FRANCESCO DAL CANTO
MATRIMONIO TRA PERSONE DELLO STESSO
SESSO:
1. La vicenda. Il 3 aprile 2009 il Tribunale
di Venezia, III sezione civile, ha promosso dinanzi alla Corte
costituzionale la questione di legittimità degli artt. 93, 96, 98, 107, 108,
143, 143 bis e 156 bis del codice civile “nella parte in
cui, sistematicamente interpretati, non consentono che le persone di
orientamento omosessuale possano contrarre matrimonio con persone dello stesso
sesso”, in violazione degli artt. 2, 3, 29 e 117, comma 1, Cost.
A tale pronuncia ne sono
seguite altre tre, nella sostanza analoghe, sebbene non del tutto coincidenti
(sia per l’oggetto che per i parametri di costituzionalità invocati), tutte
scaturite da giudizi promossi all’indomani di provvedimenti di rifiuto da parte
dell’ufficiale dello stato civile di procedere alle pubblicazioni matrimoniali
di due persone dello stesso sesso (Corte di appello di
Trento, Sezione civile, ord. 29 luglio 2009; Corte
di appello di Firenze, I Sezione civile, ord. 3 dicembre 2009; Tribunale di Ferrara, ord. 14 dicembre 2009).
2. I precedenti. In altre, pur rare, occasioni la rivendicazione di
diritti da parte di coppie omosessuali è giunta dinanzi a giudici italiani. Già
il Tribunale di Roma, il 28 giugno 1980, adottò un decreto camerale con il
quale respinse un ricorso proposto da due giovani omosessuali avverso il
rifiuto di procedere alle pubblicazioni matrimoniali (in Giur.it., I, 1982, 170ss., con nota di T. Galletto, Identità
di sesso e rifiuto di pubblicazioni per la celebrazione del matrimonio).
Più di recente
E ancora, con decreto
della Corte d’Appello di Roma del 13 luglio 2006 (annotato da F. Bilotta, Un’inattesa apertura costituzionale nonostante la conferma di
inesistenza, in Guida al diritto,
n. 35 del 2006, 59ss.), è stato respinto il reclamo che due persone del
medesimo sesso avevano proposto contro il provvedimento del Tribunale di Latina
con il quale era stato rigettato il ricorso dei medesimi avverso il rifiuto
dell’Ufficiale dello stato civile di trascrivere il matrimonio dagli stessi
contratto all’estero.
Tuttavia le ordinanze del
2009 rappresentano senza dubbio una rilevante novità.
Per la prima volta,
infatti, il tema del matrimonio omosessuale supera il filtro di “non manifesta
infondatezza” operato dai giudici e viene sottoposto al giudizio della Corte
costituzionale.
3. Il divieto di matrimonio tra persone dello stesso sesso. Tutte le
autorità giudiziarie remittenti dedicano la prima parte della motivazione a
ricostruire il diritto italiano vigente, ricavando dalle disposizioni del
codice civile la norma che vieta il matrimonio omosessuale, per poi farne
oggetto di impugnazione.
Nella motivazione
dell’ordinanza del Tribunale di Venezia si osserva, in particolare, che
“l’istituto del matrimonio nell’ordinamento giuridico italiano è
inequivocabilmente incentrato sulla diversità di sesso dei coniugi”. Il
requisito della eterosessualità viene qualificato, richiamando alcuni rari
precedenti della Corte di cassazione (Cass. n. 7877/2000, 1304/1990 e
1808/1976), alla stregua di un “presupposto indispensabile”, la cui assenza
produce, non un mero impedimento alla celebrazione del matrimonio, ma la stessa
“inesistenza della fattispecie”.
Tale deduzione è il
risultato di un processo argomentativo che si snoda su due momenti.
In primo luogo si fa
ricorso all’argomento letterale. Pur ammettendo che “nel nostro sistema il
matrimonio tra persone dello stesso sesso non è previsto né vietato espressamente”,
si osserva che in diverse disposizioni del codice civile ci si riferisce al
“marito” e alla “moglie” come attori della celebrazione (artt. 107 e 108) e
protagonisti del rapporto coniugale (art. 143), con la conseguenza che “per il
chiaro tenore delle norme sopra indicate non sia possibile - allo stato della
normativa vigente - operare un’estensione dell’istituto del matrimonio anche a
persone dello stesso sesso”.
L’argomento letterale, da
solo, appare probabilmente fragile ai giudici. Non è un caso, del resto, che il
coacervo di disposizioni selezionate per delimitare il thema decidendum muti parzialmente da un’ordinanza all’altra. Il
ragionamento, allora, viene rafforzato attraverso altre tecniche interpretative:
si richiama la “tradizione” (ordd. Venezia e Ferrara), osservandosi che il mancato riconoscimento
per le coppie dello stesso sesso del diritto di contrarre matrimonio si fonda
su una “consolidata e ultramillenaria nozione”; si fa ricorso all’“etimologia”
(Firenze), sottolineando, con ampia citazione dal
dizionario Devoto-Oli, che “non v’è dubbio che nella lingua italiana per
matrimonio s’intenda il rapporto di convivenza dell’uomo e della donna …”.
4. Le censure di incostituzionalità. Una volta ricostruita la norma di
divieto del matrimonio omosessuale, le autorità remittenti passano ad esaminare
le ragioni della sua illegittimità costituzionale. Viene notato, in via
preliminare, che “nuovi bisogni, legati anche all’evoluzione della cultura e
della civiltà, chiedono tutela, imponendo un’attenta meditazione sulla
persistente compatibilità dell’interpretazione tradizionale con i principi
costituzionali” (ord. Venezia).
Il primo riferimento
costituzionale con il quale le motivazioni delle quattro ordinanze si
confrontano è l’art. 2 Cost., laddove “
Il secondo parametro di
riferimento è rappresentato dall’art. 3 Cost., laddove vengono vietate
irragionevoli disparità di trattamento tra individui, osservandosi che “la
norma che esclude gli omosessuali dal diritto di contrarre matrimonio con
persone dello stesso sesso non ha alcuna giustificazione razionale” (Venezia) e dunque si presenta come irragionevolmente
discriminatoria. Ancora, si sostiene che, “siccome il baluardo eretto dall’art.
3 Cost. impedisce nel modo più categorico che la contingente inclinazione
sessuale possa costituire motivo di discriminazione tra cittadini, bisogna
ritenere che la libertà di scegliere un coniuge dotato di un certo sesso
piuttosto che di un altro sia garantita dall’ordinamento …” (Firenze).
Onde rafforzare le
censure riguardanti il profilo dell’uguaglianza alcuni giudici a quibus svolgono un parallelo con la
situazione in cui si trovano le persone transessuali, le quali, ottenuta la
rettificazione di attribuzione di sesso biologico ai sensi della legge n.
164/1982, possono contrarre matrimonio con persone dello stesso sesso
originario (cfr., per tutti, R. Romboli,
La libertà di disporre del proprio corpo,
sub art. 5, in Commentario del codice civile Scialoja-Branca, Bologna-Roma, 1988,
257ss.). Ma tale richiamo, sia detto per inciso, non pare del tutto
convincente; si potrebbe anzi chiosare come esso si presti ad essere utilizzato
in senso contrario. E’ possibile infatti affermare che la previsione per la
quale l’ordinamento italiano consente il matrimonio tra due persone del
medesimo sesso biologico esclusivamente “a seguito di intervenute modificazioni
dei caratteri sessuali” (art. 1) di uno dei due, e della successiva
attribuzione a quest’ultimo, con provvedimento dell’autorità giudiziaria, del
sesso opposto, rafforzi anziché indebolire il paradigma tradizionale che vede
nell’eterosessualità un presupposto essenziale del matrimonio.
Infine, un ulteriore
rilievo di costituzionalità è quello che attiene all’art. 29, comma 1, Cost.,
ai sensi del quale “
5. Il riferimento all’ordinamento sovranazionale. Tutte le ordinanze
fanno largo utilizzo del rinvio all’ordinamento sovranazionale onde rafforzare
gli argomenti a supporto della non manifesta infondatezza del dubbio di
costituzionalità; rinvio che il giudice veneziano giustifica attraverso il
diretto richiamo dell’art. 117, comma 1, Cost., nella formulazione novellata
nel 2001, laddove si impone alla legislazione statale e regionale il rispetto
dei “vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi
internazionali”.
Si richiamano dapprima
una serie di risoluzioni del Parlamento europeo, che, già sedici anni orsono,
ha ritenuto di dover esortare gli Stati a “porre fine agli ostacoli frapposti
al matrimonio di coppie omosessuali” (cfr. la nota ris. 8 febbraio 1994, i cui
contenuti sono stati successivamente ribaditi nel 2000, nel 2003 e nel 2006).
Si fa rinvio, poi, tra le numerose disposizioni richiamate, in particolare all’art.
12 della C.E.D.U. (che integra, quale norma interposta, il parametro di
costituzionalità ex art. 117, comma
1, Cost., come ha affermato Corte cost., sentt.
nn. 348 e 349/2007)
e all’art. 9 della Carta di Nizza (che, lo si ricorda, con l’entrata in vigore
del Trattato di Lisbona, intervenuta nel dicembre 2009, ha assunto il medesimo
valore giuridico dei Trattati comunitari), previsioni che, pur impiegando una
terminologia lievemente diversa, fanno il medesimo espresso riferimento al
“diritto di sposarsi” e di “costituire una famiglia”.
Tuttavia tali richiami
appaiono indicativi ma non certamente conclusivi.
Quanto alle risoluzioni
del Parlamento europeo, occorre notare come esse siano dirette a sollecitare
gli stati membri, alternativamente, ad estendere l’istituto matrimoniale alle
coppie formate da persone dello stesso sesso, oppure - lasciando agli stati la
possibilità di scegliere soluzioni più “caute” - ad introdurre nelle
legislazioni nazionali “istituti giuridici equivalenti”, e dunque non
coincidenti con l’istituto matrimoniale (E.
Rossi, L’Europa e i gay, in Quad.cost., 2000, 405). Del resto sono
soltanto tre, ad oggi, gli stati dell’Unione europea che hanno esteso tout court il preesistente istituto
matrimoniale alle persone dello stesso sesso - Belgio, Olanda e Spagna - mentre
molti altri ordinamenti hanno preferito introdurre forme diverse di
riconoscimento giuridico delle coppie omosessuali, per quanto talora anche
assai simili al matrimonio (cfr. N.
Pignatelli, I livelli europei di
tutela delle coppie omosessuali tra “istituzione” matrimoniale e “funzione”
familiare, in Rivista di diritto
costituzionale, 2005, 264ss.).
Anche il richiamo degli
artt. 12 CEDU e 9 della Carta di Nizza assume una forza relativa, tenuto conto
che tali disposizioni fanno rinvio alle “leggi nazionali” per la disciplina
delle modalità del concreto esercizio del diritto di sposarsi, cosicché può
affermarsi che il sistema comunitario considera gli istituti della famiglia e
del matrimonio come nozioni giuridiche presupposte, né impedendo né obbligando
gli stati alla concessione dello status
matrimoniale alle unioni omosessuali, favorendo in definitiva su questo tema il
più ampio pluralismo culturale e legislativo (cfr. S. Rodotà, Presentazione
a F. Grillini e M.R. Marella (a
cura di), Stare insieme, Napoli,
2001, XIV).
E ancora, non può non
ricordarsi come alla relativa “spregiudicatezza” delle risoluzioni del
Parlamento europeo e alla tendenziale apertura delle Carte abbia fino ad oggi
corrisposto un’evidente prudenza delle Corti europee, sia quella comunitaria
che quella europea dei diritti dell’uomo, le quali, senza sostanziali cambiamenti
di rotta negli ultimi anni, accolgono “pacificamente” il principio in base al
quale la diversità di sesso tra i coniugi è elemento strutturale dell’istituto
matrimoniale “alla luce della tradizione degli stati europei” (tra le altre, v.
Corte europea dei diritti, 17 ottobre 1986, n. 106, Corte europea dei diritti,
27 settembre 1990, n. 184; Corte giust., 31 maggio 2001, C-122/99 P e C-125/99
P), tanto che si è parlato, a tale proposito, di una vera e propria “nozione
comunitaria di matrimonio” (B. Pezzini,
Matrimonio e convivenze stabili
omosessuali, Resistenza del paradigma eterosessuale nel diritto comunitario e
difficoltà del dialogo con le legislazioni nazionali (nonostante
Infine, anche nella nota
decisione del 2002 della Corte di Strasburgo (caso Goodwin c. Regno Unito dell’11 luglio), ampiamente citata nella
motivazione del Tribunale di Venezia, la dichiarazione di contrarietà alla CEDU
del divieto per il transessuale di contrarre matrimonio con persona del suo
stesso sesso originario non sembra in effetti sconfessare i ricordati
precedenti orientamenti, ma anzi, come prima si accennava, indirettamente li
rafforza: essa difatti si fonda proprio sul presupposto dell’intervenuto
mutamento di sesso di uno dei membri della coppia, e la legislazione britannica
viene censurata laddove, discriminatoriamente, non riconosce a tale mutamento
alcun valore giuridico (L. TRUCCO, Il
transessualismo nella giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo
alla luce del diritto comparato, in DPCE,
2003, 381).
6. La famiglia come “società
naturale fondata sul matrimonio”. I giudici remittenti, come si è detto,
danno credito alla tesi della neutralità dell’art. 29 con riguardo alla questione
della definizione della nozione di famiglia e di matrimonio.
Si osserva, infatti, in
motivazione che la formula “famiglia come società naturale fondata sul
matrimonio” va intesa come esclusivamente volta a collocare tale formazione
sociale all’interno di una sfera di autonomia dall’ordinamento statale, in
quanto comunità originaria, preesistente alla Stato e al diritto. Del resto
anche dalla lettura del dibattito svoltosi in seno all’Assemblea costituente -
nota il giudice veneto, richiamando l’on. Aldo Moro - può evincersi come a tale
locuzione non si sia inteso attribuire alcun valore definitorio e come al
termine “naturale” si sia voluto riconoscere semplicemente il significato di
“razionale”, nel senso di rispondente ad un bisogno primario della persona
quale essere relazionale. Per la suddetta ragione - è la logica conclusione del
ragionamento - la determinazione dei significati da attribuire a tale istituto
deve essere rimessa esclusivamente alle trasformazioni della società. “Il fatto
che la tutela della tradizione non rientri nelle finalità dell’art. 29 Cost.” -
prosegue ancora l’ordinanza veneta - “e che famiglia e matrimonio si presentino
come istituti di carattere aperto alle trasformazioni (…) è poi
indubitabilmente dimostrato dall’evoluzione che ha interessato la loro
disciplina dal 1948 ad oggi ….”.
L’orientamento accolto
dai giudici a quibus rappresenta
un’“apertura costituzionale” di un certo rilievo, che va ad inserirsi in un
dibattito che ha conosciuto di recente un rinnovato vigore. Tale dibattito è
tutto incentrato sulla complessa esegesi dell’art. 29 Cost., in parte ripresa
nelle motivazioni delle ordinanze, a partire dalla ricostruzione della faticosa
genesi di tale disposizione.
Pur tenendo conto del
rilievo relativo che deve essere attribuito all’intenzione del redattore
nell’attività ermeneutica, può essere utile ricordare che in Assemblea
costituente la definizione di famiglia come “società naturale fondata sul
matrimonio” finì per rappresentare il punto di equilibrio rispetto ad una
duplice esigenza manifestata - con il tiepido assenso dell’on. Togliatti, cui
peraltro si deve la formulazione definitiva - per lo più dai Costituenti
cattolici: da una parte, quella di affermare in modo esplicito che la famiglia
doveva qualificarsi come una comunità preesistente allo Stato, cui quest’ultimo
doveva limitarsi a “riconoscere” diritti; dall’altra, quella di individuare
tale società naturale in una ben precisa forma di organizzazione sociale, cioè
nella famiglia fondata sul matrimonio, tipico istituto giuridico regolato dallo
Stato e dal diritto. Tuttavia, ciò che in seguito sarebbe apparsa a taluno come
una palese contraddizione, al punto da sottolineare il carattere di ossimoro
della locuzione contenuta nell’art. 29 (R. Bin,
La famiglia: alla radice di un ossimoro, in Studium iuris, 2002,
1066ss.), venne alfine accolto dalla parte prevalente della Assemblea
costituente, e non soltanto dalla componente cattolica, alla stregua di
un’“endiadi”, anche per il motivo per il quale all’epoca non si immaginavano
modelli “naturali” di famiglia realmente alternativi a quello riconducibile al
matrimonio tradizionale. Pare difficile negare come anche lo stesso on. Aldo
Moro, dal quale i giudici remittenti traggono ampie citazioni, avesse in mente
un preciso modello familiare quando sottolineava, sempre nel dibattito in
Assemblea costituente, il ruolo esclusivo e peculiare della famiglia quale
“cellula creatrice della società”.
Vero è che l’evoluzione
sociale, la crisi dei rapporti familiari tradizionali e il progressivo
consolidarsi di modelli culturali differenziati hanno contribuito a rendere più
marcata, almeno agli occhi di alcuni osservatori, la potenziale contraddizione
presente nel dettato costituzionale. In verità, nel corso degli oltre sessant’anni
che ci separano dall’entrata in vigore della Costituzione tale aporia è stata
ora negata ora avvertita, nella dottrina e nella società civile, con intensità
diverse.
Due, peraltro, sono le
principali ricostruzioni che si sono contrapposte, cui sono andate ad
aggiungersi diverse posizioni intermedie. Da una parte la tesi che, accentuando
e probabilmente forzando il carattere pregiuridico dell’istituto familiare, lo
intende quale organismo astorico ed immutabile, collocato al di fuori di
qualsiasi possibile ingerenza dello Stato, il quale vede fortemente ridotto il
proprio potere non soltanto di regolamentare ma anche di attribuire a tale
istituto significati diversi da quelli trasmessi dalle tradizioni culturali e
dalla coscienza comune, sul presupposto implicito che “la” tradizione conduca
all’individuazione di un ben definito tipo di famiglia: appunto quello
“naturale”, che è monogamico, eterosessuale e potenzialmente aperto alla
procreazione (cfr., tra gli altri, C. Grassetti,
voce Famiglia (diritto privato), in Nss.D.I., VII, 1961, 50ss.e
G. Lombardi, La famiglia
nell’ordinamento italiano, in Iustitia, 1965, 3ss.).
Dall’altra, in senso contrario,
l’indirizzo seguito da chi, analogamente ai giudici remittenti, opta per
un’interpretazione di tipo storicistico dell’art. 29 e legge l’aggettivo
“naturale” collegato alla famiglia non nel senso della sua “originarietà” bensì
della sua “essenzialità” o “socialità”, da intendere come capacità di
rispondenza ad un bisogno fondamentale della persona. In questa diversa
prospettiva la fisionomia della famiglia è destinata a mutare con il corso
della storia e con l’evoluzione della società e conseguentemente il connesso
modello assume connotati continuamente mutevoli. L’art. 29 diviene, in questa
visione, disponibile in linea di principio ad ogni opzione interpretativa, una
sorta di norma “in bianco”, “neutrale” appunto, un mero rinvio alla concezione
di famiglia che si realizza in un dato momento storico, e quindi interamente
nella disponibilità delle scelte del legislatore (cfr., tra gli altri, A. Pugiotto, Alla radice costituzionale dei “casi”: la famiglia come “società
naturale fondata sul matrimonio”, in www.forumcostituzionale.it
e P. Veronesi, Costituzione,
“strane famiglie” e “nuovi matrimoni”, in Quad. cost., 2008, 577ss.).
Vi sono, infine, ricostruzioni che si
collocano su posizioni intermedie rispetto alle due precedenti e che,
prescindendo qui dai diversi percorsi argomentativi seguiti, pur non
disconoscendo la relatività e la storicità della nozione costituzionale di
famiglia, postulano l’esistenza di un “nucleo duro” della stessa di cui il
legislatore ordinario non potrebbe liberamente disporre. Tale contenuto minimo
essenziale, definibile attraverso il ricorso alla tradizione, al radicamento
nel tessuto sociale e al senso comune attribuito alle parole, consisterebbe
proprio nell’elemento della diversità di sesso tra i coniugi (cfr., tra gli
altri, F. Busnelli, La
famiglia e l’arcipelago familiare, in Riv.dir.civ., 2002, spec.
520s. e A. Ruggeri, Idee sulla famiglia e teoria (e strategia) della Costituzione, in Quad.cost., 2007, 751ss. e, volendo, F. Dal Canto, Matrimonio
tra omosessuali e principi della Costituzione italiana, in Foro it., 2005, V, 275ss.)
7. Le prospettive. Proviamo, a questo punto, ad immaginare le
soluzioni cui potrebbe giungere
In primo luogo tale dispositivo, pur
con qualche forzatura, potrebbe essere motivato denunciando il carattere
parzialmente contraddittorio delle ordinanze di remissione. Come si è notato,
infatti, i giudici a quibus, allo
scopo di ricavare, in via di interpretazione sistematica, la norma che vieta il
matrimonio omosessuale, fanno ricorso, oltre che all’argomento letterale, anche
alla tradizione e all’etimologia, e tali argomenti, come si è notato, finiscono
per avere un peso determinante nella ricomposizione del tessuto legislativo. Ma
se ciò è vero, potrebbe forse essere sottolineata l’incoerenza di rivolgersi
alla tradizione, attribuendo ad essa una precisa “consistenza giuridica”,
quando si tratta di giustificare, a livello legislativo, l’esistenza del divieto
del matrimonio omosessuale, salvo poi negare la legittimità di tale richiamo
quando si tratta di interpretare la nozione costituzionale di “famiglia come
società naturale fondata sul matrimonio” (nozione dai giudici ritenuta,
infatti, “neutra”).
In secondo luogo,
l’inammissibilità potrebbe essere argomentata in ragione della circostanza che
i giudici a quibus avrebbero dovuto,
anziché chiamare in causa
Venendo ora all’ipotesi che
Accogliendo la prima, quella che fa
leva sulla “tradizione”, la norma che vieta il matrimonio omosessuale non
potrebbe essere considerata illegittima ma, al contrario, pienamente conforme
alla nozione costituzionale di famiglia. Alla stessa soluzione, peraltro, si
dovrebbe pervenire anche accogliendo una delle soluzioni intermedie, ritenendo
cioè che la nozione costituzionale di famiglia, pur non insensibile ai
mutamenti sociali, presupponga un nucleo duro che annovera l’eterosessualità
tra i suoi caratteri essenziali. E tale soluzione potrebbe essere forse
argomentata anche ricorrendo ad un’interpretazione sistematica delle
disposizioni costituzionali dedicate alla famiglia, a partire dal riferimento
all’uguaglianza morale e giuridica dei coniugi, la quale parrebbe in effetti
presupporre la differenza di genere (G.
Grasso, “Dico” sì, “Dico” no:
prime impressioni sul disegno di legge Pollastrini-Bindi, in www.forumcostituzionale.it). Per questa
via, dunque,
Accogliendo invece la soluzione
opposta, quella che poggia sulla “neutralità” dell’art. 29, il Giudice delle
leggi, pur dovendo riconoscere, a futura memoria, che nessun limite di
legittimità può essere opposto al legislatore nell’ipotesi di un’eventuale
innovazione del tipo indicato, non potrebbe tuttavia ricavare da tale lettura
costituzionale l’illegittimità della norma di divieto del matrimonio
omosessuale. Valutazione che, in questo caso, dovrebbe essere condotta con
riferimento esclusivo agli altri parametri evocati nelle ordinanze di
remissione (in particolare, gli artt. 2 e 3 Cost.).
Si aprirebbero, per questa via, altri
due possibili scenari: in primo luogo, ancora l’adozione di un dispositivo di
rigetto, qualora si dovesse ritenere che il mancato riconoscimento da parte del
legislatore del diritto delle persone dello stesso sesso di unirsi in
matrimonio non comporta una illegittima discriminazione nè viola un diritto
fondamentale, rientrando peraltro nella discrezionalità del legislatore la
scelta di provvedere, eventualmente, nel senso indicato. In secondo luogo,
l’adozione di una dispositivo di accoglimento additivo, accertando
8. Osservazioni conclusive. A parere di chi scrive, e in conclusione,
sarebbe auspicabile che
Su un tema così delicato,
sul quale si concentrano molteplici aspettative, tensioni e sofferenze, non
sarebbe augurabile rifugiarsi in soluzioni di tipo processuale, tanto più se le
stesse dovessero andare nel senso di rinviare la soluzione del problema al pluralismo
delle scelte dei giudici comuni.
Com’è stato
condivisibilmente osservato (da E.
Crivelli, Il matrimonio
omosessuale all’esame della Corte costituzionale, in www.associazionedeicostituzionalisti.it), anche se