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Pasquale Costanzo

 

Legislatore e Corte costituzionale

Uno sguardo d’insieme sulla giurisprudenza costituzionale

in materia di discrezionalità legislativa dopo cinquant’anni di attività*

 

 

Sommario: 1. Premessa. – 2. Discrezionalità del legislatore e discrezionalità dei legislatori nella forma di Stato e di governo italiane. – 3. Il “punto di vista” del legislatore: l’art. 28 della l. n. 87 del 1953. – 4. Il “punto di vista” della Corte costituzionale: dall’infondatezza all’inammissibilità. 5. Segue: il controllo sulla discrezionalità del legislatore e il rimedio delle sentenze additive. – 6. Segue: la discrezionalità del legislatore “oggetto” o “criterio orientatore” del controllo della Corte?7. Conclusioni.

 

1. Premessa. - Il tema propostomi, dato il suo carattere generale, è apparso subito estremamente impegnativo da affrontare in una chiave coerente con lo spirito del convegno. Ho pertanto interpretato la proposta come un invito a ritagliare, nel suo ambito, un profilo idoneo a fornire indicazioni ai colleghi spagnoli e per un eventuale dibattito sullo stato delle relazioni intercorrenti nell’ordinamento italiano tra Corte costituzionale e Legislatore alla luce della giurisprudenza dei 50 anni trascorsi dall’inizio dell’attività della Corte, dato che dei profili di carattere organizzativo si è incaricato Roberto Bin.

Ma anche in questa più ristretta prospettiva, i punti di interesse sono molteplici, richiedendo, per essere accuratamente svolti, molto più spazio di quello di una relazione.

Ho stimato pertanto, d’intesa con Miguel Revenga Sanchez, di poter assolvere al compito occupandomi di un aspetto della giurisprudenza costituzionale italiana che, oltre ad essere assai significativo sul piano dei rapporti istituzionali tra Corte e Parlamento, costituisce anche uno snodo problematico ricorrente nei rapporti tra giustizia costituzionale e potere legislativo in numerosissimi ordinamenti, compreso evidentemente anche quello spagnolo.

Questo aspetto attiene alla cd. discrezionalità del legislatore (di cui si occupano anche numerose decisioni del Tribunal Constitucional): se si vuole “croce e delizia” della giurisdizione costituzionale, costituendone nel contempo il limite ma anche un oggetto di valutazione.

Si tratta peraltro, a ben vedere, ancor più radicalmente d’indagare lo stesso rapporto tra politica e diritto costituzionale, anche se nell’ottica qui prescelta, tale rapporto sarà guardato essenzialmente con gli “occhiali” della Corte.

 

2. Discrezionalità del legislatore e discrezionalità dei legislatori nella forma di Stato e di governo italiane. - Una preliminare considerazione attiene al fatto che il rapporto in questione è nell’ordinamento italiano, analogamente a quanto avviene nell’ordinamento spagnolo, un rapporto plurale, dal momento che i legislatori che intrattengono relazioni con la Corte costituzionale sono ben ventitrè ossia, oltre al Parlamento nazionale, anche le assemblee legislative delle regioni e delle due province autonome. Ciò che di per sé non costituirebbe un’assoluta novità, se non fosse che, a seguito della riforma costituzionale del 2001, la circostanza ha acquisito un senso assai più pregnante rispetto al passato, dato che i legislatori locali godono ora di una dotazione di competenze notevolmente più ampia rispetto al dettato costituzionale originale (e, se dovesse andare in porto la revisione costituzionale già approvata dalle Camere in prima lettura, si verificherebbe un ulteriore accrescimento di tale dotazione).

Tuttavia, dal nostro particolare punto di vista, le questioni sul tappeto non paiono suscettibili di grandi mutamenti se non dal punto di vista quantitativo per effetto dell’aumento del contenzioso, fenomeno peraltro già ampiamente in atto (fino a tempi recenti infatti, se si è correttamente valutato, le occasioni in cui ha avuto qualche rilievo la discrezionalità del legislatore regionale e provinciale non arrivavano alla decina).

A questo già articolato quadro si dovrebbe per completezza aggiungere il Governo, non tanto e non solo per la presenza di leggi ad iniziativa riservata e per la titolarità a determinate condizioni di una normazione primaria, ma soprattutto perché, nella nostra, come in tutte le forme di governo parlamentare e in modo anche più vistoso nella variante francese, la produzione legislativa s’inserisce quasi sempre nel processo di attuazione del programma e dell’indirizzo politico governativo.

Anche qui però si potrebbe ritenere il dato non decisivo in via generale, poiché ragionando del rapporto tra Corte costituzionale e Parlamento, in realtà vi si sottintende la relazione tra le due grandi prospettive; quella della giustizia costituzionale e quella della politica in tutte le componenti coinvolte nel processo legislativo.

 

3. Il “punto di vista” del legislatore: l’art. 28 della l. n. 87 del 1953. - Prima di tentare di stabilire, sia pure nei termini estremamente succinti richiesti dalla relazione, un percorso evolutivo della giurisprudenza costituzionale italiana, nell’arco di cinquant’anni, sul tema propostoci, occorre ancora ricordare che difficilmente in tutti gli studi sul tema difetta un riferimento al dato positivo costituito dall’art. 28 della legge n. 87 del 1953 (la legge che, com’è noto, ha mandato a regime l’attività della Corte, disciplinandone molteplici aspetti organizzativi e processuali).

Ora già tale disposizione esclude che il controllo di legittimità costituzionale su una legge o un atto avente forza di legge possa comportare valutazioni di natura politica o identificarsi in qualsiasi modo o misura con un sindacato sull’uso del potere discrezionale del Parlamento.

Inutile dire che da subito - e quindi ancor prima che la Corte costituzionale incominciasse a funzionare - questo disposto è stato oggetto di critiche in dottrina, sia da parte di quanti ritenevano il contenuto delle sue statuizioni del tutto scontato, sia da quanti all’opposto lo consideravano illusorio, non mancando anche coloro che stimavano tali statuizioni di non facile comprensione.

Ci sembra tuttavia indubbio che il legislatore del 1953 si volesse premunire nei confronti di un organo di cui non era ancora tutto sommato ben chiara l’esatta fisionomia, escludendo ogni sua possibile intromissione sia nel merito della legge, sia sulle sue finalità e le relative scelte strumentali.

Non sarei invece così sicuro che con il termine “discrezionale”, volesse prendere posizione sulla “qualità” del suo potere legislativo  (nell’ambito della nota distinzione tra potere completamente libero e potere vincolato nei soli fini). E’ probabilmente più esatto pensare che tale termine alludesse tour court ad un potere assolutamente libero in relazione alla sua natura politica o al massimo, come si legge nei lavori preparatori, ad un potere da esercitarsi non in maniera arbitraria e insensata ma con la coscienza più etica che giuridica di esercitare una funzione orientata dai principi fondamentali del sistema.

Si deve piuttosto alla dottrina (esemplarmente Alessandro Pizzorusso) l’aver in seguito approfondito la nozione, sia mostrandone le ambivalenze, sia sottolineando la sua non perfetta coincidenza con la “tradizionale” discrezionalità amministrativa. Sotto il primo aspetto, infatti, al di là delle posizioni che hanno configurato l’attività legislativa essenzialmente come un’attività di continua implementazione della Costituzione, anche chi stima che non tutto il futuro dell’ordinamento sia in essa scolpito, solitamente non ha difficoltà ad ammettere che vi siano ipotesi in cui la legge è vincolata al raggiungimento di taluni fini. Sotto il secondo aspetto, il richiamo alla discrezionalità amministrativa ha avuto spesso più un significato suggestivo che reale, non foss’altro per le difficoltà di identificare una nozione condivisa di interesse generale di livello costituzionale a cui funzionalizzare l’attività legislativa.

Può essere d’altro canto interessante rilevare come i riferimenti espliciti che la Corte ha operato in questi cinquant’anni di giurisprudenza all’art. 28 della l. n. 87 del 1953 sono tutto sommato pochi. La circostanza potrebbe essere interpretata pensando ad un atteggiamento svalutativo anche da parte della Corte, sul presupposto forse del valore semplicemente ricognitivo della disposizione e considerandosi come immanenti i limiti alla potestà di controllo della Corte sull’operato del legislatore. Un’immanenza che potrebbe essere avvalorata anche dal fatto che nessuno dubita che la Corte debba astenersi da valutazioni politiche anche nell’esercizio di attribuzioni diverse da quelle del sindacato di costituzionalità, mentre l’art. 28 della legge n. 87 del 1953 sembra riferirsi solo a quest’ultimo.

Ma anche questo problema non è di facile definizione e purtroppo esso evoca questioni di assai più grande respiro che qui possono essere semplicemente sfiorate.

Basti comunque pensare che, sul punto, per quanto riguarda l’ordinamento italiano, le suggestioni provenienti dall’esperienza della Corte suprema americana sono sempre state molto forti.

In tale esperienza troviamo espresso nella maniera più chiara il collegamento tra il principio di separazione dei poteri e l’incompetenza della stessa Corte a risolvere nella sede giudiziaria le cd. political questions. Particolarmente nel leading case Baker v. Carr del 1962, il giudice William J. Brennan afferma chiaramente come la “non giustiziabilità” di una certa controversia derivi innanzi tutto dal principio della separazione dei poteri, anche se non si nasconde che decidere se una certa materia sia attribuita dalla Costituzione ad un altro potere o ne ecceda le competenze è un esercizio delicato di interpretazione costituzionale, su cui è impegnata la responsabilità della stessa Corte suprema. Laddove la stessa elencazione di figure sintomatiche desunte da precedenti al fine di supportare l’interpretazione della Corte sembra, da un lato, confermare come l’indagine non sia affatto semplice e immediata, e, dall’altro, che la Corte, aldilà delle proclamazioni di principio, non sia affatto disposta (e non ritenga di doverlo essere) a farsi subito da parte alla prima avvisaglia di political question.

Ma questi concetti sono meccanicamente trasponibili nell’esperienza di giustizia costituzionale europea e in quella italiana in particolare?

Si rifletta innanzi tutto sul fatto che l’argomento della divisione di poteri non sembra utilizzabile con la stessa forza persuasiva che sul suolo americano, dove il controllo di costituzionalità è una creazione giudiziaria e dove il sistema costituzionale è costruito ab origine sulla distinzione abbastanza netta dei poteri. Nei sistemi in cui il controllo di costituzionalità non è affidato al potere giudiziario, bensì a corti costituzionali specializzate, si rivela infatti meno intuitivo presentare l’interessamento di queste corti a questioni che involgano profili politici come un’ingerenza del potere giudiziario. Sembrerebbe pertanto preferibile affrontare il problema alla stregua sia del particolare disegno costituzionale di un dato Paese, sia sulla base della specifica configurazione del controllo di costituzionalità.

Se prendiamo dunque un sistema come quello italiano, sappiamo come il classico principio di separazione lungi da essere chiaramente espresso è anche a più riprese contraddetto sia a vantaggio del principio collaborativo, sia per la non perfetta corrispondenza tra poteri e funzioni. Ciò non significa, sia chiaro, che la disarticolazione del potere (orizzontale e verticale) con tutti i benefici che ne derivano non costituisca un principio di struttura dell’ordinamento costituzionale italiano, ma che in fondo non esistono funzioni ontologicamente proprie dei vari poteri ed organi, che finiscono per trovare tutti nella Costituzione rigida il titolo delle loro attribuzioni.

Più banalmente, se si vuole, alla stregua del puro principio di separazione (e lo sanno bene i francesi), lo stesso sindacato di costituzionalità delle leggi potrebbe rappresentare un vulnus gravissimo per le prerogative del legislatore. Ecco perché la determinazione dei limiti e la pregnanza del controllo della Corte non è astrattamente derivabile dal principio di separazione, ma è compito ancora della Costituzione o di altre fonti legittimate.

Non è forse un caso che il testo previgente dell’art. 127 della Costituzione italiana provvedesse esplicitamente a sottrarre i conflitti legislativi di merito tra Stato e Regioni alla Corte costituzionale per attribuirli alle Camere, non esitando al contrario ad emarginare il principio di separazione attribuendo alla stessa Corte la decisione sull’eventuale contrastata configurazione dei conflitti stessi.

Se si condivide questa ricostruzione, lo stesso art. 28 della l. 87 del 1953, come si diceva, assai spesso sottovalutato, può ritrovare una sua ragion d’essere come disposizione immediatamente integrativa della fonte costituzionale nel momento in cui occorreva porre mano alla fisionomia definitiva di un organo capace d’interferire con il potere politico da differenti prospettive e per due terzi creatura di questo stesso potere.

 

4. Il “punto di vista” della Corte costituzionale: dall’infondatezza all’inammissibilità. - Comunque sia, non c’è dubbio che gran parte del percorso argomentavo del giudice Brennan sia stato in tutti questi anni condiviso dalla Corte costituzionale.

Esso può in buona sostanza riassumersi nell’interrogativo: esiste e come si riconosce il potere discrezionale del Parlamento?

E in secondo luogo: in che senso e in che misura tale riconoscimento può davvero comportare che la Corte declini le proprie competenze?

Quanto al primo interrogativo, invertendo i termini di una considerazione già fatta, anche la dottrina che cerca di valorizzare gli indirizzi di politica costituzionale rintracciabili nella Carta fondamentale (il riferimento è chiaramente a Franco Modugno) non esita a riconoscere in varia misura al Parlamento ampi spazi autonomi di manovra. Del resto, il contrario significherebbe lasciare su ogni argomento l’ultima parola alla Corte costituzionale o ingaggiare una perpetua rincorsa tra essa e il legislatore di revisione, ma anche qui con il rischio sia pur remoto che la Corte possa giocare la carta della sovracostituzionalità, con le rischiose ricadute che si possono intuire (pericolo che, ad esempio, i francesi si sono ben guardati dal correre).

Comunque si ponga il problema sul piano speculativo, ciò che conta ai nostri più limitati fini è che la Corte stessa ha mostrato sistematicamente ed inequivocamente di riconoscere il potere discrezionale del Parlamento o come talvolta viene definito: la discrezionalità del legislatore o la discrezionalità politica.

Quest’ultima espressione è anzi forse la più adatta a cogliere l’essenza del fenomeno, mettendo in campo una sfera di azione ritenuta per sua natura e per antica tradizione anche negli ordinamenti liberaldemocratici esente da giurisdizione o non giustiziabile.

L’opinione della Corte al proposito in questi cinquant’anni non pare aver subito vistose oscillazioni. Se si prende una delle sue prime decisioni (la sent. n. 28 del 1957) si apprende innanzi tutto che la Corte consente sulla sostanziale coincidenza tra esercizio di un potere discrezionale e attività politica, mentre le scelte del legislatore sarebbero discrezionali allorchè operino in un campo rispetto al quale la Corte stessa ritiene che le regole costituzionali non orientino verso alcuna soluzione. Quindi sarebbe l’indifferenza della Costituzione a qualificare le norme impugnate come espressione di discrezionalità legislativa.

Più dubbia sembra invece la tesi per cui sarebbe l’assenza assoluta di un parametro costituzionale a configurare l’esercizio del potere come discrezionale.

Non solo per quanto da tempo evidenziato e cioè che la proposizione di una questione di legittimità costituzionale è formalmente corretta solo se vi viene individuato un parametro, quanto perché l’esistenza stessa del controllo di costituzionalità postula, in difetto di esplicite eccezioni, la sottoponibilità della legge (di tutta la legge) al controllo già solo in ragione del suo regime formale, dovendosi dunque a questa stregua valutare i casi di discrezionalità legislativa come inoffensivi per qualunque parametro. In altri termini, non dovrebbero esistere in linea di principio questioni inammissibili motivate dall’incompetenza della Corte a conoscere per qualche motivo la legge.

D’altro canto, una distinzione piuttosto sottile sembra poi quella di chi, pur ritenendo che vi sia qui “carenza di potere” da parte della Corte, riconosce ad essa una capacità di controllo meramente logico.

Comunque sia, la Corte italiana, come subito vedremo, non sembra essere andata nella direzione appena indicata.

In effetti è solo nei primi tempi di attività della Corte che l’accertamento della discrezionalità del legislatore conduce direttamente a decisioni di infondatezza. Ancora nella sent. n. 175 del 1971, in tema di concessione dell’amnistia, pur constatando che, “i nobili propositi del costituente non hanno trovato attuazione, sicché i provvedimenti di clemenza dopo il 1946 si sono moltiplicati con un ritmo assai superiore a quello dell'antecedente regime”, la Corte ritiene tuttavia “che una indagine volta a sindacare l'ampiezza dell'uso fatto dal Parlamento della sua discrezionalità in materia eccederebbe i limiti entro cui deve rimanere racchiuso il sindacato della mera legittimità della legge ad essa assegnato”, concludendo, per la non fondatezza delle questioni.

Che non di “mancanza di parametro” infatti si tratti, è chiarito dal fatto che esso è pressoché costantemente individuato soprattutto nell’art. 3 della Costituzione, la cui osservanza è fatta valere dalla Corte, avvertendosi, ad esempio, che fino a quando i relativi “limiti siano osservati e le norme siano dettate per categorie di destinatari e non ad personam, ogni indagine sulla corrispondenza della diversità di regolamento alla diversità delle situazioni regolate implicherebbe valutazioni di natura politica, o quanto meno un sindacato sull'uso del potere discrezionale del Parlamento, che alla Corte costituzionale non spetta esercitare”.

Ma non v’è chi non veda come per questa via un controllo sull’uso del potere discrezionale è già bello che avvenuto!

Analogamente nella sent. n. 172 del 1972, “La Corte ritiene che la questione non sia fondata. Vero é, infatti, che anche in materia processuale, nel prevedere procedure differenziate da quelle ordinarie (ci si riferisce al rito direttissimo per i reati di stampa) e nel determinare i casi di applicazione delle prime, il legislatore - oltre che garantire comunque l'osservanza dei principi costituzionali che presiedono alla giurisdizione ed al processo - deve ispirarsi al canone della ragionevolezza: ma non può dirsi che nella legge in esame siano stati travalicati i limiti entro i quali può spaziare la sua discrezionalità politica”

L’abbandono di questo paradigma sembra datare alla seconda metà degli anni ’70 dapprima con qualche oscillazione. Particolarmente interessante sotto il profilo processuale è ancora la sent. n 211 del 1976 dove si fa uso dell’inammissibilità per sanzionare la carente legittimazione del giudice (dell’esecuzione), mentre è ancora la non fondatezza a riflettere la discrezionalità legislativa.

Sempre in questo torno di tempo troviamo in una famosa sentenza, la n. 16 del 1978, dedicata ai problemi dell’ammissibilità del referendum abrogativo, l’obiter dictum per cui “la cosiddetta (si noti l’aggettivo) discrezionalità legislativa non esclude il sindacato degli arbitri del legislatore, operabile da questa Corte in rapporto ai più vari parametri”.

Si può forse dire che il più decisivo cambio di rotta avvenga con la presidenza di Leopoldo Elia a partire dalla quale i dispositivi d’inammissibilità diventano più visibili e tendono a chiudere le questioni dalle quali la Corte crede di doversi ritrarre a motivo della discrezionalità del legislatore. Da questo punto di vista può non essere rilevante ricorrere ad un criterio statistico per accertare la grandezza del fenomeno rispetto al perdurare di decisioni d’infondatezza: più interessante è che tali dispositivi prendano piede, lasciando intravedere una correzione di prospettiva da parte della Corte nei confronti dei suoi rapporti con il legislatore, che potrebbe configurarsi almeno sul piano teorico come un arretramento della linea del sindacato di costituzionalità.

 

5. Segue: il controllo sulla discrezionalità del legislatore e il rimedio delle sentenze additive. - Comunque sia, con riferimento a questa prima fase, può ancora insistersi sul fatto che la nozione di discrezionalità legislativa appare strettamente collegata al principio di eguaglianza, di cui la Corte mostra di ritenere legittima un’attuazione modulabile, tanto che “La valutazione della rilevanza delle diversità di situazioni in cui si trovano i soggetti dei rapporti da disciplinare non può non essere riservata al potere discrezionale del legislatore, salva l'osservanza dei limiti stabiliti nel primo comma dell'art. 3 della Costituzione, ai sensi del quale le distinzioni di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche e di condizioni personali e sociali non possono essere assunte quali criteri validi per la adozione di una disciplina diversa” (ancora la sent. n. 28 del 1957). E’ perciò interessante ricordare che, proprio partendo da una non dissimile prospettiva, nella sent. n. 9 del 1964, si erano già realizzate le condizioni per una delle primissime sentenze additive della Corte, allorché, ragionando del diritto di querela esercitato nell’interesse del figlio minore, si afferma esser venuto meno “il particolare fondamento della disposizione che limita il diritto di querela al genitore esercente la patria potestà, con la conseguenza che la limitazione stessa si manifesta lesiva del principio di eguaglianza fra i coniugi, al quale nel caso presente non é concesso fare eccezione”.

Questa tendenza sarà, com’è noto, destinata a concretarsi in un corposo filone nella giurisprudenza successiva. La popolarità di tale tipo di sentenza presso i giudici i merito (nonostante talune resistenze della Corte di cassazione) e all’opposto talune reazioni contrariate del legislatore sono fattori entrambi all’origine degli standard di giudizio elaborati dalla Corte per razionalizzare il suo operato. Tal che, come esemplarmente affermato nella sentenza n. 215 del 1986, “la natura derogatoria di una norma non impedisce alla Corte di emettere una pronuncia che ne comporti l'estensione, quando ciò serva a ristabilire il principio d'eguaglianza, ossia a rispettare una regola fondamentale del nostro sistema costituzionale: sempreché, beninteso, l'estensione sia il risultato di un procedimento logico necessitato e riferibile al contesto normativo in cui é inserita la norma impugnata, senza alcuna invasione della sfera di discrezionalità riservata al legislatore”. E analogamente nella di poco precedente sentenza n. 106 del 1986, la Corte informa che “una decisione additiva é consentita, com’é ius receptum (sic!), soltanto quando la soluzione adeguatrice non debba essere frutto di una valutazione discrezionale ma consegua necessariamente al giudizio di legittimità, sì che la Corte in realtà proceda ad un'estensione logicamente necessitata e spesso implicita nella potenzialità interpretativa del contesto normativo in cui é inserita la disposizione impugnata. Quando invece si profili una pluralità di soluzioni, derivanti da varie possibili valutazioni, l'intervento della Corte non é ammissibile, spettando la relativa scelta unicamente al legislatore”.

D’altra parte, in nessun altro settore come in questo, la Corte è stata costretta a riflettere su se stessa, sulla latitudine dei suoi poteri, sulla sua collocazione istituzionale e, per quanto qui ci riguarda, sul suo rapporto con il parlamento legislatore.

Ma in quelle apparentemente lineari affermazioni della Corte, di cui a nessuno sfugge il riecheggiamento di una ormai celebre dottrina (Vezio Crisafulli), è contenuto però il germe di una serie complicata di questioni che la giurisprudenza costituzionale si è trovata nel tempo ad affrontare con soluzioni non sempre persuasive e recensite talvolta con severità dalla dottrina, alla quale si devono anche analisi approfondite della giurisprudenza di settore e rilevazioni di costanti e di eccezioni nel tentativo di ricostruire le logiche dei comportamenti della Corte dinnanzi alla discrezionalità del legislatore.

 

6. Segue: la discrezionalità del legislatore “oggetto” o “criterio orientatore” del controllo della Corte? – Così, con una sintesi che farà allibire quanti hanno dedicato, anche fra i presenti, intelletto e tempo a questo tema, può osservarsi che alla base stanno i casi in cui la Corte ritiene la norma censurata non irrazionale o assolutamente arbitraria, in base ad un apprezzamento sostenuto di volta in volta dall’accertamento dell’adeguatezza o della proporzionalità della disciplina in questione e da una valutazione più o meno stringente a seconda del campo materiale (ad esempio, è ricorrente l’affermazione per cui la materia penale è oggetto di ampia discrezionalità legislativa: per tale profilo, v. particolarmente Roberto Romboli) o della natura della disciplina (ad esempio, la discrezionalità del legislatore è particolarmente ampia quando trattasi di dettare disposizioni transitorie: da ultimo, sent. 1/2005).

Poi vi è il mare magnum dei casi che hanno creato più problemi. Sono quelli in cui la Corte, pur mostrando di non condividere o di non condividere appieno la linea fissata dal legislatore, afferma di non avere la possibilità di rimediarvi a causa:

- o della pluralità di soluzioni adottabili:

- o della necessità che la soluzione non sia tranchante, ma ancorata a sua volta ad un quadro di riferimento più ampio;

- o ancora del pericolo che un vuoto legislativo produca nell’ordinamento una nuova incostituzionalità;

- o persino della miscela di tutti questi elementi.

Di quest’ultima situazione è assolutamente esemplare la sent. n. 442 del 1994, frutto di un serrato dialogo tra Corte e giudice remittente in materia di necessità del consenso del pubblico ministero all’esperibilità del giudizio abbreviato. Il giudice a quo infatti, dopo essersi visto già opporre una prima pronuncia d’inammissibilità della questione, riconosciuta - si badi - in certa misura fondata dalla Corte (sent. n. 187 del 1992 e anche più ampiamente nella sent. n. 92 dello stesso anno), a causa dell’esistenza “di ben quattro soluzioni tra loro alternative, alle quali (…) non era da escludere potessero essere aggiunte altre ancora, nessuna delle quali costituzionalmente obbligata”, si vede nuovamente addurre l’inammissibilità non solo perché anche la soluzione additata come la più corretta presenta, a sua volta, ulteriori variabili, ma anche perché “L'eliminazione del consenso del pubblico ministero quale presupposto del rito in esame potrebbe considerarsi senza dubbio un'opzione idonea a risolvere i rilevanti sospetti di incostituzionalità prospettati con riferimento alla normativa impugnata, ma la divaricazione che essa determinerebbe rispetto alla disciplina degli altri tipi di giudizio abbreviato previsti dal codice potrebbe aprire la via a ulteriori censure di incostituzionalità, superabili solo attraverso un generale riassetto del procedimento speciale di cui si discute”.

Peraltro lo stesso caso è interessante perché vi si intravede anche un’altra delle cause talvolta allegate dalla Corte per motivare l’inammissibilità della questione ovverosia l’insufficienza delle prospettazioni del giudice a quo, al quale si addebita di non avere chiaramente indicato alla Corte il “verso” dell’eventuale pronuncia additiva richiesta.

In questo quadro, una soluzione di compromesso, per così dire, è rappresentata dalla cd. additive a dispositivo generico, con le quali infatti si evita di entrare nella sfera ritenuta di pertinenza del legislatore (sul punto, tra gli altri, particolarmente Gustavo Zagrebelsky, Sandro Staiano e Carmela Salazar), ma non si rinuncia, come la stessa Corte afferma, a “somministrare” un principio (sent. n. 205 del 1991) destinato da orientare il legislatore e ad offrire intanto un supporto al giudice per la risoluzione del caso concreto (il richiamo all’analoga esperienza tedesca delle pronunce di Unvereinbarkeit è ricorrente in dottrina, anche se gli accostamenti sono rischiosi e non sempre condivisi).

Comunque sia, simili frangenti in cui la Corte ammette di trovarsi di fronte a previsioni invalide ma individua per vari motivi nel legislatore l’unico soggetto in grado di farvi (scusate il bisticcio di parole) “validamente” fronte, hanno sempre suscitato un qualche sconcerto (così Paolo Falzea), configurando una sorta di “non liquet” a livello della giurisdizione costituzionale, in cui la discrezionalità del legislatore finisce per trasformarsi da oggetto a criterio orientatore (si starebbe per dire: parametro) del giudizio.

Rispetto a tale situazione i moniti talvolta espressi dalla Corte per cui, perdurando lo stato d’inerzia del legislatore, ove investita di ulteriori questioni di costituzionalità riguardanti il medesimo specifico tema, essa non potrebbe “esimersi dall'adottare le decisioni più appropriate ad evitare che permanga la più volte constatata distonia dell'istituto con i princìpi costituzionali”, lungi dal rassicurare non fanno che accentuare lo stato di sconcerto.

 

7. Conclusioni. – Se guardiamo peraltro alla giurisprudenza costituzionale nel suo complesso: dal riconoscimento alle Camere di “una indipendenza guarentigiata nei confronti di qualsiasi altro potere” (sent. 154 del 1985) quando si è trattato di controllare i regolamenti parlamentari, alla riconosciuta esenzione dal controllo della Corte dei conti dei bilanci interni delle Camere (sent. n. 129 del 1981, alla legittimazione dell’autodichia (sent. n. 154 del 1985), a quella sorta di rivitalizzazione degli “interna corporis” effettuata nella vicenda dei parlamentari pianisti (sent. n. 379 del 1996), la sensazione è appunto che una certa “ragion di Corte” abbia per solito sconsigliato di “strafare” quando c’era di messo il legislatore.

Se siamo infatti persuasi che sia spesso sottile quella “frontera entre el Derecho y la politica” , cui fa riferimento anche Manuel Aragòn Reyes nei suoi “25 años de justicia constitucional en España”, non ci sembra men vero che il più sicuro lasciapassare debba consistere nella possibilità di “argumentar jurìdicamente sus decisiones” e che, quando a tale possibilità rinunzi troppo presto o troppo facilmente, sia la Corte a fare della “realpolitik” non consona al suo ruolo (e se è davvero questo lo scotto da pagare, molto meglio allora il sistema preventivo alla francese, invidiabilissimo da questo punto di vista).

Occorre peraltro rilevare che, solo più di recente, a questa linea di condotta della Corte, sembra aver fatto riscontro qualche più accentuata severità di giudizio tra i commentatori, alla maggior parte dei quali l’atteggiamento cauto e rinunciatario della Corte nei confronti del potere legislativo è parso in passato quasi un corollario della sua posizione istituzionale, talvolta idoneo a legittimare il sacrificio della giustizia nel caso concreto (ancora di recente qualcuno vi ha individuato addirittura la “garanzia di tenuta di determinati equilibri tra organi costituzionali”). Magari preferendo puntare sul cd. seguito legislativo, ossia sul fatto che il legislatore registrerà puntualmente sia la situazione di anomalia nel sistema segnalata dalla Corte, sia il disagio degli operatori tra cui in primo luogo i giudici, ripianando la lacuna o correggendo le rotte della legislazione vigente. Purtroppo non è frequente che ciò accada ed è anzi capitato che la reazione fosse di segno opposto: effettuata cioè per neutralizzare qualche raro intervento sgradito della Corte.

Ma non sarà che anche questo imperterrito scommettere della Corte sul seguito legislativo rifletta poco coerentemente la relativa disciplina costituzionale? Se si concepisse infatti il “seguito legislativo” non come un’eventualità remota nell’agenda del legislatore, ma come un appello imperioso alla responsabilità di costui, la stessa posizione della Corte non potrebbe che riuscirne alleggerita e maggiormente legittimata ad esercitare a tutto tondo il suo mandato, sia che la molteplicità delle soluzioni apprestabili la imbarazzino sul da farsi, sia che il rimedio possa sembrarle peggiore del male.

Certo non ci nascondiamo (ed è stato opportunamente rilevato in più sedi) che con un tal sistema si sposerebbe opportunamente se non di necessità il potere della Corte di dilazionare nel tempo gli effetti delle proprie sentenze di accoglimento. Ma non potrebbero essere allora proprio le implicazioni sistematiche del “seguito” a fondare un siffatto potere della Corte?

Anche perché in proposito, dalla revisione costituzionale in corso, pare che non ci sia nulla da attendersi o piuttosto che, a causa del rimescolamento nel modo di reclutamento dei giudici costituzionali, possa diventare ancor più plateale quanto di recente rilevato (da Antonio Ruggeri) e cioè che, nel nostro Paese, la Corte si farebbe “impressionare” dalla produzione legislativa più di quanto il Parlamento si faccia “impressionare” dalla giustizia costituzionale.

 



* Relazione tenuta nell’ambito delle “IV Jornadas ítalo-españolas de justicia constitucional: 50 aniversario de la Corte constitucional italiana, 25 aniversario del Tribunal constitucional español, 22 y 23 septiembre 2005 – Universidad de Las Palmas de Gran Canaria