente scopo di attenuare gli effetti della soluzione giurisprudenziale
sopra ricordata, che però, come si è visto, ha espropriato senza indennizzo le
parti direttamente interessate del diritto di azione e di difesa in riferimento
a queste controversie), fino a consentire la formazione di una “giurisdizione
domestica”, composta di personale parlamentare e competente a giudicare sulle
controversie fra le Camere e i loro dipendenti, fornitori, ecc. (Cass., 10
aprile 1986, n.2546, Foro it., 1986,
I, 1139; 23 aprile 1986, n. 2861, ibid.,
1828; 18 febbraio 1992, n.1993, ibid,
1993, I, 1654; sull’analogo potere della Corte costituzionale, cfr. Corte
cost., ord. 17 giugno 1993, id.,
1994, I, 3382 ed ivi ulteriori
riferimenti).
L’art.
66 della Costituzione ha comportato altresì la pratica esclusione di ogni
possibilità di controllo di costituzionalità delle leggi elettorali, confermata
in recenti sentenze della Corte costituzionale (n. 15 e 16 del 2008)
con le quali la Corte, con ampia argomentazione, ha consentito l’effettuazione
di un referendum su un quesito
“manipolativo” della legge elettorale n. 270 del 2005, la cui eventuale
approvazione da parte degli elettori non avrebbe in alcun modo eliminato i vizi
di costituzionalità (sui quali si vedano gli scritti compresi in F. BASSANINI
[a cura di], Le leggi elettorali, Il
Mulino, Bologna, 2008, nonché Marco CROCE, in Astrid-Rassegna,
n. 62 del 21 dicembre 2007, e in corso di pubblicazione in Quaderni costituzionali), contribuendo così al rafforzamento, agli
occhi dell’opinione pubblica, di una disciplina che praticamente assegna ai
partiti esistenti il monopolio delle candidature (rinnovando la prassi
napoleonica delle candidature “ufficiali”) e così riduce il compito degli
elettori alle scelta fra due leaders (scelta
peraltro scontata, stante la situazione di monopolio dei mass media, che la Corte ha bensì ripetutamente condannato, ma
sempre lasciando aperta una scappatoia che ha consentito di conservarla). In
tal modo l’effettuazione del referendum
pseudo-abrogativo, se prima o poi avrà luogo e se gli elettori si recheranno a
votare in numero adeguato al quorum richiesto,
servirà soltanto (tanto in caso di vittoria del “si” che di vittoria del “no”)
a confermare la legge incostituzionale.
L’art.
66 della Costituzione fu scritto quando l’Italia usciva da un periodo che era
cominciato quando l’on. Matteotti era stato rapito e quindi ucciso per avere
pronunciato in Parlamento un discorso di opposizione ad un Governo gravemente
liberticida e non esisteva in Italia una Magistratura indipendente che potesse
condannare i mandanti dell’assassinio, né tanto meno un controllo di
costituzionalità delle leggi, e, in una visione ottocentesca del ruolo e della
struttura del Parlamento, i membri dell’Assemblea costituente ritennero che
loro stessi sarebbero stati i migliori tutori della regolarità delle attività
delle Camere.
L’esperienza
successiva ha dimostrato che le cose non stanno così e che le garanzie che
furono allora stabilite sono spesso servite a coprire chiare illegalità,
ispirate dal diffuso spirito corporativo che è stato prodotto dal più generale
fenomeno della professionalizzazione e burocratizzazione della politica che si
è avuta in Italia. Altrove, negli ordinamenti costituzionali che sono stati instaurati
a partire dal secondo dopoguerra, questa soluzione è stata quasi ovunque
abbandonata e si è fatto ricorso a controlli esercitati da organi indipendenti
(corti costituzionali o altri).
Altro
profilo con riferimento al quale non mancano le zone franche dal controllo di
legalità e di costituzionalità sono quelle cui si riferiscono i vari tipi di
immunità, di alcuni dei quali abbiamo già parlato, cui sono dedicati molti
interventi compresi nei due volumi in esame. A dimostrazione della necessità di
queste deroghe alla legalità viene generalmente addotta, più o meno
fondatamente, una “ragion di Stato”, la quale impone l’astensione da ogni
indagine la quale tenda a salvaguardare i principi che appaiono lesi mediante
l’imposizione di segreti o con altri metodi variamente configurati. Nel diritto
italiano vigente il riferimento a questo tipo di giustificazioni è esplicito
nell’art. 9 comma 3 della legge
cost. 16 gennaio 1989, n. 1, ove si legge che la Camera competente “può, a
maggioranza assoluta dei suoi componenti, negare l’autorizzazione a procedere
[per reati commessi nell’esercizio delle loro funzioni dal Presidente del
Consiglio o da Ministri] ove reputi, con valutazione insindacabile, che l’inquisito
abbia agito per la tutela di un interesse dello Stato costituzionalmente
rilevante ovvero per il perseguimento di un preminente interesse pubblico
nell’esercizio della funzione di Governo”. E’ evidentemente a questo genere di
ipotesi (come i falsi passaporti per il controspionaggio di cui parlò Vittorio
Emanuele Orlando) e non certo per le immunità per i reati estranei alle
funzioni rivendicate da certi uomini politici del nostro tempo, cui si riferiva
la Corte costituzionale quanto, nella sentenza n. 24 del
2004, disse che “l’assicurazione del sereno svolgimento delle rilevanti
funzioni che ineriscono [alle cinque più alte cariche dello Stato …
costituisce] un interesse apprezzabile che può essere tutelato in armonia con i
principi fondamentali dello Stato di diritto”.
Nei
secoli passati, si è spesso abusato del ricorso alla ragion di stato per
proteggere oltre misura titolari di cariche pubbliche i quali agivano nel loro
privato interesse o per consentire ogni genere di misfatti, ma è anche indubbio
che, in molti casi, se i regimi politici democratici fossero riusciti a
proteggere meglio loro uomini politici dagli attentati ad essi portati, con
modalità indiscutibilmente illecite, dai loro avversari, le loro sorti
avrebbero potuto essere migliori.
Se
pertanto gli argomenti che possono essere addotti a dimostrazione della
necessità di ricorrere alle forme di tutela riferite alla ragion di stato a
tutela dei principi del costituzionalismo contro la criminalità politica non
possono essere scartati a priori, non
vi è dubbio che essi debbono essere bilanciati con le argomentazioni, non meno
valide, che si oppongono a tali soluzioni e che richiedono, quanto meno, il
risarcimento dei danni materiali derivanti dalla lesione dei diritti che
dovessero essere sacrificati per soddisfare, nell’interesse pubblico e non mai
nel semplice interesse privato del titolare della carica, esigenze di questo
tipo. Ma l’uso che degli strumenti di questo genere era stato compiuto in
passato aveva spesso travalicato i limiti conformi a ragione per sfociare nella
conservazione dei privilegi ammessi dalle tradizioni anteriori allo sviluppo
del costituzionalismo o recuperati nei regimi autoritari di nuovo tipo che avevano
trovato ampio sviluppo nel corso del XX secolo.
Nella
prima fase della sua attività (dopo che era stato abbattuto, col riconoscimento
della giuridicità delle norme c.d. “programmatiche”, il diaframma che avrebbe
probabilmente ostacolato anche le iniziative rivolte in questa direzione), la
Corte costituzionale (sentenze n. 94 del
1963 e n. 4
del 1965) aveva fatto cadere alcuni privilegi di questo tipo, come l’art.16
del codice di procedura penale del 1931, sull’autorizzazione a procedere per
reati commessi da ufficiali o agenti di polizia mediante l’uso delle armi o di
altro mezzo di coazione fisica, e la “garanzia amministrativa” di cui all’art.
22 del testo unico comunale e provinciale del 1934, che prescriveva un’analoga
autorizzazione del Capo dello Stato per procedere contro un prefetto (o suo
vicario) per reati commessi nell’esercizio delle loro funzioni (eccezion fatta
per i reati elettorali), mentre la legge costituzionale 29 ottobre 1993, n. 3,
aveva eliminato l’autorizzazione a procedere che era prevista dall’art. 68
comma 2, Cost., per qualunque reato che fosse stato commesso, anche
nell’interesse privato, da membri del Parlamento.
La
linea di severità era stata successivamente frenata dalla giurisprudenza
sopravvenuta, secondo la quale erano inammissibili le questioni di
costituzionalità di disposizioni o norme legislative che rientrassero nella
“discrezionalità del Parlamento”, con la conseguenza di giungere vicini alla
paralisi del controllo di costituzionalità. Successivamente, però, il ricorso
al limite per le political questions,
aveva subito qualche attenuazione (conformemente, del resto, alle sue origini
americane, che ne avevano offerto applicazioni molto meno frequenti), ma alcune
discussioni relative a situazioni di questo genere sono più che attuali, come
quella sulle immunità parlamentari originata dalla sentenza n. 1150
del 1988, sopra ricordata, quella che ha visto un ex-presidente della Repubblica rivendicare un’immunità “assoluta”
(nel corso della lunghissima controversia relativa alle ingiurie da lui rivolte
ad un componente di un comitato parlamentare, sulla quale cfr., da ultimo, Corte cost., 17
luglio 2007, n. 290, in Foro it.,
2007, I, 2640, ed ivi ulteriori
richiami), quella sull’apposizione del segreto di stato ai beni privati di un
leader politico (cfr. Corte cost,, 25
ottobre 2005, n. 404, in Giur.cost.,
2005, n. 3953, e i commenti ad essa relativi), ed altre, per non dire della
lunga serie di leggi spesso sospettate di essere ad personam, in quanto destinate a salvare il medesimo leader dai provvedimenti del giudice
penale, quanto meno mediante la ciambella di salvataggio della prescrizione
(sulla quale cfr. Corte
cost., 31 maggio 1990, n. 275, in Giur.cost.,
1990, 1658, che consentì agli imputati i quali aspirino ad essere assolti nel
merito, per evitare una pronuncia infamante, di rinunciare all’applicazione della
prescrizione [facoltà questa della quale nessun uomo politico italiano risulta
essersi mai avvalso]) e la costante pressione esercitata sull’intero corpo dei
magistrati mediante la minaccia di riforme punitive, che dura ormai da quindici
anni.
Altra grave
difficoltà si prospetta per effetto della decisione del Senato di proporre
conflitto di attribuzioni nei confronti del potere giudiziario con riferimento
alla sentenza della Corte di cassazione n. 21748 del 16 ottobre 2007 ed al
decreto della Corte d’appello di Milano del 25 giugno 2008 sul caso Englaro,
nella parte in cui hanno dedotto dal principio costituzionale di cui agli
articoli 13 e 32, Cost., il diritto del paziente di rifiutare, ovvero di far
cessare, un trattamento sanitario indesiderato, anche con riferimento ad un
successivo momento in cui egli si trovi in condizione fisiche che non gli
consentano di rinnovare la dichiarazione resa in tal senso. La decisione della
Cassazione e quella della Corte di appello di Milano si fondano infatti sull’interpretazione
della Costituzione, il cui carattere di norma giuridica immediatamente
operativa è stato affermato, in particolare, dalla celebre sentenza n.1/1956 della
Corte costituzionale sempre confermata, e sul principio che stabilisce il
divieto di non liquet, che fu
enunciato nell’art. 4 del Codice civile francese del 1804 dove fu addirittura
enunciato il principio della responsabilità per “deni de justice” del giudice il quale si rifiuti di giudicare “sous prétexte du silence, de l’obscurité ou
de l’insuffisance de la loi”. E’ del tutto pacifico, inoltre, che i
conflitti di attribuzione fra i poteri dello Stato dei quali giudica la Corte
costituzionale non costituiscono un quarto grado di giurisdizione e, in
particolare che la funzione di interpretazione del diritto vigente costituisce
un compito proprio dei giudici appartenenti ai vari ordini che costituiscono il
potere giudiziario e, soprattutto della Corte di cassazione, giusta l’art. 65
dell’ordinamento giudiziario che la definisce “organo supremo della giustizia”,
cui spetta assicurare “l’esatta osservanza e l’uniforme interpretazione della
legge, l’unità del diritto oggettivo nazionale, il rispetto dei limiti fra le
diverse giurisdizioni” (senza con ciò togliere a chiunque, cittadino o
straniero, pubblico funzionario o soggetto privato, il diritto di esprimere i
propri punti di vista su qualunque problema, senza naturalmente che le opinioni
così espresse abbiano l’efficacia prevista dal diritto per i diversi tipi di
atti o negozi giuridici). Ed è anche chiaro che per interpretazione non si
intende più soltanto l’interpretazione “letterale” (cioè la lettura di un testo
scritto intitolato “legge”), ma anche molte altre forme di deduzione, a
cominciare da quella “sistematica”. E’ infine noto) che quando l’art. 101,
comma 2, della Costituzione dice che “i giudici sono soggetti soltanto alla
legge” non deve intendersi “legge” nel significato tecnico che questa
espressione assume quando viene usata per individuare quei particolari atti del
Parlamento il cui procedimento di approvazione è regolato dagli articoli 70-74,
ma nel senso più generale di “fonte del diritto”, essendo pacifico che i
giudici italiani debbono applicare, a seconda dei casi, oltre alla legge, la
Costituzione, taluni tipi di norme internazionali, comunitarie, straniere,
regionali, locali, private, ecc., vari tipi di atti normativi dell’esecutivo, i
decreti presidenziali che danno atto dei risultati dei referendum abrogativi, certe sentenze della Corte costituzionale e
dei giudici comunitari, le fonti che costituiscono espressione della autonomie
regionali, locali, ecc., secondo quanto dispongono una quantità di regole
stabilite da norme che non sono più quelle indicate nell’articolo 1 nelle
disposizioni preliminari al codice civile, scritto quando l’Italia era uno
stato autoritario e centralista, ma quelle indicate dalla Costituzione e da
altre “fonti sulle fonti”, gran parte delle quali ispirate al principio
pluralista.
Queste
vicende hanno indotto talora alcuni a sostenere l’opportunità di un
allargamento delle competenze della Corte costituzionale mediante
l’introduzione di un ricorso diretto mediante il quale, come avviene in altri
paesi, pubbliche autorità, o eventualmente anche singoli cittadini, siano
abilitati ad investire in via principale leggi ordinarie con una denuncia
d’incostituzionalità. Fino a quando l’atteggiamento delle forze politiche nei
confronti della Costituzione è stato di piena adesione ai valori derivanti
dalle tradizioni costituzionali affermatesi in Europa e altrove negli ultimi
duecento anni ed alla ispirazione antifascista della Costituzione stessa,
questa ipotesi non appariva necessaria, così come nessuno si preoccupava in
realtà del fatto che, in regime di legge elettorale proporzionale, la
maggioranza richiesta per la revisione della Costituzione fosse (insieme con
gli altri “aggravamenti” procedurali) solamente la maggioranza assoluta (cui si
aggiungeva, come inasprimento assai tenue della procedura legislativa
ordinaria, la doppia votazione a distanza di tre mesi e la possibilità di
sottoposizione del progetto approvato con maggioranza inferiore a due terzi a referendum oppositivo ex art. 138).
Il
crollo dei partiti antifascisti, lo sconvolgimento del sistema elettorale e la
“confusione” a livello personale tra potere politico, economico e mediatico
hanno cambiato radicalmente la situazione ed anche il ruolo della Corte
costituzionale (e, in generale, quello di tutti i soggetti indipendenti previsti
dalla Costituzione come tutori della legalità) si è fatto più difficile, oltre
che meno efficace, a fronte di quelle che non si possono non configurare come
“modificazioni tacite” della Costituzione (argomento questo tornato al centro
degli studi di diritto costituzionale, ma con una valenza opposta a quella
assunta al tempo del Risorgimento). Ma, su questo piano, il problema va molto
al di là delle zone franche o delle zone d’ombra della giustizia costituzionale
italiana e l’introduzione di un ricorso diretto, ancorché fondata su valide
ragioni, potrebbe ormai risultare di dubbia utilità pratica.