PASQUALE COSTANZO
La dimensione dei diritti della
persona nel diritto dell’Unione europea
Sommario: 1. La dimensione
internazionale dei diritti e l’Europa. – 2. L’affinità assiologica tra Comunità e Stati nei confronti dei diritti
della persona. – 3. La “costituzionalizzazione” della competenza
comunitaria con riguardo alla disciplina dei diritti. – 4. Il
catalogo “virtuale” dei diritti nei Trattati comunitari. – 5. Il
contributo della Carta di Nizza alla dimensione dei diritti della persona nel diritto dell’Unione europea. – 6. Dopo
Lisbona quale ruolo per Strasburgo. – 7. Riferimenti bibliografici essenziali.
1.
La dimensione internazionale dei diritti
e l’Europa. – Nell’affrontare il tema, ossia la “dimensione” dei diritti della persona nel diritto dell’Unione europea, può
notarsi subito come la nozione di “dimensione”, lungi dall’esser limitata qui alla
sua accezione metaforica (allusiva cioè della tipologia e della portata dei
diritti il cui riconoscimento e tutela possono dirsi eventualmente operanti a
beneficio di coloro che a vario titolo si trovino ad essere incisi dalle norme
dell’ordinamento comunitario), vale anche nel suo significato immediato e “topologico”,
poiché è proprio l’individuazione delle coordinate giuridico-formali
della disciplina di riconoscimento e di tutela a presentarsi come pregiudiziale
per l’indagine successiva.
In tal senso, prendendo
le mosse già dal Trattato CECA, è con stazione comune che, se nel 1951 si
decise di stabilire basi comuni di sviluppo economico in settori storicamente
conflittuali, lo scopo di fondo fosse però chiaramente individuato nella
conservazione della pace [P. Costanzo, L.
Mezzetti, A. Ruggeri, 35 s.]. Ora, un simile
obiettivo coincideva pienamente con quello proclamato nella, di
poco precedente, Carta dei diritti dell’ONU, dove più precisamente veniva messo
in relazione, insieme alla libertà e alla giustizia, col riconoscimento della
dignità inerente a tutti i membri della famiglia umana e dei loro diritti,
uguali e inalienabili; con la differenza tuttavia che nel Trattato esso
appariva dotato di quella forza giuridica che, alla Dichiarazione ONU, ancor
oggi si contesta a motivo del suo carattere non convenzionale [B. Nascimbene,
385] Ancora più esplicito sarà il Preambolo del Trattato di Roma nel precisare
come gli Stati contraenti fossero “risoluti, a rafforzare, mediante la
costituzione di questo complesso di risorse, le difese della pace e della
libertà”.
Non occorrono, dunque,
elaborate indagini per intendere come la dimensione giuridica di riferimento di
tali generali formule non fosse fornita da qualche specifico ordinamento, ma da
quel comune orizzonte costituito dalle dichiarazioni internazionali dei diritti
che andava allora affermandosi.
In base a questa
premessa, non dovrebbe allora esserci difficoltà a ricondurre anche il fenomeno
comunitario ad un contesto, che chiamerei di “costituzionalismo transnazionale”.
Vale a dire, un contesto in cui i diritti non hanno mai nemmeno dovuto
affrontare quella “traversata del deserto”, rappresentata dall’esser stati considerati
semplicemente il riflesso dell’autolimitazione di qualche entità sovrana.
Certo, si tratta, nella
scala della storia, di una fase relativamente recente, ma, ci pare, almeno a
livello delle proclamazioni di principio, orientata sempre più a consolidarsi.
Con riguardo, infatti, all’orizzonte temporale che segue la fine della Seconda
Guerra mondiale, la situazione dei diritti della persona non ha fatto che arricchirsi,
a partire dalla latitudine planetaria assunta con la già ricordata Dichiarazione
universale dei diritti dell’uomo dell’ONU del 10 dicembre 1948, di cui si celebra
oggi il sessantesimo anniversario, fino ai successivi e aggiuntivi Patti
internazionali del 16 dicembre 1966, che, a loro volta, hanno integrato una
sorta di “statuto mondiale” della protezione dei diritti umani, supplendo in
qualche modo al valore di mera risoluzione della Carta del
Per altro verso, è risultata
spesso indubbia la funzione trascinante di tali dichiarazioni rispetto ad
iniziative adottate in diverse regioni del mondo nella direzione della
formazione di carte generali dei diritti che tenessero però conto anche dei
caratteri distintivi sotto il profilo geografico-politico
e storico-culturale di dette regioni.
Anche la “regione “
europea ha vissuto da protagonista questa fase ed è anzi giusto ricordare come,
ancor prima, si fosse dovuto ad un grande europeo, René Cassin,
rappresentante della Francia nella Commissione per i diritti umani presieduta
da Eleonora Roosevelt, la redazione della bozza in gran parte trasfusa nella
Dichiarazione universale dei diritto dell’ONU
(riuscendo col sostegno sovietico e contro il parere degli Stati Uniti a far
ammettere che i diritti economici, sociali e culturali dovessero essere
configurati come diritti fondamentali alla stregua dei diritti civili e
politici).
È invece di due anni
dopo, del 4 novembre del 1950, la sottoscrizione a Roma della Convenzione
europea di salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (entrata
in vigore il 3 settembre 1953), che si presentava come un Trattato
multilaterale i cui Stati contraenti erano i medesimi appartenenti
all’organizzazione internazionale del Consiglio d’Europa costituitasi a Londra
il 5 maggio 1949, il cui Statuto già aveva impegnato a riconoscere il principio
in base al quale ogni persona posta sotto la loro giurisdizione deve godere dei
diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali.
Era questa, possiamo dire
con gli occhi dei posteri, una delle prime manifestazioni di un “costituzionalismo
transnazionale”, al quale prestavano ossequio i singoli ordinamenti statali, laddove
ovviamente per “costituzionalismo” si faccia riferimento, sia pure in maniera
ideologica e preorientata, soltanto ad un insieme
organico di principi e di regole, racchiusi per solito in un testo scritto, col
fine precipuo di tutelare i diritti fondamentali. Insieme organico che proprio
in virtù di questa sua funzione diventa esso stesso “costituzione” e non
viceversa.
Un costituzionalismo quindi
che prescinde da una concreta realtà statale, o meglio, la trascende, come con esemplare
nitidezza, fa intendere il Preambolo della Convenzione Americana relativa ai
diritti dell’uomo del 2 novembre 1969, che, non a caso si allinea con gli
stessi principi ispiratori della CEDU, nel dichiarare che “i diritti
fondamentali derivano all’uomo non dalla sua appartenenza ad un dato Stato, ma
si fondano sugli attributi della persona umana”.
Si tratta all’evidenza di
questioni di portata molto più ampia rispetto al tema, ma che pareva necessario
mettere in campo per attenuare in partenza quella sensazione abbastanza diffusa
di una sorta di completa estraneità o impermeabilità genetica delle
organizzazioni comunitarie alla problematica del riconoscimento e della tutela
dei diritti.
2.
L’affinità assiologica
tra Comunità e Stati nei confronti dei diritti della persona. – Come
sappiamo, del resto, se la decisione di non menzionare i diritti nel Trattato
di Roma parve una buona soluzione onde evitare che si potesse andare oltre le
più circoscritte e condivise intenzioni di dar vita in quel momento ad una struttura
di cooperazione economica, essa presentò anche il vantaggio di non potervi
essere giudicata aprioristicamente ostile, considerato anzi che alcuni di essi
ricevevano direttamente o strumentalmente tutela dal nuovo Trattato, sia pure guardandosi
al soggetto comunitario solo come homo oeconomicus. Tanto che, com’è noto, sarà la stessa
Corte costituzionale italiana (sent. n. 183 del
1973) a riconoscerne apertamente il sostanziale valore assiologico,
tale da consentire al nostro ordinamento di conferirvi quote di sovranità.
Crediamo, dunque, che solo emarginando ogni prospettiva manichea
nella ricostruzione della dimensione comunitaria dei diritti (mercato contro
libertà, Corte di giustizia contro Corti costituzionali, Stati stessi contro il
Leviatano comunitario, ecc.), si possa tentare di individuarne
in maniera più equilibrata le coordinate.
In questo senso, sembra
allora di poter spostare la prevalente attenzione sulle dinamiche tutte interne
all’organizzazione comunitaria, individuandone tre principali prospettive
evolutive: la prima poggia sull’idea di un’originaria ed ininterrotta tensione alla
tutela dei diritti fondamentali; la seconda può identificarsi nella prevalente tendenza
in tale quadro a coltivare, da parte della Corte di Giustizia, al di là dei pur
importanti riferimenti esterni all’organizzazione comunitaria, una tutela fondamentalmente
“autogena” dei diritti stessi; la terza mi sembra infine offerta dalla
rilevanza della questione dei diritti fondamentali nella dialettica interna
all’Unione per attenuare (e al limite por fine) o al contrario mantenere (in
forme più o meno dirette) la caratura internazionalista dell’ordinamento
comunitario.
Di queste tre prospettive
occorrerà tuttavia trattare unitariamente, anche col rischio di rievocare linee
di sviluppo ormai tanto note da rischiare di diventare
tralatizie. Può in ogni caso ancora essere utile
rammentarle in un’occasione come la presente, dovendosi però preliminarmente riconoscere
nella giustamente elogiata funzione pretoria della
Corte di Lussemburgo non tanto un’attività creativa a tutto tondo, che – ci
pare – avrebbe spinto le critiche, sia degli Stati membri, sia delle altre
Istituzioni comunitarie, ben oltre quanto di fatto poi
avvenuto, quanto la tipica opera giurisdizionale di bilanciamento tra esigenze
tutte ritenute originariamente compresenti negli stessi Trattati fondativi. Se,
dunque, non si fa fatica ad individuare uno snodo essenziale nella nota
decisione Stauder del 12 novembre 1969 (C-26/29), più
discutibile è che certe precedenti decisioni possano essere sicuramente allegate
a prova dell’insensibilità della Corte di Giustizia al problema dell’integrità
dei diritti. Specie infatti nelle decisioni Stork (C-1/58), Nold (C-36, 37, 38 e 40/59), e Sgarlata (C-40/64),
Una risposta ad un
preciso quesito si ha invece nella decisione Internationale Handelsgesellschaft
del 17 dicembre 1970 (C-11/70), che, se certamente conferma il rifiuto della
Corte di Giustizia di assumere a parametro della validità degli atti comunitari
le Costituzioni nazionali quand’anche se ne assumessero violate le disposizioni
di tutela dei diritti, tuttavia costituisce un importante tassello verso il
riconoscimento dell’autosufficienza dell’ordinamento comunitario al medesimo
scopo. Sottolinea infatti
È, se mai, su un altro
versante che tale atteggiamento della Corte di Giustizia può aver giustificato
dubbi e perplessità, ossia quello della caratterizzazione prettamente economica
dell’ordinamento comunitario, che sembrava mettere in collisione diritti e
mercato, a tutto favore di quest’ultimo. Tuttavia una tale visione, da un lato,
peccava probabilmente di uno schematismo derivante da prevalenti idee circa
l’anima capitalistica della costruzione europea, ma, dall’altro, sarebbe stata comunque
nella sostanza smentita dalla crescente tensione valoriale di tale costruzione
proprio a partire da quegli elementi assiologici
originari di cui s’è fatto cenno.
Del
resto, che l’idea di fondo fosse quella di un sostanziale parallelismo tra la
dimensione dei diritti nell’ordinamento comunitario e negli ordinamenti
nazionali, quindi ben lungi da un atteggiamento d’indifferenza nei confronti
della loro tutela, sembra confermato dalla sentenza Nold del 14 maggio 1974 (C-4/73) [M. Cartabia, 19],
quando, si noti,
Occorre tuttavia
riportare l’attenzione ancora sulla decisione Nold perché essa, insieme alla sentenza Rutili
dell’anno successivo (28 ottobre 1975: C-36/75), testimonia una di quelle
manifestazioni di soft law a cui l’ordinamento comunitario ci abituerà in
seguito, facendone anzi una sorta di terreno di coltura di tale fenomeno
all’interno di un ordinamento sufficientemente compatto. Con
Ma non è solo rispetto a
questo profilo che
Tuttavia, nonostante
l’indubbia mancanza di normatività della stessa Dichiarazione, il suo impatto
immediato sulla Corte di Giustizia è visibile nella già vista decisione Liselotte Hauer del
Anche nella decisione Wachauf del 13 luglio 1989 (C-5/88),
3.
La “costituzionalizzazione” della competenza
comunitaria con riguardo alla disciplina dei diritti. – È questo dunque il
quadro in cui va a collocarsi l’intervento del legislatore comunitario, prima
più sommessamente con l’Atto Unico e poi con maggior determinatezza nel
Trattato di Maastricht. La vicenda è nota, ma essa è suscettibile di essere riletta
alla luce della griglia interpretativa proposta in precedenza. Infatti, se per
un aspetto, non è dubbia la portata implementativa
della tutela dei diritti, soprattutto con la conferma del ruolo da riconoscersi
dall’Unione Europea alla CEDU e alle tradizioni costituzionali comuni agli Stati
membri in quanto principi generali del diritto comunitario
(art. F, 2° comma, TUE); per un altro aspetto,
Tutti gli anni ’90
costituiscono del resto una fase decisiva per la dimensione dei diritti
fondamentali nell’Unione Europa, dato che è in tale periodo che si fissano altre essenziali coordinate di tale dimensione. È infatti
con il parere reso dalla Corte di Giustizia il 28 marzo 1996 (parere
n. 2 del 1994) che la reale portata del riferimento alla CEDU viene finalmente
inequivocamente chiarita sia pure in controluce rispetto
al problema dell’ammissibilità o meno dell’adesione dell’Unione alla
Convenzione, risolto, com’è noto, negativamente dalla Corte.
In difetto, infatti, di
un’adesione formale dell’Unione,
Ma c’è di più:
l’incompetenza dell’Unione a concludere accordi internazionali in materia di
diritti non finisce per far risaltare anche la debolezza dell’impianto dei
Trattati circa la competenza stessa dell’Unione a legiferare sulla materia? In
altri termini, un conto è riconoscere che i diritti sono precostituiti dalla
loro dimensione internazionale e fungono da limite alla normazione
comunitaria, un conto è invece pretendere che essi possano costituire anche
oggetto di conformazione diretta, oltre quanto cioè è implicato dalla
disciplina delle politiche comunitarie. Del resto, è la stessa Corte, nel
precitato parere, a sottolineare come all’Unione difetti non solo la competenza
a stipulare convenzioni
internazionali in materia di diritti, ma – si direbbe – prima ancora, quella a
statuire nello stesso dominio materiale, nemmeno – si noti – facendo ricorso ai
poteri potenziali di cui all’ex art.
235 (ora 308) del Trattato di Roma.
È in questo contesto che
va, a nostro avviso, valutata quella sorta di “costituzionalizzazione” operata ad
Amsterdam (e perfezionata a Nizza) della competenza dell’Unione ad intervenire
direttamente e apertamente sul punto, quanto meno mettendo il potere di
controllo delle Istituzioni di governo comunitarie in concorrenza con
Prima però di soffermarci
sul punto, ricordiamo come, anche sul fronte delle attribuzioni della Corte, si
operi ad Amsterdam un ampliamento degli ambiti materiali d’intervento a favore
dei soggetti extracomunitari (si pensi esemplarmente al diritto d’asilo),
mentre nell’art. 136 del Trattato di Roma vengono iscritte, sia pure ragionando
soltanto di obiettivi,
Per quanto riguarda
l’efficacia dei diritti fondamentali rileva però soprattutto il nuovo inciso
dell’art. 6 (ex art. F) del Trattato
sull’Unione, in quanto vale a fissare in maniera ormai indiscutibile e
ontologicamente necessaria l’omogeneità, se non di natura, certamente d’ispirazione,
tra Unione e Stati membri poiché tutti fondati sui principi di libertà, di
democrazia, di rispetto dei diritti fondamentali e dello stato di diritto,
elevando, anche qui con una singolare inversione di ruoli, l’Unione a custode
di tali principi nei confronti degli stessi Stati nazionali. Si allude
all’evidenza alla configurazione del rispetto dei detti principi ex art. 49 TUE come condizione per
l’ingresso di nuovi Stati nell’Unione, e viceversa della loro violazione come
causa di sospensione di uno Stato già membro dalla fruizione di alcuni dei
diritti previsti dal Trattato, laddove la procedura allestita per eventualmente
pervenire ad un simile esito non coinvolge, com’è noto,
4.
Il catalogo “virtuale” dei diritti nei
Trattati comunitari. – È necessario, a questo punto, tornare a interrogarsi
sul senso e sulla portata della c.d. Carta di Nizza rispetto al quadro finora
assai succintamente descritto. In altri termini, se si condivide la premessa
per cui alla vigilia del Consiglio europeo di Colonia del 1999 la dimensione
dei diritti fondamentali della persona nell’Unione europea è tutt’altro che
fragile, occorre intendere quale sia esattamente il plusvalore che al proposito
La risposta a queste
domande non può però prescindere da una ricognizione conclusiva dell’assetto
dei diritti fondamentali così come ricostruibile sulla base dei Trattati finora
menzionati: che è quanto dire come per il momento, in attesa delle ratifiche e
dell’entrata in vigore del Trattato di Lisbona, stanno ancora le cose.
Si è visto, dunque, come
l’idea stessa dell’esistenza e della necessaria tutela dei diritti fondamentali
non sia estranea alla genesi del Trattati originari
che anzi presuppongono tal proposito la dimensione ed il riconoscimento
transnazionale dei diritti in questione. La coessenzialità
di tale riconoscimento espresso nella forma dei principi generali implicati dai
Trattati ed il rinvio a quelli formali gravitanti nell’ordinamento
internazionale (
Occorre però anche dare
atto come, in questa sua attitudine,
Così già a Maastricht,
accanto a quanto già ricordato per quanto riguarda la base assiologica
dell’Unione e l’ingresso di nuovi Stati, l’istituzione della cittadinanza
dell’Unione (art. 2) è concepita quale mezzo per rafforzare la tutela dei
diritti e degli interessi dei cittadini degli Stati membri. Essa quindi se
nasce priva della tradizionale connotazione di statualità, intende invece
esprimere una condizione sintetica e riassuntiva di condizioni soggettive di
vantaggio cui corrisponde immediatamente una pretesa giustiziabile. Nel medesimo
contesto è confermato l’impegno a mantenere l’Unione come spazio di libertà,
sicurezza e giustizia in cui sia assicurata la libera circolazione delle persone,
si noti, non dei soli cittadini, anche se, come si precisa, tale libertà deve
accompagnarsi a misure appropriate in tema di controllo alle frontiere, asilo e
immigrazione e lotta alla criminalità. Nei confronti poi ancora di tutti
indistintamente opera il riconoscimento, precisato ad Amsterdam, dei diritti
fondamentali quali sono previsti dalla Convenzione del 1950 e ricostruibili in
base alle tradizioni costituzionali comuni.
Non costituisce neanche
una novità il fatto che, nel Trattato di Roma, sia oggi già possibile
individuare un “catalogo” di libertà e diritti assicurati a cittadini e a soggetti
extracomunitari quali l’eguaglianza tra uomini e donne di cui all’art. 2,
rispetto al quale le proibizioni e le azioni analiticamente imposte alla
Comunità dal successivo art. 3 costituiscono senz’altro un programma di
eguaglianza sostanziale da far invidia alla più progressista delle Costituzioni
(ma anche le discriminazioni spesso enumerate come vietate in quest’ultime - si
pensi al nostro art. 3, 1° comma, Cost. - sono fatte oggetto di possibili
normative repressive o d’incentivazione alla loro rimozione da parte dell’art.
13 del Trattato).
Certo: non s’intendono
qui mettere in secondo in piano le limitazioni oggettive, almeno in una prima
fase, dell’ambito di applicazioni del principio di eguaglianza, ma non parrebbe
congruo farne carico alla giurisprudenza comunitaria, nella quale invece
soprattutto di recente si sono verificate spesso aperture assai audaci nell’estendere
l’operatività del principio: mi riferisco, ad esempio, ai casi K.B. (C-117/01) e Sarah
Margaret Richards (Causa C-423/04), nei quali l’appiglio economico è
abbastanza indiretto, o a Sabine
Mayr (C-506/06), dove tale appiglio è assai
blando, se non inesistente.
Ma, proseguendo, sarebbe superfluo
in questa sede ricordare analiticamente tutti i diritti che gli articoli da
Tutta la trama del
Trattato, quale si presenta oggi soprattutto dopo Maastricht e Amsterdam, è
però innervata da previsioni in termini di diritti, che vanno da quelli già
ricordati connessi con la circolazione delle persone, anche in esito agli
accordi di Schengen e agli accordi internazionali sui rifugiati e richiedenti asilo (articoli da
Una situazione quindi che
risponde in pieno al paradigma di un’Unione sempre più irreversibilmente
proiettata non solo verso il rispetto dei diritti, ma anche verso l’allestimento
di discipline conformative proprie senza però
quell’atteggiamento “proprietario” dei diritti della tradizione statalistica e
rispondente invece all’idea, dalla quale eravamo partiti, della dimensione transnazionale
(costituzionalismo sovranazionale) dei diritti stessi.
Per converso e conclusivamente,
l’attenzione talvolta portata dalla Corte al valore della dignità permette di
sottolineare come anche libertà strutturali come quelle economiche non siano ritenute suscettibili di
un’indiscriminata espansione: qui la citazione d’obbligo è alla più recente
decisione Omega
del 14 ottobre 2004 (C-36/02) [P. Costanzo,
L. Mezzetti, A. Ruggeri, 370].
5.
Il contributo della Carta di Nizza alla
dimensione dei diritti della persona
nel diritto dell’Unione europea. – Da quanto sin qui esposto, si può
forse ben intendere come l’Unione in realtà si sia presentata all’appuntamento
con
Indipendentemente
comunque dal problema della portata della Carta, è noto che la soluzione data
alla questione della sua efficacia è stata generalmente negativa, rimanendo
tutto sommato poco decifrabile il senso da attribuire alla sua mera
“proclamazione” e alla sua successiva pubblicazione (di cui ad oggi quindi si
contano due proclamazioni, tenendo conto di quelle replicata lo scorso 12
dicembre a Strasburgo [E. Pagano,
94] e almeno 4 pubblicazioni, se s’include anche quella compresa nel Trattato
costituzionale).
Eppure, partendo da una
portata non meramente ricognitiva delle regole poste ad Amsterdam in materia di
tutela dei diritti, si sarebbe forse potuto, da parte della giurisprudenza
comunitaria, procedere ad un uso qualitativamente meno circospetto della Carta,
da ritenersi, non solo un atto di soft law paragonabile alla già ricordata Dichiarazione
comune del 1977, ma anche un documento orientatore di valore non dissimile
dalla CEDU, al fine di dare corpo ai diritti comunitari.
Ci sembra in ogni caso
che, se a seguito delle previsioni di Lisbona, potrà essere risolto
definitivamente il problema della sua vigenza, anche in certo modo quello della
sua latitudine normativa dovrebbe ottenere una risposta, proprio guardando al
già descritto processo di comunitarizzazione dei
diritti, dato che la loro tutela cesserà di costituire solo il limite “esterno”
dell’attività delle Istituzioni, per configurarsi come una materia tutta
“interna” alla competenza normativa dell’Unione (di cui la stessa Carta sarebbe
già manifestazione nella misura in cui in essa siano rinvenibili diritti
completamente “nuovi”). Inoltre, con
l’acquisizione, da parte della Carta dello status
di diritto originario dell’Unione, la tutela tradizionalmente offerta dalla
giurisdizione comunitaria avrà modo di esplicarsi in forme più organiche e meno
accidentali, sia pure sempre incanalate nelle forme processuali tipiche del
diritto dell’Unione. Ciò
che, d’altro canto, corrisponderebbe sia alla prima che alla seconda delle tre
prospettive indicate all’inizio, dato che l’introduzione di un catalogo dei
diritti realizzerebbe anche l’autonomizzazione sostanziale dell’Unione in materia,
coltivata dapprima, come si è visto, dalla Corte e fatta propria ora dalle
stesse Istituzioni.
Tuttavia proprio gli effetti di sistema di queste due
prospettive portano a considerare finalmente la terza, che riguarda, come s’è
detto, la funzione integratrice della tutela dei diritti nella costruzione della fisionomia
dell’Unione. Non è un caso, infatti, che tale funzione sia stata frequentemente
ridimensionata, negandosi che, ad un’implementazione della tutela, potesse
corrispondere l’ampliamento delle competenze dell’Unione e l’innalzamento del
tasso d’integrazione. La posizione anzi degli Stati maggiormente “euroscettici”
è stata quella di non accontentarsi nemmeno di simili enunciazioni, pretendendosi
invece l’allestimento di meccanismi concreti di “blocco” di fronte a potenziali
“derive” integrazioniste.
Così se, come si ricorderà,
la mera proclamazione a Nizza l’11 ottobre 2000 della Carta non sembrò indurre apprezzabili
reazioni, non realizzandosi nell’immediato alcuna delle soluzioni immaginate
nella Convenzione quale esito istituzionale della Dichiarazione dei diritti [S.
Gambino, 431], il suo innesto nel
successivo Trattato costituzionale ha provocato l’adozione della distinzione
tra “principi” e “diritti”, escludendosi la giustiziabilità
dei primi ancorché generatori di situazioni di vantaggio, se non addirittura, a
loro volta, di veri e propri diritti. Per altro verso, nelle “spiegazioni”
apposte alla Carta stessa, sono state aggiunte clausole di salvezza, riferite
all’art. 15 della CEDU, come quella che lascia impregiudicata la possibilità
degli Stati membri di derogare ai diritti in certe circostanze e per
determinate fini. Né, a questo stesso proposito, è irrilevante che,
nell’eventuale corrispondenza tra previsioni della Carta e previsioni del
Trattato costituzionale, dovessero essere queste ultime a prevalere (ritenute evidentemente
maggiormente idonee ad arginare interpretazioni estensive sul fronte delle
attribuzioni dell’Unione).
La novità è ora costituita dall’opting out dalla Carta manifestato da Gran Bretagna e Polonia: ma si
tratta di un fatto per vero non così sorprendente in quanto corre in parallelo
con le riserve espresse dai due Paesi in ordine al progresso dell’integrazione
(concretizzatesi per
6.
Dopo Lisbona quale ruolo per Strasburgo.
– Augurandoci tuttavia che, come fu per Maastricht, l’opting out costituisca solo una mossa temporanea di chiara valenza
politica, forse più interessante è interrogarsi su quali potrebbero divenire le
coordinate della tutela in base alla
ventilata adesione dell’Unione come tale alla CEDU.
Preliminarmente però non
mi sentirei di attribuire un rilievo particolare all’affermazione contenuta nel
comma 3 del nuovo art. 6 del Trattato sull’Unione che riconosce ai diritti
fondamentali della CEDU (così come anche a quelli che risultano dalla tradizioni costituzionali comuni) il rango di principi
fondamentali dell’Unione, trattandosi probabilmente di una delle ricorrenti
razionalizzazioni di situazioni ampiamente già in atto.
Comunque sia, attualmente,
sulla base della mera adesione degli Stati membri e specie dopo le decisioni Cantoni
c. Francia (15 novembre 1996), Matthews c. Regno Unito (18 febbraio 1999) e Bosphorus Airways c. Irlanda (30
giugno 2005), sembra sufficientemente acclarata la competenza della Corte di Strasburgo a
verificare la “convenzionalità” degli atti adottati dagli Stati stessi in
applicazione del diritto comunitario sia originario, sia derivato. In
particolare, nella terza delle decisioni ricordate, in particolare, è stato precisato
come il diritto nazionale applicativo del diritto comunitario (così come, del
resto, di qualsiasi altro obbligo internazionale) non beneficia di alcun
statuto particolare, restando, dunque, lo Stato aderente alla Convenzione
responsabile delle scelte effettuate in sede applicativa. Nel caso però in cui lo
Stato risulti invece privo di discrezionalità applicativa e del tutto vincolato
dal precetto comunitario,
Nel caso in cui fosse la stessa Unione ad aderire, come tale, alla
Convenzione, aprendosi per la prima volta la via del ricorso davanti alla Corte
di Strasburgo per la tutela dei diritti protetti dalla stessa Convenzione, non
è invece in principio dubbio che lo stesso diritto comunitario sarebbe direttamente sottoponibile al controllo di
convenzionalità.
In questo quadro, non solo è facilmente immaginabile che le stesse
decisioni rese dalla giurisdizione comunitaria possano essere sottoposte a
verifica, ma non può nemmeno escludersi che le censure di Strasburgo possano
colpire, ad es., le limitazioni che gli individui incontrano nell’attuale
sistema dei ricorsi comunitari (limitazioni in certa misura attenuate a
Lisbona) o la mancanza di contraddittorio rispetto alle conclusioni degli
Avvocati generali, ritenuta non problematica da parte della Corte di giustizia
nella decisione Emesa Sugar (C-17/98), ma
censurata a Strasburgo con la precedente decisione Vermeulen c. Belgio del 20 febbraio 1996, o, più in
generale, che la protezione comunitaria dei diritti perda – se non altro al
fine di dare sostanza al ruolo della Corte europea dei diritti dell’uomo – quella presunzione di affidabilità di cui ha
finora goduto a Strasburgo - paradossalmente proprio nel momento in cui questa
stessa presunzione dovrebbe, per effetto dell’entrata in vigore della Carta di
Nizza, ulteriormente rafforzarsi.
Sul piano procedurale, infatti, la presenza di questo
nuovo catalogo di diritti potrebbe indurre maggiore visibilità ad una mancanza,
a cui è stato possibile finora per la stessa Corte di giustizia sopperire, ma
già segnalata in sede di elaborazione del Trattato costituzionale, allorché
venne in rilievo la proposta (riunione
del 4 ottobre 2002) d’introduzione di un ricorso individuale ed eventualmente
su iniziativa del Mediatore europeo dinnanzi appunto alla Corte di Giustizia
teso a tutelare direttamente i diritti fondamentali. La proposta non ebbe
seguito, ritenendosi, da parte di alcuni, ma non senza contestazioni, che già i
mezzi di ricorso esistenti fossero idonei a veicolare le
lagnanze avverso le violazioni dei diritti umani, o paventandosi, da
parte di altri, l’aggravio di lavoro che avrebbe investito un sistema ritenuto
al momento nel complesso piuttosto efficiente.
Per altro verso, c’è da chiedersi se potrà avere ancora corso quell’autonomia
della giurisprudenza comunitaria manifestatasi attraverso interpretazioni della
CEDU divergenti da quelle adottate dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, o
se invece questa verrà ad esercitare sulla Corte di giustizia un incisivo ruolo
di orientamento, quale quello riconosciuto, ad esempio, dalla nostra Corte
costituzionale nella sentenza n. 348 del
2007, per cui “tra gli obblighi internazionali assunti (…) con la
sottoscrizione e la ratifica della CEDU vi è quello di adeguare la propria
legislazione alle norme di tale trattato, nel significato attribuito dalla
Corte specificamente istituita per dare ad esse interpretazione ed
applicazione” [A. Ruggeri].
È in ogni caso certo che, per quanto concerne la dimensione dei
diritti della persona nell’Unione europea, si sia alla vigilia di una
trasformazione senza precedenti, di cui costituiscono testimonianza anche l’istituzione
nel 2007 dell’Agenzia dell’Unione europea per i diritti fondamentali ed il
nuovo disposto dell’art 6 del Trattato sull’Unione, come risulterà dopo l’eventuale
ratifica del Trattato di Lisbona, che, sembrando rispondere dopo cinquant’anni
di vita, alle già accennate polemiche sulla natura dell’organizzazione
comunitaria, perviene finalmente (su richiesta, com’è noto, della Germania) a
stabilire in particolare la caratterizzazione “sociale” dell’economia di
mercato.
Tutti fattori, questi, che meriterebbero ben altro
approfondimento, ma che già consentono di delineare un quadro assai complesso
dove gli interrogativi prevalgono sulle certezze. Interrogativi che non sarebbe
opportuno lasciare risolvere col metodo episodico e accidentale della
giurisprudenza, ma che è auspicabile siano per tempo affrontati dal legislatore
comunitario, non dimenticando che, a ben vedere, l’adesione alla CEDU, da
ipotesi alternativa alla messa in vigore di una Carta, ha finito invece coll’integrare
un’ipotesi aggiuntiva, di cui non sono così perspicue le esatte coordinate. Tanto
da ipotizzare, più che un’adesione di tipo classico dell’Unione alla CEDU
(agevolata, tra l’altro, dal Protocollo n. 14 alla Convenzione, che, a scanso
di possibili equivoci sulla natura dell’Unione stessa, ha introdotto la
necessaria previsione permissiva [L. Tomasi, 173]), una sorta di inedito collegamento tra
sistemi, nel quadro della già avviata cooperazione tra le rispettive
istituzioni (mi riferisco qui al memorandum
d'intesa fra il Consiglio d'Europa e l'Unione europea il cui progetto è stato
inoltrato dal CORIPER alla Commissione già il 10 maggio 2007), al fine di concordare
specifiche procedure di raccordo in grado di riorientare
i meccanismi di ricorso in dipendenza del carattere non statale dell’Unione europea, e della
complessità degli interessi processuali e sostanziali coinvolti (e qui deve
ricordarsi come appunto in questa direzione vada il Protocollo relativo
all’art. 6, n. 2 al Trattato di Lisbona).
Si rileva comunque, come, da un lato, la tutto sommata blanda
capacità di reazione di questa Corte (semplicemente sentenze di condanne senza
incisione diretta su atti e comportamenti dell’Unione) non sembri poter
intaccare il ruolo di chiusura della Corte di Giustizia, e come, dall’altro, la “costituzionalizzazione”
della Carta di Nizza non possa non indurre la stessa Corte di Strasburgo a tenerla
in grandissimo conto, ancor più di quanto la stessa sembra essersi autonomamente
avviata a fare a partire dalla sentenza Christine
Goodwin
c. Regno Unito (R. n.
28957/95), per cui si annoverano ad oggi già diverse pronunce nelle quali
Tanto che, conclusivamente e - starei per dire - sulla scala della
storia, forse il tratto più considerevole dell’adesione dell’Unione come tale
alla CEDU potrebbe essere un altro, dato che essa in fondo - contrariamente
alle intenzioni di qualcuno - realizza un nuovo tassello nella
riduzione della distanza dell’Unione rispetto a qualche forma di statualità:
prospettiva che la bocciatura del Trattato costituzionale è parsa invece voler
clamorosamente emarginare (9 giugno 2008).
7. Riferimenti
bibliografici essenziali.
M. Cartabia, L’ora
dei diritti fondamentali nell’Unione europea, in M. Cartabia, I diritti in azione, il Mulino, Bologna, 2007
P. Costanzo, L. Mezzetti, A. Ruggeri, Lineamenti di diritto costituzionale
dell’Unione europea, Torino, Giappichelli, 2006
S. Gambino, Diritti fondamentali, Costituzioni nazionali
e Trattati comunitari,
in S. Gambino (cur.),
Trattato che adotta una Costituzione per
l’Europa, Costituzioni nazionali, Diritti fondamentali, Giuffrè,
Milano, 2006, 431
G. Guarino,
Per una ricostruzione, in termini di sistema, dei
diritti dell’uomo, in https://www.giurcost.org/studi/guarino.html
B. Nascimbene, L’individuo
e la tutela internazionale dei diritti umani, in S.M. Carbone, R. Luzzatto, A. Santa Maria (curr.), Istituzioni
di diritto internazionale, Giappichelli, Torino,
2006
E. Pagano, Dalla Carta di Nizza alla Carta di Strasburgo dei diritti fondamentali, in Rivista di diritto pubblico comparato ed europeo, 2008
O. Pollicino
e V. Sciarabba,
A. Ruggeri,
L. Tomasi, Il
dialogo tra Corti di Lussemburgo e di Strasburgo in materia di diritti
fondamentali dopo il Trattato di Lisbona, in M. C. Baruffi, Dalla
Costituzione europea al Trattato di Lisbona, CEDAM, Padova, 2008, 149