PASQUALE COSTANZO
DECOLLA IN FRANCIA LA QUESTIONE
PRIORITARIA DI COSTITUZIONALITÀ: LA CASSAZIONE TENTA DI SPARIGLIARE LE CARTE,
MA IL CONSIGLIO COSTITUZIONALE TIENE LA PARTITA IN MANO
(UNA CRONACA)
1. La giornata di venerdì 28 maggio 2010 ha segnato una nuova tappa di
straordinario rilievo nell’evoluzione della giustizia costituzionale in
Francia. È di tale data, infatti, la pubblicazione della prima decisione resa
dal Consiglio costituzionale a seguito della sollevazione di una questione di
costituzionalità dalla via, che con il linguaggio di casa nostra, chiameremmo
“incidentale”.
Com’è, del resto, noto, si è stabilito oltralpe di
denominare tale via con la formula un po’ barocca di “questione prioritaria di
costituzionalità”, intendendosi, con ciò, alludere al fatto che il giudice,
davanti al quale sia proposta l’eccezione d’incostituzionalità ,è obbligato ad
esaminarla prima di ogni altra diversa eccezione, e, segnatamente, di eventuali
concorrenti questioni di pregiudizialità comunitaria (ex art. 274 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea) o
di conformità ad impegni di carattere internazionale (ex art. 55 della Costituzione francese).
Proprio siffatta priorità è stata, tuttavia, fatta oggetto
di contestazione, nella prima circostanza utile, da parte della Corte di
cassazione francese, non senza suscitare tuttavia la pronta indiretta reazione
del Consiglio costituzionale. Rinviando, però, al prosieguo qualche commento su
tale vicenda, sembra preliminarmente opportuno ricordare come la denominazione
“question prioritarie” abbia per così dire, soppiantato l’altra che descriveva la sollevazione
della questione come effettuata a
posteriori, la quale aveva e conserva il merito di rimarcare la più
profonda novità dell’istituto, ossia l’introduzione, nel sistema costituzionale
francese, di un siffatto controllo di costituzionalità accanto a quello già
previsto nel testo fondativo della Quinta Repubblica, ma di carattere preventivo.
L’occasione offerta dalla decisione n. 2010-1 QPC del 28 maggio 2010,
con cui, peraltro, si è inaugurata anche la nuova sigla destinata a
contrassegnare la serie delle decisioni rese dalla via incidentale, può essere,
dunque, colta per richiamare le principali movenze della nuova via di accesso
alla giurisdizione costituzionale in Francia, che, indubbiamente, costituisce
l’esito di un percorso destinato ad inserire a pieno titolo il Consiglio
costituzionale nel novero delle giurisdizioni costituzionali di stampo
continentale e nella relativa tradizione giuridico-culturale.
Si rammenti come, a tale approdo, il collegio di rue
Montpensier non sia pervenuto dans
l’espace d’un matin, ma attraverso alcune fondamentali tappe, tra cui, in
primo luogo, quella contrassegnata dalla decisione n.
71-44 DC, grazie a cui il parametro di costituzionalità fu esteso alle
“Carte dei diritti”, alle quali il Preambolo della Costituzione della Quinta
faceva espresso, ma evidentemente non troppo perspicuo rinvio, se, proprio in
quell’occasione, la decisione del Consiglio fu tranchante nell’attribuire sia alla Dichiarazione dei diritti
dell’uomo e del cittadino del 1789, sia al Preambolo della Costituzione della
Quarta Repubblica un’incondizionata efficacia anche come limite alla
discrezionalità del legislatore nella regolazione della delicata materia dei
diritti fondamentali.
In quel medesimo frangente, il Consiglio costituzionale,
implicitamente, ma non meno univocamente, si scrollava di dosso quella sorta di
“peccato di origine” derivante ad esso dal disegno gollista, che avrebbe voluto
concepirlo sostanzialmente solo come le
chien de garde de l’exécutif, vale a dire incaricato di controllare che le
leggi non si azzardassero ad invadere il campo delle materie riservate alla
potestà normativa del Governo, e, non certamente di verificare che le stesse
leggi non contraddicessero la disciplina costituzionale di tutela dei diritti e
delle libertà fondamentali.
È stata, poi, l’attribuzione, a seguito della revisione
portata dalla legge costituzionale n. 74-904 del l 29 ottobre 1974, del potere
di ricorso (saisine) anche alle
minoranze parlamentari (precisamente 60 deputati o 60 senatori), oltre che al
Presidente della Repubblica, al Primo Ministro e ai Presidenti dei due rami del
Parlamento, che già lo possedevano, a catapultare il Consiglio nella dialettica
politica, da cui può dirsi che sia riuscito ad emergere con la rinnovata legittimazione
acquisita in ripetute prove di equilibrio e capacità di non coinvolgimento, per
di più contribuendo, con uno straordinario effetto di feed-back, alla legittimazione reciproca delle parti e
all’inserimento dell’alternanza politica nell’ordine “normale” delle cose.
La revisione del 2008 (legge costituzionale n. 2008-724 del
23 luglio 2008), che è all’origine della decisione del 28 maggio 2010, si è
posta, dunque, come si diceva, alla fine di questo cammino, producendo, nel
contempo, la caduta di un secolare tabù, ossia, l’incontestabilità, da parte
dei giudici, della legge, considerata, a partire dal 1789, come l’“expression de la volonté générale”.
Anche se occorre ricordare come un tale risultato fosse stato propiziato dallo
stesso Consiglio costituzionale, con la ben nota giurisprudenza per cui la
legge “n’exprime la
volonté générale que dans le respect de la Constitution” (per tutte,
la dec. 85-197 DC): dettaglio, questo, che
sembra talora stranamente sfuggire ai “maggioritaristi” di casa nostra.
Non può, peraltro, sottacersi come restino altri traguardi
da superare, che non sono, però, nella disponibilità del Consiglio, soprattutto
in ordine al modo di reclutamento dei suoi componenti, rimesso attualmente in toto ad autorità politiche: ciò che
appanna notevolmente sul piano formale quel sostrato materiale d’indipendenza,
che l’organo ha lentamente, ma persuasivamente, conquistato.
Quanto, invece, era nella piena competenza del giudice
costituzionale francese, è stato – ci pare – già abbastanza adeguatamente messo
in campo, come, tra poco, rapidamente vedremo con riferimento alla disciplina
del processo costituzionale.
2. Venendo, dunque, a mettere a fuoco le coordinate essenziali della nostra prima storica decisione, va subito notato come essa non sia precisamente sorta per iniziativa di un giudice periferico, ma del Consiglio di Stato nel corso di un giudizio di appello avverso una decisione di un Tribunale amministrativo. Si è, in altri termini, verificata una chiamata in causa del giudice costituzionale direttamente da parte dell’organo supremo della giurisdizione amministrativa (tra l’altro, in accoglimento solo parziale delle eccezioni d’incostituzionalità formulate dal ricorrente), e non, come previsto dalla stessa Costituzione, in sede, per così dire, di “filtraggio” di una questione sollevata da un organo della giurisdizione amministrativa di primo grado.
L’attribuzione ai giudizi francesi del potere di sollevare
questioni di carattere incidentale è stato, infatti, circondato da notevoli
cautele, tra, cui, appunto, la necessità che tali questioni transitino
preventivamente dalle giurisdizioni supreme di riferimento (quindi, oltre il
Consiglio di Stato, anche la Corte di cassazione), alle quali, spetta, come è
stato precisato dalla legge organica di attuazione dell’art. 61-1 della
Costituzione francese, di verificare che sussistano le condizioni per una
valida sollevazione (art. 1, l. org. n. 2009-1523 del 10 dicembre 2009, come
trasfusa nell’art. 23-2 dell’ord. org. n. 58-1067 del 7 novembre 1958).
Tali condizioni possono riassumersi:
- nella “rilevanza”
della questione, nel senso che davvero la norma sospettata d’incostituzionalità
sia applicabile nel processo a quo
(quindi, indipendentemente, da quanto già motivato dal primo giudice);
- nella sua serietà
o ragionevole probabilità di fondatezza (o, vista “in negativo”, che la
questione non sia stravagante o proposta solo a scopo defatigatorio);
- nella sua ammissibilità
(da escludersi, infatti, allorché la norma censurata dal giudice abbia, invece,
già ricevuto una patente di costituzionalità dallo stesso Consiglio in sede di
controllo a priori).
Si tratta,
all’evidenza, di profili qualificanti del nuovo istituto e suscettibili di
approfondita trattazione. Ci esimeremo, dunque, dal farlo in una sede destinata
soltanto a segnalare a livello cronachistico le novità offerte dalla decisione
del Consiglio[1]. In
questo senso, possiamo allora registrare la prima applicazione delle norme
regolamentari, che il medesimo Consiglio s’è dato, sulla base
dell’autorizzazione contenuta nell’art. 4 della predetta legge organica n.
2009-1523, e contenute nel Regolamento di
procedura del 4 febbraio 2010, che, tra l’altro, costituisce un’assoluta
novità nel panorama delle fonti che disciplinano l’esercizio delle attribuzioni
del Consiglio costituzionale, irreggimentate, per l’innanzi, solo per quanto
concerne il contenzioso elettorale, ma non quello costituzionale originatosi
dalla via a priori, che, peraltro,
sembra rimanere ancor più irrazionalmente di prima, governata solo da una
prassi non sempre agevole da codificare.
3. Nella decisione
del 28 maggio 2010, notiamo, dunque, come sia dato atto:
- indirettamente dell’avvenuta comunicazione, da parte
dello stesso Consiglio costituzionale, della decisione del giudice remittente
al Primo Ministro e al Presidente dell’Assemblea Nazionale ex art. 23-8 dell’ord. org. n. 58-1067 (che, per vero, individua
tra i destinatari anche il Presidente del Senato e il Presidente della
Repubblica), dato che vi ragiona della produzione, da parte del Presidente
dell’Assemblea di Palazzo Borbone, di una memoria, e della presenza
all’udienza, tramite un suo rappresentante, del Primo Ministro;
- del deposito, ex
art. 1 del Regolamento di procedura, delle
osservazioni delle parti del processo a
quo, a tale incombente autorizzate nella fase istruttoria, anche in
contraddittorio tra loro e, se la causa lo richiede, anche su invito del
giudice istruttore stesso (l’istruttoria decorre dalla comunicazione alle
stesse parti, oltreché ai soggetti istituzionali appena menzionati,
dell’avvenuta registrazione presso il Consiglio della decisione di rimessione);
- della celebrazione dell’udienza con la partecipazione
della difesa delle parti e la relazione, non diversamente dal procedimento a priori, da parte del giudice relatore.
Per completezza e più in generale, può ancora aggiungersi che la procedura è priva di quel carattere di riservatezza che aveva finora contraddistinto il sindacato di costituzionalità, dovendosi, anzi, segnalare, il ricorso (art. 8), salvo le esigenze derivanti dalla protezione dei minori o della riservatezza delle persone, agli strumenti mediatici più aggiornati in vista di assicurare la pubblicità dell’udienza (diretta televisiva a beneficio del pubblico allocato in un apposito locale, e, se del caso, diffusione dei lavori su internet). Entra, poi, nel processo costituzionale anche la possibilità di ricusazione di un componente del collegio (art. 4), anche se si è badato ad escludere dai suoi possibili motivi il fatto che un giudice abbia partecipato in precedenza, evidentemente nella veste di parlamentare, all’elaborazione della legge censurata.
4. Altri profili procedurali di estrema importanza sono ancora rinvenibili
nel corpo della decisione
del 28 maggio 2010.
In primo luogo, il Consiglio risolve, una volta per tutte,
la questione della latitudine del thema
decidendum, circoscrivendolo alle sole norme individuate nella decisione di
rimessione da una delle due supreme Corti, secondo una regola di
“corrispondenza tra chiesto e giudicato” che, com’è noto, non trova
applicazione in sede di controllo a
priori. Una tale attitudine del Consiglio, se, da un lato, non sorprende in
quanto, anche nella nostra giurisprudenza costituzionale, le allegazioni
ulteriori delle parti, eventualmente costituitesi davanti alla Corte, non
avrebbero l’effetto di ampliare il thema;
dall’altro, si discostano da un principio presso di noi consolidato, ossia
la possibilità che la Corte dichiari inammissibile una questione per difetto di
rilevanza: il Consiglio sembra, invece, (almeno per il momento) appagarsi della
richiesta del remittente, rifiutando di (porsi il problema) di espungere una
norma ritenuta, invece, dal rappresentante del Primo Ministro non applicabile
nella fattispecie all’esame del Consiglio di Stato.
Anche il dispositivo d’incostituzionalità della decisione del 28
maggio 2010 presenta un notevole interesse per la sua inedita portata.
Esso si articola
- nella dichiarazione d’incostituzionalità di tutte le
norme denunciate (non conformità totale);
- nella determinazione dell’effetto sul piano temporale di tale dichiarazione; e
- nell’ordine di pubblicazione e notificazione della
decisione così come prescritto dall’art. 23-11 dell’ord. org. n. 58-1067.
L’attenzione è, dunque, attratta soprattutto dal
dispositivo di incostituzionalità
differita, peraltro, previsto nell’art. 62, comma 2, della Costituzione
francese (ciò che accentua la solitudine della nostra Corte costituzionale sul
punto), che rinvia, per quanto riguarda la modulazione in concreto degli
effetti temporali della decisione, all’apposito punto della motivazione, che,
per vero, non appare privo di complessità.
Il Consiglio costituzionale, in effetti, richiamando
esplicitamente la valenza abrogativa
della sua dichiarazione d’incostituzionalità, come determinata dalla
disposizione costituzionale appena menzionata, rileva come la disparità di
trattamento presente nelle norme abrogate dalla sua propria decisione sia
suscettibile di essere aggravata dalla reviviscenza delle norme previgenti in
quanto, per taluni profili, ancor più sofferenti da quell’effetto
discriminatorio non soddisfacentemente rimosso dalle norme dichiarate
incostituzionali.
Di qui la determinazione del rinvio dell’effetto abrogativo
ad una data posteriore, individuata (per “rotondità” della data?) al 1° gennaio
2011 (in sostanza un rinvio di oltre sette mesi), al fine di permettere al
legislatore di intervenire con una disciplina idonea ad ovviare alle
incostituzionalità dichiarate, impedendo, evidentemente, come solo egli può
fare, la reviviscenza automatica delle norme pregresse.
La differenza con la giurisprudenza della Corte
costituzionale italiana nota come additiva di “principi” invece che di “regole”
(per tutte, la dec.
n. 497 del 1988) è bene percepibile: pur nel comune intento di rimettersi
alle soluzione meglio individuabili dal legislatore, la nostra Corte resta
priva della possibilità di stabilire un termine fisso per l’intervento
legislativo, anche se è vero che, dinnanzi alla pervicace inerzia del
legislatore, essa potrebbe ritornare sui suoi passi e rendere più incisiva la
sua decisione attraverso un’addizione di regole cogenti.
Un’altra rimarchevole differenza è data dalla diversa
attitudine dei giudici e del giudice a
quo in particolare, al quale, nel
nostro ordinamento, non è precluso di giovarsi comunque della decisione della
Corte, se a ciò si sente autorizzato dalla possibilità di utilizzare per la
soluzione del caso, in via analogica, altre previsioni ordinamentali (quindi,
indipendentemente da quando e da che cosa sarà statuito dal legislatore). In
Francia – lo apprendiamo dalla decisione del Consiglio costituzionale – ai
giudici può essere, invece, imposto di attendere l’intervento legislativo “afin de préserver l'effet utile de la (…)
décision à la solution des instances actuellement en cours”. Certo
l’imposizione è garbata (ad essi “appartient
(…) de surseoir à statuer jusqu'au 1er janvier 2011 dans les instances dont
l'issue dépend de l'application des dispositions déclarées inconstitutionnelles
”), ma nondimeno risoluta e probabilmente efficace, considerato che, ex art- 62, comma 3, della Costituzione
francese), risulta come che le decisioni del Consiglio siano obbligatorie anche
per tutte le autorità giurisdizionali.
Ma, poiché l’effetto utile su fattispecie pregresse e sui
processi in corso di una nuova disciplina dipende precipuamente dalla portata
retroattiva della nuova disciplina, il cerchio si chiude con l’invito (ingiunzione)
al legislatore (non è anch’esso un pubblico potere? E, in ogni caso, che
servirebbe, altrimenti, l’aver previsto la possibilità di procrastinare
l’effetto abrogativo delle decisioni del Consiglio?) a munire la futura
legislazione di tale portata.
5. Se questa, è, nell’essenza di una sua parte rilevante, la fisionomia del
nuovo meccanismo francese relativo all’incidente di costituzionalità, un
“infortunio” di rilevanti dimensioni sembrerebbe aver colpito, come si è già anticipato,
lo stesso meccanismo della question
prioritaire .
Onde, tuttavia, non incorrere nello stesso errore commesso
da certa pubblicistica d’oltralpe, persuasa di un ideologico intento
ostruzionistico della Corte di cassazione (che non sarebbe stato palesato,
invece, dal più “allineato” Consiglio di Stato), è bene chiarire come, di tutte
le numerose questioni pervenute alla Suprema Corte nei primi tre mesi di
vigenza nei confronti della question
prioritarie, più della metà siano state inoltrate al Consiglio
costituzionale in quanto ritenute provviste delle condizioni più sopra
enumerate.
D’altro canto, occorre riconoscere come proprio la
specifica fisionomia della questione abbia sospinto la Cassazione, con la decisione del 16 aprile 2010, a bussare
alle porte dei giudici di Lussemburgo, denunziando che il divieto (efficace
tanto per il giudice periferico che per la Cassazione stessa) di non utilizzare
la pregiudiziale comunitaria in anticipo rispetto alla proposizione di una
questione di costituzionalità finirebbe per precluderne anche l’impiego
successivo (nel caso in cui fosse il Consiglio stesso a pronunciarsi, appunto
prioritariamente, nel senso della compatibilità di una norma controversa al
diritto comunitario): e ciò in forza del precitato art. 62 della Costituzione
francese, che dichiara le decisioni del Consiglio costituzionale insuscettibili
di qualsiasi gravame.
Nella fattispecie, infatti, il giudice delle libertà e
della detenzione del Tribunale di Grande Istanza di Lille ha opinato per la
probabile invalidità di una norma del codice di procedura penale francese
limitativa della libertà di circolazione garantita dall’art. 67 del Trattato di
Lisbona, laddove – e qui sta la chiave della vicenda – una tale collisione con
il diritto comunitario si prestava ad essere configurata anche come una
questione di costituzionalità, precisamente, per la violazione dell’art. 88-1
della Costituzione francese, che costituisce il titolo della partecipazione
della Francia all’Unione europea, impegnandola, nel contempo, ad assumerne e a
rispettarne tutte le derivanti obbligazioni.
In questi ultimi termini, la questione non poteva che
essere avviata, come prescritto dalla l. org. n. 2009-1523, in prima battuta al
Consiglio costituzionale: ma la Cassazione, tra l’altro, invocando la procedura
d’urgenza in sede comunitaria (vuoi a motivo dei tre mesi ad essa imposti per
esercitare il suo ruolo di filtraggio, vuoi perché la questione concerne una
persona detenuta[2]),
l’ha bloccata, formulando la ridetta questione pregiudiziale alla Corte di
giustizia.
Ora, a parte eventuali problemi rinvenibili proprio nella
costruzione del quesito da parte della Cassazione, che, evidentemente, cerca di
“cavalcare” il c.d. uso alternativo della competenza pregiudiziale (la
Cassazione accortamente evita di censurare direttamente la normativa interna,
che nulla ha a che vedere con l’attuazione nazionale del diritto comunitario
ed, anzi, si presenta col carattere qualificato di una legge di rilievo costituzionale
sui pubblici poteri, ma, formulando quesiti sulla portata di un principio
comunitario tende indirettamente a far evidenziare l’anomalia di certe
disposizioni interne), sembra che il cuore della questione consista
nell’accertamento dell’effettiva idoneità del giudicato costituzionale a
precludere un rinvio pregiudiziale, e, si passi il bisticcio di parole, ancor
più pregiudizialmente, se corrisponda alla realtà giuridica la supposta facoltà
del Consiglio costituzionale di “dire definitivamente il diritto” in ordine
alla compatibilità della normativa nazionale al diritto comunitario.
6. Premesso che il problema sollevato dalla Cassazione francese non potrebbe
dirsi forse risolto, come da qualche parte sostenuto, se il Consiglio
accettasse di farsi promotore esso stesso di questioni pregiudiziali
diversamente da quanto finora avvenuto (ma, si noti, non per una contrarietà di
principio, ma per una più banale difficoltà legata al breve lasso di tempo
concesso per risolvere le questioni di costituzionalità di tipo preventivo: ciò
che potrebbe dirsi soltanto attenuato dal più ampio termine di tre mesi a
disposizione per le questioni di tipo successivo), dal momento che non pare che
il Trattato possa consentire limitazioni o monopoli circa l’uso della questione
pregiudiziale, il punto centrale è che, il Consiglio costituzionale, fino ad
oggi (a parte la peculiare giurisprudenza in tema di controllo della corretta
attuazione delle direttive: Consiglio costituzionale, decc. nn. 2004-496 DC e 2006-540
DC), non sembra aver voluto decampare da una giurisprudenza orientata a non
riconoscere a se stesso la competenza a verificare in via generale la
compatibilità di una norma di legge interna con una convenzione internazionale
(Consiglio costituzionale, dec. n. 75-54 DC), né,
corrispondentemente, allo stesso diritto comunitario.
Ne deriverebbe, dunque, l’improbabilità dell’esito temuto
dalla Cassazione francese, ma, a tutto concedere, varrebbe la risposta che il
Consiglio stesso ha ritenuto di dare (evidentemente alla Corte di giustizia,
prima ancora che alla Cassazione), cogliendo l’occasione offerta dalla
decisione n. 2010-605 DC del 12 maggio 2010 (a
poco meno un mese dalla decisione della Cassazione).
Stimolato, infatti, da una provocatoria saisine complémentaire, formulata con
esplicito riferimento alla decisione della
Cassazione del 16 aprile 2010, il Consiglio ha ribadito, chiarendolo
maggiormente, il suo pensiero intorno al rapporto tra controllo di
costituzionalità, anche come potenziato dall’introduzione della questione
incidentale, e controllo di convenzionalità (riservato in Francia a tutti i
giudici comuni ex art. 55 Cost.).
Secondo il Consiglio, infatti, poiché la questione della compatibilità di una
norma legislativa vuoi con gli impegni internazionali, vuoi con quelli
comunitari, non sarebbe suscettibile d’esser configurata in Francia come una
questione di costituzionalità, la distanza tra i piani dei due controlli
rimarrebbe incommensurabile. Di conseguenza, il giudicato costituzionale non
precluderebbe la possibilità che i giudici comuni attribuiscano prevalente
efficacia ad una norma desumibile da un trattato rispetto ad una norma interna,
la quale, pure, abbia superato indenne il controllo di costituzionalità.
Se, per tale via, il Consiglio ha inteso battere sul tempo
l’argomentazione clou della
Cassazione sulla denunziata preclusione a
posteriori alla proponibilità di questioni pregiudiziali, anche nella
prospettiva a priori, è evidente
l’intento di rassicurare completamente la Corte di giustizia sulla sostanziale
assenza di ostacoli al primato del diritto comunitario.
In quest’ultimo senso, il Consiglio considera, innanzi
tutto, come la risoluzione di una questione di costituzionalità sia connotata
da tempi procedurali rapidi, non impedendo, d’altro canto, che il giudice
proceda ugualmente quando ciò sia imposto da termini legislativi o da ragioni
di urgenza, potendo egli, in ogni caso, al fine di preservare l’efficacia di
sue future decisioni, adottare i provvedimenti conservativi necessari (compresa
la sospensione delle limitazioni legislative dei diritti reputate incompatibili
con il diritto comunitario). Ma, ciò che più rileva, è che, in questa linea di
valorizzazione dei poteri istruttori e cautelari del giudice, il Consiglio
perviene addirittura ad affermare esplicitamente la salvezza della facoltà o
dell’obbligo dei giudizi nazionali, così come previsto dal Trattato, di
proporre una questione pregiudiziale, ancorché abbiano sollevato una questione
di costituzionalità.
Del resto, non senza profitto, potrebbe essere messo sul
tavolo della Corte di giustizia quanto affermato, in un tempo non sospetto,
dallo stesso Consiglio costituzionale (in sede di verifica della
costituzionalità della legge organica n. 2009-1523), per cui questa «en imposant l'examen par priorité des moyens
de constitutionnalité avant les moyens tirés du défaut de conformité d'une
disposition législative aux engagements internationaux de la France, le
législateur organique a entendu garantir le respect de la Constitution et
rappeler sa place au sommet de l'ordre juridique interne ; que cette priorité a
pour seul effet d'imposer, en tout état de cause, l'ordre d'examen des moyens
soulevés devant la juridiction saisie ; qu'elle ne restreint pas la compétence
de cette dernière, après avoir appliqué les dispositions relatives à la
question prioritaire de constitutionnalité, de veiller au respect et à la
supériorité sur les lois des traités ou accords légalement ratifiés ou
approuvés et des normes de l'Union européenne ; qu'ainsi, elle ne méconnaît ni
l'article 55 de la Constitution, ni son article 88-1 aux termes duquel ‘La
République participe à l'Union européenne constituée d'États qui ont choisi
librement d'exercer en commun certaines de leurs compétences en vertu du traité
sur l'Union européenne et du traité sur le fonctionnement de l'Union
européenne, tels qu'ils résultent du traité signé à Lisbonne le 13 décembre
2007’»[3].
Se, dunque, il timore era che un meccanismo, introdotto
dalla revisione costituzionale del 2008 per meglio tutelare i diritti e le
libertà fondamentali costituzionalmente garantiti, potesse paradossalmente
affievolire la tutela offerta dall’Unione europea (specie dopo la messa in
vigore della Carta dei diritti fondamentali), il Consiglio sembra aver
persuasivamente chiarito come siffatto meccanismo non abbia la vocazione ad
attuarsi a scapito della massima espansione della protezione di tali diritti e
libertà fondamentali.
[1] Per più ampie considerazioni, cfr.
P. Costanzo, La “nuova” Costituzione
della Francia, Torino, 2009, 440 ss.
[2] Si noti che l’istanza è stata accolta con ordinanza presidenziale del 12 maggio 2010.