Franco Pizzetti

Le nuove esigenze di governance* in un sistema policentrico "esploso”(**)

 

(**) Il testo è destinato ad essere pubblicato nel contesto di una serie di saggi sulla riforma del titolo V che comparirà sul numero 6/2001 della Rivista Le Regioni. Gli autori citati con riferimento generico alla pubblicazione del loro saggio in questa Rivista sono fra gli AA. che saranno pubblicati in tale contesto. Per gli scritti che sono già stati pubblicati anche in altre sedi, e specialmente su siti telematici, si è provveduto a fornire anche questa indicazione.

 

 

(*) Il concetto di governance usato in questo testo è sostanzialmente assimilabile, anche se non perfettamente coincidente, con quello usato nel Libro bianco sulla “governance europea” pubblicato dalla Commissione europea il 25 luglio del 2001. Tale concetto è in quella sede così definito: “Il concetto di governance designa le norme, i processi, e i comportamenti che influiscono sul modo in cui le competenze sono esercitate a livello europeo, soprattutto con riferimento ai principi di apertura, partecipazione, responsabilità, efficacia e coerenza”. Ovviamente questa è solo una delle accezioni possibili per definire il concetto di governance. Essa non è certamente la sola oggi adottata e si differenzia in ogni caso dal concetto usato invece in sede ONU dalla “Commissione sulla governance globale”. Nel famoso rapporto del 1995 “Our Global Neighbourhood”, questa Commissione ebbe a definire così la governance: “Governance is the sum of the many ways individuals and institutions, public and private, manage their common affairs. It is a continuing process through which conflicting or diverse interests may be accomodated and co-operative action may be taken. It includes formal institutions and regimes empowered to enforce compliance, as well as informal arrangements that people and instiutions either have agreed to or perceive to be in their interest". In questa sede, come si vedrà più avanti, al concetto di governance si fa riferimento per indicare delle tecniche e dei raccordi di carattere legislativo, regolamentare, normativo, amministrativo, di prassi e di comportamenti che occorrerà sviluppare per consentire il funzionamento complessivo del sistema italiano, così come delineato dal nuovo titolo V della parte II della Costituzione. 

 

 

1. Alcune delle innovazioni più rilevanti e dei problemi più attuali e significativi derivanti dalla riforma del titolo V della parte II della Costituzione. Qualche riflessione introduttiva. Le innovazioni in materia di attuazione delle normative comunitarie come riflesso della nuova allocazione del potere legislativo fra legislatore statale e legislatori regionali.

 

Come è stato già messo in rilievo da molti[1] e in questo stesso numero di questa  Rivista è stato ampiamente sottolineato da G.Falcon e da A.Corpaci[2],  non vi è alcun dubbio che la riforma del titolo V della parte II della Costituzione contenuta nella l. cost. n. 3 del 2001 cambia in profondità molti aspetti del nostro sistema costituzionale, e non solo di quella parte tradizionalmente confinata a quello che, secondo alcuni, costituiva “il sistema costituzionale delle autonomie locali”[3] e che altri, invece, avevano preferito definire come “lo Stato regionale italiano”[4]. Il mutamento riguarda, infatti, così profondamente il sistema complessivo che oggi, ispirandosi a un titolo di un A. famosissimo e caro a tanti di noi[5], si deve riconoscere che è sostanzialmente cambiato lo stesso "Ordinamento repubblicano".

Su questo piano, e guardando per prima cosa all'aspetto, ormai sempre più rilevante, del raccordo fra sistema costituzionale italiano e sistema europeo, merita innanzitutto sottolineare che l’ampiezza e la profondità di questo mutamento ha tra i suoi effetti più importanti la ridefinizione costituzionale del “posto” delle regioni rispetto all’Unione europea e la definitiva “costituzionalizzazione” del peso del legislatore regionale nell’attuazione degli atti normativi comunitari.

In questa stessa Rivista L.Torchia[6] sottolinea che un sicuro effetto della riforma del titolo V della parte II della Costituzione è stato quello di dare pieno “riconoscimento costituzionale” al diritto comunitario, e trae da questa constatazione conseguenze molto rilevanti che non riguardano certamente solo il nuovo “posto” delle regioni e delle autonomie locali nel sistema costituzionale ma sono destinate ad estendersi a tutto l’ordinamento. Le innovazioni relative a questa materia giungono infatti fino ad incidere in misura molto profonda sul rapporto stesso fra ordinamento italiano e ordinamento comunitario, obbligando a superare definitivamente la logica, ancora talvolta perdurante, della “separazione” per approdare, senza più riserve e finalmente “a tutto tondo”, alla logica della “integrazione”. Non solo: come viene esattamente messo in luce nello stesso saggio, le innovazioni introdotte su questo terreno sono comunque tali da imporre di riconoscere "per Costituzione", e quindi sulla base di un dato e di una copertura costituzionale, che per quanto riguarda il rapporto con le fonti comunitarie le leggi (e i legislatori) regionali sono parificati alla legge (e la legislatore) statale. Il che resta vero anche per quanto riguarda l’ambito in cui è comunque riservata al legislatore statale la determinazione dei principi fondamentali. Sull’ampiezza di questo ambito, nel caso della attuazione con legge regionale di atti comunitari, si potrebbe forse discutere[7]. E’ certo comunque che, quale che sia l’ampiezza della legislazione concorrente nello specifico settore dei rapporti delle regioni con l’Unione europea (e dei rapporti internazionali[8]), anche rispetto all’attuazione delle norme comunitarie occorre in ogni caso fare i conti con gli effetti della costituzionalizzazione di un sistema di separazione di competenze fra il legislatore statale e quello regionale che assume, nel nuovo quadro, un valore di carattere generale. Anche in questo settore, infatti, la competenza esclusiva dello Stato resta limitata alla legislazione attuativa rientrante nelle materie elencate nel secondo comma dell’art. 117 mentre per tutte le materie restanti deve comunque intervenire il legislatore regionale. Inoltre, come dicono giustamente anche Falcon[9] e Caretti[10] in questa Rivista, è ormai da escludere in via generale che nelle materie di competenza concorrente lo Stato possa stabilire altro che i principi fondamentali a lui riservati e dunque  non vi è dubbio che, quale sia la soluzione che si voglia dare al problema dell’estensione della competenza concorrente nel settore comunitario, in tutte le materie diverse da quelle riservate alla competenza esclusiva dello Stato ex art. 117 secondo comma Cost. la piena attuazione delle norme comunitarie richiede comunque l’intervento del legislatore regionale (e lo stesso vale anche per dare attuazione alle norme, oggi anche potenzialmente sempre più numerose, di derivazione internazionale[11]).

Tale intervento potrà ovviamente svilupparsi secondo due modalità diverse (a seconda che si operi in materie di competenza concorrente o di competenza esclusiva delle regioni) ove si segua la tesi sostenuta da L.Torchia[12] e che pare più immediatamente discendente dal nuovo dato normativo (e soprattutto dal nuovo sistema costituzionale). Secondo questa impostazione anche in questo ambito le materie che rientrano nella competenza concorrente sono soltanto quelle specificamente  elencate nel terzo comma dell’art.117 mentre tutte le altre, eccezion fatta per quelle riservate esplicitamente allo Stato dal secondo comma dell’art. 117, sono di competenza esclusiva delle Regioni.

L’intervento del legislatore regionale si svilupperà, invece, secondo un unico tipo di modalità ( quella propria della legislazione concorrente) se ci si dovesse orientare per una lettura, peraltro possibile sul piano letterale, che dilati la competenza concorrente relativa ai rapporti internazionali e con l’Unione europea delle Regioni prevista dal terzo comma dell’art.117 Cost., fino a fare di questa materia una sorta di altra “materia trasversale”[13] tale da ricomprendere per attrazione ogni legge regionale di attuazione degli atti normativi comunitari, quale che sia la materia nella quale essa in concreto interviene.

E' certo comunque che, sulla base del nuovo sistema costituzionale, l’intervento del legislatore regionale è costituzionalmente necessario ogniqualvolta si tratti di dare attuazione ad atti normativi comunitari che richiedano l’adozione con legge e che non rientrino nel limitato numero di materie riservate alla competenza esclusiva dello Stato.

Del resto questa innovazione, particolarmente incisiva sul piano del raccordo fra fonti comunitarie e fonti statali e regionali, non è altro che la conseguenza del generale mutamento di rapporti e di ambito di competenze fra le leggi (le fonti legislative) e i legislatori che questa riforma introduce nel sistema italiano.

L’aspetto più macroscopico della riforma riguarda, infatti, proprio il totale ripensamento di come è organizzato e allocato il “potere legislativo” nel nostro ordinamento. I contributi di P.Caretti[14] e di R.Tosi[15], forse più aperto a valorizzare l’innovazione il primo e forse più attento a cercare qualche elemento di continuità con l’esperienza precedente il secondo, mettono entrambi in risalto l’incidenza di questo mutamento e segnalano quanto ampi e nuovi siano i problemi a cui occorre far fronte.

Su questo piano il dato più rilevante, dimostrato anche dalle riflessioni appena fatte rispetto ai problemi relativi alle leggi di attuazione degli atti normativi europei, è che il legislatore statale ha perso il suo “potere di intervento generale” su ogni materia; potere che invece, malgrado la previsione della competenza concorrente in capo alle Regioni, gli era pienamente riconosciuto nel sistema precedente.

Nel nuovo sistema costituzionale il legislatore statale e quello regionale operano, dunque, sempre in regime di separazione di competenze e in una posizione di parità gerarchica nel sistema delle fonti. Parità che si traduce anche nella parità dei limiti e dei vincoli che entrambi incontrano.

Da questo punto di vista deve essere sottolineata con attenzione l’importanza che nel nuovo sistema assume il primo comma dell’art. 117.

Questa norma, stabilendo che “la potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle Regioni nel rispetto della Costituzione, nonché dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali[16]”, assume infatti una funzione cardine: quella di esplicitare la assoluta parificazione dei due legislatori. Parificazione che non viene messa in discussione neppure dalla competenza concorrente di cui all’art. 117 terzo comma, giacché, come si è già ricordato, va profilandosi un consenso sempre più solido in ordine al fatto che in queste materie vi sia una ripartizione di competenze fra il legislatore regionale (che non può dettare principi fondamentali nella materia e che quindi deve rispettare quelli eventualmente previsti da leggi dello Stato) e legislatore statale (che non può comunque stabilire in quelle stesse materie altro che principi fondamentali e dunque deve lasciare integralmente al legislatore regionale di definire e disciplinare ogni altro aspetto).

 

2.  Le innovazioni in materia di amministrazione e le prime considerazioni sul quadro complessivo che discende dal nuovo sistema costituzionale.

 

Non meno rilevanti sono le considerazioni che si devono fare per quanto riguarda le norme sull’amministrazione.

Il nuovo art.118 Cost., soprattutto se considerato nel contesto di tutte le innovazioni normative che direttamente o indirettamente toccano l’amministrazione, fonda un nuovo “sistema amministrativo”, che costituisce il più immediato e diretto riflesso di quanto previsto dal nuovo art. 114 Cost., secondo il quale la Repubblica è costituita dai Comuni, dalle Province, dalle Città metropolitane, dalle Regioni e dallo Stato.

Sulla base di queste norme, l’amministrazione italiana si configura oggi non solo come un sistema compiutamente e definitivamente policentrico, ma anche come un sistema in cui, indipendentemente da quale sia il legislatore competente a legiferare nelle diverse materie, l’amministrazione deve incentrarsi primariamente sui Comuni. L’amministrazione statale e quella regionale, in modo sostanzialmente analogo a quanto accade per Provincie e Città metropolitane[17], in tanto hanno ragione di esistere e di operare in quanto ciò sia necessario per “assicurare l’esercizio unitario” delle funzioni ad esse assegnate e sempre che questo avvenga “sulla base dei principi di sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza”.

In sostanza, sotto il profilo dell'amministrazione, Stato e Regioni sono posti esattamente sul medesimo piano delle Provincie e delle Città metropolitane.

Questo aspetto essenziale del nuovo quadro costituzionale in materia di amministrazione e di ripartizione delle funzioni amministrative fra i soggetti che costituiscono la Repubblica ai sensi dell'art.114 Cost., non è messo in discussione né dall’osservazione che comunque l’art. 118 secondo comma prevede che le funzioni amministrative a Comuni, Provincie e Città metropolitane debbano essere conferite con legge dello Stato o della Regione, a seconda dell’ambito di competenza di ciascun legislatore, né dal fatto che l’art. 117 secondo comma preveda fra le competenze esclusive dello Stato anche quella di definire le funzioni fondamentali di questi stessi enti.

L'art.118 secondo comma, infatti, è certamente importante perché definisce i soggetti e le fonti competenti a operare i conferimenti e, su questo piano ha indiscutibilmente effetti e conseguenze molto rilevanti. Dal canto suo l' art. 117, secondo comma, lettera p) è importante perché sancisce che comunque spetta alla legislazione statale definire il “nocciolo duro” delle funzioni fondamentali (e quindi anche della competenze) comunali e provinciali e delle Città metropolitane (il che costituisce un elemento di parificazione fra questi enti che peraltro non mette in discussione la primazia dei Comuni stabilita dal primo comma dell’art. 118 Cost.).

Entrambe queste norme, tuttavia, non incidono sotto alcun profilo sul fatto che dal punto di vista della possibile titolarità di competenze amministrative Stato, Regioni, Provincie, Città metropolitane e in un certo senso, sia pure per "sottrazione", anche gli stessi Comuni, sono su un piano del tutto analogo. Ciascuno di questi soggetti, infatti, può (e deve) avere solo le competenze che a ciascuno sono (e devono essere) conferite (o eventualmente lasciate), tenendo conto unicamente dell'eventuale necessità di garantire l'esercizio unitario della funzione e comunque sempre in applicazione dei principi di sussidiarietà, differenziazione e adeguatezza[18]. 

A questo deve poi essere aggiunta la piena consapevolezza del valore che assume il principio[19] secondo il quale le funzioni amministrative sono attribuite ai Comuni salvo che, ai fini e sulla base dei criteri appena ricordati, esse non possano ( o debbano ) essere attribuite alle Provincie, Città metropolitane, Regioni o Stato. Cosa questa che, per un verso, può in qualche modo consentire di dire che, sia pure solo per "sottrazione", anche i Comuni sono posti su un piano analogo a quello dello Stato, delle Regioni e degli altri enti territoriali, ma che certamente, per un altro verso, impone anche di riconoscere che ai Comuni spetta oggi un ruolo di “primazia nel sistema” (o, secondo un'altra possibile ma meno condivisibile impostazione di “chiusura del sistema”) che precedentemente era proprio, caso mai, dell'amministrazione dello Stato[20].

Non si può dunque non essere colpiti profondamente dalla indubbia rilevanza delle innovazioni intervenute rispetto al sistema precedente e dai problemi che esse pongono  rispetto alla necessità di armonizzare tale nuova impostazione generale con le molte altre norme, rimaste immodificate, contenute negli altri titoli della Parte II e in tutta la Parte I della Costituzione[21].

All'interno del quadro fin qui ricostruito si deve poi tener conto anche delle possibili differenziazioni legate non solo alla perdurante presenza delle Regioni a statuto speciale ma anche alla possibilità, riconosciuta a tutte le altre, di stipulare intese differenziate fra Stato e singole Regioni (cfr. nuovo art. 116 Cost.)[22].

E' questa una tematica ancora poco approfondita[23] ma che probabilmente nasconde molti e complessi problemi, anche di carattere procedimentale e attuativo[24]. Quello che è certo, comunque, è che la previsione stessa delle intese, considerate come strumenti che consentono alle Regioni che le  stipulano, di differenziarsi (in misura da stabilire in parte in via generale e in parte di volta in volta) dal "sistema regionale uniforme", costituisce un ulteriore e rilevantissimo elemento di innovazione del sistema costituzionale complessivo.

Infine va riconosciuta la dovuta importanza della indubbia, anche se problematica, differenziazione che le singole Regioni possono perseguire attraverso l’attività di carattere internazionale prevista dall’art. 117 u.c. e legata alla possibilità di concludere accordi con Stati e intese con enti territoriali interni ad altro Stato[25].

Tutt’altro che marginale in questo stesso quadro è infine l'esistenza, prevista dal nuovo testo dell’art. 120 Cost., di un potere sostitutivo del Governo, del tutto sconosciuto nel sistema precedente.

Questa previsione si configura certamente come una norma finalizzata a istituire comunque un nuovo istituto di raccordo fra i diversi livelli di un sistema complessivo di governi territoriali che ha perso ogni esplicito riferimento unificante[26]. Tuttavia esso, per le sue dimensioni e per la sua portata, si presenta oggettivamente di problematica definizione e di non facile armonizzazione con le altre parti del nuovo sistema costituzionale. Infatti, anche se, con un’impostazione che si condivide, la maggior parte dei commentatori sembra escludere la possibilità di interventi sostitutivi del legislatore regionale, certo la norma prefigura comunque la possibilità di interventi “derogatori” della normale ripartizione di competenze e attribuzione di funzioni. La discussione sulla portata di questo nuovo potere è ancora solo alle prime battute. E’ pacifico tuttavia che la sua stessa previsione non semplifica certo i problemi e arricchisce di ulteriori difficoltà il lavoro dell’interprete che voglia ricostruire, secondo linee organiche e sufficientemente “stabili”, il sistema complessivo che da questa riforma scaturisce[27].

 Va infine ricordato che, nella ricostruzione delle più rilevanti linee innovative del nuovo testo costituzionale, agli aspetti sinora richiamati devono essere aggiunte almeno anche le nuove regole in materia finanziaria e quel timido nuovo strumento di raccordo tra Parlamento, Regioni ed enti locali che è costituito dalla rinvio che l’art. 11 della l. cost. n. 3 del 2001 fa ai regolamenti parlamentari per conferire loro il potere di prevedere la partecipazione di rappresentanti delle regioni, delle provincie autonome e degli enti locali alla Commissione parlamentare per le questioni regionali.

Il  quadro oggettivamente complesso (e anche complicato) che emerge da tutte queste considerazioni, pur qui espresse in modo sintetico e rapido, per un verso accentua ulteriormente la consapevolezza della portata del cambiamento e per un altro verso consolida la consapevolezza delle difficoltà complessive legate alla piena attuazione della riforma.

Questa consapevolezza coglie chiunque si misuri con la profondità di queste innovazioni[28] e obbliga a cercare di sviluppare una riflessione di carattere più generale in ordine alle caratteristiche complessive che, almeno a questo primo stadio del dibattito, questa riforma sembra avere.

Una riflessione di questo genere deve comunque scontare una necessaria provvisorietà. Essa infatti potrà essere più compiutamente sviluppata soltanto in futuro, quando alcuni nodi oggi ancora tutti da sciogliere cominceranno a trovare soluzione nella prassi e nella giurisprudenza e quindi alcune linee di tendenza in ordine all’atteggiamento prevalente dei diversi attori coinvolti (attori che vanno dallo Stato alle Regioni, agli enti locali, alle stesse forze della politica, della dottrina e della giurisprudenza) cominceranno a diventare sufficientemente chiare e definite.

Tuttavia non è inutile tentare di cominciare ad abbozzare alcune riflessioni di ordine generale, se non altro per cercare di vedere quale sia il quadro di fondo nel quale sono inseriti i molti singoli problemi, tutti importanti e tutti centrali, che oggi stanno assorbendo la nostra attenzione.

 

3. Il carattere innovativo della riforma del titolo V della parte II della Costituzione rispetto al quadro costituzionale precedente. I tre elementi in gioco: a) la parificazione e la separatezza dei legislatori; b) la parificazione dello Stato, delle Regioni, delle Provincie, delle Città metropolitane e dei Comuni quali elementi costitutivi della Repubblica; c) la mancanza di ogni criterio di “attribuzione automatica” di funzioni amministrative a ciascuno dei diversi livelli di governo, in un sistema che fissa il principio dell’attribuzione delle funzioni ai Comuni come principio sempre derogabile sulla base dei criteri di sussidiarietà, differenziazione e adeguatezza.

 

Cercando di individuare, all’interno del complesso costituito da tutte queste diverse questioni, quali sono gli assi portanti della riforma e quali le conseguenze essenziali che essa determina, sembra di poter dire che la vera, grande, novità è costituita dal combinarsi insieme, in un sistema che proprio per questo è “nuovo” e “difficile da definire”, di tre grandi aspetti del tutto contrastanti col sistema precedente.

Il primo di questi aspetti, stabilito e regolato dal nuovo art.117 Cost., riguarda il fatto che il nuovo sistema si fonda sulla separatezza e sulla parità dei legislatori statale e regionali. I due legislatori, infatti, sono ora sottoposti entrambi ai medesimi vincoli stabiliti dal primo comma dell’art.117 Cost. e sono regolati entrambi dal principio dell’assegnazione di competenze costituzionalmente definite, collegate a materie costituzionalmente indicate. Inoltre, rovesciando completamente il sistema precedente, la clausola generale di chiusura relativa alle materie non specificamente elencate gioca ora esclusivamente a favore del legislatore regionale.

Il secondo aspetto è che viene stabilita la parità tra Stato, Regioni, Provincie, Città metropolitane e Comuni come elementi tutti egualmente costitutivi della Repubblica, specificando che tanto i Comuni quanto le Provincie, le Città metropolitane e le Regioni sono tutti enti dotati di autonomia nonché di propri statuti, poteri e funzioni secondo i principi fissati dalla Costituzione (art. 114, primo e secondo comma).

Il terzo aspetto, fondato sulla nuova formulazione dell'art.118 Cost., è che viene sancita la potenziale attribuzione delle funzioni amministrative a tutti e ciascuno di questi livelli di governo, senza più alcuna riserva “automatica” di competenza che non sia quella, per certi aspetti più di carattere residuale che di carattere prioritario, legata all’applicazione del principio generale di attribuzione ai Comuni nel caso in cui una funzione non debba essere conferita ad altro livello di governo in virtù dei principi e dei criteri indicati al primo comma dell’art.118 Cost.[29].

Questi tre elementi, ciascuno per proprio conto e tutti e tre insieme, concorrono a definire gli aspetti più significativi e la portata stessa dell’innovazione costituita dal nuovo titolo V della parte II della Costituzione. Essi dunque meritano di essere esaminati uno per uno, avendo però ben presente che tutti e tre concorrono insieme a definire un quadro complessivo che, come si è sottolineato già nel primo paragrafo, modifica profondamente l'intero ordinamento repubblicano.

 

3.1. La parificazione e la separatezza dei legislatori

 

In virtù della parificazione e della separazione dei legislatori noi abbiano oggi un sistema nel quale è venuto meno ogni potere unificante da parte della legge. Così come è venuta meno la nozione stessa di legge individuata come una fonte a carattere generale, è venuta meno la possibilità che la legge (che nel passato era ovviamente la legge statale), e il legislatore (che nel sistema precedente era ovviamente il legislatore statale) possano svolgere un ruolo generale unificante di tutto il sistema.

Il solo dato oggi certamente unificante sul piano generale è costituito dalla Costituzione. Dunque è sicuramente vero che il Parlamento nazionale, restando titolare del potere di revisione costituzionale (salvo l’eventuale referendum confermativo) resta titolare di un potere generale di unificazione dell’ordinamento. Si tratta, però, di un potere che può essere ora esercitato solo a questo titolo e solo a questo livello. Cosa questa che, per un verso, sottolinea ancora una volta i limiti di una riforma che ha così profondamente cambiato il sistema complessivo ma non ha modificato la composizione del Parlamento stesso, lasciando così che questo organo a cui resta la titolarità del potere di unificazione a livello costituzionale rimanga ancora totalmente espressione dello Stato centrale e comunque della sola comunità nazionale, ma per un altro verso segna, e sembra di poter dire con una forza particolarmente incisiva, la portata dell’innovazione intervenuta[30].

Questa innovazione infatti, impedendo ormai alla legge (qualunque essa sia e a qualunque soggetto sia imputata) di porsi come elemento unificante a carattere generale dell’ordinamento complessivo ha come conseguenza quella di mutare la natura e il concetto stesso di legge.

In sostanza, la legge, qualunque legge e a qualunque soggetto imputata fra quelli previsti dalla Costituzione, potrà certamente continuare ad avere una portata e un carattere generale rispetto ai destinatari ma non potrà più svolgere il ruolo di unificazione del sistema complessivo. Infatti è vero che il legislatore statale mantiene sicuramente competenze esclusive rilevantissime e in grado di assicurare il carattere unitario del sistema complessivo in settori assolutamente essenziali e fondamentali per la convivenza civile, quali, in particolare, quelli della lettera l) dell’ art. 117 secondo comma concernenti la giurisdizione e le norme processuali, l’ordinamento civile e penale, la giustizia amministrativa, ed è certamente in grado di esercitare in misura rilevante importanti “competenze trasversali” fra le quali innanzitutto quella relativa alla determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale. Esso però ha comunque perso la “competenza residuale” rispetto alle materie non elencate, comprese quindi quelle assegnate alle Regioni non in virtù dell’elenco del terzo comma dell’art. 117, ma in virtù della clausola residuale a loro favore contenuta nel quarto comma di quello stesso articolo. Il che, insieme al fatto che comunque nel sistema precedente il legislatore statale aveva competenza propria anche in tutte le  materie di competenza concorrente fa sì che oggi si possa segnalare come l’effetto più rilevante del nuovo sistema costituzionale proprio la perdita della “competenza generale” da parte del legislatore statale.

Né si può obiettare che comunque la competenza generale esiste pur sempre, ma questa volta in capo al legislatore regionale quale titolare del potere legislativo esclusivo “in riferimento ad ogni materia non espressamente riservata alla legislazione dello Stato”, secondo quanto recita il quarto comma dell’art.117. Infatti è certo vero che oggi la competenza “residuale” spetta al legislatore regionale, ma non  per questo il legislatore generale è oggi diventato il nuovo legislatore a competenza generale, in grado per questa via di costituire l’elemento unificante del sistema. E questo per l’ovvia ragione che le leggi regionali hanno comunque, in via di principio, una competenza territorialmente limitata al territorio regionale e quindi non possono costituire in alcun modo un elemento unificante su tutto il territorio nazionale nei confronti di tutto l’ordinamento complessivo.

I legislatori dunque sono ora divisi e separati.

Nel nuovo sistema, insomma, non solo le leggi sono fra loro divise e separate (come pure avveniva già prima laddove il criterio di gerarchia era accompagnato dal criterio di competenza, secondo modalità che caratterizzavano il tipo stesso della fonte) ma anche, e soprattutto, nessuna legge può, per definizione, avere una competenza generale.

In altri termini si può dire che ora tutte le leggi, a qualunque legislatore imputate, sono sempre caratterizzate dal principio di competenza. Il che, per un verso conferma e per un altro verso riflette l’aspetto di frammentazione e di mancanza di punti unificanti che caratterizza ormai il sistema delle leggi nel nostro Paese.

Da un lato si può certamente continuare a parlare di un unico sistema di fonti, unificato appunto dalla Costituzione nella quale tutte le fonti continuano a trovare il loro radicamento comune. Da un altro lato, però, da ora in poi si dovrà davvero parlare di una pluralità di sistemi di fonti, fra loro distinti e divisi separati e facenti capo a soggetti diversi e separati.

Peraltro sarebbe troppo facile sostenere che questo è semplicemente il pieno inverarsi della pluralità degli ordinamenti giuridici. In questo caso infatti, a ben vedere, non siamo di fronte a due possibili tipi di sistemi giuridici, quello statale e quelli delle Regioni, coesistenti e reciprocamente autosufficienti, unificati dalla Costituzione ma per tutto il resto perfettamente autonomi e separati[31]. Al contrario, siamo in presenza di una ripartizione di competenze operata secondo modalità tali da rendere necessariamente interconnessi i due sistemi di fonti.

Da un lato, infatti, si è visto che non mancano fra le competenze esclusive dello Stato quelle che, con felice espressione, sono state definite “competenze trasversali”, per sottolineare il fatto che esse condizionano necessariamente l’esercizio di tutte le altre competenze legislative (e non solo) a chiunque assegnate e in qualunque forma esercitate[32]. Da un altro lato, l’elenco delle materie riservate al legislatore statale è tale da rendere difficile ammettere che lo Stato in quanto tale possa limitarsi a svolgere funzioni solo in quelle materie[33], così come è difficile ritenere, a priori e con certezza, che le Regioni possano svolgere funzioni amministrative solo nell’ambito delle materie di loro competenza legislativa[34]. Inoltre occorre sempre ricordare che sicuramente Province, Città metropolitane e Comuni sono destinatari, potenziali e necessari, di funzioni amministrative nell’uno e nell’altro campo, sia in quello riservato alla competenza del legislatore statale sia in quello riservato invece alla competenza del legislatore regionale.

Risulta pertanto evidente che, se non altro per il modo stesso con cui sono definiti i criteri di attribuzione delle funzioni amministrative fra i diversi soggetti di cui all’art. 114 comma 1 della Costituzione, è difficile immaginare una perfetta separazione dei diversi ordinamenti, quale la separazione esistente fra i legislatori spingerebbe a ritenere non solo possibile, ma forse persino necessaria.

Discende da qui una prima considerazione: il modo col quale è organizzata la funzione legislativa nel nuovo sistema consente certamente di affermare che oggi è proprio la separazione dei legislatori che segna principalmente l’ordinamento italiano complessivo.

Si potrebbe dunque forse avanzare anche l'ipotesi che la definizione più incisiva che si possa dare oggi del sistema italiano è quella di un ordinamento a regionalismo legislativo.

A questa considerazione se ne deve, peraltro, aggiungere subito una seconda: questo sistema a regionalismo legislativo così spinto, manca di sufficienti elementi unificanti. A questo fine non bastano certamente né i vincoli di cui all’art. 117 primo comma, né i vincoli che possono derivare dall’esercizio da parte dello Stato delle c.d. “competenze trasversali”, né il fatto che comunque il legislatore regionale non possa determinare principi fondamentali nelle materie di competenza concorrente e debba perciò rispettare quelli che in queste stesse materie sono eventualmente posti dallo Stato.

C’è in sostanza, nel nuovo sistema, un bisogno oggettivo di elementi unificanti che allo stato attuale del dettato costituzionale non trova soddisfazione adeguata nel sistema stesso. Elementi unificanti che non necessariamente dovrebbero trovare una risposta in meccanismi di carattere gerarchico (probabilmente oggi incompatibili con la logica di fondo del nuovo sistema) ma che dovrebbero almeno essere definiti e individuati con ricchezza di tipologie e fantasia di soluzioni attraverso la definizione di nuove forme di raccordi, di collaborazione, di sostanziale integrazione nei casi in cui ciò appaia manifestamente corrispondente all’interesse delle Regioni fra di loro, ovvero delle Regioni e dello Stato complessivamente considerati.

 

 

3.2. La parificazione dello Stato, delle Regioni, delle Provincie, delle Città metropolitane e dei Comuni quali elementi costitutivi della Repubblica. La differenziazione fra Stato, da un lato, Regioni, Provincie, Città metropolitane e Comuni, dall’altro.

 

 

Nel quadro descritto al paragrafo precedente, caratterizzato da una parificazione e una separatezza dei legislatori che incide profondamente sul carattere complessivo dell’ordinamento e induce a guardare con preoccupazione alla insufficiente previsione (anche solo nella forma del raccordo) di adeguati strumenti unificanti fra i diversi legislatori, assume una particolare rilevanza la norma di cui all’art. 114 Cost.. Norma, questa, che peraltro costituisce, allo stesso tempo, una sorta di premessa e una sorta di conseguenza della scelta di fondo fatta dal nuovo titolo V della parte II della Costituzione.

Questa disposizione assume, inoltre, un rilievo ancora maggiore, e pone problemi ancora più complessi, se la si considera insieme a quanto previsto dal secondo comma dell’art. 114, là dove si chiarisce che dai Comuni fino alle Regioni tutti i soggetti costitutivi della Repubblica, escluso lo Stato, sono comunque dotati di autonomia e di propri statuti, poteri e funzioni secondo i principi fissati dalla Costituzione.

Questa secondo comma, infatti, per un verso ribadisce la assoluta eguaglianza per così dire “ontologica” che sussiste fra Regioni, Provincie, Città metropolitane e Comuni (quella stessa identità che già alla luce dell’art. 5 aveva a suo tempo permesso di parlare di “sistema costituzionale delle autonomie locali”). Per un altro verso, però, essa introduce implicitamente una distinzione rispetto allo Stato, che invece nel primo comma è considerato alla medesima stregua degli altri soggetti.

Non è del tutto chiara la ragione delle due, sicuramente diverse, formulazioni.

Sembrerebbe che l’esclusione dello Stato dal secondo comma sia dovuta all’idea che lo Stato sia comunque titolare della sovranità, mentre agli altri soggetti possono spettare solo condizioni di autonomia. Al contrario la parificazione dello Stato agli altri soggetti contenuta nel primo comma corrisponderebbe alla volontà di considerarlo alla stessa stregua degli altri in quanto soggetto costitutivo della Repubblica.

Certo che, se anche così fosse, e se questa dovesse essere la interpretazione che prevarrà, resterebbe da chiedersi cosa sia mai la Repubblica. In questo contesto, infatti, essa sembrerebbe essere considerata come un soggetto che non può identificarsi con lo Stato (perché questo è solo un elemento costitutivo di quella) e che allo stesso tempo non può essere titolare diretta di sovranità (perché questa sembrerebbe implicitamente riservata allo Stato).

Quello che si può dire con ragionevole certezza è che comunque questa norma costringe a ripensare a fondo tutto il sistema costituzionale, anche per le conseguenze profonde che le innovazioni introdotte hanno sulla prima parte della Costituzione, a cominciare dallo stesso articolo 5 Cost..

Invero nella nuova formulazione appare tutto da definire quale debba essere il significato del riconoscimento e della garanzia che la Repubblica dà alle autonomie locali in base all’art. 5. E sarebbe comunque necessario rispondere a questa domanda chiarendo quale sia oggi il posto dello Stato rispetto all’obbligo della Repubblica di dare attuazione al dettato contenuto in quella norma che, come ben si sa, è collocata comunque tra i principi fondamentali della Costituzione.

In ogni caso, quello che è certo è che la assoluta parificazione contenuta nel primo comma dell’art. 114, solo parzialmente rimessa in discussione dall’apparentemente contraddittorio secondo comma del medesimo articolo, spinge a guardare con ancora maggiore preoccupazione alla debolezza che caratterizza il nuovo sistema costituzionale proprio sul versante degli strumenti di unificazione esplicitamente previsti.

Tutti i diversi elementi costitutivi della Repubblica, posti sul medesimo piano e sostanzialmente (ma, almeno per quanto riguarda le Regioni e le altre autonomie locali, anche esplicitamente) parificati nella loro natura ontologica, rischiano di rendere oggettivamente difficile il funzionamento armonioso del sistema complessivo. E questo non solo nei rapporti tra Stato e Regioni (che, come si è detto, non trovano più oggi alcun elemento forte di unificazione a livello di sistema legislativo) ma anche nei rapporti di tutti questi diversi soggetti tra di loro.

In sostanza, anche per questa via risultano confermate tanto l’esigenza di ricercare nuove forme di raccordo e di cooperazione quanto quella di implementare comunque la riforma costituzionale già fatta con la individuazione di nuovi elementi di carattere unificante. A questo si deve aggiungere poi, come si dirà meglio nel paragrafo conclusivo[35], anche la necessità, non meno rilevante e urgente, di completare la riforma anche a livello costituzionale, introducendo ulteriori forti elementi di raccordo fra i diversi livelli di governo e fra i diversi legislatori. In questo senso, occorre giungere rapidamente se non altro alla modifica della composizione del Parlamento e all'istituzione di una Camera che veda la presenza almeno delle Regioni. Cosa, questa, che vale indipendentemente dalla scelta fra l'uno o l'altro dei molti e diversi bicameralismi compatibili con un quadro che voglia dare comunque adeguata rappresentanza ai sistemi regionali, e che prescinde anche dall'opportunità o meno di aprire tali forme di rappresentanza in Parlamento anche a soggetti che siano espressione degli enti territoriali).

 

3.3. La mancanza di ogni criterio di “attribuzione automatica” delle funzioni amministrative ai diversi soggetti e ai diversi livelli di governo che costituiscono la Repubblica

 

L’ultimo elemento da prendere in considerazione, in questo lavoro di indagine sui caratteri distintivi della riforma, attiene alle norme costituzionali che individuano i criteri e le modalità per l’attribuzione delle funzioni amministrative fra i diversi livelli di governo e i diversi soggetti costitutivi della Repubblica.

Queste norme sono già state più volte richiamate e riguardano essenzialmente: a) l’art.117 secondo comma lettera p) Cost., per quanto attiene all’individuazione da parte dello Stato delle funzioni fondamentali di Comuni, Provincie e Città metropolitane; b) il nuovo testo dell’art. 118 Cost. per quanto riguarda i criteri che devono presiedere all’attribuzione delle funzioni; i soggetti che devono operare tale attribuzione; le forme con cui essa deve avvenire[36].

Senza richiamare cose già ricordate in precedenza, si riassumono qui i termini essenziali della questione.

L’art. 118 prima comma stabilisce il principio che le funzioni amministrative debba no spettare ai Comuni salvo quelle che siano (ma si direbbe “debbano essere”) conferite alle Provincie, alle Città metropolitane, alle Regioni e allo Stato per ragioni attinenti al loro “esercizio unitario” e comunque sulla base dei principi di sussidiarietà, differenziazione e adeguatezza.  Il secondo comma del medesimo articolo stabilisce che  i Comuni , le Provincie, le Città metropolitane sono titolari di funzioni amministrative proprie (si direbbe quelle date dallo Stato nell’ambito della già ricordata competenza dell’art.117 secondo comma) e funzioni conferite con legge statale o regionale, secondo le rispettive competenze.

Il significato di queste disposizioni è, a prima vista, sufficientemente chiaro.

In primo luogo esse, ex art.118 primo comma Cost., stabiliscono criteri di attribuzione delle competenze che valgono per tutti i diversi livelli di governo, prevedendo a favore dei Comuni un principio di attribuzione che, a seconda delle interpretazioni, può essere considerato come principio derogabile (come qui si ritiene) o addirittura come principio meramente residuale (cosa che, in una forma così netta, si considera molto difficile da accettare).

In secondo luogo esse stabiliscono comunque che Comuni, Provincie, Città metropolitane abbiano loro funzioni fondamentali proprie individuate con legge statale (art. 117 secondo comma lettera p)).

In terzo luogo, infine, e sempre sulla base del primo comma dell'art. 118 Cost., queste norme stabiliscono che a questi enti (rectius: alle Città metropolitane, alle Provincie, alle Regioni e allo Stato) possano/debbano essere conferite funzioni ulteriori con leggi statali o regionali, fermo restando che ogni legislatore deve adempiere a questo potere/dovere per proprio conto e nell’ambito della proprie separate e distinte competenze.

Senonché le cose non sono così chiare.

Un primo problema nasce subito dalla domanda se la legge statale di competenza esclusiva di cui all’ art. 117 secondo comma lettera p) debba individuare le funzioni proprie degli enti territoriali solo nell’ambito delle materie riservate alla competenza dello Stato (come certamente deve avvenire per quelle che con legge statale siano successivamente “conferite” ai sensi dell’art. 118 secondo comma) o possa, invece, individuare tali funzioni anche nell’ambito delle materie riservate alla competenza del legislatore regionale (sia questa concorrente o esclusiva).

Peraltro, pare sufficientemente evidente, e quindi difficilmente controvertibile, ce la risposta a questo problema non possa che essere nel senso che le funzioni fondamentali di cui all’art. 117, secondo comma, lettera p) possano essere dalla legge statale individuate anche nelle materie non elencate fra quelle di competenza esclusiva dello Stato e possano dunque concernere anche ogni altra materia a qualunque titolo di competenza del legislatore regionale. Il legislatore statale, nell’attribuire le funzioni fondamentali a Province, Città metropolitane e Comuni esercita, infatti, una competenza sua propria, riconosciutagli a titolo esclusivo dalla Costituzione. Questa competenza ha necessariamente, per le sue caratteristiche, un carattere “trasversale” che non può trovare limiti nelle altre materie a qualunque titolo ricomprese nella competenza concorrente o esclusiva, né del legislatore statale, né del legislatore regionale.

Un secondo problema riguarda la questione se Stato e Regioni debbano avere competenze amministrative esclusivamente nelle materie in cui hanno competenze legislative loro proprie (nel qual caso è evidente che essi stessi, con le loro leggi, riconoscerebbero, confermerebbero o attribuirebbero a sé stessi la titolarità e l’esercizio di tali funzioni) o se invece tanto lo Stato quanto le Regioni possano essere titolari di competenze amministrative anche in materie assegnate o riservate alla competenza dell’altro legislatore. E’ evidente che se la risposta a questo quesito dovesse essere, come qui si ritiene che debba essere, nel senso che tanto lo Stato quanto le Regioni possano (ma, ove ricorrano i principi dell’art. 118 primo comma, si dovrebbe meglio dire: "debbano”) essere titolari anche di competenze amministrative in materie riservate alla competenza dell’ “altro legislatore” sorgerebbe la questione di quale debba essere il soggetto che emana l’atto di conferimento e con quale "forma" esso debba essere emanato.

La risposta a questo nuovo quesito sembra peraltro obbligata. L’atto non potrebbe essere che la legge, almeno ove si versi in casi coperti da riserva di legge, e il soggetto non potrebbe che essere il legislatore competente per materia.

Questa conclusione, che appare francamente obbligata, non pone certamente problemi nel caso in cui sia lo Stato con propria legge e nelle materie di propria competenza legislativa, a conferire funzioni amministrative alle Regioni. Può porre invece, almeno in via di fatto, non pochi problemi nel caso in cui siano invece le Regioni con propria legge, adottata nelle materie di propria competenza legislativa, a conferire funzioni amministrative allo Stato.

E’ evidente, infatti, che in questo secondo caso, in ordine all’applicabilità o meno dei criteri dell’art. 118 primo comma in favore dello Stato, potrebbero verificarsi decisioni e valutazioni diverse da Regione a Regione. Il che potrebbe determinare il conferimento di funzioni amministrative dalle Regioni allo Stato secondo una logica a “pelle di leopardo”.

Né possono essere trascurate le enormi conseguenze che questa lettura del testo costituzionale (la sola che invero sembrerebbe apparire conforme al dato normativo e allo spirito complessivo del nuovo sistema fondato dalla riforma costituzionale[37]) comporta in ordine ai problemi di carattere finanziario e le complicazioni che possono derivarne in ordine alla necessità di risolvere comunque le complesse questioni relative a chi spetti, e come, di reperire (ed eventualmente trasferire) le risorse necessarie per far fronte a funzioni amministrative di volta in volta individuate e conferite dalla legge statale o dalla legge regionale ai diversi soggetti.

Problemi, questi,  che effettivamente diventano terribilmente complessi laddove si tratti, come qui appare non solo possibile ma quasi necessariamente inevitabile che si verifichi,  di competenze assegnate all’amministrazione statale dalle leggi regionali, ed eventualmente dalle leggi di alcune Regioni soltanto[38].

Tutto questo peraltro conferma, ove ve ne fosse mai stato bisogno, che veramente anche sul piano delle attribuzioni delle funzioni amministrative occorrerebbero strumenti di raccordo e di coordinamento che il testo attuale non prevede e che sembra difficile possano essere individuati da altre fonti subcostituzionali.

Un’ultima questione riguarda infine se gli enti territoriali privi di potere legislativo possano o meno attribuire loro funzioni, “proprie” o “conferite” che siano, ad altri soggetti e ad altri livelli di governo territoriale, ovvero ad altri enti locali, dotati o meno di autonomia funzionale.

La risposta a questo quesito non è semplice.

Per un verso, nei riguardi degli enti territoriali privi del potere legislativo tale eventualità sembrerebbe doversi escludere con certezza per quanto riguarda i poteri propri, e con ragionevole determinazione per quanto riguarda le funzioni conferite.

Il testo dell’art. 118 secondo comma, infatti, pare riservare esplicitamente alle leggi statali o regionali il compito di conferire le funzioni. Dunque esso sembra anche riservare sempre e solo ai soli legislatori l’applicazione dei principi dell’art.118 secondo comma quando sia in questione la allocazione delle funzioni amministrative e in ogni caso quando sia in discussione la loro distribuzione fra i soggetti di cui al primo comma dell’art. 114 Cost..

Tuttavia, una tale conclusione potrebbe forse essere messa in discussione da chi osservasse che una tale riserva in favore del legislatore statale o regionale non vale comunque quando, in virtù del quarto comma dell’ art. 118, si tratti di applicare il cosiddetto “principio di sussidiarietà orizzontale”.

In questo caso, infatti, la norma esplicitamente assegna tale compito a tutti i soggetti previsti dall’art.114 primo comma, nessuno escluso e nessuno differenziato. Ne consegue, dunque, che, almeno in applicazione di questo principio, dovrebbe essere certamente possibile anche agli enti non dotati di potere legislativo operare il conferimento di funzioni (proprie o conferite non importa) ai soggetti di cui al quarto comma dell'art.118 Cost.

Del resto, ove si volesse negare una tale conclusione e tener fermo il principio che gli enti territoriali non possono comunque assegnare funzioni ad altri enti territoriali (perché questo è riservato alle leggi), si dovrebbe concludere che il principio di sussidiarietà verticale si pone per gli enti territoriali come limite all'esercizio di un potere di ridistribuzione delle funzioni che invece è consentito, ed anzi esaltato, con riferimento all'applicazione del principio di sussidiarietà orizzontale.

Per contro, anche se si volesse seguire quest’impostazione non potrebbe certo comunque negare che, in ogni caso, in virtù del principio di sussidiarietà orizzontale, tutti gli enti elencati nel quarto comma dell’art. 118 Cost. possono (ma, forse, “devono”) favorire “l’autonoma iniziativa dei cittadini singoli o associati per lo svolgimento di attività di interesse generale”.

Il che significa che, se si ritiene, come una recente ricostruzione che si condivide pienamente afferma[39], che l'autonomia funzionale attribuita a un ente sarebbe sempre la conseguenza (e quindi anche la prova) che questo ente è stato riconosciuto come espressione di autonomia dei cittadini o comunque come espressione di una parte di società aggregata intorno all'obiettivo di perseguire in modo autonomo specifici interessi di carattere generale, la tesi di escludere, in ogni caso, la possibilità per gli enti territoriali di trasferire o conferire competenze ad altri enti territoriali per il prevalere in ogni caso del principio di sussidiarietà verticale su quello orizzontale, condurrebbe a conseguenze abnormi.

Ne deriverebbe infatti che quello che gli enti territoriali non possono fare in favore di altri enti territoriali (proprio perché impediti dalla riserva al legislatore statale dell'applicazione del principio di sussidiarietà verticale) potrebbero farlo in favore di altri enti locali titolari di autonomia funzionale (proprio perché questi rientrerebbero fra i soggetti immediatamente destinatari del principio di sussidiarietà orizzontale).

Sulla base del ragionamento sin qui svolto, si potrebbe dunque argomentare che appare incongruo accettare una ricostruzione del sistema che, per quanto salda possa apparire sul piano letterale, condurrebbe ad affermare che in materia di applicazione del principio di “sussidiarietà verticale” sussista una riserva in favore dei legislatori statale e regionale tale da impedire comunque agli altri enti territoriali di applicare il medesimo principio di loro propria e autonoma iniziativa, e perfino di impedire l’applicazione in favore di tali enti del principio di “sussidiarietà orizzontale”, mentre invece, al di fuori di questi casi, è imposto anche a loro di applicare il principio di “sussidiarietà orizzontale” ogniqualvolta ne ricorrano le condizioni e quindi anche in favore degli enti territoriali dotati di autonomia funzionale.

Altri tuttavia potrebbero ritenere che questa differenza fra le due situazioni, in sé oggettivamente molto rilevante, sia giustificata proprio perché in un caso, quello del secondo comma dell’art.118 che riguarda la sussidiarietà verticale, viene in questione “l’attribuzione delle funzioni”, mentre nell'altro caso, quello del quarto comma dell’art. 118 che riguarda la sussidiarietà orizzontale, viene in discussione non l’attribuzione ma “la modalità di esercizio delle funzioni”[40].

Ad ogni buon conto, quali che siano le conclusioni alle quali si voglia arrivare in ordine alla questione da ultimo esaminata, occorre riconoscere che anche sotto questo profilo il sistema fondato dalla nuova normativa appare particolarmente complesso e singolarmente privo di sufficienti elementi di orientamento e di coordinamento.

 

 

4. Le differenze fra il nuovo testo del Titolo V della parte II della Costituzione e le riforme amministrative della XIII legislatura

 

Al fine di comprendere ancora meglio il carattere e la dimensione innovativa della riforma che stiamo esaminando, può essere utile un rapido raffronto col processo riformatore svoltosi nella XIII legislatura e noto essenzialmente come il federalismo amministrativo a Costituzione invariata introdotto dalle leggi Bassanini.

Sotto taluni punti di vista i due processi paiono avere molti aspetti in comune, primo fra tutti quello della elencazione delle materie di competenza dello Stato e il richiamo ai principi di sussidiarietà (sia verticale che orizzontale) e di adeguatezza e differenziazione che sono comuni ad entrambi i complessi normativi. E del resto non a caso molti hanno visto la riforma del titolo V della parte II anche come un opportuno processo di “stabilizzazione costituzionale” del processo riformatore operato dalla leggi Bassanini[41] .

Vale la pena sottolineare, però, che i due processi sono in realtà radicalmente diversi.

 Sia per scelta che per necessità derivante dal vincolo costituzionale, il processo riformatore innescato dalle leggi Bassanini si è mosso tutto sul terreno delle riforme amministrative e della riorganizzazione del sistema amministrativo italiano complessivamente considerato.

Il processo riformatore del titolo V della parte II della Costituzione, anche per il suo implicito collegamento con quanto era avvenuto sia nella Commissione Bicamerale per le riforme costituzionali sia nella fase immediatamente successiva[42], si è mosso mirando essenzialmente a ridefinire i ruoli e i rapporti fra i legislatori. All’amministrazione e alla distribuzione delle funzioni amministrative è stata dedicata un’attenzione in qualche modo subordinata, anche se, come si è cercato di dimostrare, con effetti di grandissima innovazione.

In altri termini, mentre il processo riformatore della XIII legislatura si è mosso tutto sul piano amministrativo (e solo indirettamente ha avuto riflessi sul ruolo e l’ambito di competenza del legislatore regionale), il processo riformatore del titolo V si è svolto innanzitutto sul piano della ridefinizione delle competenze fra legislatori e ha mirato essenzialmente a ridurre la competenza del legislatore statale e a separare nettamente, parificandole, le competenze del legislatore regionale rispetto a quelle del legislatore nazionale.

 E' per questo, del resto, che mentre per il processo riformatore delle Bassanini si è generalmente affermata la definizione di “federalismo amministrativo”, per quanto riguarda la riforma del titolo V si è preferito in questa sede parlare di “regionalismo legislativo”.

Su questa differenza fra i due processi merita soffermarsi con attenzione.

Dando per scontato che, malgrado le forti analogie fra i criteri e i principi richiamati nella l. 59 del 1997 e quelli contenuti nel nuovo art. 118 primo comma della Costituzione, le riforme Bassanini avranno bisogno nei prossimi anni di profonde rivisitazioni al fine di metterle in asse con il nuovo dettato costituzionale[43], quello che qui più interessa sottolineare è che nel contesto di quelle riforme il ruolo del legislatore statale era rimasto assolutamente centrale. Tutto il trasferimento di competenze dallo Stato alle Regioni e agli enti territoriali era avvenuto con leggi o atti aventi forza di legge dello Stato, come del resto i continui e numerosi decreti correttivi successivi confermano. E anche dove le Regioni hanno partecipato con propri atti alla definizione dell' allocazione delle competenze in capo agli enti territoriali, lo hanno fatto sulla base, nei limiti e con le modalità stabilite nella legge di delega statale o negli altri atti con forza di legge dello Stato.

Inoltre, va tenuto ben presente che il processo di riordino dell’amministrazione operato dalle riforme Bassanini ha interessato direttamente e operando sostanzialmente nel quadro di un unico processo riformatore, anche l’amministrazione centrale dello Stato e la stessa organizzazione di governo, oltre molti settori di amministrazione e alcuni istituti organizzativi di importanza centrale nel sistema complessivo, quale il completamento del riordino del pubblico impiego, la riforma della dirigenza, quella delle istituzioni scolastiche, quella dei controlli e così via.

Tutto questo ha comportato che quelle riforme, malgrado la grande attenzione prestata al tema del c.d. federalismo amministrativo, sono state anche, e in misura  non meno importante, un processo complessivo di riordino e di riorganizzazione dell’amministrazione statale italiana. Il che è stato possibile innanzitutto proprio perché la legge statale aveva nel sistema precedente la centralità della competenza e aveva continuato a svolgere anche durante quel periodo la medesima funzione unificante che sempre aveva svolto durante la vigenza del vecchio testo costituzionale; in secondo luogo perché vi era assoluta coincidenza fra competenza legislativa dello Stato e conseguente titolarità delle relative funzioni amministrative, e dunque la legge statale poteva sia procedere al trasferimento di competenze amministrative dello Stato alle Regioni e agli enti territoriali sia operare per il riordino complessivo di tutta quella amministrazione.

 Considerazioni analoghe possono farsi, e a maggior ragione, per il governo centrale. In conseguenza dell'entrata in vigore della riforma amministrativa, infatti, l'apparato del governo statale ha certamente assistito a una ridefinizione del proprio ruolo e delle proprie missioni ma tuttavia esso non ha mai visto mettere in discussione il ruolo centrale che gli derivava comunque dalla stessa centralità che nel precedente sistema caratterizzava tanto lo Stato quanto il legislatore statale.

Tutt’al contrario il nuovo titolo V della parte II della Costituzione, proprio perché incide primariamente sul riparto delle competenze legislative e proprio perché opera nella logica della sostanziale parificazione non solo tra le fonti legislative statali e regionali ma anche tra lo Stato, le Regioni e gli altri enti territoriali quali elementi costituivi della Repubblica e quali destinatari, al medesimo titolo e in applicazione degli stessi criteri, delle funzioni amministrative, obbliga a rivedere al medesimo tempo la centralità del legislatore statale (che come si è cercato di dimostrare non c’è più); la conseguente centralità del ruolo dello Stato; la centralità, infine, del governo statale e delle sue articolazioni.

Inoltre, la rottura della coincidenza fra titolarità della funzione legislativa e titolarità della funzione amministrativa rende oggi tecnicamente impossibile un processo analogo a quello che ha caratterizzato le riforme Bassanini.

 Quel processo infatti aveva nella coincidenza fra potere legislativo e titolarità delle competenze amministrative un punto di forza essenziale, giacché consentiva al legislatore statale di conferire o allocare in modo articolato, e quindi anche a favore delle Regioni e degli enti territoriali, competenze amministrative precedentemente proprie dello Stato, nonché di riorganizzare anche, nel medesimo tempo e coerentemente con tali conferimenti, la propria amministrazione. Operazione questa che, evidentemente, la rottura della corrispondenza necessaria fra titolarità della funzione legislativa e titolarità della funzione amministrativa rende oggi sostanzialmente impossibile.

Non solo.

La profonda mutazione dei rapporti tra legislatori e la complessità della nuova disciplina in materia di attribuzione delle funzioni amministrative fra i soggetti di cui all’art. 114 primo comma Cost. rende  in prospettiva meno utile di quanto sia stato in questi anni anche il ruolo che può svolgere il complesso meccanismo centrale di coordinamento tra Stato e regioni e autonomie locali che è stato costruito intorno al sistema delle Conferenze[44].

E’ evidente, infatti, che il sistema delle Conferenze, in virtù della sua stessa natura, può funzionare bene in un sistema in cui le Regioni e le autonomie locali, in ragione della limitatezza stessa di una autonomia tutta collocata essenzialmente e solo sul versante amministrativo, hanno scarso margine e interesse per la differenziazione.

Al contrario, in un sistema che separa e parifica i legislatori e affida in larghissima misura alle leggi regionali la definizione delle funzioni da conferire agli enti territoriali, il sistema delle Conferenze perde efficacia perché diventa inadatto a cogliere, guidare e governare tutte le mille possibili sfaccettature e differenziazioni che nell’azione legislativa e amministrativa delle Regioni e degli enti territoriali subregionali potranno in futuro verificarsi.

Se è probabile infatti che, almeno in un primo tempo, il sistema delle Conferenze sembrerà assumere, e di fatto assumerà, una funzione ancora più strategica che nel passato, potenzialmente  persino a danno dello stesso Parlamento, è molto probabile però che in un futuro  non lontano questo stesso modello, se non profondamente corretto e integrato con altri meccanismi istituzionali, potrà dimostrare limiti e difficoltà molto rilevanti, e comunque tali da costringere rapidamente a “inventare” nuove e più sofisticate forme di raccordo[45].

In ogni caso, proprio il confronto fra le riforme della passata legislatura e il contenuto di quella qui in esame ci convince ulteriormente della necessità di accompagnare l’attuazione della riforma costituzionale con la ricerca di forme di unificazione e di raccordo che per un verso siano compatibili (e non contrastanti) con lo spirito e la lettera della riforma e per l’altro siano in grado di consentire un effettivo e “ben temperato” funzionamento del sistema complessivo[46].

 

 

5. Qualche conclusione provvisoria. Una riforma che ha bisogno di una nuova governance.

 

Se le considerazioni sinora svolte sono fondate, siamo di fronte a una riforma che, per essere pienamente attuata, richiede non solo uno sforzo certamente inusuale di interpretazione e di sistematizzazione, ma anche uno sforzo non meno rilevante di completamento e di implementazione.

Si tratta infatti di individuare e costruire quegli strumenti e quegli istituti di raccordo, e di potenziale unificazione (che non significa ovviamente uniformizzazione), senza i quali il sistema italiano potrebbe trovarsi di fronte a non poche difficoltà.

Difficoltà che, probabilmente, riguarderebbero tanto la legittimazione in senso politico-costituzionale del sistema complessivo, quanto la sua stessa funzionalità e operatività.

Se si vuole, si può utilizzare uno schema concettuale che di recente F.W. Scharpf ha richiamato per descrivere i problemi che caratterizzano in questa fase storica l’Unione europea[47]. Possiamo così parlare di un rischio di legittimazione del sistema complessivo sul versante dell’input[48] (dovuto alla possibile difficoltà di far comprendere agli elettori, e di rendere comunque efficaci, i diversi livelli di responsabilità politica in un sistema in cui la rappresentanza democratica e i mandati elettorali, tutti dotati di un forte potere di condizionamento reciproco dovuto al rafforzamento del ruolo dei rispettivi livelli di governo, rischiano di condizionarsi, ostacolarsi e bloccarsi a vicenda). A questo possiamo aggiungere un non meno pericoloso rischio di crisi di legittimità sul versante dell’output[49] (per riferirci alle possibili conseguenze di disfunzioni e di cattivo funzionamento legati alla complessità, potenzialmente poco governabile, di un sistema come quello che stiamo esaminando se non si adottano le correzioni e le implementazioni opportune).

Da questo punto di vista è sicuramente urgente completare al più presto la riforma costituzionale di fatto ancora lasciata a metà nella passata legislatura. Questo significa che è urgente dare al Parlamento, e particolarmente alla seconda Camera vista come Camera rappresentativa delle Regioni e eventualmente anche delle autonomie, un ruolo forte di raccordo fra i legislatori e fra i diversi livelli decisionali. Nell’immediato è certamente non meno urgente attivare al più presto forme di allargamento ai rappresentanti delle Regioni e, eventualmente, anche delle autonomie locali, della Commissione parlamentare per le questioni regionali. Si tratta di dare immediata attuazione a quella modesta, ma non irrilevante, forma di coordinamento a livello parlamentare che l’art.11 della l.cost. n.3 del 2001 prevede come una facoltà che spetta ai regolamenti parlamentari concretizzare.

Guardando poi alla necessaria attuazione della riforma in una prospettiva attenta anche alla sua stessa implementazione, occorre che siano rapidamente definite e adottate le numerose leggi previste dal nuovo testo costituzionale e specificatamente quelle in materia di: a) partecipazione delle Regioni alle decisioni comunitarie e alla attuazione degli atti normativi comunitari (art. 117 quarto comma); b) attività delle Regioni finalizzata alla conclusione di accordi e di intese  con Stati e enti territoriali interni ad altro Stato (art. 117 u. c.);  c) possibili forme di coordinamento fra Stato e Regioni nelle materie di cui alle lettere b) e h) dell’art.117 secondo comma nonché alle intese e al coordinamento in materia di tutela dei beni culturali (art. 118 terzo comma); d) piena attuazione dei nuovi meccanismi di finanziamento (art. 119), all’esercizio del potere sostitutivo del Governo (art. 120 u.c.).

Tuttavia, nell’approvazione di queste leggi non basta la rapidità. Occorre anche che esse siano studiate con attenzione, saggezza e notevole capacità di innovazione. Si tratta, infatti, di utilizzare queste leggi statali, previste dalla nuova Costituzione, come occasioni importanti per costruire nuove e  moderne forme di raccordo e di partecipazione all’attività dei diversi livelli di governo, secondo modalità capaci di garantire, in un quadro condiviso ed eventualmente concordato, un soddisfacente funzionamento del sistema complessivo[50].

Nello stesso modo dovrebbero operare le Regioni, sia dando rapida attuazione a tutti gli adempimenti già previsti dalla l.cost.n.1 del 1999, sia dando attuazione alle  esplicite previsioni normative contenute nel nuovo testo del titolo V, prima fra tutte quella  che rimette agli statuti regionali di disciplinare il Consiglio delle autonomie (art. 123 Cost.).

A questo dovrebbe poi aggiungersi una rapida e concordata soluzione dei problemi interpretativi e applicativi più discussi e discutibili, rispetto ai quali dunque è bene che si adottino decisioni quanto più possibile condivise e accettate da tutti i soggetti interessati.

Questo vale in particolare per tutta la parte relativa alla individuazione e distribuzione delle competenze amministrative fra i diversi livelli territoriali di governo. In questo settore, così vitale per l’effettiva operatività di questa riforma, è massimamente importante cercare di coinvolgere e ottenere un ragionato consenso di tutti gli attori interessati.

I principi che vengono in gioco, a cominciare dal nuovo e fondamentale criterio della sussidiarietà verticale, sono infatti tali da prestarsi male a forme di contenzioso di tipo giurisdizionale e da richiedere invece il massimo di attenzione e di prudenza nella valutazione da compiere di volta in volta.

Una particolare attenzione va, infine, posta ad evitare di proporre e di adottare interpretazioni del nuovo testo, magari ammissibili sul piano letterale e sistemico ma di sapore inutilmente dilatorio o di effetto puramente conservativo dell’esistente.

Da questo punto di vista, intorno al nodo che oggi appare più urgente e più delicato da sciogliere, quello cioè di come attuare l’art. 118 Cost. e di decidere se possa o meno farsi ancora ricorso alla VIII disposizione transitoria, non pare dubbio che, come dicono anche Falcon e Corpaci nei saggi già citati[51], si debba riconoscere rapidamente, e definitivamente, tutta la portata innovativa del nuovo sistema.

Di conseguenza, ci si deve oggi adattare a una realtà che potrà vedere di volta in volta l’una piuttosto che l’altra Regione decidere, nelle materie di propria competenza legislativa, se assumere direttamente per sé o se conferire ad altri enti territoriali funzioni fino a quel momento esercitate dallo Stato.

Questo potrà certamente comportare difficoltà di attuazione. Infatti, solo ex post rispetto alle legge regionale si potranno definire le risorse che devono passare alla Regione in virtù di tale legge e le modalità con cui deve avvenire tale trasferimento. Ma tant’è: questo e non altro sembra essere il sistema previsto oggi e dunque non resta che adattarvisi, cercando di padroneggiare al meglio una realtà nella quale potrà essere necessario concordare e definire di volta in volta, e Regione per Regione, tenendo conto del contenuto delle singole e diverse leggi regionali, come e a favore di chi debba intervenire il trasferimento di beni e risorse a seguito del conferimento o dell’attribuzione ad altri soggetti di funzioni precedentemente inserite nell’amministrazione statale. Del resto anche lo Stato può decidere, con proprie leggi di settore nelle materie di sua competenza, di conferire funzioni precedentemente proprie ai Comuni, alle Provincie, alle Città metropolitane e, come sembra indiscutibile, anche alle Regioni. E anche in questo caso solo dopo che queste leggi saranno approvate o almeno definite nel loro contenuto  ci si potrà porre il problema di come operare il connesso trasferimento di beni e risorse. E anche in questo caso, inevitabilmente, si dovrà dar luogo a forme concordate e definite, caso per caso, con la sostanziale intesa di tutti i soggetti di governo interessati.

Infine va tenuto conto che spetta comunque allo Stato attribuire a Provincie, Città metropolitane e Comuni le funzioni fondamentali di cui alla lettera p) del secondo comma dell’art.117. E’ peraltro evidente che in questa ipotesi, indipendentemente dalle materia di volta in volta coinvolte, spetta ovviamente alla medesima legge dello Stato definire il trasferimento dei relativi beni e risorse e le procedure  con cui tali trasferimenti devono avvenire.

Ovviamente considerazioni simili potrebbero essere svolte per tutti i diversi settori che compongono questa articolata riforma. Così come  raccomandazioni analoghe devono comunque orientare il legislatore statale anche nella determinazione dei principi fondamentali nelle materie di legislazione concorrente. Anche su questo piano, infatti, sarà bene che lo Stato sia attento a cogliere questa occasione sia per mantenere il più possibile salda l’unità complessiva dell’ordinamento sia per creare forme efficaci di collaborazione e di integrazione con il legislatore regionale e in generale con tutti i governi territoriali.

Si potrebbe continuare a lungo, ma per ora è certo meglio fermarsi a queste osservazioni.

La riflessione finale può tuttavia essere la seguente: mentre l’Unione europea guarda alla necessità di sviluppare riforme istituzionali e di adottare forme nuove di governance al fine di superare un eccessivo accentramento del potere negli organi comunitari e di trovare un canale forte di contatto con le comunità nazionali e locali e i livelli regionali e territoriali di governo, il caso italiano successivo all’entrata in vigore del nuovo titolo V della parte II della Costituzione spinge apparentemente in una direzione opposta[52].

Il nostro problema in questo momento sembra essere infatti quello di assicurare la piena attuazione di una riforma che va comunque nel senso della massima articolazione e diffusione dei poteri reali di decisione, cercando tuttavia, e al medesimo tempo, di ritrovare anche momenti forti di coordinamento e di unificazione[53].

In realtà, tanto nell’Unione europea quanto nell’Italia contemporanea, stanno venendo al pettine i nodi legati a come nei moderni sistemi complessi possa essere ricercata e garantita la piena legittimità democratica di tutto l’insieme.

La ricerca di forme nuove e più efficaci di una governance (intesa come l’insieme delle modalità che si devono adottare per garantire flessibilità alle organizzazioni complesse ma anche circolarità e partecipazione collettiva alle decisioni che interagiscono le une con le altre al di là di ogni separazione formale di competenze) costituisce oggi un problema comune a tutti i sistemi. Un problema che si sostanzia molto semplicemente nella necessità di adottare forme nuove e più funzionali per assicurare, sia sul versante dell’input che su quello dell’output, quella legittimità democratica complessiva e condivisa senza la quale nessun sistema contemporaneo, tanto più se molto complesso e articolato, può reggere alla sfida della modernità.

 



[1] Nel corso degli ultimi due mesi successivi allo svolgimento del referendum del 7 ottobre 2001 i commenti e le prese di posizione intorno ai tanti nodi problematici posti dal nuovo testo costituzionale sono andati moltiplicandosi, aggiungendosi ai commenti, peraltro non molto numerosi, che avevano già visto la luce nei mesi precedenti. A molti di questi commenti si fa richiamo specifico nelle note successive. Qui si segnalano fra gli interventi precedenti al referendum del 7 ottobre i contributi pubblicati in AA.VV., Problemi del federalismo, incontri di studio n.5 del Dipartimento giuridico politico, Sezione diritto pubblico dell'Università di Milano, Giuffré, Milano, 2001, e ivi la relazioni e gli interventi di V.Italia, E.De Marco, B.Caravita, C.E.Gallo, N.Zanon, P.Bilancia, F.Pizzetti, L.Antonini, A.Ferrara, A.Cerri, G.Pastori, A.Catelani, P.De Carli, G.Protti, M.A.Sandulli, D.Galetta, M.D'Amico, Q.Camerlengo, M. della Torre, G.Marchetti, A.Papa, e A.Zucchetti. Cfr. inoltre G.Falcon, Il nuovo titolo V della parte II della Costituzione, in Le Regioni, n.1 del 2001; F. Pizzetti, All'inizio della XIV legislatura:riforme da attuare, riforme da completare e riforme da fare. Il difficile cammino dell'innovazione ordinamentale e costituzionale in Italia, in Le Regioni n.3 del 2001, 437 ss.; R.Romboli (a cura di), Le modifiche al titolo V della parte seconda della Costituzione, in Il Foro italiano , luglio-agosto 2001, parte V , 185 ss. con gli interventi di P.Cavaleri, G.D'Auria, C..Pinelli, A.Ruggeri. Riguardo ai commenti successivi al referendum del 7 ottobre, più numerosi e in continuo aumento, si segnalano in particolare i contributi costituiti dalle audizioni svoltisi finora, ed ancora in corso, presso la Commissione affari costituzionali del Senato. Tutte queste audizioni sono del massimo interesse ma  queste un rilievo particolare è da attribuire a quella di L.Elia, che ha aperto la serie come primo e più autorevole fra gli ex presidenti della Corte costituzionale di formazione costituzionalistica, e a quelle di S.Panunzio, da un lato e di S.Cassese, A.Romano, A. Romano Tassone e L.Torchia dall’altro, che hanno espresso rispettivamente il punto di vista dell'associazione dei costituzionalisti e dell'associazione degli amministrativisti. Il resoconto di tutte queste audizioni è consultabile sul sito web del Parlamento italiano. Infine deve essere segnalata la importante Relazione svolta da G.Berti al Convegno annuale dei costituzionalisti di Palermo nei giorni  8-9-10 novembre 2001, cfr. G.Berti, Governo tra Unione europea e autonomie, ora sul sito dell'Associazione dei Costituzionalisti; sul medesimo sito si veda inoltre anche E.Balboni, La funzione di governo oggi.

Infine, sempre sul piano dei primi commenti al nuovo titolo V e anche di forte valenza politico-istituzionale per la sua provenienza si veda Conferenza dei Presidenti delle Regioni e delle Province Autonome, Prime valutazioni sui mutamenti dell'assetto costituzionale a seguito della riforma del titolo V parte II della Costituzione (l. cost.n.3 del2001), documento presentato alla Conferenza Stato-Regioni del 29 novembre 2001.

[2] Cfr da ultimo G.Falcon, Modello e transizione nel  nuovo titolo V della parte II della Costituzione e A. Corpaci, Revisione del titolo V della parte II della Costituzione e sistema amministrativo, in Le Regioni, n.6 del 2001.

[3] L’espressione richiama volutamente il titolo di un volume di molti anni fa, nel quale si tentò una ricostruzione complessiva della parte della Costituzione relativa alle Regioni, alle Provincie e ai Comuni cercando di dimostrare che da quelle norme costituzionali era possibile trarre una ricostruzione che legittimasse la individuazione di un vero e proprio “sistema costituzionale delle autonomie locali”. Ma, appunto, solo di un sistema di autonomie locali si poteva allora parlare: di un sistema, cioè, che poteva anche caratterizzare, come certamente caratterizzava, la Repubblica ma che, nel quadro costituzionale complessivo, non poteva scalfire il ruolo, assolutamente preponderante, dello Stato centrale. Cfr. F. Pizzetti, Il sistema costituzionale delle autonomie locali”, Giuffré, Milano, 1978.

[4] Il riferimento è al titolo del volume di A. Bardusco, Lo stato regionale italiano, Giuffrè, Milano, 1980. In questo volume l’A. ricostruiva il quadro costituzionale badando non tanto alla collocazione del sistema delle autonomie locali, quanto piuttosto cercando di dimostrare che nell’ordinamento italiano si potevano ravvisare le caratteristiche proprie di uno Stato regionale, sia pure caratterizzato da una forte presenza delle autonomie locali. Naturalmente questo filone di studi vide in quegli anni molti altri A. collocarsi su una analoga linea di pensiero, così come non mancarono anche altri, sia pure forse minori per numero, che preferirono guardare al sistema delle autonomie locali nel loro complesso che piuttosto al solo ruolo delle Regioni. Altri ancora, infine, cercarono di mantenere centrale il ruolo delle regioni pur dando la dovuta rilevanza anche al ruolo delle autonomie locali. Non si citano qui tutti gli studiosi che ognuno può facilmente collocare nei diversi gruppi e filoni di pensiero che si sono richiamati, sia perché ciò si trasformerebbe in una sorta di bibliografia del primo regionalismo, sia perché avrebbe forse troppo il sapore di un richiamo "nostalgico" a un’altra stagione del regionalismo italiano.

[5] Il riferimento è ovviamente al non dimenticato volume di F.Benvenuti, L’ordinamento repubblicano, Venezia, 1961, al quale sia consentito accomunare anche il richiamo all’altro importante volume, di non molti anni successivo, di G.Berti, Caratteri dell’amministrazione comunale e provinciale, Cedam, Padova, 1969.

[6] Cfr. L.Torchia, I vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario nel nuovo Titolo V della Costituzione, in Le Regioni,n.6 del 2001.

[7] E’ infatti indubbio che per un verso è certamente più immediatamente convincente la tesi, sostenuta lucidamente da L.Torchia, op. cit., secondo la quale tale ambito riguarda soltanto i casi in cui si versi nelle materie di legislazione concorrente previste dell’art. 117 terzo comma  Cost. e non possa estendersi comunque al di là di tali materie, fino a toccare le materie di competenza esclusiva di cui al quarto comma del medesimo articolo. Da un altro punto di vista, però, ricordando che secondo lo stesso terzo comma dell'art.117 la materia dei rapporti internazionali e con l’Unione europea delle regioni è “di per sé stessa” una materia di legislazione concorrente, ci si potrebbe anche chiedere se questo non attragga anche in generale nella sfera della legislazione concorrente qualunque forma di esercizio del potere legislativo regionale che abbia ad oggetto comunque l’attuazione di una norma comunitaria. Né questa ricostruzione di per sé stessa sarebbe in contrasto insuperabile col fatto che il quarto comma dell’art.117 stabilisce al secondo capoverso che “le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano, nelle materie di loro competenza, partecipano alle decisioni dirette alla formazione degli atti normativi comunitari e provvedono all’attuazione e all’esecuzione degli accordi internazionali e degli atti dell’Unione europea, nel rispetto delle norme di procedura stabilite da legge dello Stato, che disciplina le modalità di esercizio del potere sostitutivo in caso di inadempienza”.

Questa norma, infatti, prevede comunque l’esistenza di una legge statale alla quale le Regioni devono attenersi, specificamente per quanto concerne le procedure da seguire. Procedure che certamente potranno riguardare, secondo modalità specificate e dettagliate, la partecipazione delle Regioni alle decisioni dirette alla formazione degli atti normativi comunitari, ma che potranno estendersi anche all' attività di attuazione, secondo modalità ed entro limiti che meriteranno comunque uno studio approfondito.

Tutto questo però non ci dice nulla sul fatto se al legislatore statale sia riservato stabilire principi soltanto nella materia dei rapporti internazionali e con l'Unione europea (salvo definire poi in che cosa consista questa materia) e nelle altre specificamente ricomprese nell’elenco della legislazione concorrente o se invece il legislatore statale possa comunque dettare principi fondamentali vincolanti l’attuazione della normativa comunitaria in qualunque materia per la quale si ponga il problema di dare attuazione a queste normative (e, ovviamente, limitatamente a tale attuazione) proprio perché  qualunque legge regionale attuativa di atti normativi comunitari in qualunque materia sia adottata è attratta comunque nell’orbita dei rapporti con l’Unione europea.

Malgrado la previsione dell’art. 117 quarto comma, resta dunque intatto il problema posto dal dilemma se sia più corretto dare un’interpretazione estensiva dell’art.117 terzo comma nella parte in  cui prevede che i rapporti internazionali e quelli con l’Unione europea delle regioni siano di competenza legislativa concorrente, o se sia meglio invece dare di questa norma una interpretazione più restrittiva e comunque tale da non porre tutto il sistema relativo all’ambito di competenza delle leggi regionali di attuazione di normative comunitarie in una prospettiva diversa e derogatoria da quella che caratterizza in generale la ripartizione delle competenze del legislatore regionale fra le materie ricompresse nel potere legislativo concorrente secondo l’elenco tassativo del terzo comma dell’art. 117 a tutte le altre rientranti invece nel potere legislativo esclusivo del quarto comma.

Su questo punto, peraltro, si deve confessare che non sembra facile assumere una posizione definitiva. Per un verso infatti sembra molto persuasiva la ricostruzione offerta da L.Torchia, che poggia sull’indubbia forza che deriva dal fatto di escludere che l' attività di attuazione di atti normativi comunitari possa avere di per sé, e senza una esplicita e incontrovertibile diversa specificazione costituzionale, un effetto così rilevante come è quello di estendere la riserva statale relativa alla definizione dei principi fondamentali anche a tutte le materie che altrimenti (se, cioè, non si trattasse di leggi attuative di atti normativi comunitari) resterebbero di competenza esclusiva delle Regioni ai sensi del quarto comma dell’art. 117. Per un altro verso non  sfugge che questo potrebbe portare a leggi regionali attuative di un medesimo atto normativo comunitario anche molto difformi tra di loro, fino a poter far sorgere il rischio di possibili e diffusi contrasti fra l’una e l’altra legislazione regionale.

È vero, peraltro, che a quest’ultima osservazione si potrebbe obiettare che la differenziazione che è certo un portato naturale e “salutare” del fortissimo “regionalismo legislativo” voluto dal nuovo titolo V della parte II della Costituzione. Tuttavia resterebbe comunque difficile negare che una tale differenziazione estesa senza limiti specifici all’ambito della attività legislativa di attuazione degli atti normativi comunitari, potrebbe far sorgere molti e complessi problemi di legittimità sia all’interno dell’ordinamento italiano-repubblicano strettamente considerato, sia all’interno del più ampio e “integrato” ordinamento italiano-europeo (si usa quest’ultima, un po’ colorita, espressione per sottolineare la grande portata della forza di integrazione dell’ordinamento italiano in quello europeo che la riforma costituzionale in parte “registra” e in parte concorre a “determinare” e a “rafforzare”).

[8] E’ evidente che le considerazioni esposte alla nota precedente in ordine all’ampiezza del settore dei rapporti con l’Unione europea e specificamente al problema se in esso (e quindi nella legislazione concorrente) debbano o meno rientrare tutte le eventuali leggi regionali attuative di atti normativi comunitari vale anche, mutatis mutandis, con riferimento ai rapporti internazionali delle Regioni, che sono richiamati nel terzo comma dell’art.117 come oggetto di competenza legislativa concorrente alla medesima stregua dei rapporti delle Regioni con l’Unione europea.

[9] Cfr. G. Falcon, op.cit..

[10] Cfr. P. Caretti, L’assetto dei rapporti tra competenza legislativa statale e regionale, alla luce del nuovo titolo V della Costituzione: aspetti problematici , in Le Regioni,n.6 del 2001.

[11] Il che può porre, e sempre più porrà in futuro, problemi anche complessi in ordine alla armonizzazione fra la Costituzione interna, i vincoli che derivano da questi accordi internazionali,  gli effetti che possono determinarsi in ordine alla responsabilità per la loro mancata attuazione e gli effetti che dagli obblighi  posti da questi accordi e dai trattati internazionali possono derivare sul sistema delle fonti interne. Si pensi su questo piano alle decisioni e alle normative adottate in sede di WTO che, secondo le linee decisionali adottate in sede GATT prima e ora in sede WTO, vincolano gli Stati membri a recepirle e a darvi attuazione senza distinzioni legate alla struttura interna dei singoli ordinamenti. La mancata attuazione di queste norme è infatti considerata comunque come responsabilità degli Stati anche quando questi siano delle Federazioni e dunque sia possibile che, per la struttura interna di carattere federale che essi possono avere, la responsabilità della mancata attuazione possa dipendere direttamente dagli Stati membri. Emblematico in questo senso il caso, sorto già nel contesto GATT, USA-Measures Affecting Alcoholic and Malt Beverages , noto come caso Beer II. In tale caso, infatti, la Commissione arbitrale nella sua relazione del 7 febbraio 1992 ebbe ad affermare che "Le norme del GATT sono parte integrante della legge federale USA e, in quanto tali, scavalcano le leggi dei singoli Stati che non sono coerenti con le norme del GATT". E' evidente che in tal modo si affermò un effetto delle norme di derivazione internazionale tale da incidere direttamente sul sistema delle fonti degli USA e comunque da  modificare l'ambito di competenza della legge federale rispetto alle leggi degli Stati membri. Si tratta di una tematica che ora, dopo le innovazioni introdotte nel sistema delle fonti italiano dalle modifiche apportate dal nuovo titolo V della Parte II della Costituzione, è destinata a diventare probabilmente di notevole peso anche nel nostro contesto. Per un cenno più ampio a questa problematica cfr. L.Wallach e M.Sforza, Whose Trade Organization?, Public Citizen Foundation, 1999 ora in traduzione italiana col titolo WTO, Feltrinelli, Milano,2001, 196 ss.

[12] Cfr. L. Torchia, op. loc cit.

[13] Si usa qui il concetto, ancora non compiutamente definito ma già frequentemente usato da molti A., che serve ad indicare quel tipo di materie, presenti certamente nell’ambito delle competenze esclusive dello Stato (si pensi alla competenza statale esclusiva relativa alla determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale) che paiono riguardare “trasversalmente” tutte le altre materie di competenza regionale (e, almeno implicitamente, anche statale).

[14] Cfr P.Caretti, op.cit.

[15] Cfr.R.Tosi,La legge costituzionale n.3 del 2001: note sparse in tema di potestà legislativa e amministrativa,in Le Regioni,n.6 del 2001

[16] Su questa disposizione cfr. in particolare l’interessante e importante contributo di C. Pinelli, I limiti generali alla potestà legislativa statale e regionale e i rapporti con l’ordinamento internazionale e con l’ordinamento comunitario, in Foro italiano, n.7-8, 2001, 194 ss. cit.

[17] Va peraltro tenuto presente che, almeno astrattamente, la posizione dell’amministrazione statale e regionale appare ancora più legata all’esigenza di garantire l’esercizio unitario della funzione di quanto non avvenga per le Provincie e le Città metropolitane. Questi ultimi enti, infatti, alla pari dei Comuni, sono destinatari di funzioni fondamentali comunque attribuite da leggi di competenza esclusiva dello Stato ex art. 117, secondo comma, lettera p).

[18] Sembra pacificamente sostenibile che tali principi debbano comunque presiedere anche all’esercizio da parte dello Stato del suo potere legislativo esclusivo in ordine alla definizione delle funzioni fondamentali di Comuni, Provincie e Cittài metropolitane. Non si vede, infatti, motivo alcuno per ritenere che i principi di cui all’art.118 primo comma non vincolino anche il legislatore statale nell’esercizio della competenza ad esso assegnata in questa materia dall’art.117 secondo comma.

[19] Sul fatto che si tratti di un principio e non di una norma direttamente attributiva di competenze si concorda qui con quanto sostenuto da Falcon e da Corpaci, op.cit.. Infatti sembra che le ragioni addotte per sostenere questa tesi siano da condividere, anche se esse sembrano essere più di opportunità e di concreta applicabilità della disposizione che di ordine teorico e sistematico. Né va sottaciuto che, come i due AA. giustamente sottolineano, il fatto stesso che il principio in  questione è sancito nel primo comma dell’art. 118 Cost. (comma tutto dedicato a definire i principi che devono presiedere alla ripartizione delle competenze amministrative fra i diversi soggetti elencati nell’art. 114 e qui puntualmente richiamati) conforta ulteriormente nell’opinione che appunto si tratti di norma di principio, più che di disposizione immediatamente attributiva di competenze.

[20] Nel precedentemente sistema era infatti indiscutibile che, salvo i casi esplicitamente previsti da norme costituzionali per gli organi costituzionali o a rilevanza costituzionale, spettassero comunque all'amministrazione dello Stato tutte le funzioni e competenze amministrative che non fossero proprie, attribuite o conferite alle Regioni e agli altri enti territoriali. Questa, del resto, era la conseguenza necessaria del principio del parallelismo fra funzioni legislative e funzioni amministrative combinato col principio che al legislatore statale spettasse comunque la "competenza generale"

[21] Si vedano su questo punto le acute osservazioni di A. Corpaci., op.loc.cit.., e anche le riflessioni che egli svolge rispetto al raccordo fra queste disposizioni e quelle che regolano la giurisdizione e, in particolare, la giurisdizione amministrativa.

[22] E’ vero che tali intese, e le leggi statali conseguenti, dovrebbero incidere essenzialmente sulla natura e la ripartizione delle competenze legislative dello Stato e delle Regioni che stipulano l’intesa stessa. E’ evidente, però, che anche questo non può non avere un riflesso sull’amministrazione, se non altro perché può condurre a “spostare” dall’uno all’altro legislatore, secondo le caratteristiche proprie di ciascuna intesa, le competenze relative al conferimento delle funzioni amministrative e, in sostanza, alla definizione del “modello” di amministrazione che deve caratterizzare, in ciascuna Regione, il settore (o i settori) che siano stati oggetto delle singole, specifiche, intese.

[23] Sulla tematica delle intese di cui all’art.116 e, in genere, sulle conseguenze delle possibili differenziazioni fra regione e regione, cfr. N. Zanon, Per un regionalismo differenziato: linee di sviluppo a Costituzione invariata e prospettive alla luce della revisione del titolo V, in AA. VV. Problemi del federalismo, Giuffré, Milano, 2001, 51 ss. e L. Antonini, Verso un regionalismo a due velocità o verso un circolo virtuoso dell’autonomia?, ivi, 157 ss.

[24]  La problematica relativa alle intese e all'attuazione stessa dell'art.116 Cost. sembra essere particolarmente complessa e ricca di possibili implicazioni, forse più di quanto sinora sia apparso. Sul piano procedurale, innanzitutto: è piuttosto diffusa la convinzione che non via sia alcuno spazio per interventi legislativi finalizzati a disciplinare le procedure relative a come (e da chi) questa intese possano essere avviate, condotte e definite prima della presentazione alle Camere per la approvazione con legge (e a maggioranza assoluta). Chi sostiene questa tesi argomenta col fatto che trattandosi di una procedura negoziale e di carattere concertativo,  sarebbe del tutto contraddittorio ipotizzare una legge che ne disciplinasse anche in parte il procedimento. Non solo. A sostegno di questa tesi è facile anche osservare che, mancando una esplicita previsione costituzionale in ordine all'emanazione di una legge statale in materia (previsione che esiste invece rispetto ad altre innovazioni introdotte in altre disposizioni), l'eventuale legge che pretendesse di disciplinare in tutto o in parte le procedure da adottare per le intese potrebbe essere considerata priva di base costituzionale che ne fondi e legittimi la competenza.

A queste obiezioni, tutt'altro che irrilevanti o trascurabili, si può replicare tuttavia che è difficile dubitare del fatto che le Regioni possano (e forse debbano) definire, nei propri Statuti o con il rinvio a ulteriori leggi regionali, perlomeno i seguenti profili: a) quali siano i soggetti legittimati ad avviare tali procedure in nome e per conto della Regione e esercitando il diritto di iniziativa a questa riservato dall'art.116 Cost.; b) secondo quali regole interne alla Regione stessa debbano essere disciplinati gli eventuali rapporti fra gli organi regionali nell'ambito di questo procedimento, specificamente per quanto riguarda la fase iniziale della presentazione della proposta e la fase finale della conclusione dell'intesa. Analogamente appare difficile negare davvero che lo Stato non possa (e forse debba) regolare con propria legge chi, come e con quali procedure rispetto agli altri organi dello Stato, possa avviare, condurre ed eventualmente stipulare in nome e per conto dello Stato le intese medesime. Per quanto riguarda poi l'osservazione relativa alla mancanza di una legittimazione costituzionale del legislatore statale a intervenire in questa materia, si può rispondere che una legge di tal genere potrebbe trovare una facile legittimazione costituzionale in punto di competenza del legislatore statale sulla base del principio, ovviamente applicabile anche in questa ipotesi, secondo il quale un organo o un ente (in questo caso lo stesso Stato) titolare di una funzione (in questo caso la partecipazione come parte alla stipulazione dell'intesa) può sempre disciplinare le modalità di esercizio della funzione ad esso attribuita in quanto non già disciplinata dalla norma di rango superiore.

Inoltre merita osservare che la stessa norma costituzionale contiene almeno una previsione che rende di oggettiva rilevanza costituzionale la opportunità (ma si potrebbe dire la necessità) di una normativa di carattere procedurale. Ci si riferisce alla parte dell' art. 116 secondo la quale, dopo l'esercizio del diritto di iniziativa da parte delle Regioni ma prima della conclusione del procedimento, devono comunque essere sentiti gli "enti locali".

Ovviamente qui la questione che si pone è quali siano gli enti locali da sentire e secondo quali procedure, decise e stabilite da chi.

Nessuno di questi tre interrogativi è marginale. Non lo è la definizione di quali siano gli enti locali che devono essere sentiti, anche perché non poche delle competenze oggetto di possibili intese possono coinvolgere direttamente soggetti ed enti operanti localmente ma non riconducibili alle categorie indicate nell'art. 114 Cost. Si pensi, solo per fare un esempio, alle istituzioni scolastiche nell'ambito delle competenze relative alle norme generali sull'istruzione e in genere alle materie oggetto di materia concorrente che incidono comunque sui settori di loro immediato interesse istituzionale. La medesima cosa si può dire per le Camere di commercio, enti locali anch'esse e sicuramente, per le loro funzioni e competenze, interessate a molti dei settori che possono essere oggetto di intese. Non è affatto indifferente decidere se tali istituzioni e tali enti debbano (o possano) essere sentiti, e in quali ambiti, e secondo quali modalità.

Più in generale, un problema analogo si può presentare per gli stessi enti territoriali. Anche qui si può porre la questione se essi debbano essere solo quelli previsti dall'art.114 Cost. o eventualmente anche altri creati in questi anni da leggi statali o regionali. Inoltre  è comunque essenziale definire a chi spetti: a) decidere quali enti debbano essere sentiti e quali no; b) secondo quali procedimenti e con quale "peso" attribuito al parere da essi manifestati, questi enti debbano essere sentiti; c) in quale fase del procedimento di intesa gli enti, comunque individuati, debbano essere sentiti; d) come e da chi debbano essere valutati i pareri espressi da questi enti ai fini delle successive intese.

Si potrà obiettare che quasi tutte queste questioni non possono essere stabilite una volta per tutte con legge, e tanto meno unicamente con legge statale. Esse infatti possono forse dipendere in misura rilevante anche dall'oggetto dell'intesa di volta in volta proposta e comunque certamente non possono essere decise con atto unilaterale dello Stato, anche se assunto in forma di legge. Tuttavia qui non si intende affatto sostenere che tutti i problemi di carattere generale posti dall'attuazione dell' art. 116 debbano essere risolti con legge dello Stato (e meno che mai con una normale legge ordinaria) ma solo che tali problemi esistono e difficilmente possono tutti essere risolti di volta in volta singolarmente e all'interno delle singole procedure di concertazione.

Problemi non minori sussistono poi per quanto riguarda i limiti di carattere generale che tali intese potranno avere. Viene qui in gioco soprattutto il rapporto tra le possibili intese e le molte norme costituzionali che possono costituire limite al loro contenuto. Va innanzitutto tenuto fermo che la Costituzione stessa si pone come limite non derogabile a tali intese. Il che significa che, al di là degli statuti delle Regioni a statuto speciale con invece continuano a consentirlo, per le rispettive Regioni, non potremo avere attraverso le intese parti di Costituzione variabili da Regione a Regione. Peraltro è pacifico invece che, almeno per quanto riguarda la ripartizione delle competenze fra legislatore statale e legislatore regionale, nei casi previsti dall'art. 116 la normativa costituzionale è derogabile e dunque occorrerà comunque definire in che misura e con quali limiti questo possa avvenire. Occorrerà inoltre verificare preliminarmente e di volta in volta, con specifico riferimento all'oggetto concreto delle intese, se e in che misura le posizioni costituzionalmente proprie dei singoli soggetti, diversi dallo Stato e dalla Regione (e dal legislatore statale e dal legislatore regionale), potranno essere toccate dalle intese. Da ultimo non ci si potrà non chiedere se e in che misura le intese stipulate ex art. 116 potranno, nelle materie che ne formano oggetto, stabilire regole specifiche, ed eventualmente esplicitamente o implicitamente derogatorie, rispetto ai principi che la Costituzione fissa in via generale a disciplina della ripartizione delle funzioni e delle competenze amministrative fra i diversi livelli territoriali, ivi compresi naturalmente i principi generali di cui al primo e al quarto comma dell'art.118 Cost..

E' questa una tematica certamente diversa da quella precedente e che non tocca aspetti immediatamente legati al provvedimento e alla possibile adozione (eventualmente concordata) di regole procedurali atte e risolvere i relativi problemi. Essa però pone comunque problemi potenzialmente assai complessi da risolvere, e in ogni caso sottolinea una volta di più la portata potenzialmente molto "dirompente" che la previsione dell' art. 116 può avere. Il che dilata ulteriormente il già fortissimo effetto innovativo complessivamente determinato dal nuovo titolo V.

[25] Sul nuovo ruolo delle Regioni in materie di rapporti esteri, considerato alla luce della l. cost. n. 1 del 1999 (ruolo che oggi la le. Cost. n. 3 del 2001 ha ulteriormente rafforzato) cfr. P. Bilancia, Le attività di rilievo estero e comunitario delle Regioni e loro possibili riflessi sul futuro assetto organizzativo regionale, in AA.VV. I nuovi statuti regionali, Giuffré, Milano, 2000, 87 ss.

[26] Quanto accennato nel testo è coerente con la prima fra le tesi di fondo sostenuta in queste pagine, e cioè che il dato innovativo fondamentale del nuovo sistema costituzionale consista nel fatto che, rispetto ai sistemi di governo e di amministrazione regionali e locali, viene meno il ruolo unificante che nel sistema precedente spettava al legislatore statale e, di conseguenza, almeno potenzialmente, anche al governo centrale e alla amministrazione dello Stato.

Questo fenomeno, e in questo consiste la seconda tesi di fondo qui sostenuta, comporta la necessità di nuovi strumenti di raccordo, insieme a nuovi strumenti di concertazione che comunque il nuovo sistema parimenti rende necessari. Tali strumenti di raccordo possono essere di varia natura e di varia configurazione. Fra questi, che in larga misura dovranno essere previsti in sede di applicazione e di attuazione della nuova normativa costituzionale, ve ne sono alcuni che sono previsti già dalle nuove norme. Fra questi ultimi, come si osserva subito dopo nel testo, fra quelli già previsti direttamente in norme costituzionali, si colloca certamente la possibile integrazione della Commissione bicamerale per le questioni regionali con rappresentanti delle Regioni e delle autonomie locali prevista dall'art.11 della l.cost. n. 3 del 2001.

Anche il potere sostitutivo del governo, previsto ora dall'art.120 secondo comma Cost., può agevolmente essere configurato come una forma nuova di raccordo, all'interno di un sistema costituzionale ormai privo di un centro con generale competenza unificatrice. Proprio questo, però,  rende particolarmente delicato e problematico definire la ampiezza, la portata e i limiti di questo potere.

[27] Sul potere sostitutivo sono assai interessanti le considerazioni di C. Mainardis, Poteri sostitutivi statali: una riforma costituzionale con (poche) luci e (molte) ombre, in Le Regioni, n. 6 del 2001.  Sempre su questo tema, anche per le diverse tesi circa l’estensibilità di tale potere fino all’adozione di atti legislativi e di esercizio del potere sostitutivo rispetto al legislatore regionale (tesi alle quali sembra che si debba guardare non solo con estrema prudenza ma anche con sostanziale sfavore) cfr. in vario senso C.Pinelli, I limiti generali alla potestà legislativa statale e regionale, cit.; A.Cerri, Alla ricerca dei ragionevoli principi della riforma regionale, in AA.VV., Problemi del federalismo, Giuffré, Milano, 2001, 211. ss.; T. Groppi, La riforma del titolo V della Costituzione tra attuazione e autoapplicazione, in Forum di Quaderni costituzionali.  

[28] Si vedano in questo senso, oltre ai primi interventi e commenti che vanno comparendo sulle riviste specializzate e quelli già richiamati supra nota 1, gli interessanti contributi forniti dalle audizioni organizzate dalla Commissione Affari costituzionali del Senato. Cfr. in particolare le audizione di L.Elia, A.Baldassarre, V.Caianiello, S.Panunzio, A. De Roberto, E. Cheli, S. Cassese insieme a A. Romano, A. Romano Tassone e a L. Torchia , tutte consultabili all'interno del sito web del Parlamento italiano.

[29] Per la verità si può porre qui un'ulteriore questione, e cioè se la legge statale e quella regionale, ciascuna nelle proprie competenze, potrebbero sottrarre funzioni e competenze amministrative ai soggetti indicati nel primo comma dell'art. 118 (e dunque agli enti e ai governi territoriali) per riservarle invece, in virtù di quanto previsto dal quarto comma dello stesso art. 118, alla "autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e associati" o comunque a soggetti, anche di natura pubblica, diversi dagli enti territoriali, quali altri enti locali, eventualmente operanti in posizione di autonomia funzionale.

E'  questo un profilo del delicato rapporto che sussiste fra il primo e il quarto comma dell'art.118 Cost. e in genere del problema di come debba essere interpretato il principio di sussidiarietà orizzontale (di cui a quarto comma ddell'art.118 Cost.), specialmente in raccordo con il principio di sussidiarietà verticale (di cui al primo comma della stessa disposizione).

A questa tematica si aggiunge poi l'altra tematica,  con la precedente solo parzialmente coincidente, di come debba essere individuato, all'interno del nuovo sistema, il rapporto tra gli enti e i soggetti indicati all'art.114 Cost. come elementi costituitivi della Repubblica e richiamati dall'art.118 Cost. come destinatari delle funzioni amministrative, da un lato, e gli altri enti locali, specialmente quelli operanti nella posizione delle autonomie funzionali, dall’altro.

Si tratta di un complesso di "nodi problematici" al quale in questa sede si accenna solo collateralmente e, anche nelle pagine successive è richiamato altre volte essenzialmente nell'ambito di alcune note al testo. Non vi è dubbio, tuttavia, che questi nodi formeranno a lungo oggetto di attenzione e di discussione.

[30] Ovviamente non sfugge che si potrebbe obiettare che esistono anche nel nuovo testo numerose riserve di legge statale il cui esercizio potrà, forse, recuperare elementi di unificazione nuovi nei settori e secondo le modalità con cui esse possono intervenire. Tuttavia vale la pena di sottolineare che tutti questi casi, anche se complessivamente considerati, sono certamente importanti e consentono sicuramente di radicare strumenti e forme di governance di nuovo tipo, e quindi ancora tutti ancora da definire e da studiare, ma non possono in alcun modo modificare il dato di fondo costituito dal fatto nuovo che manca oggi in questo sistema un elemento unificante di carattere generale. Soprattutto nessuna di queste riserve di legge, e meno che mai la competenza concorrente così come essa è disciplinata nel nuovo sistema, possono consentire di negare la grande novità che qui si cerca di sottolineare con la massima enfasi possibile: che cioè in ogni caso la legge, in qualunque forma e a qualunque soggetto imputata, non può più essere un elemento unificante in via generale dell’ordinamento complessivo.

[31] Secondo un possibile modello teorico che, con molta approssimazione, si potrebbe cercare di far risalire all’esempio della Costituzione degli Stati Uniti di America.

[32] Cfr. in questo senso G. Falcon, già in Il nuovo Titolo V della parte II della Costituzione in Le Regioni, n.1 del 2001, 5 e ss. e ora anche in  Id., "Modello" e "transizione" nel nuovo titolo V della parte II della Costituzione, in Le Regioni, n.6 del 2001, cit.

[33] Viene qui in rilievo il difficile nodo della ripartizione delle competenze amministrative, con particolare riguardo a quelle da assegnare, o da riservare, o da lasciare allo Stato. Su questo si tornerà infra, nelle considerazioni relative all’amministrazione.

[34] Il problema della attribuzione, riserva o conferimento di funzioni amministrative alle Regioni è teoricamente analogo a quello relativo allo Stato di cui alla nota precedente e al conseguente rinvio. Nel caso delle Regioni peraltro è meno complesso da risolvere. Infatti una volta ammesso, e non si vede perché lo si dovrebbe negare, che le Regioni possano avere competenze amministrative conferite dallo Stato, non vi sono particolari difficoltà ad immaginare leggi statali che nelle materie ad esse riservate operino tale conferimento, ovviamente nel rispetto dei principi stabiliti dall’art. 118 primo comma. Per lo Stato invece la questione è più complessa perché l’eventuale conferimento allo Stato di funzioni ad opera del legislatore regionale, che in via di principio appare del tutto compatibile col sistema ed anzi in una certo senso necessaria, può portare sul piano concreto a conferimenti a “pelle di leopardo” secondo le diverse, e potenzialmente differenti, valutazioni che ciascuna Regione possa fare dell’applicazione dei criteri di cui all’art. 118 primo comma Cost. Anche su questo v. infra nel testo.

[35] Cfr. infra paragrafo 5.

[36] Per una prima, ma molto ampia, analisi di queste norme, cfr. G. Pastori, I rapporti fra Regioni ed enti locali nella recente riforma costituzionale, in AA.VV. Problemi del federalismo, Giuffré, Milano, 2001, 217 ss..

[37] Respingere questa “lettura” del testo significherebbe, infatti, trovarsi di fronte ad un dilemma difficile da risolvere. Occorrerebbe, infatti, o escludere che comunque lo Stato possa avere competenze amministrative nelle materie riservate alla competenza del legislatore regionale (perché la legge regionale non potrebbe comunque conferirle) o ritenere che lo Stato possa comunque assegnare a sé stesso, con propria legge, competenze amministrative anche nelle materie attribuite o riservate al legislatore regionale. La prima opzione, quella che nega ogni possibilità di competenze amministrative dello Stato al di fuori delle materie del legislatore statale) condurrebbe però a evidenti abnormi conseguenze persino sul piano di fatto della necessità di far fronte alle esigenze proprie del buon funzionamento del sistema complessivo. La seconda opzione (quella di ritenere possibile l’attribuzione dello Stato a sé medesimo e con legge statale di competenze amministrative nelle materia attribuite o riservate al legislatore regionale) porterebbe a conseguenze abnormi sul piano del nuovo sistema costituzionale. Ritenere infatti che il legislatore statale possa attribuire esso stesso a sé medesimo e alla propria amministrazione competenze e funzioni anche nelle materie assegnate comunque al legislatore regionale (quelle di competenza concorrente) o addirittura ad esso riservate (quelle di competenza esclusiva) eventualmente motivando questa convinzione in nome di un principio di difesa dell’unità complessiva, collegato magari anche al dettato stesso dell’art. 118 secondo comma là dove parla di “esigenze di esercizio unitario”, significherebbe radicare una nuova, vastissima, competenza di carattere “trasversale” del legislatore statale. Competenza di carattere trasversale che sarebbe analoga ad alcune delle competenze previste nel secondo comma dell’ art. 117, ad esempio in materia di “determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale”, ma che in questo caso avrebbe la duplice caratteristiche di essere ricavata “implicitamente” dal sistema (e non esplicitamente ricompresa nell’elenco delle competenze esclusive dello Stato, dove invece, e significativamente, è contenuta la competenza in materia di definizione dei poteri fondamentali di Comuni, Provincie e Città metropolitane), e di essere di carattere davvero vastissimo e potenzialmente espandibile in ogni settore e in ogni contesto.

[38] Del resto sono problemi questi ai quali, anche al di là dei ragionamento svolti nel testo, non pare davvero facile dare risposta alla luce del nuovo art. 119 della Costituzione e tenendo conto di quanto previsto dall’ art. 81 Cost. in materia di copertura di spesa delle leggi. Peraltro in questa sede non si intende affatto affrontare questa tematica, che richiederebbe una trattazione ben più approfondita. Così come una trattazione non meno approfondita, anche se apparentemente meno “costituzionalmente rilevante”, richiederebbe la scelta di affrontare tutti i problemi che il nuovo sistema costituzionale, specialmente se letto in questa chiave e con queste conseguenze, determina in ordine alla ormai consolidata necessità dell’analisi di fattibilità delle leggi e di analisi della loro copertura amministrativa.

Per quanto riguarda in ogni caso il nuovo art. 119 Cost. si rinvia qui a P. Giarda,  Le regole del federalismo fiscale nell’art.119: un economista di fronte alla nuova Costituzione ,in Le Regioni, n.6 del 2001.

[39] Cfr. A. Poggi Le autonomie funzionali tra sussidiarietà verticale e sussidiarietà orizzontale, Giuffrè, Milano, 2001, spec. Capitolo VI.

[40] In questo senso la diversa formulazione delle due disposizioni e le conseguenze che sembrano discenderne paiono confermare alcuni fra gli spunti più interessanti sviluppati recentemente anche sotto questi ultimi profili da A. Poggi, op.loc.cit..

[41] Anche chi scrive ha avuto occasione di sostenere questa tesi. Cfr. a questo proposito F.Pizzetti, Il processo riformatore nella XIII legislatura, in G.Berti e G.De Martin (a cura di), Dalla riforma amministrativa alla riforma costituzionale delle autonomie territoriali, Roma, LUISS, 2001, volume nel quale sono raccolti gli atti del relativo Convegno dal medesimo titolo svoltosi a Roma, presso la LUISS il 9 gennaio 2001. Nel medesimo senso cfr. anche P.Bilancia, Verso un federalismo cooperativo?, in AA.VV., Problemi del federalismo, Giuffrè, Milano 2001, 67 ss..

[42] Per le vicende legate al processo che ha condotto all’approvazione della riforma del titolo V della parte II della Costituzione si può vedere F.Pizzetti, Legge costituzionale n.1 del 1999 e riforma del titolo V della parte II della Costituzione: qualche riflessione fra cronaca già scritta e cronaca ancora da scrivere, in AA.VV., Problemi del federalismo, cit., 87 ss..

[43] Aspetto, questo, che probabilmente non dovrà riguardare né soltanto, né soprattutto, la ripartizione di competenze amministrative tra Stato, Regioni ed enti locali quanto anche, e specialmente, la organizzazione del governo centrale, la sua articolazione e la ripartizione delle competenze fra i diversi ministeri e i diversi strumenti di raccordo previsti dalle numerose norme attuative delle leggi di delega. E’ evidente, infatti, che il profondo mutamento di ruolo che interessa lo Stato in seguito all’entrata in vigore della riforma costituzionale non potrà non incidere anche su un’organizzazione di governo che, quanto a funzioni, competenze e soprattutto “missioni”, è stata pensata dentro il quadro costituzionale precedente.

[44] Come è noto, chi scrive è stato in questi anni uno dei più convinti sostenitori del sistema delle Conferenze assumendo anche, talvolta, posizioni che non sono state condivise da una parte autorevole della dottrina. Proprio per questo tuttavia le considerazioni che si sviluppano ora possono forse avere un qualche maggiore interesse anche per il lettore. Cfr. in ogni caso F. Pizzetti, Il sistema delle Conferenze e la forma di governo italiana, in Le Regioni, 2000, 473 ss. e, su posizioni contrapposte, P. Caretti, Il sistema delle Conferenze e i suoi riflessi sulla forma di governo nazionale e regionale, ivi, 547 ss.

[45] Non ci riferisce qui tanto alla c.d. “Cabina di regia” per l’attuazione della riforma del titolo V della parte II della Costituzione che, anche se non sembra ancora del tutto definito esattamente l’ambito delle sue competenze e le modalità di funzionamento, ha sostanzialmente iniziato la sua attività dal 28 novembre 2001. Infatti essa è destinata comunque a configurarsi, almeno per il momento, come un organo strettamente legato alla congiuntura attuale, caratterizzata dalla necessità di risolvere i mille problemi legati alla prima fase di attuazione della nuova riforma, mentre i nuovi strumenti di governance a cui qui si vuole fare riferimento riguardano anche e soprattutto il funzionamento “a regime” del nuovo sistema fondato dalla riforma costituzionale. Peraltro, anche se si  comprendono le ragioni di fatto e i motivi di opportunità che hanno spinto a scegliere questa innovazione organizzativa, non si può nascondere che l’idea di fondo che sembra sottostare all’istituzione di questa “Cabina di regia” lascia assai perplessi. Essa, infatti, postula implicitamente  che l’attuazione del titolo V della parte II della Costituzione possa avvenire in modo “uniforme” e sostanzialmente accentrato, sia pure attraverso un accentramento sostanzialmente collocato in capo a un organo a composizione mista e quindi finalizzato a produrre decisioni compartecipate. Anche se si può capire che un’idea di tal genere trovi oggi cittadinanza di fronte alle grandi difficoltà che la fase di transizione fra il vecchio e il nuovo sistema comporta, non si può tacere del fatto che essa, specie se fosse destinata a fondare una modalità organizzativa e una prassi di carattere permanente, sembra contrastare con gli aspetti essenziali del nuovo sistema e della sua portata innovativa.

 Allo stesso modo non si può non guardare con perplessità all’ipotesi di approvare con un’unica legge (e per di più statale) tutte le norme, eventualmente anche di carattere meramente “ricognitivo” o “interpretativo”, che si ritenessero necessarie per procedere a una prima attuazione della riforma che possa essere non soltanto sufficientemente “condivisa” ma anche, e forse soprattutto, “uniforme”. Anche in questo caso non c’è dubbio che, in questa fase del tutto particolare caratterizzata dall’esigenza di dare una risposta ai problemi posti dalla prima attuazione della riforma, la proposta di una legge di questo tipo può essere facilmente comprensibile nelle sue motivazioni di fondo. Essa, infatti, può avere da un lato l'obiettivo di “stabilizzare” in “forma di legge” gli accordi tra Stato e Regioni (meglio fra governi statale e regionali), eventualmente anche con la partecipazione (ma non è ancora chiaro in che misura) degli enti locali, e da un altro lato può mirare ad  assicurare una qualche omogeneità e razionalità complessiva della fase di transizione.

 Tuttavia, esattamente come per la “Cabina di regia”, anche l’ipotesi di una eventuale unica legge statale di attuazione appare essere, almeno in linea di principio, di difficile armonizzazione col nuovo sistema.

Infatti, la prima (la Cabina di regia), specialmente se considerata come destinata a diventare permanente, introdurrebbe un nuovo raccordo “accentrato e di carattere generalista” del quale non sembra davvero vi sia bisogno.  Infatti, tutt’al contrario, oggi vi è piuttosto bisogno di nuove forme di raccordo finalizzate a assicurare la governance nei diversi settori e nei rapporti plurimi fra un centro statale unico e una realtà molto articolata, e potenzialmente portatrice di policies difformi, costituita dalle Regioni e dal sistema degli enti locali.

 D'altro canto, la seconda (cioè la legge statale unica di attuazione), specie se considerata come rispondente all’esercizio di un ruolo proprio del legislatore statale, sarebbe necessariamente costretta a fondarsi su una sorta di potere implicito, e rivendicato come proprio del legislatore statale, di dettare le norme di attuazione. Né varrebbe molto sottolineare che l’esercizio concreto di questo potere sarebbe condizionato di fatto ( non si vede infatti come potrebbe esserlo di diritto) al passaggio attraverso un processo decisionale a  carattere condiviso, cosicché in concreto si tratterebbe di una legge sostanzialmente finalizzata a dare veste formale di rango legislativo agli accordi “intergovernativi” registrati in sede di Conferenze o di Cabina di regia.

Questo significherebbe infatti fondare in ogni caso, e comunque sulla base di un criterio puramente implicito, una nuova competenza del legislatore statale non prevista dalla nuova Costituzione.

Né sembra possibile rispondere a quest’ultima obiezione sostenendo la possibilità di collocare in un unico testo normativo le disposizioni che potrebbero comunque esser comprese nelle molte e diverse leggi riconducibili alle tante riserve di legge statale contenute nel nuovo testo del titolo V. Che, almeno in linea astratta, il legislatore statale possa esercitare le riserve di legge a lui attribuite in maniera contestuale può anche essere accettabile, ma questo è sicuramente una cosa diversa dall’idea di approvare una legge omnibus che abbia come obiettivo essenziale definire le norme necessarie a una prima attuazione della riforma. Tali norme, infatti, ben difficilmente potrebbero affrontare e risolvere in modo soddisfacente i moltissimi problemi legati alle discipline di settore che le riserve di legge statale contenute nel nuovo testo costituzionale devono invece risolvere il più compiutamente possibile (e risolvere non al fine di una “prima attuazione”, ma ai fini di una “attuazione stabilizzata” della riforma). Inoltre una tale legge, così come prospettata nell’argomentazione che si è qui ricostruita, troverebbe una sua sorta di legittimazione di fatto sulla base di accordi “intergovernativi” definiti ed elaborati attraverso sedi e forme che provengono dal sistema precedente, e intorno alle quali è ancora mancata una riflessione e una formalizzazione adeguata nell’ambito del nuovo sistema.

 Aspetto, quest’ultimo, particolarmente importante perché, come si è cercato di dire, allo stato attuale è essenziale definire bene in che misura, nel nuovo sistema, siano ammissibili forme “accentrate” e “generaliste” di raccordo e quanto invece siano necessarie nuove forme di raccordo di “carattere settoriale” e di tipo “plurimo” capaci di coinvolgere in modo flessibile i soggetti e gli ambiti territoriali di volta in volta interessati. Inoltre, proprio la stessa previsione di molte distinte riserve di legge statale, contenute fra l’altro in norme diverse (e non un’unica riserva di legge contenuta in una norma costituzionale riepilogativa delle competenze del legislatore statale), è indice del fatto che  a tali leggi si vuole affidare il compito di stabilire, in forma specifica, le modalità, le procedure, le forme di raccordo che devono caratterizzare i diversi settori di interconnessione fra i diversi soggetti a cui il nuovo titolo V affida compiti legislativi e comunque ruoli di intervento amministrativo e di governo dei processi decisionali. Fondare sul richiamo a queste riserve di legge, fra loro differenziate e distinte, la legittimità di un'unica legge di attuazione, per sua natura finalizzata essenzialmente a dettare una disciplina di prima attuazione, significa oggettivamente distorcere la ratio stessa delle specifiche riserve di legge presenti nel titolo V e trasformare queste riserve nel fondamento di una indebita e inesistente competenza del legislatore che, proprio perché diversa e tendenzialmente generalista, si configura come ulteriore e nuova rispetto a tutte le competenze elencate nel secondo comma dell'art.117 o contenute nelle specifiche disposizioni costituzionali di settore.

[46]  Questi diversi aspetti, e specificamente quelli connessi con le molteplici forme di raccordo che le molte riserve di legge statale contenute nel nuovo titolo V della parte II della Costituzione sembrano comportare, sono state ben colte per prima da P. Bilancia, Verso un federalismo cooperativo?, in AA .Problemi del federalismo, cit., 67 ss..

[47] Cfr. F.W.Scharpf,  The Problem Solving Capacity of Multi-Level Governance, Centro Robert Schuman, Istituto Universitario Europeo, Firenze, 1997, ora anche in trad. italiana come Governare l’Europa, il Mulino,  Bologna, 1999.

[48][48] Si adotta qui la sistematica messa a punto in particolare da F.W.Scharpf in Demokratietheorie zwischen Utopie und Anpassung, Konstanz, Universitatsverlag, 1970 e in Games Real Actors Play: Actor-Centered Institutionalism in Policy Research, Boulder, Col., Westview, 1997. In questa sistematica, la legittimazione sul versante dell’input (e il pensiero democratico “orientato all’input”) sottolinea il concetto di “governo del popolo” come “governo da parte del popolo”. La legittimazione sul versante dell’outpt (e il pensiero democratico che su questo si fonda) attira invece l’attenzione sul concetto di “governo per il popolo” come “governo in favore del popolo” . Richiamando ancora le sottolineature fornite su questa sistematica da Scharpf, si può dire che la legittimazione democratica fondata sul versante dell’input trova il suo maggior saggio teorico nel Rousseu del Contratto sociale mentre il primo e più elaborato quadro di un progetto istituzionale fondato sulla legittimazione democratica orientata all’output lo si trova nei Federalist Papers.

[49] Cfr. nota precedente.

[50] Cfr. le osservazioni svolte supra, specialmente nel paragrafo 4 e alla nota 45.

[51] Cfr. G. Falcon, "Modello" e "transizione" nel nuovo titolo V della parte II della Costituzione, cit. e A.Corpaci, Revisione del titolo V della parte II della Costituzione e sistema amministrativo, cit..

[52] Il dibattito in corso sulla governance nell’Unione Europa e sulle sue connessione con la riforma delle istituzioni dell’Unione è oggi particolarmente acceso. La complessa vicenda legata alla riforma delle Istituzioni Europee, avviata ufficialmente, dopo Amsterdam, col vertice europeo di Colonia della primavera 1999, passata attraverso la elaborazione della Carta dei diritti e il vertice di Nizza dell’autunno 2000 e in piena evoluzione ora, in vista della già calendarizzata Conferenza intergovernativa che si terrà su questi temi nel 2004, si è intrecciata con la vicenda legata ai problemi di riforma della governance europea. Problemi, questi ultimi, portati al centro della discussione dalla presentazione nel luglio del 2001 da parte della Commissione Europea del Libro bianco intitolato La governance europea. Tralasciando in questa sede ogni riferimento al dibattito in corso sulla riforma delle Istituzioni, che peraltro ha visto, come è noto, lo svilupparsi di una discussione di altissimo livello, innescata dall’ormai famoso discorso svolto da Joschka Fischer alla Humboldt Universitat in Berlin, il 12 maggio 2000 e proseguito con il susseguirsi di numerosi interventi dei capi di Stato e di governo di tutti i Paesi dell’Unione e del Presidente della Commissione europea, sia qui consentito richiamare l’attenzione sui temi sollevati nel Libro bianco sulla governance presentato dalla Commissione Europea il 25 luglio 2001. Tale documento, che peraltro ha sinora ricevuto una accoglienza assai tiepida, mette bene in luce, proprio nel confronto col dibattito in corso sulla riforma dell’Unione, i limiti, ma anche gli aspetti peculiari, della governance nei moderni sistemi complessi. In particolare mette in luce la difficoltà di trovare nella sola governance ( e nella democrazia dell’outpt) una risposta sufficiente alla crisi di legittimazione che caratterizza oggi un’Unione Europea che appare ancora troppo come una Europa dei  governi (che è cosa diversa dall’Europa degli Stati) e ancora troppo poco come Europa dei popoli. Sul Libro bianco La governance europea e sul dibattito che introno ad esso si va svolgendo, si veda la amplissima documentazione consultabile sul sito web dell’Unione Europea appositamente dedicato a questo. Si vedano inoltre gli importanti saggi e contributi al dibattito sul White Paper della Commissione che il Centro Robert Schuman dell’Istituto Universitario Europeo di Firenze diretto da Y. Meny, in collaborazione con The Jean Monnet Chair della Harvard Law School,, diretta da J.H.H.Weiler, va raccogliendo nell’ambito del seminario Responses to the European Commission’s White Paper on Governance. Tale documentazione è consultabile sul sito web www.iue.it.

[53] Si veda su questi aspetti ora anche R.Bin, L’interesse nazionale, in Le Regioni,n.6 del 2001 e, sia pure in versione ridotta, anche in Forum telematico di Quaderni costituzionali, cit. In generale il primo ad accorgersi di questa problematica e a richiamare l’attenzione sulle conseguenze del mancato richiamo, nel nuovo testo costituzionale, del concetto stesso di “interesse nazionale” è stato A.Barbera, Esiste ancora l’interesse nazionale?, in Forum telematico di Quaderni costituzionali, cit. Sui problemi posti da Barbera si è peraltro svolto, sul medesimo Forum, un dibattito intenso e ricco di spunti, che concorrono implicitamente a illuminare ulteriormente questa problematica. Cfr. i saggi di R.Bin,  R.Tosi ed altri, sede e loc. cit.