PASQUALE COSTANZO
Il sistema di protezione dei diritti
sociali nell’ambito dell’Unione europea*
Sommario: 1. Premessa. – 2.
Estraneità del tema dei diritti sociali
ai trattati fondativi. – 3. L’ingresso
della coesione economica e sociale nel Trattati e la posizione regressiva dei
diritti sociali. – 4. “La faticosa
marcia dei diritti sociali” da Maastricht a Colonia. – 5. La protezione dei diritti sociali nella
Carta di Nizza (in particolare, i diritti del lavoro). – 6. Segue: (in particolare, i diritti
extralavorativi). – 7. I diritti
sociali nel Trattato costituzionale e nel Trattato di Lisbona. – 8. Brevi considerazioni conclusive. – 9. Nota bibliografica.
1. Premessa.
Presentando,
il 1° e 2 luglio
Una
tale serie di affermazioni avrebbe potuto anche essere archiviata tra i normali
auspici di un alto responsabile delle politiche comunitarie, se non fosse
giunta a ridosso della delicata fase critica innescata per l’Unione europea dal
referendum che, com’è noto, si è
pronunciato negativamente circa la ratifica da parte dell’Irlanda del Trattato
di Lisbona del dicembre 2007. Infatti, fondati o no che siano tali argomenti,
tra le motivazioni del rifiuto irlandese va ricompresa anche la poca
attrattività di cui l’Unione europea godrebbe in tema di protezione sociale, non
diversamente, del resto, da quanto s’era già verificato con i rifiuti francese
ed olandese alla ratifica del Trattato costituzionale del 2004. Così che, nel
pacchetto contenuto nella nuova Agenda europea, le priorità più rilevanti
riguardano non casualmente l’avvenire di bambini e giovani, l’investimento in
risorse umane; la promozione di vite più lunghe e più sane, la lotta alla
discriminazione, alla povertà e all’esclusione sociale, nell’evidente intento
di rassicurare tutti i partners
europei circa la consistenza della dimensione sociale di un’Unione europea
impegnata nelle politiche di sostegno ai soggetti deboli e di attenzione verso
le aspettative sociali [sulla nozione di esclusione sociale, TRUCCO, 2005,
119].
Comunque
sia, la vicenda confermerebbe l’idea che ogni passo verso una maggiore
integrazione dell’Europa non possa ormai che essere accompagnata da un
progresso sulla strada della tutela dei diritti sociali (si ragiona di un Welfare State a livello continentale), a
completamento di quel riconoscimento dei diritti di libertà che ne ha
caratterizzato lo sviluppo fino alla configurazione di una corrispondente
identità europea, laddove dunque non deve essere apparso sufficientemente
rassicurante – per difetto o per eccesso – o scarsamente decifrabile quanto
stipulato in proposito sia dal Trattato costituzionale, sia dal Trattato di
Lisbona, a fronte del modello sociale al quale, a più di sessant’anni dal
termine del secondo conflitto mondiale, la generalità degli Stati membri
dell’Unione europea (sia quelli di più antica democrazia, sia quelli riapparsi
sulla scena dopo l’implosione del blocco sovietico) appaiono tutti più o meno
puntualmente ispirarsi.
Sembra
però difficile sfuggire alla sensazione che la situazione venutasi a creare
abbia alla sua base un grande paradosso, per cui, se può essere vero che la
stagnazione dei diritti sociali, quale sta caratterizzando i Paesi dell’Unione,
è almeno in parte addebitabile alle politiche di rigore imposte dalla stessa
Unione per privilegiare la tenuta dell’euro e la competitività dell’economia
europea nel mercato globale, è anche innegabile che sul piano sociale l’Europa
non possiede un ruolo distributivo delle risorse paragonabile a quello degli
Stati [sul punto anche D’ALOIA, 2002, 845], ai quali continua a competere la
leva dell’imposizione fiscale e quella della contribuzione sociale, nel tempo
stesso che, sul piano delle competenze, il suo ruolo regolatore si presenta
piuttosto marginale.
È del
resto facile constatazione che su tale piano il rapporto più stretto resti
quello tra cittadini e Stati di appartenenza, identificando i primi solo nei
secondi l’approdo più sicuro, mentre permane l’interesse degli ordinamenti
nazionali a scaricare sull’Europa la responsabilità di ciò che si è costretti a
tagliare nelle prestazioni sociali e ad attribuirsi il merito di ciò che si
riesce a mantenere.
Tuttavia,
in questa continua rincorsa alla legittimazione, l’Unione non ha certamente
rinunciato a giocare le sue carte, e, a dispetto della sua scarsa capacità di
manovra, ad additare soluzioni intese a dare testimonianza della sua vocazione
sociale [ragiona di crescita della dimensione sociale dell’Unione europea,
anche DELFINO, 2004, 141].
2. Estraneità del tema dei diritti sociali ai
trattati fondativi.
L’inclusione,
ad esempio, nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea del 2000
(c.d. Carta di Nizza) dei diritti sociali e l’insistenza, già a partire dal
Trattato costituzionale, sulla configurazione dell’economia europea come “economia sociale di mercato” non
costituiscono che alcuni degli esiti più recenti di una linea evolutiva a cui
occorre preliminarmente dedicare una certa attenzione, se si vuol cercare di
comprendere, sia pure nei limiti connaturati alla presente trattazione,
l’attuale assetto del sistema di protezione dei diritti sociali nell’ambito
dell’Unione europea.
L’avvio
di tale linea evolutiva è senza dubbio più opaco e dimesso rispetto a quello
dei diritti c.d. classici, sui quali si riverberava la luce della Convenzione
europea di salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali già
al momento dei Trattati fondativi. Rispetto a questi ultimi, la dimensione
sociale risultava, del resto, sostanzialmente estranea, motivando il giudizio
di “frigidità sociale” [MANCINI, 1988, 33] che avrebbe caratterizzato gli
autori della costruzione europea.
Meno
convincente ci pare invece che si debba parlare al proposito di “un mistero
storico” [così ALLEGRETTI, 2004] dato dall’ apparentemente inspiegabile
contraddizione tra la scarsa significatività sociale della Comunità e la forte
dimensione sociale dei suoi Stati membri, poiché, come è stato efficacemente
sottolineato, v’era in partenza la convinzione che i [GIUBBONI, 2005, 26]
diritti sociali sarebbero stati assicurati all’interno
degli ordinamenti nazionali, senza che l’integrazione europea potesse
interferire sulle loro dinamiche di protezione se non accrescendone la capacità
materiale di soddisfacimento da parte degli Stati membri”.
Persino
sul punto specifico del miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro di
quella che si definiva allora “la mano d’opera”, l’art. 117, comma 2, del
Trattato di Roma testimoniava la convinzione che esso sarebbe derivato
automaticamente dal funzionamento del mercato comune, che avrebbe indotto l’armonizzazione
dei differenti sistemi sociali, così che l’art. 118 si limitò ad assegnare alla
Commissione europea il compito di promuovere una stretta collaborazione tra gli
Stati in determinati settori [in questi termini, PILIA, 2005, 62].
Tuttavia,
soprattutto la constatazione che il perseguimento dei fini collegati al mercato
sovranazionale tendeva ad assottigliare il margine di manovra interna degli
Stati nell’accordare tutela alla dimensione sociale, indusse a rovesciare il
giudizio sull’impatto della Comunità sul godimento dei relativi diritti. Ma,
anche se sarebbe potuto risultare chiaro come la più razionale via d’uscita
dovesse essere il potenziamento della capacità delle Istituzioni comunitarie a
far fronte al problema attraverso la ricerca di un soddisfacente equilibrio tra
tutela dell’efficienza del mercato e difesa dei livelli di welfare raggiunti o auspicati negli ordinamenti interni, non si
ebbe quella necessaria traslazione di competenze dagli Stati alla Comunità, che
ancora oggi fatica a verificarsi.
Tutta
l’evoluzione della Comunità e in seguito dell’Unione appare invece costellata
da iniziative spesso astrattamente considerevoli, ma di scarsa presa pratica
sul problema. La stessa Corte di giustizia, protagonista assoluta
dell’implementazione della tutela dei diritti di prima generazione, ha in certo
modo scontato la cauta condotta degli Stati (la stessa già ricordata
Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà
fondamentali non contiene significative previsioni in tema di diritti sociali),
né in materia alcun specifico avvertimento sembra essere provenuto dalle Corti
costituzionali interne.
Sostanzialmente
autonomi saranno, dunque, gli sforzi degli Avvocati generali e della Corte
stessa di dare risalto alla pur debole Carta sociale europea (anch’essa frutto
di un accordo in seno al Consiglio d’Europa [in proposito, GOMÈZ FERNÀNDEZ,
2008]) come conseguenza della sua menzione, insieme alla Carta comunitaria dei
diritti sociali fondamentali dei lavoratori [su questo documento, GALANTINO,
2006, 54], nei Trattati dopo Amsterdam (precisamente nell’art. 136, comma 1,
del Trattato sulla Comunità europea di Roma, e nel Preambolo del Trattato
sull’Unione europea di Maastricht: [per una panoramica, MAGNO, 1998, 17]).
3. L’ingresso della coesione economica e
sociale nel Trattati e la posizione regressiva dei diritti sociali.
Intendendo
quindi fissare i principali snodi dell’azione comunitaria sul tema della
protezione sociale, il primo importante riferimento può essere rinvenuto nella
Conferenza di Parigi del 1972, che rappresentò un passaggio essenziale anche
per altri aspetti di carattere sia economico, sia istituzionale. Fu infatti in
tale occasione che si ebbe il primo allargamento della Comunità (a Gran
Bretagna, Irlanda e Danimarca) e si cercò di reagire alla tempesta economica
prodotta dalla decisione americana di inconvertibilità del dollaro in oro. Ma,
per quanto qui più direttamente ci riguarda, di rilievo fu la messa in cantiere
di un programma d’azione in tema di politica sociale per il passaggio alla
seconda tappa dell’unione economica monetaria. Tale programma fu poi
effettivamente approvato con
L’auspicato
innalzamento del livello di protezione sociale passava tuttavia ancora una
volta attraverso azioni concertate tra i vari Stati e tra questi e
È in
questa luce che deve dunque valutarsi il secondo snodo interessante per il
nostro discorso offerto dal doppio passaggio dell’Atto Unico Europeo del 1986 e
della Carta comunitaria dei diritti fondamentali sociali dei lavoratori del
1989. È proprio in questo torno di tempo che le due direttrici fondamentali
della nostra materia sembrano acquisire una fisionomia ben definita anche a
livello comunitario, attraverso la distinzione tra una politica degli obiettivi
[su tale particolare dimensione, AZZENA, 1998, 226] ed una politica dei
diritti, certamente complementari, ma rispondenti ad approcci in buona misura
autonomi.
Con
l’Atto Unico Europeo, si realizzava per la prima volta una sostanziale
correzione di rotta al livello del diritto originario della Comunità
nell’ambito della politica sociale, fino ad allora solo blandamente
disciplinata nel Trattato di Roma: con l’introduzione di una politica
comunitaria di coesione economica e sociale [su tale nozione, CAMPIGLIO e
TIMPANO, 2001, 395; BALBONI, 2001, 19; BUZZACCHI, 2001, 59; CREMONINI, 2006,
435] si tendeva finalmente a controbilanciare gli effetti della realizzazione
del mercato interno sugli Stati membri meno sviluppati, oltreché a ridurre il
divario tra le diverse regioni europee. Da un lato, il nuovo art.
Sul
piano invece del riconoscimento dei diritti sociali, se era possibile
registrare un grande attivismo da parte delle Istituzioni comunitarie più
sensibili al problema, permaneva la tradizionale prudenza degli Stati e quindi
del Consiglio verso la sua effettiva presa in carico. Non è del resto un caso
se la prima autorevole sollecitazione fosse contenuta nel progetto di trattato
“Spinelli”, adottato dal Parlamento europeo il 14 febbraio1984, il cui art. 4,
comma 3, assegnava all’Unione un termine di cinque anni per deliberare sia la
sua adesione ai Patti di New York, sia l’adozione di una propria Dichiarazione
dei diritti fondamentali, comprensiva dei diritti sociali, come l’adesione ad
entrambi gli appena citati Patti lasciava chiaramente intendere. In esplicita
attuazione di questo mandato, il 12 aprile 1989, il Parlamento europeo adottava
infatti una Dichiarazione dei diritti e delle libertà fondamentali relativa
soprattutto ai diritti civili e politici già riconosciuti dalla Convenzione
europea dei diritti dell’uomo, ma contenente già anche alcune previsioni di
natura economica e sociale, laddove però, per il completamento del catalogo
nella parte ritenuta più delicata, sarebbe stato il Consiglio a deliberare, il
9 dicembre successivo, la già menzionata Carta comunitaria dei diritti sociali
fondamentali dei lavoratori. D’altro canto, se la mancata presa di vigore ha
accomunato poi in un unico destino entrambi i testi, fu per
4. “La faticosa marcia dei diritti sociali” da
Maastricht a Colonia.
La
posizione contestativa inglese non si appuntava in realtà soltanto sul
riconoscimento di diritti sociali a livello comunitario (posizione destinata,
com’è noto, a durare fino ai giorni nostri), ma, almeno in quella prima metà
degli anni ’90 dello scorso secolo, sulla più generale attribuzione di competenze
in materia di politiche sociali alla Comunità, tanto che a Maastricht si
dovette far rifluire una parte del capitolo sociale destinato al Trattato in un
Protocollo allegato (il n. 14 “Accordo sulla politica sociale”), rispetto al
quale il Regno Unito decise di chiamarsi fuori. Altrettanto significativamente,
veniva dallo stesso Regno Unito contestato (anche se questa volta senza
successo nella causa
C-84/94, Regno Unito c. Consiglio)
che il già citato art.
Pur
tuttavia, il Trattato di Maastricht rappresentò senz’altro un ulteriore snodo
di estremo rilievo, dato che le competenze comunitarie nella politica sociale
si accrebbero sensibilmente, mentre, dal canto suo, l’accennato Protocollo n.
14 estendeva la procedura del voto del Consiglio a maggioranza qualificata
nella materia del miglioramento dell'ambiente e delle condizioni di lavoro,
dell’informazione e della consultazione dei lavoratori, della parità di
opportunità per gli uomini e le donne sul mercato del lavoro e della parità di
trattamento quanto all’occupazione, nonché dell’integrazione delle persone
emarginate dal mercato del lavoro. Peraltro, assente sul tema del
riconoscimento dei diritti sociali, pur contenendo notevoli riferimenti
all’istruzione e alla sanità (articoli 16 e 129), il Trattato denunciava in
modo clamoroso la diversità di approccio rispetto ai diritti di libertà che in
esso venivano invece presi in diretta considerazione tramite il richiamo della
Convenzione europea dei diritti dell’uomo (art. F, comma 2).
E se,
successivamente ad Amsterdam [ma per contrastanti interpretazioni del relativo
Trattato, cfr. BARBERA, 2000, 101; per la medesima problematica con riferimento
anche Maastricht, TREU, 2001, 307], come già accennato, trovarono finalmente
collocazione nei Trattati sia
Sarà,
dunque dal Consiglio europeo di Colonia del 3-4 giugno 1999, che arriverà una
più puntuale risposta a tale sollecitazione. Nelle Conclusioni della Presidenza
(allegato IV) si rileva infatti come “Allo stato attuale dello sviluppo
dell'Unione [sia] necessario elaborare una Carta di tali diritti al fine di
sancirne in modo visibile l'importanza capitale e la portata per i cittadini
dell'Unione”, precisandosi come tra tali diritti debbano essere ricompresi,
oltre ai diritti di libertà e uguaglianza, e ai diritti procedurali
fondamentali garantiti dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo e
risultanti dalle tradizioni costituzionali comuni degli Stati membri, in quanto
principi generali del diritto comunitario, anche “i diritti economici e sociali
quali sono enunciati nella Carta sociale europea e nella Carta comunitaria dei
diritti sociali fondamentali dei lavoratori (articolo 136 TCE), nella misura in
cui essi non sono unicamente a fondamento di obiettivi per l’azione
dell'Unione”.
5. La protezione dei diritti sociali nella
Carta di Nizza (in particolare, i diritti del lavoro).
Si
perviene così all’ultimo degli snodi di primaria importanza nell’evoluzione
della protezione dei diritti sociali nell’ordinamento dell’Unione europea.
Ultimo, ma ad oggi non superato traguardo, poiché se è con l’approvazione della
Carta di Nizza che si realizza il più avanzato tentativo di
costituzionalizzazione dei diritti sociali [sulla genesi delle relative
previsioni, DE SCHUTTER, 2003, 192], è questo stesso documento a subire, com’è
noto, peripezie istituzionali tali da impedire ancora attualmente una
previsione ragionevole della sua entrata in vigore.
La
circostanza costringe dunque a ragionare qui di diritti sociali in maniera
piuttosto avulsa dalla realtà effettuale dell’Unione, nel cui ambito una certa
concretezza sembra caratterizzare solo la predisposizione di politiche sociali,
sia pure nell’ambito delle peculiari coordinate che tenteremo di illustrare a
conclusione del discorso.
Crediamo
comunque che costituisca un dato inoppugnabile il fatto che, nonostante un
certo margine di vaghezza se non di oggettiva ambiguità di talune previsioni, i
diritti sociali si emancipino dalla condizione di Reflexrechte in cui risultano piegati quando siano esclusivamente
condizionati all’attuazione delle politiche sociali [sulla condizione di
minorità dei diritti sociali quantomeno prima di Nizza, richiama
particolarmente l’attenzione LUCIANI, 2000, 378], assumendo, almeno alcuni di
essi, nella Carta di Nizza, quanto a struttura e valore, la stessa fisionomia
delle libertà classiche [in termini analoghi, BRONZINI, 2003, 126], alle quali
sono inoltre collegati dal principio d’indivisibilità, sulla cui base i
diritti, a prescindere dalle loro origini e dalla loro morfologia, sono tutti
identicamente necessari e interdipendenti tra loro per il raggiungimento dei
valori di fondo della dignità, della libertà e dell’eguaglianza dell’uomo.
Ma,
prima di tracciare qualche altra notazione di carattere sistematico, non sembra
inutile presentare il contenuto di questa parte della Carta di Nizza, che nella
sostanza riassume ed organizza, non senza qualche profilo innovativo, l’acquis communautaire formatosi sia per
effetto dell’hard law rappresentato
dai trattati e dal soft law delineato
dalle varie Carte (cui non sono estranee anche importanti Convenzioni
dell’Organizzazione internazionale del lavoro), sia grazie ad interventi della
Corte di giustizia, che, sia pure facendo perno sul principio di non
discriminazione o mostrando di offrire tutela a determinate libertà economiche,
ha in non rari casi offerto protezione a veri e propri diritti sociali
[identifica comunque una concezione strumentale di tale protezione, SALMONI,
2005, 94].
Per
questa stessa ragione, la protezione sociale disegnata dalla Carta interessa un
campo materiale assai esteso che va al di là delle più specifiche tematiche
legate al diritto del lavoro, alla sicurezza sociale e ai beni e ai servizi
d’interesse generale, per coinvolgere anche quelle connesse alla vita
familiare, all’educazione, alle relazioni di genere, alle politiche contro
l’esclusione sociale e alla tutela delle categorie deboli e disabili.
Assai
schematicamente, può rilevarsi come sia presente un primo fascio di diritti che
ruotano intorno al soggetto già occupato in un’attività lavorativa, ed un
secondo fascio che prescinde perlopiù invece da tale condizione ed anzi in
certi casi addirittura presuppone la mancanza e l’inabilità al lavoro.
Appartengono
al primo gruppo, soprattutto le situazioni soggettive contemplate sotto lo
specifico Capo della “Solidarietà” [per commenti di segno diverso, DEL PUNTA,
2001, 335; SALAZAR, 2001, 237; SCIARRA, 2001, 391; GAMBINO, 2003, 70 GIUBBONI,
2003, 325; CARLETTI, 2005, 258; COSTANZO, 2008, 392] in gran parte già
consacrate in previsioni dell’ordinamento dell’Unione [per la ricostruzione del
principio solidaristico nel diritto positivo dell’Unione europea, MANFRELLOTTI,
2002, 56]. Così è, esemplarmente, per la previsione recata dall’art. 27,
concernente il diritto all’informazione e alla consultazione dei lavoratori,
dato che troviamo già negli articoli 138 e 139 del Trattato CE la presa in
considerazione del metodo della consultazione e del dialogo tra le parti
sociali come strumento preferenziale di conduzione delle relazioni industriali.
Una particolare attenzione è dedicata anche agli accordi collettivi che, nel
successivo art. 28 della Carta sostanziano il diritto di negoziazione, accanto
al diritto di azioni collettive e di sciopero. Con simili riconoscimenti,
dunque, la libertà sindacale, nelle sue varie declinazioni, entra a pieno
titolo nell’ordinamento dell’Unione europea, potendo ricevere, da parte delle
Corti comunitarie, la medesima tutela accordata finora ad altri diritti di
natura economica.
La
protezione individuale del lavoratore è invece oggetto dell’art. 29,
riguardante il diritto ad accedere ad un servizio gratuito di collocamento,
sicché la prevista gratuità del servizio impone di ritenere che
prevalentemente, se non esclusivamente, i relativi oneri debbano essere
sopportati dalla mano pubblica. Completano il catalogo degli strumenti
giuridici di protezione della vicenda lavorativa individuale il diritto alla
tutela in caso di licenziamento ingiustificato di cui all’art. 30, che va
raccordato all’art. 33, che tutela contro i licenziamenti motivati dallo stato
di gravidanza; il diritto a condizioni di lavoro giuste ed eque di cui all’art.
31, che all’evidenza rinviene le sue fonti ispiratrici negli articoli 136 e 137
del Trattato CE. Ma, mentre la sicurezza sul lavoro, la protezione della salute
contro lavori e ambienti insalubri, e la tutela della dignità del lavoratore di
cui ragiona la disposizione devono essere visti come criteri orientatori delle
politiche sociali, non v’è dubbio che veri e propri diritti soggettivi siano
costituti dalle previsioni concernenti il limite massimo della giornata
lavorativa, risultato storico delle lotte operaie di parecchie generazioni, le
pause di riposo giornaliere e settimanali e il congedo annuale retribuito.
In
questo stesso ordine di idee, rileva ancora il divieto del lavoro minorile di
cui all’art. 32, con cui si coniuga la protezione dei giovani sul luogo di
lavoro, che si differenzia da quella normalmente pretesa per il lavoratore
adulto, di cui all’articolo precedente, dovendosi aver riguardo, nella
particolare fattispecie, anche alle esigenze dell’età evolutiva sotto il
profilo fisico, psichico, morale e sociale.
6.
Segue: (in particolare, i diritti
extralavorativi).
Prima
di scorrere velocemente il secondo gruppo di diritti, una situazione, per così
dire, intermedia, può essere individuata nelle previsioni intese ad offrire
protezione sia alla vita familiare, sia alla vita professionale, che sono
oggetto di congiunta considerazione nell’art. 33 della Carta. L’abbinamento non
è casuale, essendo noto come il tipo e le condizioni di lavoro non esauriscano
i loro effetti nei margini temporali della prestazione lavorativa, ma si riflettano
decisamente sulla qualità dell’intera vita individuale, relazionale e
familiare, costringendo talvolta a non indolori scelte a favore del lavoro o
della vita privata. Questo problema tocca particolarmente le donne, le cui
aspirazioni lavorative sono molto spesso posposte alla loro naturale funzione
materna. Ecco perché la disposizione offre, come già accennato, in primo luogo,
tutela alla lavoratrice madre, proteggendola contro il licenziamento motivato
dall’attesa di prole; e, quindi, garantendo il diritto ad un periodo di congedo
retribuito di maternità e parentale per l’eventualità della nascita di un
figlio (ipotesi a cui viene ragguagliata l’adozione).
In
generale, i rischi collegati alla cessazione per qualsiasi motivo dell’attività
lavorativa, con conseguente inaridimento del reddito personale e familiare,
motivano poi il diritto di accesso alla sicurezza sociale e, per la prima volta
in assoluto, ai servizi sociali [su tale tema, più in generale, MENICHETTI,
2003, 79; anche per i profili organizzativi di tipo professionale, gli scritti
contenuti in COSTANZO e MORDEGLIA, 2005]. La relativa previsione è contenuta
nell’art. 34, che offre una griglia piuttosto complessa di disposizioni,
concernendo il regime di sicurezza sociale delle persone occupate, ma
istituendo anche un quadro di tutela generale contro la povertà e l’esclusione
sociale.
Il
rinvio in tale disposizione alle regole stabilite dall’Unione europea e dalle
legislazioni e prassi nazionali avverte tuttavia della problematicità della
tutela, essendo noto il dissidio tra le linee ispiratrici delle politiche in
tema di esclusione sociale a livello comunitario (più avanzate perché
gravitanti sul piano degli obiettivi astratti: si deve al Trattato di Nizza
l’attuale formulazione dell’art. 137 del Trattato CE) e quelle degli Stati
membri (più restrittive perché più a ridosso dei concreti aspetti finanziari).
Ricordiamo
quindi il diritto di accesso alla prevenzione e alla cure sanitarie, di cui
all’art. 35 della Carta, dove – è giocoforza sottolinearlo – si riscontra un
grado di “fluidità” ancor maggiore, dal momento che il consueto doppio rinvio
all’Unione europea e agli Stati membri vi è concepito come attribuzione di
compiti alle “politiche e alle azioni” della prima, e solo per i secondi si
parla di “legislazioni e prassi nazionali”. Non sono mancate però – prima e
dopo
Ancor
più sfuocato, se così si può dire, appare il ruolo dell’Unione europea
nell’art. 36, concernente l’accesso ai servizi d’interesse economico generale.
Si parla infatti qui semplicemente, come, del resto, sovente in questo genere
di disposizioni concernenti i diritti sociali, di “riconoscimento e di
rispetto”. Ma la circostanza crea in questo caso qualche maggiore perplessità
in quanto la vocazione di detti servizi è quella di garantire anche esigenze
sociali, pur in un quadro di concorrenza e libera prestazione dei servizi
stessi, purché, come precisa l’art. 86, comma 2, del Trattato CE, ciò non osti
“all’adempimento, in linea di diritto e di fatto” della “specifica missione
loro affidata”. Comunque sia, non si può non sottolineare l’intento dei
redattori della Carta di dare risalto, proprio in vista della tutela di bisogni
non sempre perfettamente monetizzabili a discapito della qualità della vita dei
consociati e soprattutto delle fasce più deboli, all’esigenza che un determinato
servizio possa essere reso anche in un regime sottratto alle pure logiche del
profitto e del mercato. E qui il pensiero non può non correre anche alla
nozione di “servizio universale” di pretto conio comunitario, che intende
definire un insieme di esigenze di interesse generale cui devono essere
assoggettate, nell’intera Comunità, talune attività che toccano la qualità
della vita e il godimento stesso dei diritti fondamentali. Valga l’esempio
delle telecomunicazioni o delle poste, dove l’assoggettamento al servizio
universale produce precisi obblighi per gli operatori del mercato di garantire
a tutti e dappertutto l’accesso a determinate prestazioni essenziali, di
qualità e a prezzi ragionevoli.
Concludiamo
questa rapida e di necessità imperfetta disamina, citando l’art. 25 della Carta
che considera i diritti delle persone anziane, innovando rispetto sia alla
Carta sociale europea del 1961, sia alla Carta comunitaria del 1989, che aveva
a cuore essenzialmente il lavoratore anziano, e dettando principi strettamente
collegati con il rispetto della dignità, intesi a promuovere forme di
solidarietà e di tutela dell’anziano, a riconoscerne il peculiare contributo
d’esperienza alle dinamiche sociali e culturali, e a scongiurarne, in rapporto
diretto con l’art. 21, comma 1 (che vieta discriminazioni in ragione dell’età),
l’esclusione dal novero dei cittadini pleno
iure. Analogamente, l’art. 26 si preoccupa dell’integrazione sociale delle
persone disabili, alle quali è riconosciuto un diritto ad una vita autonoma al
fine di attenuare la situazione di obiettiva discriminazione e di esistenza al
margine della vita sociale e professionale in cui versano a causa della loro
condizione. In entrambe queste previsioni è peraltro difficile ragionare di
diritti soggettivi veri e propri in quanto è al legislatore comunitario e ai
legislatori nazionali che resta affidato il compito di evitare che non si resti
soltanto al livello delle “buone intenzioni”.
7. I diritti sociali nel Trattato
costituzionale e nel Trattato di Lisbona.
Se,
come si è anticipato, il discorso sui diritti sociali nell’ambito dell’Unione
europea registra la battuta di arresto legata alle sorti della Carta di Nizza,
da ciò non può però trarsi un giudizio completamente negativo circa la
protezione di cui alcuni di tali diritti fruiscono nell’ambito delle politiche
sociali dell’Unione.
A
quest’ultimo punto occorrerà dunque dedicare ora la nostra attenzione, non
prima però di avere accennato alle novità di cui si sono fatti portatori
dapprima il Trattato costituzionale e successivamente il Trattato di Lisbona.
Con
riferimento al primo Trattato [sul tema in generale, RUIZ-RICO RUIZ, 2006, 107;
BRONZINI, 2003, 174; PINELLI, 2004, 477; BANO, 2005, 821; TIRABOSCHI, 2005,
893; MUTARELLI, 2007, 619], è stato sottolineato come il suo avvio non sia
stato particolarmente entusiasmante per le sorti dell’Europa sociale [tra gli
altri, LUCARELLI, 2003, 177], e come, solo nel corso dell’elaborazione
successiva, abbia avuto modo di lavorare uno specifico gruppo sull’“Europa sociale”,
al quale si deve un importante documento (“Relazione
finale del Gruppo XI ‘Europa sociale’”), nel quale è stato proposto il
riconoscimento nei primissimi articoli del progetto di Trattato costituzionale
degli obiettivi di rilevanza sociale [su tali svolgimenti, FERIGO, 2005, 1543].
Il documento ha peraltro ritenuto adeguata l’attuale distribuzione di
competenze tra Unione e Stati nella materia sociale, affermando la sola
necessità di rafforzare la portata dell’articolo 152 del Trattato CE in materia
di protezione della salute, per rispondere in maniera adeguata alle questioni
transnazionali (per esempio: minacce transfrontaliere, malattie trasmissibili,
bioterrorismo), mantenendo però la competenza esclusiva in materia di
organizzazione dei singoli sistemi sanitari in capo agli Stati membri. Il
documento ha anche auspicato il definitivo passaggio nella materia della
politica sociale dall’unanimità alla codecisione con voto a maggioranza
qualificata. Non può dunque non notarsi nel complesso delle raccomandazioni del
Gruppo un certo conservatorismo dello status
quo in materia sociale e il tradizionale attaccamento degli Stati alle loro
competenze in materia, collegato anche alle preoccupazioni delle organizzazioni
sindacali, assai attive nell’ambito del Gruppo, di vedere esautorato il ruolo
di cui godono a livello nazionale [in generale sul ruolo delle c.d. parti
sociali a livello comunitario, BROWN, 2001, 363; MEROLLA, 2003, 927].
Comunque
sia, nel testo finale del Trattato gli elementi di novità risultano in effetti
costituiti da una maggiore considerazione della materia sociale tra gli
obiettivi dell’Unione: tra essi, troviamo infatti enunciati lo sviluppo
sostenibile basato su una crescita economica equilibrata e la stabilità dei
prezzi, l’economia sociale di mercato fortemente competitiva che mira alla
piena occupazione e al progresso sociale, la lotta all’esclusione sociale e
alle discriminazioni, la promozione della giustizia e la protezione sociale, la
parità tra uomini e donne, la solidarietà tra generazioni e la tutela dei
diritti del minore (art. I-3, par. 3).
Sul
versante delle competenze, la politica sociale è ricompresa tra le competenze
concorrenti, a fronte della tutela della salute umana, espressamente inserita
tra le azioni di sostegno, sicché, mentre la prima rimane sostanzialmente
invariata quanto a contenuti e spazi di manovra delle istituzioni europee (art.
da III-
Di
primo rilievo è inoltre il disposto (art. I-15) che stabilisce il principio del
coordinamento utilizzabile per raccordare le politiche monetarie a quelle
economiche e sociali (come suggerito dal già ricordato Gruppo di lavoro per
l’Europa sociale). Alla conferma poi del principio del coordinamento delle
politiche dell’occupazione, che, a partire da Amsterdam, ha costituito la base
normativa essenziale ai fini dell’elaborazione delle politiche e strategie
comunitarie nel settore, si aggiunge la possibilità per l’Unione di procedere
analogamente ad assicurare il coordinamento delle politiche sociali degli Stati
membri, additando quindi anche in tal caso, sia pure in via facoltativa, la
strada del “metodo aperto di coordinamento (OMC: open method of coordination, valorizzato soprattutto a partire dal
Consiglio europeo di Lisbona del 23-24 marzo 2000 [tra gli altri, PERONE, 2006,
20]) come la strategia di elezione per andare verso un’integrazione più stretta
nel settore [in proposito, OLIVELLI, 2002, 313; SCIARRA, 2004, 288; MASSA,
2006, 30].
Non è
inutile spendere pertanto qualche parola su tale meccanismo regolativo, che, in
seno all’Unione europea, esprime la tendenza degli Stati ad opporsi ad
interventi autoritativi dell’Unione stessa nell’ambito della politica sociale,
consentendo per converso un affievolimento pilotato della riserva esclusiva
agli Stati di determinati settori come appunto l’inclusione sociale e la
sanità. Per queste stesse ragioni, è ragionevole considerare l’OMC come una
fase di transizione nel riequilibrio delle competenze tra Unione e Stati,
certamente vantaggioso quando si tratti di rimediare all’impraticabilità
dell’intervento comunitario in senso proprio, ma innegabilmente debole nella
misura in cui non può contare su strumenti coattivi per il raggiungimento dei
suoi scopi. Così che non sorprende che, laddove si è voluto agire con maggiore
incisività, si sono rinvenute strategie maggiormente vincolanti: è il caso del
diritto del lavoro nel cui ambito attualmente si preferisce puntare sulla c.d. flexicurity [sul punto, BRONZINI, 2008,
100], ossia di un’azione comunitaria basate su “Orientamenti” adottati dal
Consiglio, che trovano la loro base giuridica direttamente nell’art. 128
Trattato CE, e che tengono inoltre conto della politica di coesione, secondo le
tre dimensioni della strategia di Lisbona (economica, sociale e ambientale)
così da sfruttare meglio le sinergie in un contesto generale di sviluppo
sostenibile.
Sul
piano infine della protezione specifica dei diritti sociali, il fatto di
assoluto rilievo è dato dal già riferito inserimento nella seconda parte del
Trattato della Carta di Nizza, dei cui principali contenuti s’è poc’anzi dato
conto. Anche dell’ostilità dell’atteggiamento inglese a tale inserimento s’è
già fatta parola: qui può ancora precisarsi come il Regno Unito sia riuscito ad
ottenere che le disposizioni della Carta recanti principi potessero essere
invocate davanti a un giudice solo ai fini dell’interpretazione e del controllo
della legalità degli atti comunitari o nazionali di esecuzione di atti comunitari,
e che i giudici dovessero tenere nel debito conto le spiegazioni elaborate dal
Presidium della Convenzione al fine di fornire orientamenti per
l’interpretazione della Carta stessa [in senso , ovviamente, critico, tra gli
altri, AZZARITI, 2003, 332].
In
altri termini, entrambe le previsioni avrebbero dovuto avere, nell’intendimento
di Sua Maestà Britannica, l’effetto di depotenziare la portata dei diritti
sociali individuati dalla Carta di Nizza, anche se è stato persuasivamente
fatta notare la loro scarsa efficacia a fronte dell’ontologica autonomia
interpretativa dei giudici, per non dire che, se una pretesa individuale è
configurata espressamente come diritto, parrebbe difficile operarne una
declassificazione. Come dare torto dunque al Parlamento europeo che ha stimato
le clausole inglese “di scarso rilievo giuridico”?
Resta
il fatto che l’atteggiamento inglese ha certamente corrisposto alla mancanza di
accordo tra i partners europei sulla
portata – e forse sull’esistenza stessa di diritti sociali veri e propri –, la
cui attivazione immediata e diretta è stata comunque ritenuta da alcuni un
ostacolo alle scelte politiche del legislatore interno ed insostenibile
soprattutto dal punto di vista economico. Questo stesso genere di
preoccupazioni è stato, del resto, alla base del più generale opting out dalla Carta manifestato da
Gran Bretagna e Polonia in sede di stipula del Trattato di Lisbona.
Questa
osservazione ci offre il destro per portare il discorso anche su tale Trattato,
avvertendo però che, se una certa attenzione è stata riservata al Trattato
costituzionale, qui saranno necessari solo pochi flash, dato che, non solo sul tema che ci riguarda, ma anche su
tanti altri aspetti, a Lisbona ci si è sostanzialmente limitati a trapiantare
le disposizioni del Trattato costituzionale.
Da
questo punto di vista, se risulta che, nel Trattato sul funzionamento
dell’Unione, all’art. 9, viene enunciato quanto già presente nel Trattato
costituzionale (art. III-117) per cui “Nella definizione e nell'attuazione
delle sue politiche e azioni, l’Unione tiene conto delle esigenze connesse con
la promozione di un elevato livello di occupazione, la garanzia di un’adeguata
protezione sociale, la lotta contro l'esclusione sociale e un elevato livello
di istruzione, formazione e tutela della salute umana”, occorre però
sottolinearne l’impatto in un sistema che dovrebbe vedere, accanto
all’eliminazione dei pilastri, la rivalutazione del ruolo del Parlamento
europeo e dei Parlamenti nazionali, organi tradizionalmente più sensibili alla
tematica della protezione sociale, così da rendere immaginabile un maggior
riequilibrio tra gli obiettivi di politica economica e quelli di politica
sociale. Nella stessa direzione può ancora essere riletto il permanente
principio della coesione economica e sociale quale contrappeso e ammortizzatore
della liberalizzazione dei mercati.
A
proposito della Carta di Nizza, s’è anche già accennato al fatto che il
Trattato di Lisbona prevede che essa acquisisca “lo stesso valore giuridico dei
trattati” (art. 6, n. 1, TUE riveduto). Può ancora aggiungersi con riferimento
però all’annunciata adesione dell’Unione come tale alla CEDU, che, se tale
circostanza non sembra suscettibile, dato il sostanziale disinteresse della
Convenzione al tema dei diritti sociali, di dar luogo ad un’articolata
dialettica tra tutte le Corti quale potrà verosimilmente verificarsi per i
diritti di prima generazione, non può tuttavia far sicuramente escludere un
qualche ruolo collaterale della Corte di Strasburgo, dato che anche tale Corte
non ha esitato talvolta (ad esempio: sentenza
James del 21 febbraio 1986) ad affermare la legittimità di
restrizioni alla proprietà finalizzate a scopi di “giustizia sociale”
discrezionalmente fissate dagli Stati membri, o ad includere nella garanzia
della proprietà anche la garanzia di diritti a prestazioni previdenziali e
assistenziali (ad esempio: sentenze
Feldbrugge e Deumeland,
entrambe del 29 maggio 1986).
8. Brevi considerazioni conclusive.
Concludendo
con qualche rapida considerazione di ordine generale il nostro discorso, che –
non ce lo nascondiamo – s’è limitato a delibare le principali problematiche
dell’argomento propostoci, riteniamo opportuno richiamare l’attenzione sul
fatto che al processo di globalizzazione, all’imporsi di un’economia sempre più
“aperta” e al revival sempre più
forte di una regolazione in senso liberistico della società, sta corrispondendo
la perdita crescente del senso di solidarietà collettiva e dell’eguaglianza
sostanziale.
Ciò
impone senza dubbio l’adozione di ottiche inedite attraverso le quali
traguardare i diritti sociali che di tali valori costituiscono la più compiuta
espressione [sull’insufficienza delle sole politiche sociali, GRANDI, 2007,
1024) Ma lo sforzo in tal senso non può più essere all’evidenza sostenuto dai
singoli Stati, entità divenute sempre più piccole e impotenti di fronte alla
mondializzazione dell’economia. In questo quadro, infatti, la manutenzione ed
anche il recupero dei diritti sociali non può che essere tentato e sostenuto da
un’entità più grande e maggiormente attrezzata quale è appunto l’Unione
europea.
Per
legittimarsi in tale direzione, l’Unione ha tuttavia la necessità di
individuare nella garanzia dei diritti sociali una base giuridica di ordine
costituzionale, così da porre mano alla definizione di un modello sociale
europeo [si ricordi la definizione datane al Consiglio europeo di Nizza del 20 dicembre 2000 come “contraddistinto da un legame indissociabile
tra prestazione economica e progresso sociale”; su questa tematica, tra gli
altri, BRONZINI, 2003, 174] autonomo rispetto alle politiche di alleati anche
potenti o ai condizionamenti degli organismi finanziari sovranazionali. Com’è
avvenuto per i diritti più classici, nei cui confronti le tradizioni
costituzionali degli Stati membri sono stati elevati a principi generali
dell’ordinamento comunitario, così dovrebbe accadere per i diritti sociali, la
cui protezione rinverrebbe nella tradizione tutta europea della solidarietà
sociale e, più esplicitamente, anche nella predicabilità di “doveri
comunitari”, un formidabile fattore incentivante.
L’elevazione,
inoltre, a livello di diritto originario dell’Unione europea della Carta di Nizza
permetterebbe alla Corte di giustizia di disporre degli strumenti giuridici per
effettuare i bilanciamenti necessari tra competitività mondiale dell’Unione e
livello qualitativo della vita di tutti i suoi cittadini, evitando, tra
l’altro, l’elaborazione di parametri maggiormente disputabili (come,
esemplarmente, nel caso C-144/04, Mangold; ma si è accennato anche
all’attitudine della Corte a fare strumentalmente, ma anche paradossalmente,
appello al principio di non discriminazione e alle c.d. libertà fondamentali
del Trattato: come nei casi C-117/01, K.B.; C-342/01, Merino
Gomez; C-173/99, BECTU; 1/72, Frilli;
ma altri ancora se ne potrebbero citare).
Poiché
finalmente non risponde a criteri rigorosamente democratici che, alle decisioni
di fondo si applichi soltanto o decisivamente la sfera giurisprudenziale,
spettando piuttosto all’apparato di governo comunitario di esprimere le
corrispondenti scelte, in rapporto dialettico con le istituzioni tecnocratiche
preposte alla direzione della politica monetaria (che attualmente non paiono trovano
nelle istituzioni governanti europee interlocutori sufficientemente stabili e
“costituzionalmente” attendibili), è verso il perfezionamento della “forma”
dell’Unione, mediante il rafforzamento dell’integrazione favorito da
un’organica e consapevole protezione dei diritti sociali, che parrebbe
particolarmente necessario orientarsi.
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